Ortica editore porta in libreria Bradipismi, di Stefano Serri. Dieci racconti, manifesti di una rivoluzione lenta, in cui si evincono inviti e occasioni: inviti a ripensare il nostro agire e le nostre relazioni, occasioni per decidere, adesso, che ritmo dare alla nostra esistenza.
Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.
Anna ha le ali
di Stefano Serri
Un giorno Anna prese le ali.
Prima, il corpo le si gonfiava e sgonfiava più regolare delle maree, per colpa del suo appetito anomalo, di quello stomaco dotato di anima. I capelli si fecero lisci; gli occhiali sparivano a intermittenza; infine comparve quello di cui parlo: le ali. Non erano come pensate, là dietro, sulla schiena, bianche e piumate, appuntite e veloci. Le ali erano nel petto, due rosee e morbide ali gonfie di latte e serene da lotte: perché le ali migliori sono nascoste, le ali migliori sono nelle costole.
Forse è perché suo padre è un animale, ma Anna, fin dall’inizio, ha voluto volare. Una cosa che suo padre aveva detto quando era bambina, due parole appena, una frasetta che l’aveva toccata troppo, uscita come una mano dalla bocca, lui col viso pesante e i pugni sul mento: Sono triste, aveva detto. E lei non aveva mai pianto.
Nel suo cappotto di velluto e spettinata, nonostante tutti e tutto, ha continuato la scuola; s’è dovuta fermare, un anno, perché non riusciva a studiare, ma poi è ripartita e si è laureata. È diventata infermiera. Perché ha scelto proprio questo lavoro, questo starsene sempre tra sangue e lamenti? Forse è perché, un brutto giorno, ha dovuto portare suo padre al macello, come un bue marezzato di angoscia; forse per quello capisce i malati, che si ritrovano di colpo in discarica senza poterne uscire da soli. Ma lo stesso, vuole volare, e impara, Anna, impara che le ali non sono tutta la libertà. E che non servono ali agli umani, perché per volare camminano in verticale.
Anna un giorno incontrò l’uomo suo, che era suo perché un po’ diverso dagli altri: un elettricista, si chiamava Giulio, anche lui con il viso un po’ triste.
A volte deve vivere lei per tutti e due; deve arrampicarsi, ma non come in Romeo e Giulietta: ha da scalare molto più di un balcone, scala il gran monte della depressione, anzi, non lo scavalca, e attende con pazienza che Giulio si affacci. In quel momento, lo acciuffa, rimette le ali e porta via tutti e due.
Senza inseguire castelli e principesse, senza Capuleti e Montecchi, con Giulio torna a credere che le case, anche la sua, sono scatole di felicità, forse un po’ bucate, e le porte, ereditate dai genitori, enormi per le nostre piccole chiavi.
Non l’ho ancora detto? Il tuo migliore amico, Anna, è un barattolo di vetro, vuoto, con l’etichetta infeltrita; un barattolo di cioccolata tenuto nell’armadio, dietro i vestiti: le vestaglie l’accarezzano, una sciarpa gli fa le fusa, riposa lì, ben custodito. Un barattolo vuoto dove infili quel che non va e poi lo conservi (chiamalo: vomito, o chiamalo: no!), e vedi come diventa quello che dentro era brutto, o se cambia colore al contatto con l’aria. Duro, tirare fuori il cibo dell’ora prima; esistono trucchi perché lo stomaco si redima, esistono dita violente e respiri in ostaggio, esistono in commercio estintori per l’ansia, ma anche pompe per decomprimere l’anima che, in un angolo, avanza. Oltre l’orlo di ceramica del cesso dove vomiti, ecco il tuo barattolo, il tuo abisso portatile. Alcune, da ragazze, credono che basti vomitare per non diventare madre. Il tuo barattolo di vetro, il tuo trofeo di anoressica, lo conservi, anche oggi che sei guarita, tra le scarpe, come monito: come il vetro, la verità che ti faceva male scivola e, se passa troppo tempo, fa la ruggine e non si svita più.
Questo, però, è un racconto, e i racconti non finiscono come un romanzo: non sono un lungo spettacolo di fuochi d’artificio, un racconto è un unico razzo sparato a suon di spinte e sputi d’esistenza, più su che riusciamo con la nostra speranza. E, se vuoi essere razzo fino in fondo, devi scoppiare. Serve fiducia per schiantarsi nel cielo: devi credere che i tuoi pezzi, passando davanti agli occhi della gente a naso in su, lascino tracce. Forse ti scorderanno, ma almeno con quel botto avrai sollevato su da terra la loro faccia.
La nostra storia, Anna, finisce così: in una metamorfosi, con la marea del tuo fisico instabile che non so più dipingere, pelle bianca, ali, letto. Finisce che sei incinta: sparisci un bel giorno, scivolata in una fessura, scomparsa in ostetricia. Esci con una figlia e le racconti che aveva un padre, un animale triste, poi le mostri le ali, le tue, le sue: le ali, non ingrassano né dimagriscono, ma mangiano il tempo, te l’assicuro, mangiano vita, di continuo la vita.