Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa

Nella collana L’Invisibile di Industra&Letteratura troviamo, tra gli altri, Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa. Una novella di irresistibile affabulazione intrisa di humor nero e gustosissima letterarietà.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Madre nel cassetto
di Sergio La chiusa

Mamma tentava di suicidarsi tutte le settimane. Le domeniche, di preferenza. Forse perché papà era a casa e poteva intervenire, per evitare il peggio. «Te ne pentirai», ammoniva lungimirante tagliandosi le unghie davanti al televisore mentre mamma rovistava tra i coltelli minacciando di tagliarsi le vene. «Mi rimpiangerai, non lo troverai un altro che sopporti le tue scenate», ribadiva papà, immaginando che la matta confidasse in qualche martire con cui sistemarsi nell’altro mondo. Dopo di che, riposto in tasca il tagliaunghie, si schiodava sospirando dal divano e si sfilava solennemente la cintura. Poi andava in cucina e la batteva per bene. Fino a che mamma smetteva di gridare e dibattersi sotto i colpi rieducativi di papà e si placava, definitivamente domata.
Non che mamma tentasse sul serio di suicidarsi, in verità. Faceva la scena, la protagonista. Almeno una volta la settimana voleva uscire dalle ombre della cucina in cui l’aveva confinata papà, sottrarsi al suo ergastolo di padelle, teglie e tegami e salire sul palcoscenico, sentirsi importante, darsi arie da diva tragica sotto le luci della ribalta domestica. Io li spiavo disgustato dal basso dei miei sette anni, nascosto sotto il tavolo, e mi dicevo mai, mai sarò come lui. Adesso che ho la stessa età di mio padre, e anzi l’ho addirittura superato, posso vantarmi d’aver tenuto fede ai miei propositi d’allora. Non ho preso nulla del suo temperamento. Non porto pesi sulla coscienza, io… Arianna, per esempio, non ha mai minacciato il suicidio. Nemmeno nei periodi più bui della nostra convivenza. E nemmeno dopo la separazione, che io sappia, sebbene fosse stata proprio lei a lasciarmi, e il rimorso avrebbe potuto ragionevolmente scombussolarle il cervello e spingerla verso l’irreparabile. E invece nulla, mai una scenata, mai che scrutasse meditabonda la strada dall’alto del nostro sesto piano per studiare il punto d’impatto, la soluzione di tutti i conflitti. Anche se negli ultimi tempi avevo a volte l’impressione che certe ombre scure, vagamente sinistre, le passassero sugli occhi e Arianna pareva perdersi in fantasticherie equivoche mentre fissava le forbici insanguinate con cui aveva appena sventrato la spigola. La spigola. Aveva preso anche lei la riprovevole abitudine di preparare tutte le domeniche il pesce, e in particolare la spigola, che io detestavo; esattamente come mamma, che aveva una specie di venerazione per il pesce, che faceva bene al cervello, diceva, benché fosse lecito dubitarne viste le condizioni di perenne squilibrio in cui versavano lei e papà; e così Arianna, che però s’era fissata con le virtù degli omega-3 solo dopo la morte di mamma, e soprattutto durante gli ultimi mesi di convivenza, tanto che inclino a credere che la sua più che una vera convinzione scientifica fosse una forma di ritorsione subliminale, dato che sapeva che il pesce era stato al centro di aspri dibattiti tra me e mamma, e in particolare la spigola, che io vedevo con sospetto, e non senza ragioni, credo, altrimenti perché in certe regioni la chiamerebbero lupo? e in altre, più illuminate, ragno, tessitore di trappole? A ogni modo, la vedevo eviscerare con una rabbia primitiva e meticolosa, da rito vudù, che mi nauseava e mi dava da pensare. «Perché non li prendi già puliti», suggerivo, ma lei niente, pareva provarci gusto a trafficare con le interiora. A volte pensavo che con quelle sue unghie minuziose volesse stuzzicarmi l’anima, e perfino estirparla, e che l’anima mia – e l’anima di tutti – fosse viscida e sanguinolenta, come i visceri dei pesci, e che in definitiva un corpo spinato e svuotato d’anima fosse un corpo più pulito, più commestibile, più adatto alla compravendita.
Ma non divaghiamo. Non è di anime che intendo parlare. E nemmeno di compravendite. E tantomeno di Arianna. La parassita. Figuriamoci. Le passavo la maggior parte dello stipendio eppure si lamentava, le pareva poco, m’infilava perfino le mani in tasca per controllare se mi trattenessi qualcosa. Le mani. Le stesse con cui trafficava nei ventri dei pesci e che poi ricopriva di profumi costosi perché evidentemente non sopportava l’odore del vizio. Profumi comprati con il mio stipendio, che svaporava in essenze promiscue, e massaggi, trattamenti estetici, ristoranti con le amiche. D’altronde le spese erano tante, per la manutenzione del corpo e dello spirito, e io invece le proponevo una vita da lombrichi. A saperlo, si sarebbe messa con Nardi, s’era lasciata sfuggire una volta... Nardi! Attilio Nardi! Vi rendete conto? L’imbecille che la corteggiava fin dai tempi della scuola, e con cui in effetti si è messa dopo la separazione… «Una pausa di riflessione», aveva detto, in verità. Perché aveva bisogno di stare un po’ da sola. Perciò aveva lasciato passare una settimana prima di traslocare nell’appartamento di Nardi, in centro.
D’altra parte Attilio possedeva una casa al mare e una in montagna, e una appunto in centro, arredata in stile moderno, proprio come piaceva a lei, e una decapottabile sportiva con cui spostarsi rapidamente di casa in casa, mentre io possedevo solo questo trilocale al sesto piano d’un palazzo senza ascensore, trilocale che peraltro era stipato di mobili antiquati che gli davano un’aria da casa di riposo, senza contare che le pareti, su cui comparivano misteriose muffe, erano rivestite d’una carta da parati a fiorami del secolo scorso e decorate da vecchie stampe in bianco e nero ereditate dai nonni, simili a quelle che si trovavano negli scompartimenti dei treni di seconda classe. Roba da vergognarsi. Inoltre Attilio le faceva sempre dei regali, perfino una borsetta Louis Vuitton in vera pelle di vacca una volta, e non per calcolo, perché lei non gli aveva mai dato speranze, mai… E mentre mi presentava l’immagine del corteggiatore perfetto, pieno d’iniziative filantropiche e proprietà immobiliari, non ricordava più la faccia da ritardato con cui nella realtà Attilio le investigava le tette ai tempi della scuola, gli occhiali da masturbatore imbranato e volenteroso che gli davano un’aria da scorfano in agonia, dagli occhi lessi, stolidamente dilatati dalle lenti, la bocca sempre socchiusa per via della sinusite e d’un ritardo congenito di comprendonio, la pelle deturpata dalla foruncolosi dell’adolescenza, che non aveva mai davvero superato, nemmeno dopo la laurea in giurisprudenza e la tesi in diritto fallimentare, il tirocinio nello studio del padre, l’apertura di uno studio tutto suo in centro, nei pressi del Tribunale, dove riceveva in effetti clienti altolocati, nonostante i foruncoli.