Guardare gialli con mia madre, di Ben Marcus

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Black Coffee il racconto ‘Guardare gialli con mia madre’ di Ben Marcus, tratto dalla raccolta del 2019 Via dal mare e tradotta da Sara Reggiani.

Buone letture!

GUARDARE GIALLI CON MIA MADRE
di Ben Marcus

Non credo che mia madre morirà oggi. È già tarda sera. Dovrebbe morire entro quarantacinque minuti, e non mi sembra probabile. L’ho appena vista a cena. Abbiamo ordinato da asporto e guardato un giallo sulla pbs. Mi ha dato il bacio della buonanotte e ho chiamato un taxi per tornare a casa. Perché muoia, la situazione dovrebbe subire una brusca svolta.
Mia madre ha la sua bella dose di problemi di salute. Vive da sola, e questo aumenta le probabilità di morte. Potrei essere svegliato da una telefonata e scoprire che è deceduta poco dopo che l’ho salutata. Siccome la giornata è ormai finita, vorrei poter dire che le probabilità che muoia oggi sono basse. Deve soltanto sopravvivere, a casa, nel suo letto, per un’altra oretta scarsa, e avrà superato l’ostacolo dimostrando che avevo ragione. Ma non ne so abbastanza, di probabilità. Mi sembra di intuire che una caratteristica insita alla morte – la morte di una donna anziana sola nel proprio appartamento – sia la totale estraneità a concetti umani quali appunto la prevedibilità. Non è insolito sentir dire di qualcuno che ha disatteso le previsioni. Ma allora forse, chiunque fosse questo qualcuno – si presume una persona intelligente – avrebbe dovuto tenere conto sin dall’inizio dell’eventualità di disattenderle e modificarle di conseguenza. Chi è abituato a fare previsioni non può ignorare che spesso vengono disattese. La cosa deve procurargli non poche seccature. E poi le modificherebbe, le sue previsioni, per renderle più accurate? Non so. Le previsioni dovrebbero essere previsioni, e per giunta non dovrebbero mai essere disattese. Perché altrimenti non sarebbero corrette, e andrebbero cambiate.
Se mia madre sapesse che – per non morire oggi – le basterebbe sopravvivere per meno di un’ora, le probabilità che resti viva aumenterebbero? Se ora le telefonassi e la tenessi in linea per non farla morire oggi, le probabilità cambierebbero? In altre parole, le nostre probabilità di sopravvivere aumentano nella misura in cui ci impegniamo attivamente a vivere? Mi sembra improbabile, così come il fatto che mia madre risponda al telefono a quest’ora. Sarà stanca. Era stanca già a cena. Si è addormentata mentre guardavamo il giallo. Degli anziani solitamente si dice che si appisolano. Mia madre si è appisolata. Le ho fatto la cortesia di fingere di non accorgermene, invece l’ho guardata dormire sotto la coperta sulla sua sedia reclinabile preferita. Ho notato che non le si muovono più i capelli, a prescindere dalla posizione in cui si trova. A un certo punto durante l’episodio si è svegliata e sembrava aver afferrato la trama più di me. È possibile che l’avesse già visto. Quelli che lavorano nelle cucine dei castelli inglesi, almeno negli sceneggiati che guardiamo io e mia madre, sono molto più scaltri dei loro datori di lavoro. Le cucine sono vasti antri di pietra con meravigliose pentole che pendono dai ganci. A volte il divario tra l’intelligenza del padrone e del servitore è abissale, fatto su cui mia madre si basa per proporre soluzioni al mistero.
Lo so che sono storie inventate, ovviamente, ma so anche che chi se le inventa è irrimediabilmente ispirato da ciò che ha visto e sentito. Per quanto sogni di uscirsene con una trovata originale, di creare dal nulla un mondo vittoriano nuovo di zecca, un teatro di futili crimini domestici, non ci riesce. È legato, volente o nolente, a ciò che è già successo, a ciò che è già stato fatto e pensato. Nel nostro caso, alla premessa che la classe operaia consista di geni assoluti se messi a confronto con gli individui ottusi, avari e pingui che li comandano. Il successo del programma dipende da questo. Io dipendo da questo. Mia madre dipende da questo. Anche se le capita di addormentarsi mentre lo guarda nel suo soggiorno.
La gente è riluttante ad ammettere di essersi addormentata, in particolare, se non esclusivamente, se questo è accaduto in presenza di testimoni. Anche quando negare non ha senso, loro negano. È una questione di orgoglio, forse. Per questo non ho mai messo mia madre di fronte al fatto di aver dormito per tutto il secondo atto, nonostante l’abbia guardata dormire più di quanto non abbia guardato lo sceneggiato. Perché molestarla con la verità? Ci provo a non guardarla mentre è appisolata, faccio del mio meglio. Mi sembra poco educato. Ma a volte non resisto. Quando è sveglia non ce la faccio a guardarla con altrettanta attenzione, e per un periodo così prolungato di tempo. Se è da maleducati fissare qualcuno mentre dorme, lo è ancor di più farlo quando è sveglio e consapevole di essere oggetto di scrutinio. Fissare a lungo una persona sveglia non è solo da maleducati, ma addirittura impossibile. C’è un codice di comportamento che lo impedisce. Non mi sognerei mai di seguire mia madre guardandola fisso. In generale sono consapevole di cosa non stia bene fare.
Il crimine però resta lo stesso: fissare un’altra persona. Che dorma o sia sveglia non dovrebbe importare, ma è evidente che farlo quando è sveglia costituisca un’aggravante. Se nella stanza, oltre a mia madre che dorme e io che la guardo, ci fosse una terza persona – no, non mio padre, per carità – e questa terza persona vedesse che guardo la mamma addormentata, la mia trasgressione sarebbe doppiamente grave?
Non so.
Quando penso che a volte mia madre si scorda di prendere le medicine, di mangiare qualcosa che non sia solo una fetta di torta di riso, di bere acqua, mi viene spontaneo chiedermi quanti anni ancora potrebbe vivere se solo s’impegnasse. I servitori di cucina, soprattutto gli sciroccati che nel primo atto sembrano solo degli idioti, finiscono sempre per rivelarsi i più subdoli. Alla larga dagli stupidi!, esclama la mamma ogni volta che guardiamo un sceneggiato del genere, e sorride agitandomi un dito davanti.
Provo a invogliarla a bere dell’acqua, ma risponde che ha un saporaccio. Anche se mi vede prenderla dal rubinetto, dice che le sembra di bere la risciacquatura dei denti di qualcuno. Sa della bocca di uno sconosciuto, urla, come se al contrario bere acqua che sa della bocca di qualcuno che conosce fosse accettabile. La volontà personale non può – può? – influire su quando si morirà, a meno che non si decida di morire, il che è tutto un altro paio di maniche. Se la volontà avesse un ruolo fondamentale, se cioè si potesse vivere più a lungo per scelta, la morte subirebbe una mutazione strutturale, e la gente inizierebbe a esercitare questo potere in maniera distruttiva, vivrebbe così a lungo da creare disagio alla famiglia. Non oso immaginare un mondo in cui le persone hanno il potere di posticipare la propria morte.
D’altro canto esiste un’intera schiera di persone che nel corso della storia hanno lottato per la propria vita senza muovere un muscolo. Di un infermo allettato e tenuto in vita da sacche e tubicini in una stanza d’ospedale, si dice che è un guerriero. A occhio nudo però non si rileva alcuna attività. In situazioni simili si parla di volontà di vivere. I famigliari, riuniti al capezzale dell’infermo, la avvertono e, quando l’infermo muore, si dice che ha lottato con tutte le sue forze. Che era un guerriero. Che alla malattia ha dato del filo da torcere. Situazioni come queste mi hanno sempre dato da pensare, non solo stasera mentre sto qui a interrogarmi sulla volontà di mia madre di vivere almeno fino a domani – a prescindere dal fatto che, come già discusso, questa volontà giochi un qualche ruolo nella faccenda.
Se fossi io il paziente allettato e qualcuno, perfino un estraneo, mi esortasse a lottare per la mia vita, saprei come farlo? Semplicemente non è chiaro, non lo è mai stato, come per l’esattezza si possa lottare per la propria vita non disponendo di strumenti, né di armi, né di una preparazione, né di qualsivoglia nozione.
Nemmeno i medici che se ne stanno lì a guardarmi morire mi dicono niente su cosa fare ora, in questo momento, per prolungare la mia vita e non soccombere a ciò che la minaccia. Perché mi tengono all’oscuro? Un estraneo potrebbe farmi coraggio, spronarmi a trovare dentro di me l’energia necessaria e combattere – e dico estraneo perché non sono sposato, e mio fratello e mia sorella sono morti. Avrei necessariamente un estraneo al mio capezzale. O nessuno. Più probabile nessuno. Perché un estraneo dovrebbe indugiare davanti alla mia stanza, avvicinarsi al letto ed esortarmi a vivere? Che razza di estraneo farebbe una cosa del genere? E se anche la risposta fosse un bravo estraneo, allora dovrei chiedermi se sia mio dovere, non stasera, stasera ho da fare, ma prima o poi, entrare in un ospedale di notte e individuare un paziente solo nella sua stanza, preferibilmente un moribondo, e incoraggiarlo a combattere, e con tutte le forze per giunta? Dovrei impegnarmi per essere un bravo estraneo, ho capito bene?
Se potesse, mia madre starebbe al mio capezzale, e con ogni probabilità mi istigherebbe a lottare per la vita, nonostante trovi difficile immaginarla impartire un simile comando senza scoppiare a ridere. È sua dichiarata convinzione che molto di ciò che sappiamo, diciamo e proviamo sia ridicolo. Tendo a pensare che quando verrò incoraggiato a lottare per la vita su un letto d’ospedale, lei sarà morta. Avrà già lottato per la sua, di vita, e avrà perso. Ora però che è lei quella in punto di morte, anche se non oggi, non credo, no, ho paura che anche mia madre brancolerebbe nel buio. Posto che sia stata una calamità a condurla in ospedale, se le chiedessi di lottare per la vita è probabile che acconsentirebbe con educazione, potendo parlare, ma dentro di sé sarebbe costretta ad ammettere di non essere in grado di imbarcarsi in una tale impresa. Non è un tipo pratico. Lo stesso vale per il resto della famiglia. Nessuno di noi possiede la capacità di lottare per la propria vita. Cadiamo come mosche, uno dopo l’altro. Se l’intera popolazione mondiale venisse classificata in base alla capacità di lottare per la propria vita, la mia famiglia non sarebbe in una buona posizione.
Tenendole la mano, chiederò a mia madre di resistere. Lei vorrà accontentarmi, lo fa da sempre, e accetterà di lottare per farmi felice, ma quando si tratterà di scendere in campo non saprà che pesci pigliare. Ha vissuto una vita intera senza avere alcun controllo su ciò che avveniva dentro il suo corpo, il sangue, le cellule, le ossa, per non parlare degli organi, dei nervi. Per ottantasei anni di illustre indifferenza ha permesso alle proprie interiora di farsi i fatti propri, e all’improvviso le viene chiesto di dedicare cura e attenzione al corpo affinché questo non perisca. Come si può pretendere tanto da una donna così vecchia e fragile?
Nei documentari sulla natura la questione è chiara. Quando sentono che la loro vita è in pericolo, gli animali reagiscono infilandosi fra l’erba più veloci del vento, a volte cagandosi sotto dalla paura, oppure si voltano preparandosi ad affrontare la minaccia. Quando lottano per la vita si vede a occhio nudo, mentre agli uomini è richiesto di farlo da fermi, senza mostrare il minimo sforzo. È una lotta che si conduce esclusivamente all’interno e che nemmeno i macchinari dell’ospedale riescono a rilevare.
La domestica del retrocucina spesso ha un confidente. Questo confidente può essere un bellissimo giovane omosessuale con qualche trucchetto cui fare ricorso, qualcuno che ha accesso ai segreti della danarosa famiglia per cui lavora ma che allo stesso tempo le è troppo fedele per tradirla.
Temo di sbagliarmi terribilmente a pensare che mia madre non morirà oggi.
Uno che avrebbe senz’altro qualcosa da dire sulla questione delle probabilità è mio padre. Di mestiere faceva lo statistico. Probabilista, è il termine ufficiale. Il calcolo delle probabilità che mia madre muoia oggi sarebbe una passeggiata per lui e i suoi colleghi, in gran parte provenienti dall’India, un Paese fertile per i matematici, come mi è più volte capitato di sentir dire a mio padre. O magari solo per i probabilisti. Mio padre è mancato, perciò non ha più modo di affrontare l’argomento, e non posso fare riferimento alle sue pubblicazioni, alcune delle quali ho proprio qui con me, perché non vertono su circostanze elementari come questa.
Le probabilità che mia madre muoia aumentano di attimo in attimo. Mai come adesso che se ne sta lì, sdraiata nel suo letto, ha corso un pericolo maggiore. Perciò mi dico che dopotutto non posso essere tanto sicuro che oggi non muoia. Non che sia più particolarmente sicuro di niente ormai, non fosse altro perché le probabilità che muoia in questo momento non sono mai state così alte. E questa affermazione, ogni volta che la pronuncerò, sarà valida per il resto della sua vita. Anzi varrà anche se non la pronuncerò. Anche se non lo formulerò, questo pensiero – che il pericolo che sta affrontando è più grande che mai – varrà, il che mi induce a sospettare che esistano molti altri pensieri che non ho avuto, alcuni dei quali erano veri. Molti, davvero. Contarli sarebbe impossibile. Sono sicuro che alcuni di questi pensieri che non ho mai concepito abbiano il loro peso sulla questione della vita e della morte di mia madre. Di quei molti pensieri che non ho pensato, e tra loro in particolare quelli che sono anche veri, quali, se solo potessi pensarli ora, mi rivelerebbero di più su mia madre e sulle sue probabilità di sopravvivere a oggi?
E se non posso più nemmeno permettermi di pensare che mia madre non morirà oggi, farei meglio a tornare subito da lei così da poter godere degli ultimi istanti in sua compagnia.
Vedete, il mio obiettivo è fare la cosa giusta nel rispetto di mia madre e dei suoi ultimi istanti di vita.
Devo riflettere più attentamente, però. In base a questo ragionamento non sarò più capace di separarmi da lei, perché ogni volta lo farei nel momento di maggiore bisogno, quando cioè è più probabile che mai che venga a mancare. Ammesso che mia madre superi la notte, la cosa varrà ogni volta che la rivedrò. Le augurerò la buonanotte, le dirò di stare in gamba, e poi la lascerò sapendo che le sue probabilità di morire crescono a ogni mio passo mentre abbandono l’edificio, saluto il portinaio con un cenno del capo e attraverso il silenzio del vicolo laterale per uscire nel viale trafficato in cui si fermano i taxi. Sarà dura in frangenti simili non domandarsi che razza di figlio abbandona la madre quando è più in pericolo di morire. Chi lo farebbe mai? Chi avrebbe il coraggio di salutare con un bacio la madre, la propria madre, sulla soglia di casa pur sapendo che per tutto il tempo non ha mai corso un pericolo maggiore?
Io, a quanto pare. L’ho fatto ogni volta che l’ho lasciata. E se dovesse superare la notte lo rifarei, me ne andrei di nuovo pur essendo consapevole che, se ieri il pericolo che morisse era alto, oggi lo è ancor di più. E aumenta via via che ne parliamo, e ciononostante dovrei salutarla come se non m’importasse di saperla in crescente pericolo di vita.
Lo facevo anche da bambino. La salutavo e me ne andavo a scuola. La salutavo e me ne andavo in campeggio. La salutavo il sabato mattina per tornare chissà quando. Tutte le volte la lasciavo agonizzante. Sulla porta, in cucina, in soggiorno, in giardino. Ogni tanto anche quando era a letto ammalata, la salutavo da in fondo alle scale proprio mentre le sue probabilità di sopravvivenza erano al minimo storico. L’ho salutata e sono andato al college quando era più probabile che morisse. E quando tornavo, non passava mai troppo tempo prima che ripartissi, lasciandola lì, a morire. Perfino stasera, dopo aver guardato il giallo sulla pbs, le ho augurato la buonanotte e l’ho lasciata nella sua casa in punto di morte.
Si dice «avere un piede nella fossa», ma non si fa mai parola di metterci anche l’altro piede, poi tutte e due le gambe, poi il busto intero, le braccia, la testa, in questa fossa, nella bara, che poi qualcuno ricoprirà di terra sulla quale pianterà una piccola lastra di pietra.
Il castello è sempre il medesimo. Cambia l’intrigo, cambiano l’esecuzione, gli attori, l’epoca storica, ma il castello è sempre lo stesso. Dev’essere stato comprato a quello scopo e messo a disposizione di chiunque volesse girare un film giallo in stile britannico. Un tempo era abitato da persone vere con vite vere, proprio come noi che, vivendo nelle nostre case, ci consideriamo persone vere con vite vere. E se pensassimo che un giorno le nostre case, come quel castello, saranno usate per girare sceneggiati televisivi su persone molto simili a noi, allora potremmo intravedere il destino cui le nostre case vanno incontro, un destino popolato di persone assunte per interpretare noi che vanno in giro recitandosi battute a vicenda, mentre fuori dall’inquadratura donne e uomini contemporanei, con punti di vista aggiornati sulla vita, divorano varietà inimmaginabili di snack e ridono di quei miopi sempliciotti del passato, che poi saremmo noi.
Non è fuori luogo credere che in un simile contesto, a molti anni da ora, un’anziana signora e il suo unico figlio si siederanno a guardare questo sceneggiato televisivo, o qualunque cosa sarà diventato, mentre si godono la cena senza dirsi un granché, e che in seguito lei si addormenterà e lui continuerà a guardare, in attesa che la madre si svegli e pronunci una dichiarazione illuminante.
Sono tentato di dire che ben mi starebbe, se mia madre morisse oggi. Perché da quando ho iniziato a muovere i primi passi l’ho cronicamente abbandonata, e ogni volta nel momento di massimo pericolo. Me lo meriterei. Che morisse oggi sarebbe appropriato. Un giusto castigo. In ogni caso, quando ci rifletto e capisco che se mia madre morisse oggi me lo meriterei, mi balena in testa il pensiero che allora la sua morte diventerebbe contingente al modo in cui mi sono o non mi sono comportato. La sua morte sarebbe una forma di riscatto per il mio comportamento. La mamma non potrebbe morire a meno che io non me lo meriti completamente, anche se, considerato che me lo merito da un pezzo, pressappoco da subito dopo la mia nascita, mia madre ha avuto a disposizione tanto tempo per morire e io per dimostrarmi meritevole di questo.
A questo punto non posso non chiedermi se al mondo esista qualcuno che si meriterebbe che morissi io. Se, per esempio, la morte di una persona fosse una misura punitiva nei confronti di un’altra, cosa che di certo penserei della morte di mia madre, qualora accadesse oggi, su chi ricadrebbe il giusto castigo quando morirò io? Esiste forse per ognuno di noi un capro espiatorio che pagherà il prezzo della nostra morte?
Be’, è ovvio che non tutte le morti fungano da punizione, sebbene si tratti di una teoria affascinante. Tante di quelle cose si spiegherebbero all’improvviso. Ciononostante alcune morti – la mia, per esempio – potrebbero essere indipendenti dalle circostanze, non concepite come castighi o ammonimenti per qualcun altro su questa Terra. Decessi che non hanno lo scopo di innescare il senso di colpa in nessuno. Decessi che forse non hanno lo scopo di suscitare alcun sentimento. Eventi autoconclusivi e senza impatto. L’ecologia della morte in questo senso dovrebbe certamente tenere conto del principio della varietà. Che poi con che diritto dico certamente, non ho alcuna autorità in materia. Ed esiste la vaga possibilità che la persona per cui il mio decesso, quando sarà, rappresenterà un giusto castigo, non venga mai a sapere che sono morto, così come potrebbe non sapere mai che le sta bene o che se l’è meritato. Questa persona potrebbe trovarsi all’altro capo del mondo, senza accesso ai mezzi di informazione che potrebbero avvertirla della mia dipartita, sempre ammesso che se ne parli. Potrebbe arrivare alla fine dei suoi giorni senza avere la più pallida idea che sono morto, evitando così per l’eternità il giusto castigo.
Dopo essere stato dipinto per decenni come l’incarnazione della malvagità, il maggiordomo è diventato un tipo mite. Adesso è sempre, incondizionatamente, gentile, con chiunque. «È stato il maggiordomo» recita l’adagio, ed è questo, forse, a garantire che qui, negli sceneggiati della pbs che guardiamo io e mia madre, il colpevole non sia mai lui. È troppo buono per essere lui. D’altro canto, tale assoluta innocenza recentemente accordata al maggiordomo in produzioni come questa suggerisce che, non ora ma presto, il cattivo tornerà a essere lui. Mia madre una volta mi ha spiegato che la chiave di questi misteri, per come appaiono all’inizio, consiste nell’individuare il capro espiatorio più improbabile. Spesso quella persona si rivela il cattivo. Ha osservato che di tutte le scoperte che ha fatto nella vita, quella era fra le più tristi, perché da allora non si è più goduta niente. Arrivare a comprendere qualcosa, ha detto, è una tristezza. Tu non conoscevi bene tuo padre, ha detto, ma non era un uomo difficile da capire. E il problema era proprio quello. Una volta capito qualcuno, poi che cosa te ne fai?
Mio padre e i suoi colleghi indiani dovevano essere considerati, in quanto probabilisti, dei maestri delle statistiche, i più affidabili fra i calcolatori di probabilità. Non fossero morti sottoporrei le mie domande all’uno o all’altro, ma siccome sono morti, cosa possono saperne ormai di probabilità? Saranno morti anche i probabilisti indiani, oltre a mio padre? Ad ogni modo, vivi o morti che siano, avranno per forza dei successori. Qualsiasi campo di ricerca genera successori che profanano e in seguito sviluppano il lavoro iniziato dai loro mentori, ed entro breve i mentori muoiono. A prescindere da quanto sia autorevole il mentore nel suo campo, c’è sempre un successore che attende in anticamera. Ci saranno altri probabilisti indiani, probabilmente ne arriveranno di nuovi ogni anno, un flusso di eredi che voleranno fin qui dall’India. Perfino mio padre avrà avuto un suo successore, una volta morto. Qualcuno è succeduto a mio padre, il Signore delle Probabilità, della cui arte non ho mai avuto modo di essere testimone. Mio padre deve averla tramandata all’erede, che ora la detiene. Se anche io e mia madre non conosciamo il nome di questa persona o dove si trovi, possiamo a buon diritto credere che in questo momento, da qualche parte nel mondo, si aggiri il successore di mio padre, qualcuno che custodisce ciò che prima custodiva lui. E quando mia madre morirà, non oggi, e quando anch’io alla fine morirò, questo successore di mio padre che non conosciamo sarà considerato un superstite della nostra famiglia? Il pensiero offre un barlume di conforto.
I medici che firmano le autopsie, bollando come sconosciuta la causa della morte, attribuiscono la loro temporanea ignoranza a lacune della scienza che un giorno verranno colmate. Presto o tardi tutte le cause di morte saranno note. Il problema è che noi viviamo tempi curiosi, in cui non si sa niente delle cose finché non accadono. Si suppone che da qui a qualche anno questo dover aspettare che qualcosa accada – come la morte di una madre per dire di averla conosciuta – sarà considerato un toccante limite del nostro attuale stile di vita. Nessuno riuscirà a immaginarsi così paziente ed educato come siamo noi ora, ansiosi di stabilire una distinzione fra le antiquate nozioni di prima e dopo. La gente si affezionerà a queste creature miti, che aspettavano la morte delle loro madri ed erano tutte vittime del tempo, ma si sentirà anche superiore, e alcuni azzarderanno la valida ipotesi che nella nostra ignoranza non fossimo poi così diversi dagli animali. Meritevoli di grande rispetto, ma pur sempre animali.
Se mia madre è morta oggi, non si saprà fino a domani, di questo sono quasi certo. Come minimo, domani. Perché si sappia oggi, qualcuno che non sia suo figlio dovrebbe di punto in bianco pensare, nel cuore della notte, di andare a suonare alla sua porta, e non vedendosi aprire, sentirsi in dovere di chiamare il padrone di casa e guadagnare l’accesso al suo appartamento. Tralasciando l’improbabilità della cosa, che mi sembra alta, ci vorrebbe del tempo. Il mattino potrebbe sorprendere questa persona prima che sia riuscita a mettersi in contatto con il padrone di casa, il quale potrebbe avere il telefono staccato. E se anche fosse raggiungibile, dubito che si presenterebbe di corsa, chiavi in mano, facendo sì che mia madre venga trovata oggi.
È sconcertante pensare che, mentre questi misteriosi intrighi vengono filmati, fuori dall’inquadratura uomini e donne si muovano con indosso abiti del loro tempo, ciascuno col proprio contemporaneo punto di vista sulla sessualità e sull’etica, e si portino la mano alla bocca per nascondere un sorriso di fronte a quel pietoso spettacolo di animali erranti.
Anche se il padrone di casa rispondesse al primo squillo. Potrebbero esserci benissimo altre spiegazioni sul perché nessuno abbia aperto la porta, e il padrone dovrebbe tenerne conto. Spesso si scopre che una giovane donna appartenente alla facoltosa famiglia, e dotata di una bellezza quasi insostenibile, è in combutta con i servitori.
È notte fonda, tutti dormono. I vecchi si coricano presto. Se mia madre è andata a letto, cosa che mi auguro, e si è addormentata, cosa che mi auguro altrettanto, non può sentire il campanello.
La giovane è l’unica in grado di stimolare in chi guarda una sorta di empatia per le classi abbienti, a suggerire cioè che non tutti i ricchi di una volta erano malvagi.
Il padrone di casa insisterebbe sempre sullo stesso punto, sarebbe recalcitrante a servirsi della chiave per entrare nell’appartamento di mia madre. Vorrebbe prima avere le prove che qualcosa, di fatto, è successo. La preoccupazione di un vicino non costituisce una prova. Del sangue che esce da sotto la porta sarebbe una prova. Ma se anche mia madre fosse morta, è improbabile che si vedrebbe del sangue. Trovare delle prove non sarebbe semplice.
A un certo punto arriva sempre un agente di polizia, ma non è mai l’agente di polizia a risolvere il caso. Niente corpo, niente reato!, urla a volte mia madre dalla sua poltrona.
Il padrone di casa avrebbe motivo di interrogarsi sul perché un vicino abbia deciso, nel cuore della notte, di andare a suonare il campanello di una donna anziana pretendendo di entrare in casa. I vicini non fanno così.
Esiste una gerarchia fra gli addetti all’apertura della porta, un compito che solitamente viene lasciato al valletto. Il padrone di casa insisterebbe per aspettare fino al mattino, facendo in modo, quindi, che nonostante mia madre sia morta oggi, il corpo non venga trovato prima di domani.
Se d’altro canto il decesso di mia madre producesse rumore, se morendo facesse baccano e i vicini lo sentissero, è probabile che la raggiungerebbero in tempo, non necessariamente per salvarla, ma almeno per scoprire che è morta oggi. Trovarla oggi lascerebbe ben poche sorprese al domani. Ci sarebbe la mia, di sorpresa, nel momento in cui dovessi ricevere la fatidica telefonata che m’informa dell’infausto evento di cui la casa di mia madre è stata teatro. Molti avrebbero saputo della morte di mia madre prima di me, e questo pensiero non mi va giù. Vorrei essere io il primo a saperlo, che poi è la spiegazione che forniscono sempre gli assassini: vogliono essere i primi testimoni di un evento importante, e l’unico modo per mettersi in quella posizione è diventare loro stessi la causa che ha provocato tale evento, così uccidono una persona e, di conseguenza, apprendono la notizia prima di chiunque altro. Rispetto a questo, però, il mio movente è tutt’altro. Per alcune di queste persone la morte di mia madre sarebbe ormai storia vecchia quando finalmente ne venissi a conoscenza anch’io. Nel frattempo potrebbero essere morti altri abitanti della zona, che rimpiazzerebbero mia madre nei pensieri altrui. Nel grande spettacolo del mondo molte migliaia di persone potrebbero morire dopo mia madre, ma ben prima che io abbia appreso la notizia. Se cadendo dalle scale avesse urlato. Se fosse crollata a causa di un’improvvisa insufficienza del sistema circolatorio. Forse, piuttosto che urlare, avrebbe avuto la forza di comporre un numero al telefono. Forse non aveva l’energia per urlare abbastanza forte da essere udita. Urlare implica uno sforzo muscolare non indifferente. Mi spaventa il pensiero che un giorno avrò più che mai bisogno di urlare e sarò troppo debole per farlo. Mi limiterò a produrre dei gemiti, a stento percettibili perfino da me stesso. Mettiamo che mia madre, strisciando sui gomiti, resa invalida dalla crisi del sistema circolatorio, raggiunga il telefono e componga un numero. Forse riuscirebbe a spiegarsi con calma, informando la persona in linea delle circostanze in cui si trova. I soccorsi verrebbero allertati, i soccorsi arriverebbero.
La questione della scoperta a questo punto si complica. Se, per esempio, mia madre riuscisse a illustrare la propria condizione clinica alla persona in linea per poi morire l’istante dopo, quell’informazione costituirebbe un valido indizio al fine di determinare a posteriori che la morte di mia madre è avvenuta oggi? Non credo. Credo semmai che la persona in linea si renderebbe conto che l’emergenza è scattata oggi, spingendo quindi mia madre a fare quella telefonata, ma a meno che la mamma non muoia mentre parlano, prima di mezzanotte, sarebbe impossibile stabilire, sulla base della suddetta informazione, l’ora esatta del decesso. E se anche morendo mia madre facesse cadere il telefono, la persona in linea, non potendo vederla, non avrebbe la prova definitiva che sia venuta a mancare all’improvviso durante la loro conversazione. Anzi, potrebbe benissimo dedurne che non poteva più parlare o fare rumori, o muoversi, dato che non sentirebbe proprio nulla se mia madre, contro ogni previsione, morisse oggi. Sentirebbe solo silenzio. Ma il silenzio non basta.
Se voglio che mia madre sopravviva, come continuo a ribadire, in modo tale che non venga trovata morta nel suo appartamento, non dovrei fornirle una compagnia? Se, in base alle statistiche, le persone che non abitano da sole vivono più a lungo e io non ho salvato mia madre da una vita di solitudine, l’ho forse spinta a morire prima, invece che dopo? Questo è un fattore su cui potrei avere il controllo. Sarei io a lottare per la sua vita, dato che, come è stato stabilito, lei non può farlo, e non può nessun altro della nostra famiglia, di cui noi due siamo gli unici superstiti. E se un compagno di vita aumenta le probabilità di sopravvivenza di entrambe le parti, due compagni di vita non regalerebbero a mia madre ancora più tempo per vivere? D’altro canto potrebbero verificarsi dei rendimenti decrescenti. Ma i rendimenti sono rendimenti, per quanto decrescenti, ed è ragionevole pensare che più persone abitano con mia madre, più a lungo lei vivrà. Da questo momento in poi il ragionamento s’incarta. Qual è il limite? Fino a che punto posso continuare a fornire dei compagni a mia madre, estendendo la sua vita oltre il normale corso delle cose tramite l’aggiunta di un individuo nuovo al giorno affinché non muoia mai? Il limite è dettato da questioni di logistica.
Una folla di accompagnatori andrebbe stipendiata e nutrita, bisognerebbe fornire a tutti un alloggio e in determinate occasioni, quando per esempio ci sono io a cena o a guardare la televisione, questa folla a un mio segnale dovrebbe dileguarsi, per permettermi di restare solo con mia madre e di godere della sua compagnia. Insieme passeremmo in rassegna i menù dei ristoranti da asporto, fingendo di essere indecisi fra gli antipasti di quello afgano e i deliziosi contorni del turco, per poi ricadere come sempre sull’italiano, che entrambi adoriamo, e ordinare la solita pasta, con qualche fettina di pane in più, e magari un’insalata da condividere. Se fossimo in vena di birichinate, potremmo trascinare degli sgabelli vicino alle poltrone, per mangiare guardando la tv, e così sentirci veramente birichini. Ma se, congedando la folla, restassi io come sua unica compagnia, la starei forse mettendo in pericolo attraverso un improvviso distacco dalle persone che le stanno salvando la vita? In pratica non sarebbe un altro modo di ucciderla, dove io sarei l’assassino? Prosperava grazie a un nutrito entourage di compagni estendi-vita, finché quell’egoista del figlio non li ha cacciati tutti, condannandola a morte in cambio di un momento privato – per lo più passato in silenzio – come tanti di cui ha avuto modo di usufruire. È suo figlio e la reclama per sé da una vita, anche quando il fratello e la sorella c’erano ancora, e c’era ancora il padre maestro di statistiche, che gareggiava con loro per aggiudicarsi un’attenzione che, come un cono di luce dorata, sua madre ha sempre tenuto puntata innanzitutto su suo figlio, sebbene quello non facesse altro che dirle addio, giorno dopo giorno. Immaginate tutti quei compagni che attendono fuori – bloccando il traffico, perché ha speso fino all’ultimo centesimo per assumerli e ora sono migliaia – e, radunati intorno alla finestra, spiano madre e figlio che mangiano davanti alla televisione, e nel mentre si domandano quale figlio lascerebbe così sola una madre. Che razza di figlio farebbe una cosa simile?
Si ha sempre un passato, e il passato ritorna sempre, rovinosamente. Il passato, nella mente della persona che l’ha avuto, è terribile e vergognoso, ma agli occhi di chi guarda la televisione il terribile passato che la persona ha avuto ispira soltanto tenerezza. Quella del figlio illegittimo è una delle figure più comuni negli sceneggiati trasmessi dalla pbs. Mia madre non gradisce l’argomento. Non le interessa. Una volta ha detto che tutti i figli sono illegittimi e io ho riso, ma lei mi ha fulminato con lo sguardo. I figli illegittimi diventano adulti illegittimi che poi muoiono e diventano cadaveri illegittimi, sepolti illegittimamente. A un certo punto si è addormentata e io ho appreso che la figlia illegittima, l’ereditiera, veniva relegata nel retrocucina della reggia della sua stessa ignara famiglia. Mia madre si è svegliata e ha dichiarato, con rabbia ingiustificata, che la ragazza era dunque la principale sospettata dell’episodio, e che sarebbe stata umiliata, abusata e di nuovo umiliata, ma che alla fine si sarebbe scoperto che non era stata lei. C’è sempre un primo sospettato, in seguito perdonato rapidamente. Oggigiorno sono molti i sospettati che si rivelano innocenti. È questo che devi mirare a essere, mi ha ammonito mia madre puntandomi un dito addosso. Il primo sospettato. Il primo sospettato non è mai il colpevole.
Se mia madre morisse oggi, morirebbe mentre scrivo. Fra una manciata d’anni qualcuno potrebbe chiedermi che cosa stessi facendo quando mia madre è morta, e io dovrei rispondere che mi trovavo a casa, scrivevo. Questo scenario prevede che un giorno incontrerò qualcuno che diventerà mio confidente, perché al momento nessuno nella mia vita si sognerebbe mai di farmi una simile domanda. Potrebbe farmela uno sconosciuto mosso da buone intenzioni? Dovrei incontrare una persona che, in fretta o lentamente – mi vanno bene entrambe – acquisisca una tale confidenza con me da pormi una domanda tanto personale. Magari questa persona, uomo o donna, sarà qualcuno con cui stabilirò un legame forte, anche se a quel punto sarò già vecchio e avrò ben poco da offrire in ambito sentimentale. Ci porremo domande a vicenda, seduti su divani, poltrone, panchine del parco, letti, sedili di auto, di autobus, o passeggiando nei campi, o almeno così me lo immagino, impazienti di superare le difese dell’altro, animati dalla speranza che quelle domande personali, e le loro risposte, lascino il posto col passare del tempo all’intimità, ma chiedendoci talvolta se è così che funziona davvero, se tutta quella fatica fatta per indurre qualcuno ad amarci non sia eccessiva.
Ad ogni modo, pare che non usi fare domande del genere quando muoiono dei cittadini qualunque. Solitamente si chiede cosa stessero facendo solo ai familiari di personalità celebri. Quindi forse posso contare sulla probabilità che – anche se in futuro dovessi trovarmi una compagna di vita, ipotesi che auspico – non mi venga domandato che cosa stavo facendo quando mia madre è morta. Nessuno dovrà saperlo, a meno che non sia io a dirglielo spontaneamente – probabile –, o che nel mio elogio funebre, che dovrò comunque sbrigarmi a scrivere, dichiarassi dove mi trovavo quando la mamma è mancata. Spesso è alla giovane scarmigliata, alla sempliciotta dall’accento marcato, che tocca la sorte più infame. Assiste il cuoco e il cuoco la maltratta. Tutti la maltrattano. Il suo stesso impiego è frutto di un atto di carità. È sottovalutata. Ma non da mia madre. All’inizio, alla comparsa dei titoli di testa, agitando l’indice ha detto, Occhio a quella!
Ciò che dirò, senza mentire, sarà che quando mia madre è morta io ero a casa che pensavo a lei, perché per scrivere di lei devo pensare a lei, quindi si può dire che lei è nei miei pensieri. Per aumentare le probabilità che questo resti vero, presumo che dovrei continuare a scrivere di lei, o se non altro a pensare a lei, senza sosta, per non rischiare di pensare ad altro e provocare così il suo improvviso decesso.
Se per esempio adesso mi alzassi dalla poltrona e mi distraessi andando al frigorifero, e decidessi che mi va un po’ di yogurt fresco, smettendo così di pensare a mia madre, correrei il rischio di farla morire, sola e abbandonata da tutti anche col pensiero, mentre il suo unico figlio pescava qualcosa da un vasetto aperto, con lo sguardo fisso nel nulla e la mente, per un attimo, vuota.
Non posso lasciare che accada.
Episodio dopo episodio, guardando lo sceneggiato con mia madre, cerco con gli occhi la sempliciotta scarmigliata. La osservo, aspettando che passi all’azione, ma i suoi obiettivi non sono subito chiari, la strategia è a malapena intuibile, tanto che quando iniziano a scorrere i titoli di coda la sempliciotta ancora non ha spiccato il balzo. Spesso torna al punto di partenza, a lavorare in cucina, a mani vuote. Non ha dove andare, nessuno le vuole bene e lei stessa, questa sempliciotta scarmigliata dai denti marci e ingrigiti, sembra incapace di provare amore per qualcuno. Mia madre annuisce e dice, Ride bene chi ride ultimo.
I titoli di coda sono passati, il programma è finito. Uno a uno i nostri contemporanei fuori inquadratura, con la loro visione aggiornata del mondo, se ne vanno a casa. L’attrice che impersona la sempliciotta scarmigliata riassume il suo normale accento da persona ben istruita, si strappa via dalla testa la parrucca con i capelli ritti, torna alla roulotte per farsi una doccia e indossare uno dei suoi tanti bei vestiti.
Mentre guarda scorrere i titoli di coda con un sorriso sulle labbra, però, mia madre mi lancia un’occhiata tagliente.
Aspetta e vedrai, dice come se fosse una promessa. Quella non ha mica finito di lottare, ha energia da vendere. È una guerriera, quella. La prossima volta glielo farà vedere lei.