Pastore, di Joy Williams

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Black Coffee il racconto ‘Pastore’ di Joy Williams, tratto dalla raccolta L’ospite d’onore del 2017 tradotta da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.

Buone letture!



PASTORE
di Joy Williams


Il pastore tedesco era morto da tre settimane. Annegato. E la ragazza non riusciva a farsene una ragione. Sedeva in veranda, nella casa sulla spiaggia del fidanzato, e guardava l’acqua.
Non era la stessa acqua. La casa si affacciava sul Golfo del Messico, mentre il pastore era affogato nella baia.
Il fidanzato della ragazza aveva acquistato quella casa da appena una settimana, completa di piatti e bicchieri che non c’entravano nulla fra loro, numerosi e massicci letti di quercia, e un assortimento di mobili di bambù.
La ragazza possedeva a sua volta una casa vicino all’argine della baia, una casa con grandi finestre che davano su ispidi cespugli di buganvillea. La struttura non era rinforzata e tremava tutta quando il cane correva. Il fidanzato della ragazza di cognome faceva Chester, e lo chiamavano tutti così. Portava occhiali da sole color bottiglia di champagne. Chester aveva spalle larghe e mani enormi, e veniva da un matrimonio fallito, che però non gli era costato un centesimo.
«Hai beccato la gallina dalle uova d’oro» le dicevano le sue amiche.
Tre giorni prima che il pastore annegasse, Chester le aveva chiesto di sposarlo. Si conoscevano da quasi un anno. «Sposiamoci» aveva detto. Si erano calati un metaqualone ed erano andati a letto. Era successo da tre settimane e tre giorni, e ora mancavano quattro giorni al matrimonio. Il tempo passa in un soffio, pensò la ragazza.
Il pastore era marrone e nero con un bellissimo muso affusolato. Era famoso per un giochetto che faceva: quando la ragazza gli diceva, «Mi vuoi bene?», lui le saltava tra le braccia. Ed era leggero, leggerissimo, teneva tutto il peso racchiuso dentro di sé, come se sognasse soltanto di pesare. La ragazza l’aveva preso che aveva due mesi. L’aveva comprato da un allevatore di Miami, un tale che in passato era stato prete. Il pastore della ragazza faceva parte di una cucciolata di cinque cagnolini, tutti con un eccellente pedigree. La madre era aggraziata e amichevole, il padre più serio e sempre allerta. L’allevatore ex prete aveva permesso alla ragazza di restare qualche minuto da sola con ciascun cucciolo e le aveva rivolto un gran numero di domande personali. Lei si era resa conto di non aver mai riflettuto molto su se stessa. Alla fine, quando aveva scelto il cucciolo, era andata a bere una Pepsi nella cucina dell’allevatore. Il cagnolino le girava intorno ai piedi, inciampando e mordicchiandole i lacci delle scarpe. L’allevatore fumava e le faceva discorsi rassicuranti.
La ragazza era rimasta in silenzio, in adorazione.
Le aveva detto: «Tutti noi dormiamo e sogniamo, sai? Se davvero capissimo in che situazione ci troviamo, non riusciremmo a sopportarlo. Cercheremmo una via d’uscita».
La ragazza aveva annuito. Era in imbarazzo. A volte le parlavano in quel modo confidenziale e un po’ inquietante, come se fosse una persona comprensiva, coscienziosa o acculturata. Il cucciolo aveva un profumo fantastico. L’aveva preso e stretto tra le braccia.
«Ci prendiamo in giro. Non facciamo che sognare. Bei sogni, brutti sogni…»
«La nostra vita non è altro che il modo in cui gli altri ci vedono» aveva detto la ragazza.
«Esatto!» aveva esclamato l’allevatore.

La ragazza oscillava pigramente sulla sedia a dondolo in veranda.
Si immaginò in piedi, sorridente, più giovane e molto più carina, con il pastore che le balzava in braccio. Sentiva la testa ronzare e crepitare. Il bourbon si muoveva piano nel vistoso bicchiere, intorno a un bastoncino da cocktail a forma di fenicottero con la testa china. Sentire tra le braccia il peso del pastore annegato era stata una cosa orribile. Orribile. Lei e Chester erano vestiti di tutto punto perché erano appena tornati da una cena con una coppia di amici, un agente di cambio e la sua ragazza, che faceva la commerciante d’arte ed era magrissima e biondissima. Sul viso aveva minuscoli peli biondi. Il ristorantino dove erano andati a mangiare sembrava molto più grande di quanto non fosse perché le pareti erano coperte di specchi. La ragazza aveva osservato il loro gruppo riflesso mangiare e bere. L’agente di cambio parlava di soldi, di come poteva usarli per fare favori agli amici. «Amo il mio lavoro» diceva.
«L’arte di cui mi occupo» aveva detto la sua fidanzata «è concepita come stimolo alla discussione. Non deve essere mai considerata un prodotto estetico».
La ragazza le aveva chiesto di lasciarle i controfiletti di manzo. Non li avevano toccati e il cameriere glieli aveva avvolti nella carta stagnola a cui aveva dato la forma di un cigno. La ragazza ricordava perfettamente il momento in cui era entrata in casa con la carne per il pastore e aveva trovato la zanzariera dilaniata. Ricordava di aver percepito con chiarezza l’immobilità della casa mentre le invadeva gli occhi, come un fiume.

La ragazza guardava il golfo. Era una giornata splendida, nessuno surfava. La spiaggia era deserta. I patiti dell’abbronzatura erano chiusi nei solarium ad arrostirsi uniformemente sotto le lampade, per guadagnare tempo.
La ragazza avrebbe tanto voluto che quel momento arrivasse di nuovo, aspettare lì con le braccia spalancate, dicendo «Mi vuoi bene?». I cani percepiscono suoni che noi non percepiamo, pensò.
I cani sentono i richiami.
Chester aveva scavato una profonda buca quadrata sotto la buganvillea più grande, e la ragazza vi aveva deposto il cane. I suoi abiti chiari si erano sporcati a contatto col pelo bagnato. Dopo li aveva gettati. Chester aveva portato il suo completo in lavanderia.
A Chester il cane piaceva, ma era il cane della ragazza. Un cane può appartenere a una sola persona. Quando Chester e la ragazza facevano l’amore in casa di lei, o quando lei usciva la sera, teneva il pastore dentro, chiuso in una verandina con alte portefinestre a zanzariera. Il cane aveva preso l’abitudine di saltare fuori dal suo recinto, uno spiazzo costellato di vecchi pneumatici. Doveva essere il suo parco giochi, un luogo in cui potesse mantenersi in esercizio e dimenticare la noia e la solitudine quando lei non c’era. Ma evadeva in continuazione, così la ragazza aveva cominciato a chiuderlo nella verandina. Non l’aveva mai visto uscire, né da lì né dal recinto, ma se lo immaginava mentre spiccava il balzo: si preparava rannicchiandosi tutto e si slanciava verso l’alto. Faceva dei balzi altissimi. In lui c’era un’indicibile leggerezza, una fede incrollabile nell’atto stesso di saltare.
Sulla spiaggia, a casa di Chester, le onde scintillavano a tal punto che la ragazza non riusciva a guardarle. Finì il bourbon, portò in cucina il bicchiere vuoto e lo posò nel lavello.
Al principio della loro vita insieme, il pastore e la ragazza abitavano nella zona del Mile 47, sulle Florida Keys. La ragazza lavorava in un piccolo centro oceanografico. La sua vita apparteneva solo a lei, e al cane. Era un’esistenza placida e gioiosa, e nel ricordare quel periodo la ragazza aveva sempre la sensazione di essere stata sul punto di assistere a qualcosa di straordinario. Ricordava l’esuberanza del pastore, la sua energia, la sua dignità. Ricordava questo e di essere stata una brava persona, consapevole della propria felicità.
La ragazza si passò le dita fra i capelli. Si sentiva come se il golfo le si appiccicasse in gola.
A quei tempi molte cose le sembravano sacre. Il mondo era un luogo promettente. Poi, però, le cose sacre erano scomparse.
Un amico di Chester le aveva consigliato di provare l’ipnosi. Ne parlava con grande entusiasmo. Dopo qualche seduta con un suo amico ipnotista si sarebbe dimenticata del cane. No, non proprio dimenticata. Avrebbe più che altro smesso di fare determinati collegamenti. Non avrebbe più associato il cane a un contesto di sofferenza. L’ipnotista vantava numerosi successi con i fumatori.
Quella sera avrebbero cenato con quel tale e sua moglie. Al solo pensiero la ragazza si sentiva mancare. Avrebbero parlato e parlato… di case, di ipnotismo, di cocaina. Sarebbero andati in un ristorante che di recente si era fatto una reputazione poco invidiabile: a quanto pareva una signora aveva ordinato delle Ciliegie Giubileo e mentre gliele servivano il suo vestito aveva preso fuoco. La donna era morta a causa delle ustioni riportate. L’avrebbero ordinato tutti, quel dessert flambè. E poi sarebbero andati a ballare.
Gli animali sono più vicini a Dio di noi, pensò la ragazza, ma Lui non se ne cura. Sentiva le braccia pesanti. Il sole era immenso, si trascinava a fatica verso l’orizzonte. Sulla spiaggia si era radunato un gruppetto di persone per ammirarlo. Ascoltavano la radio. Quando il sole toccò la linea dell’orizzonte, impiegò tre minuti a scomparire. Un animale è in grado di sopravvivere tre minuti senz’aria. Il suo pastore aveva impiegato tre minuti a morire dopo la nuotata che si era fatto nelle acque profonde oltre l’argine. La ragazza si ricordò di quando era entrata in casa con la carne avvolta nella stagnola a forma di cigno e aveva visto la zanzariera rotta. La casa era piena di zanzare. Chester aveva riempito un bicchiere di ghiaccio semidisciolto e si era versato un goccetto. Sembrava sempre fuori posto, lì a casa della ragazza. L’abitazione in sé non valeva molto, era il terreno a essere prezioso. La ragazza era uscita a chiamare il cane, oltrepassando il recinto vuoto, sempre chiamando, giù fino alla baia, dove vedeva le luci delle case più costose costruite lungo l’argine. Un vicino aveva chiamato l’ufficio dello sceriffo e i fari dell’auto del vice avevano illuminato il cane scuro, a terra.
Suonò un cicalino nella casa sulla spiaggia. Chester aveva fatto cablare ogni stanza. Nella settimana in cui vi aveva abitato da solo aveva fatto installare l’aria condizionata, i vetri unidirezionali alle finestre e un elaborato sistema d’allarme a raggi infrarossi. Il cicalino, però, era soltanto un segnale, e adesso taceva. Indicava l’apertura della porta quando Chester rientrava. Chester attivava l’allarme generale solo quando erano fuori, o quando dormivano. La ragazza pensò a quelle frequenze invisibili che tenevano sotto controllo l’aria impassibile. Trovava umiliante l’idea che delle microonde potessero risparmiarle dolore, umiliazione o perdita. Per un attimo valutò la possibilità di accontentare Chester e far installare un sistema di sicurezza domestico completo. In casa non c’era nulla che valesse la pena rubare. Chester voleva soltanto proteggere il suo spazio. E, per un istante, la ragazza trovò offensivo il tocco della mano di Chester sui suoi capelli.
«Perché non sei vestita?» chiese.
La ragazza lo guardò, poi abbassò lo sguardo su di sé, sulla maglietta sottile e i fiori di ibisco dei suoi pantaloncini. Sono troppo vecchia per mettermi questa robaccia, pensò la ragazza. Col tramonto la veranda si era rinfrescata in fretta. Rabbrividì e si strofinò le braccia.
«Perché?» disse la ragazza.
Chester sospirò. «Non dobbiamo uscire a cena con i Tynan?»
«Non voglio andare a cena con i Tynan» disse la ragazza.
Chester infilò le mani in tasca. «Devi farla finita con questa storia» disse.
«Sto volando» disse la ragazza. «Ho volato». Pensò ai balzi del pastore, alla sua leggerezza. Era fuggito via. Lei invece non era andata da nessuna parte.
Chester disse: «Ti ho consolato meglio che potevo».
«Non puoi consolarmi» disse la ragazza. «Non mi riprenderò mai. Non c’è un lieto fine».
«Siamo noi il lieto fine» disse Chester.
«Abbi pietà».
Il cielo era rosso, l’acqua di un argento opaco. «Non ce la faccio a rivedere i Tynan» disse la ragazza.
«Non ce la faccio a entrare nell’ennesimo ristorante e vedere un altro vetro anti-starnuto a protezione del buffet».
«Non urlare, amore. La roba che prendi non ti calma neanche un po’? Guarda che io non sono mica un cane, non puoi gridarmi contro».
«Come?» disse la ragazza.
Chester si sedette sull’altalena. Le mise una mano sul ginocchio.
«Sei una persona fantastica, ma non ti farebbe male un briciolo di autoconsapevolezza, di realismo. Tu a quel cane gli urlavi, amore».
La ragazza guardò la mano con cui le carezzava il ginocchio. Le sembrò inverosimilmente grande e rossa. «Non è vero» disse. Il cane sapeva fare un giochetto.
La ragazza gli diceva, «Mi vuoi bene?», e lui le saltava tra le braccia. Restavano tutti affascinati.
«La sera che è successo, mentre guardavi la zanzariera, hai detto che quando fosse tornato l’avresti ammazzato».
La ragazza guardò la mano che le accarezzava e strofinava il ginocchio. Non sentiva nulla, era insensibile. «Non ho mai detto niente del genere».
«Era un fastidio comprensibile, amore. L’avrai riparata una mezza dozzina di volte, quella zanzariera. Stava diventando un problema di disciplina. Gli ospiti si sentivano a disagio».
«A disagio?» fece la ragazza. Si alzò. La mano le cadde dal ginocchio.
«Non possiamo cambiare le cose» disse Chester. «Se potessi farlo, lo farei. Farei qualsiasi cosa per te». «Non sei rimasto con me quella sera, non sei venuto a letto con me!» La ragazza camminava qua e là per la stanza, descrivendo piccoli cerchi nervosi.
«Sono rimasto per ore, amore. Ma su quel letto è impossibile dormire. Le lenzuola sono sempre coperte di sabbia e di peli di cane. È per questo che ho comprato un’altra casa. Per i letti». Chester sorrise e fece per abbracciarla. Lei si voltò e attraversò il soggiorno, aprì la porta e scaraventò a terra il cicalino. «Oh, falla finita!» esclamò Chester.
Quando raggiunse casa sua, la ragazza andò in camera da letto e si sdraiò. Intorno a lei il silenzio sembrava quasi sbadigliare, un buco nero che la circondava. Il silenzio è stato dato in dono agli animali, pensò la ragazza. Le parole dell’uomo causano disgrazie, ma spesso è il silenzio degli animali a risanare tutto.
Si girò su un fianco, poi sulla schiena. Pensò alla buganvillea, alle foglie che diventavano fiori sopra la tomba del pastore. Pensò al pastore accanto al letto, che dormiva sereno contro il muro, pieno di fiducia in lei.
Udì uno schiocco nella testa, una piccola esplosione che la svegliò. Si tirò su a fatica, annaspando, destandosi da un sogno in cui il pastore era morto. E per un attimo rimase sospesa tra due sogni, ingannata due volte. Si vide spiccare un balzo e poi ricadere giù. La luce della luna inondava il recinto.
«Ti volevo bene, vero?» disse la ragazza. Si vide spiccare il balzo all’infinito, e all’infinito ricadere giù. «E tu me ne volevi?».