Pane senza sale, di Fatemeh Piravi Vanak

Polidoro edizioni porta in libreria Iran under 30, un’antologia di giovani scrittrici e scrittori iraniani, un inaspettato e vivido spaccato dell’Iran raccontato dalle nuove generazioni a cura di Giacomo Longhi e con la prefazione di Ginevra Lamberti. Traduzioni dal persiano di Melissa Fedi e Federica Ponzo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nell’antologia, per gentile concessione dell’editore.


Pane senza sale
di Fatemeh Piravi Vanak

Immergo la mano nella fontana, mi sciacquo la faccia e mi passo la mano sulla testa rasata. Mi guardo nello specchio rotto appeso all’albero lì vicino: sembro un kiwi. C’è un sacchetto di plastica pieno di pane secco appeso a un altro ramo dell’albero. Non ci arrivo. Saltello su e giù. Un dito si aggancia al sacchetto che si spacca, il pane si rovescia sulle mattonelle del cortile. Le urla della mamma mi fanno sobbalzare, vedo che brandisce una ciabatta di plastica e me la do a gambe levate verso la porta di casa. Mi guardo indietro, chiudo la porta, sento la ciabatta che si schianta. Quando si accorge di me, la mamma di Mansur stringe gli occhi tondi e mi chiede: «Tuo papà non è tornato?». 
Mansur di per sé è un buon amico, è sua mamma che è un’impicciona. Io e lui giochiamo sempre nella creta. La mamma di Maryam dice che non sono più di vent’anni che questo posto lo chiamano così. Un anno sono arrivati qui, hanno rivoltato il terreno ma la creta l’hanno trovata solo su questo pezzo. La creta è proprietà della mamma di Maryam. Molte delle case in fango e mattoni di qui sono state costruite proprio con questo tipo di argilla e, a forza di continuare, dove c’è l’argilla si è formata una buca. Dio ha messo in piedi un buon affare per la mamma di Maryam.
Noi ragazzi ci riuniamo a giocare nella creta da tutto il paese. La casa di Mansur è due isolati più giù rispetto alla nostra. Così come io mi sposto due isolati più giù per andare a trovare Mansur, sua madre si sposta due isolati più su per fare le sue strane domande, e mica è contenta di come vanno le cose dove abita lei. Comunque la mattina la passa da noi mentre il pomeriggio se ne sta con le sue vicine. Da casa nostra a casa di Mansur è pieno di gelsi che d’estate fanno diventare tutto appiccicoso per terra. Prendo a calci un sassolino fino alla casa di Mansur, poi lo prendo e lo picchietto contro il cancello del cortile. È da quando sono nato che il campanello è rotto, forse anche da prima.
Arriva Mansur. Gli è venuta la faccia come la mia: siamo tutti costretti a tagliarci i capelli con la macchinetta di agha Jasem. Agha Jasem è il preside della scuola. È stato un ragazzo del paese anche lui. A scuola se la prende con i capelloni. Aspetto che vada in bagno a prendere la palla. Il cortile di Mansur è grande come quello di casa nostra, ma c’è più spazio, perché sua mamma compra il pane dalla mia.
Da noi c’è un forno a gas che occupa metà cortile. Dall’altro lato del cortile ci buttano gli attrezzi della macchina di papà. Il papà e la mamma litigano sempre per colpa del forno e delle cianfrusaglie che lui lascia in giro. Alla mamma piace cuocere il pane, mentre papà lo detesta: odia i vestiti della mamma sporchi di impasto, odia il caos in cortile, il viavai delle vicine che vengono a comprare. Ma la mamma non lo sta a sentire.
Quando arriva Mansur, do un colpo alla palla che tiene sottobraccio e ridacchio. Ce la passiamo fino alla creta. Quando arriviamo, ci sono già tutti. Costruiamo la porta con i mattoni e facciamo le squadre. Maryam la Cicciona capita con noi, allora propongo di metterla in porta: è grassa, quindi la palla non passa. Io, Mansur e altri due ci mettiamo in difesa e in attacco. Solo il portiere ha un compito preciso, noialtri corriamo dietro alla palla finché qualcuno non riesce a segnare. Anche per la squadra avversaria è lo stesso. C’è una ragazza vicino al cumulo di terra, non sappiamo come si chiama, non parliamo con lei, dicono tutti che è strana. Da qualche mese vive con la mamma nella casa sulla strada per il cimitero che nessuno vuole comprare, e nessuno va a trovarle. La mamma dice che non hanno un papà, ma la mamma di Mansur dice di aver visto un uomo dall’aria circospetta che passa spesso di lì.  
Ogni giorno la ragazza si presenta alla creta con un panino, e la sua bambola ci guarda. Ha i capelli più lunghi che abbia mai visto ed è sempre pulita e ordinata, al contrario di noi.
Mansur non riesce a deviare la palla che finisce dritta in faccia a Maryam la Cicciona. Diventa paonazza e scoppia a piangere: il nostro portiere se ne va via tutto arrabbiato. Non sappiamo che fare. Io sono dell’idea di far giocare la ragazza con il panino. Gli altri non sono d’accordo, ma io voglio continuare la partita. Mi faccio avanti. Mi fissa con i suoi occhioni color miele. Dico: «Hai visto cos’è successo. Vieni a giocare al posto di Maryam, rimango io in porta e giochi tu».  
Sorride, appoggia il panino e la bambola accanto al cumulo di terra e si unisce alla partita. Mansur le chiede ad alta voce: «Come ti chiami?».
La ragazza risponde piano: «Khorshid».
Ed è un sole veramente, proprio come dice il nome. I suoi occhi, perfino i capelli, sono uguali ai soli che mi disegnava papà. Sto in porta, mentre lei corre dietro alla palla insieme a Mansur e agli altri. Non subiamo gol, ma nemmeno li facciamo. Tutti stanchi di giocare, ci buttiamo in un angolo. Il sole è alto nel cielo e i suoi raggi mi arrivano dritti in faccia. Chiudo gli occhi, mi sento come all’ombra. Li apro. Khorshid spezza a metà il suo panino e me lo offre. Lo accetto e do un morso, ha il sapore del pane della mamma.
Quando Mansur dice che è ora di andare, ci diamo una scrollata e ci incamminiamo. La palla è di Mansur ed è lui che decide quando si gioca e quando si va via. Saluto Khorshid. Mansur mi lancia la palla, la porto sottobraccio fino a casa sua e intanto parlo di Khorshid. Lui dice: «Se non c’era lei almeno un gol lo facevi».
Mansur va a casa e io raggiungo il nostro isolato facendo il sentiero appiccicoso. Fa un caldo rovente, il sudore mi cola sulla fronte e lungo la schiena. Il cancello è aperto. Quando entro vedo la mamma, è seduta in cortile e si tiene la testa tra le mani. Ci sono anche la mamma di Mansur e le altre donne. Le guardo sorpreso e mi siedo vicino alla fontana. La mamma di Mansur dice alla mamma: «Non avere paura, Dio è grande».
La mamma ha cambiato il sacchetto di plastica del pane secco, come se non fosse caduto tutto per terra la mattina. Di nuovo non ci arrivo. Salto su e giù per prendere un pezzo di pane, quando di colpo mi sento la schiena che brucia. La mamma mi sta prendendo a ciabattate così forte che a momenti mi sfonda. La mattina l’avevo scampata, ma adesso mi becco tutte le sue grida: «Tuo papà è andato a portare il carico a Bam, dove c’è stato il terremoto, e nessuno ha sue notizie. Che ti possano ammazzare!».
La mamma di Said le si è seduta vicino: «È un bambino, ha solo fame. Che ti ha fatto? Secondo me devi fare un voto, vedrai che Dio ti aiuta».
La casa della mamma di Said sta di fianco alla moschea e tutti quelli che vogliono fare un fioretto vanno da lei, la vicina del Signore. La mamma le chiede: «Ma che voto posso fare?».
La mamma di Jasem le dice: «Io una volta ho fatto un’offerta a quarantadue vergini e il Cielo mi ha ascoltato. Tu sai preparare il pane. Devi andare a prendere un bicchiere di farina dalle quarantadue vergini una per una, poi ci fai il pane e adempi il voto».
Io finora la mamma di Jasem a fare un voto non l’ho mai vista, secondo me puntava ad avere il pane gratis. La mamma piange e a me si stringe lo stomaco. Neanche fossero le sue ultime volontà, porta un bicchiere, carta e penna. È la penna dorata che papà appoggiava sempre accanto al quaderno nero sul tavolino della televisione, vicino al mazzo di chiavi. Amo il portachiavi di papà: luccica, è un cerchio dorato e splendente. Fantastico sempre sul giorno in cui si romperà e allora prima che lo butti diventerà mio. Toccare le cose di papà equivale a prenderle di santa ragione. Quando papà deve andare via, solo la sua penna resta a casa. Alla fine la danno alla figlia della vicina per farle scrivere i nomi. Davanti a ogni nome mette un pallino. Mi danno un bicchiere e mi dicono di andare a casa del primo nome della lista a dire che si tratta di un voto di quarantadue vergini e prendere un bicchiere di farina. La più felice dell’iniziativa è la mamma di Jasem.
Busso, arriva la vicina e apre la porta. Le dico: «È un voto: quarantadue persone devono darci della farina».
 «Che voto?».  
«A Bam c’è stato un terremoto e mio papà si trova lì. È un voto per salvarlo».
Papà è in viaggio tutti i santi giorni. Ne torna a casa giusto due o tre, pianta un casino perché la mamma fa il pane e io in mezzo a tutto ciò mi prendo pure un paio calci, dopodiché se ne va via di nuovo. La donna mi prende il bicchiere dalle mani, ci versa la farina e me lo riporta. Protesto: «Mica è pieno!».
«Tu portalo, non ti preoccupare».
I bicchieri di farina si riempiono e si svuotano e i pallini accanto ai nomi delle vicine vengono spuntati uno dopo l’altro. È l’imbrunire. La mamma di Jasem ha detto che dobbiamo prendere tutti i quarantadue bicchieri di farina entro la sera, così con il richiamo alla preghiera del mattino la mamma prepara l’impasto e domani come prima cosa si mette a fare il pane. La mamma piange: non c’è una vicina da cui non abbiamo preso la farina, eppure manca un bicchiere. Non ho mai visto la mamma piangere per papà, col fatto che non faceva altro che ripetere che sperava che in casa non ci rimettesse più piede pensavo che se lui non fosse tornato davvero sarebbe stata felice. Le vicine se ne sono andate tranne la mamma di Maryam e la mamma di Jasem, rimugino un po’ e alla fine chiedo: «Perché non abbiamo preso la farina dalla mamma di Mansur?».
La mamma perde la pazienza e si toglie una ciabatta, la mamma di Jasem le afferra la mano e rivolta a me dice: «Dobbiamo prenderla solo da chi ha figlie femmine, in paese non c’è più nessuno che ne abbia». «Beh, ho un’amica che gioca con noi nella creta, potremmo prenderla da lei».
La mamma si è avvicina e mi chiede: «Chi?».
Le racconto di Khorshid che gioca con noi nella creta, con la mamma di Jasem si guardano ed esclamano che proprio se l’erano dimenticata. Ecco che di nuovo mi danno un bicchiere da riempire di farina. Si è fatto buio e la casa di Khorshid si trova vicino al cimitero. È un vecchio camposanto, nessuno ha i parenti sepolti laggiù. Quello nuovo si trovava alle porte del paese. Non c’è mai un’anima viva da quelle parti. La mamma di Maryam, che è quella con più anni di tutte, dice che quando era bambina suo papà si era appropriato a poco prezzo di un terreno dalle parti del vecchio cimitero e ci aveva costruito una casa, e quando ci sono andati ad abitare, sua mamma è morta di parto e dopo tre mesi gli spiriti si sono presi pure il bambino che aveva messo al mondo. Ma mia mamma dice che ha infarcito il racconto con una miriade bugie e che la mamma della mamma di Maryam e il suo bambino sono morti di malattia. Però mia mamma non è coetanea della mamma di Maryam. Dice che dopo tutto quello che era successo, suo papà ha lasciato la casa, dove adesso ci abitano Khorshid e sua mamma senza spendere un soldo.
Le storie terribili che la mamma di Maryam mi racconta sulle strade e le case dei dintorni prendono vita nella mia immaginazione e fanno diventare tutto spaventoso. La mamma di Maryam vive qui da quando ancora il paese non esisteva, e tutte le storie di paura le racconta lei. Suo papà pure era pazzo, e per non pagare si è costruito la casa al cimitero, così adesso mi tocca andare là a fare visita a Khorshid. Le luci della casa sono accese, si è fatto buio e il loro bagliore è l’unica cosa che mi indica la via di casa sua. Per terra ci sono un sacco di grossi sassi su cui ogni tanto inciampo. Maledico la mamma di Jasem. Mica poteva dirmi che tutti i bicchieri di farina andavano riempiti entro stasera? E perché quarantuno non andavano bene mentre quarantadue sì? Raggiungo la casa arrugginita. Si capisce che l’ha costruita il papà della mamma di Maryam: non è altro che un pezzo di lamiera spoglio e scolorito. Busso alla porta. Qualcuno grida: «Chi è?».
«Sono io, il figlio di Mehri la panettiera».
Ci vuole un po’ prima che vengano ad aprire. La porta resta socchiusa, è la mamma di Khorshid. Mi viene da pensare che si chiami Khorshid anche lei, hanno gli stessi occhi e la stessa capigliatura. Ha la fronte sudata e si morde le labbra. Khorshid fa capolino dalla fessura della porta e mi sorride. Nella scarpiera noto un paio di scarpe da uomo. Dalla porta socchiusa si intravede la tavola, c’è profumo di cotolette. La mamma di Khorshid mi chiede cosa voglio. Le spiego che voglio della farina perché la mamma ha fatto un voto e le ripeto tutto quello che aveva detto la mamma di Jasem. Con un sospiro di sollievo prende il bicchiere e sorride: «Aspetta».
Khorshid la segue. Sulla tavola ci sono tre piatti, uno è più pieno degli altri. Anche da noi ogni volta che la mamma prepara le cotolette, la porzione più grande spetta al papà. Le cotolette vanno a nozze con il pane della mamma e le verdure del cortile. Sotto alla finestra vicino alla tavola c’è un tavolino di legno con sopra un quaderno nero dietro al quale c’è qualcosa che brilla. Sbircio meglio, è un portachiavi dorato luccicante. La mamma di Khorshid appoggia il bicchiere sul tavolo, spezza il pane, ci mette sopra due cotolette, lo arrotola a mo’ di panino e me lo porge insieme al bicchiere di farina. Prendo il panino e il bicchiere. Esclama: «Buon appetito!».
Chiude la porta. Schiaccio il panino in tasca, mi assicuro il bicchiere sotto il braccio e, per quanto possibile, mi metto a correre. La farina nel bicchiere sballonzola tutta, e il vento un po’ se la porta via. Quando arrivo sulla soglia di casa il bicchiere è mezzo vuoto. La mamma me lo strappa bruscamente dalle mani e mi dà una tirata d’orecchi. Lancia un’occhiata alla chiazza di unto che il panino mi ha lasciato sulla tasca dei pantaloni e dice: «È per riempirti la pancia che ci è voluto così tanto?». Io la guardo. Molla la presa dall’orecchio. Vado a sedermi in un angolo. Aggiunge il bicchiere di farina al resto dell’impasto e con entrambe le mani ci dà dentro. Schiaccia la pasta con i pugni mentre il sudore le scorre dalla fronte e dagli occhi le lacrime. Guardo il ramo dell’albero, non c’è appeso niente. La mamma ha lasciato il sacchetto del pane secco sulla veranda. Butto il panino dall’altra parte del muro del cortile e infilo la mano unta nel sacchetto. Prendo un pezzetto e lo mordo. Scrocchia. Poi mi tiro su le maniche, mi lavo le mani e vado dalla mamma. Affondo le mani nell’impasto e l’aiuto a impastare. Mi guarda e sorride.