Il racconto che vi proponiamo, per gentile concessione dell’editore, è contenuto in due raccolte pubblicate da Arcoiris edizioni: Club Silencio e Bestiole.
"Club Silencio" è il secondo volume della collana tReMa e ha come elemento conduttore (liberamente declinato da ogni autore) il film Mulholland Drive di David Lynch e il tema del deragliamento identitario, del doppio, della deformazione della narrazione.
I protagonisti di Bestiole sono individui intensamente umani, animali complessi con più volti, capaci di assistere e godere del dolore altrui e in cui la malvagità prevale e sembra vincere la partita.
Di seguito potete leggere il racconto di Kianny N. Antigua, autrice caraibica vincitrice di svariati premi e autrice di numerose raccolte, romanzi, libri per bambini, poesie.
Gioco di bambole
di Kianny N. Antigua.
Traduzione di Barbara Stizzoli
Quando ero bambina adoravo giocare con le bambole: fare i loro vestiti, pettinarle e immaginare per loro mondi meravigliosi.
Rubavo i collant di mia nonna e facevo vestiti attillati per le mie barbie, ah, perché mi piaceva giocare solo con le barbie; le altre bambole non erano belle come le barbie e non erano magre come le barbie e non erano bianche come le barbie né avevano i capelli belli come quelli delle barbie. Le barbie erano bellissime e io adoravo giocare con loro.
Quando mamma scappò a Porto Rico, l’unica cosa che le chiesi fu di portarmi tante barbie nuove quando sarebbe ritornata perché, nonostante avessi cura delle due che già avevo, stavano diventando brutte; una aveva i capelli molto corti perché un giorno si erano impigliati e avevo dovuto tagliarglieli per togliere il nodo e adesso i capelli le si drizzavano. All’altra, Ivé aveva morsicato le mani, anche se ancora oggi dice di non essere stata lei, io so che è stata lei, per questo bruciai la camicia della sua uniforme scolastica e dopo, siccome le presi per colpa sua, affogai il gattino che le aveva regalato la sua madrina.
Ecco, l’unica cosa che volevo era che mamma mi portasse un sacco di barbie da New York e mi assicuravo di ricordarglielo ogni volta che telefonava; fin quando smise di telefonare e basta. La cosa buona fu che un giorno venne mia zia, la madre di Ivé, da Curaçao, a farci visita.
Oltre a essere arrivata, bellissima, con i capelli stirati, ci ha portato i vestiti e una barbie per una. L’unica cosa è che la stramaledetta ha portato una barbie bianca e una nera e ha dato la bianca a Ivé.
—Ma Ivé è più negra di me.
—Si, ma è più piccola. E comunque, tutte e due le bambole sono belle e hanno anche gli stessi vestiti.
Ed era vero, le bambole erano identiche, come se fossero state gemelle, ma a una l’avevano lasciata bruciare nel forno. Avevano addirittura lo stesso vestito lungo e rosato. Ma a me non importava, la mia era nera e la iettatrice di Ivé me l’avrebbe pagata. E glielo dissi, «continua così, tanto tua madre se ne va di nuovo». E lei che fece, niente, continuò a giocare con la sua bambola bianca, mettendola a sedere sotto il cespuglio di dalia, facendola camminare in aria in modo da non farle sporcare il vestito, facendole il bagno nuda nel serbatoio dell’acqua, provocando in me invidia solo perché sua madre era lì, a fare il bagno con lei, pettinandola con gocce profumate (non quella merda che puzzava di cocco che mi metteva mamma sulla testa e che non scioglieva niente, mi lasciava soltanto la testa oleosa e che colava). Ci portava anche a mangiare pizza e gelato. Io andavo perché in quei giorni nonna non cucinava, ma me le stavo segnando tutte le cose che faceva Ivé, una per una.
E come tutti sapevamo, due settimane dopo, sua madre andò via di nuovo e la lasciò sola come il gatto. Alla barbie nera la decapitai e, alla fine, furono tre.