Bairro Alto, di Fabio Iuliano

Radici edizioni porta in libreria Oceans, di Fabio Iuliano: un racconto che sa di saudade e serendipity, di sale dei mari del Nord. Tre città e tre tempi, per illuminare con i riflettori lo spicchio di palco occupato da chi cerca di lasciarsi alle spalle le proprie cicatrici.

Cattedrale pubblica un estratto dell’incipit per gentile concessione dell’editore.

Bairro Alto
di Fabio Iuliano

Ci rivedremo in quel luogo dove le ruote del tempo si incrociano
Leiji Matsumoto

Lisbona, 7 gennaio 2019

“Do not feed the musicians”. Scritto in rosso, su un cartello bianco che finisce con una freccia orientata verso il percussionista. Dovrebbe chiamarsi César. Célia, l’altra metà del duo in acustico, ha messo il cappello a terra, tra l’ampli della Fender e l’asta del microfono. È rivolto verso l’alto, con piazzato dentro un biglietto: “Tip”.
“Do not feed the musicians” – non dare da mangiare ai musicisti – ma lascia pure un’offerta, se vuoi, non fiori, opere di bene, pensa Simone seduto davanti a una Sagres.
La birra scende molto meglio della musica: l’esecuzione di Redemption Song è stramba, più vicina alla versione ubriaca di Strummer che a quella di Marley. Simone avrebbe voglia di pescare le noccioline dai piattini sul bancone e giocare a fare centro col cappello delle mance.
L’interpretazione è tanto maldestra da farlo tornare con la mente alle jam sul palco dell’Uplands Tavern, ai tempi dei giovedì anonimi di Swansea, la città dove ha imparato davvero a suonare la chitarra.
Una borsa di studio da spendere per un corso universitario di specializzazione in Creative Music Technology. Un ingaggio garantito – sessanta sterline a serata per almeno un concerto a settimana – e un campus niente male, con bacheche su cui affiggere annunci di ripetizioni di pratica e solfeggio e alzare altri soldi per spese varie ed eventuali. Da un docente del Cymraeg Department si era fatto scrivere dei biglietti promozionali in gallese e guadagnava qualche ulteriore sterlina pubblicando articoli su testate musicali, cartacee e online.
Mesi a fare la spola tra le Uplands, il Taliesin Art Centre e la Main Library, per poter un giorno raccontare ai nipoti che il Galles valeva il prezzo del biglietto, al di là delle immancabili dosi di rugby, beer, sheep, hens e videoritratti di Catherine Zeta-Jones.
Aveva stretto una relazione con Christelle, una biondina còrsa della Ty Beck House, dottoranda in Economia. Si erano incontrati durante una festa di musica revival organizzata per degli studenti Erasmus che frequentavano l’ateneo. Era una di quelle serate nei pub che avevano raccolto l’eredità e le playlist dell’Hungry Bear, chiuso nel 2006, col dj che spaziava dai Bon Jovi a Boy George, da Livin’ on a Prayer a Karma Chameleon e poi in mezzo Edie Brickell con What I Am e le Spice Girls con Wannabe. A volte ti ritrovavi a ballare The Bad Touch dei Bloodhound Gang oppure le hit da donna-che-non-deve-chiederemai di Shania Twain. Quando il dj era particolarmente in forma, si arrivava a fine serata con Darude e la sua tempesta di sabbia.
C’era intesa fra Simone e Christelle. Si volevano bene, al punto da immaginarsi nella stessa casa, quando non nello stesso letto, almeno per i successivi vent’anni, mese più mese meno. Gli occhi chiari della ragazza, severi ma rassicuranti, lo cullavano in quella proiezione, regalandogli l’illusione di vivere nel migliore dei momenti possibili.
Fino a quella notte di giugno, quando arrivò lei a riempire tutto il vuoto che Simone neanche sapeva di avere dentro.
Dopo quella notte, il buio.
Sono già passati tre anni, ma è come se avesse albeggiato da non più di tre ore. Quella notte è rimasta impressa a fuoco nella sua anima, più bruciante delle manette che gli avevano stretto ai polsi a Parigi, vent’anni prima. Il riverbero di quegli strani mesi, che avevano fatto seguito agli attentati alle Twin Towers, avrebbe condizionato pensieri, reazioni e comportamenti di milioni di persone e aveva investito in pieno la psiche di un Simone poco più che ventenne.
Era stato fermato dalla Gendarmerie per aver gettato a terra una Harley Davidson parcheggiata davanti a una fermata della Metro, mentre cantava la Marsigliese a torso nudo. Così, senza alcun motivo apparente. Un muro di nebbia nella testa che si dissolveva in tre complesse di Carbolithium® da 300 milligrammi ciascuna o, in alternativa, in due compresse di Lithium Resilient™ a lento rilascio, ponendo un freno agli sbalzi di umore tipici del disturbo bipolare con il quale, dopo quel disastro, aveva giocoforza imparato a convivere, ça va sans dire.
“È acqua passata”, si è ripetuto negli anni, affidando quella storia di obiettivi, telecamere e trattamenti sanitari obbligatori all’Espace Maison Blanche alle pagine di un taccuino, che era passato nelle mani di un collega empatico e poi in quelle di un giovane editore tanto coraggioso da pubblicarla. Che strana sensazione veder scorrere la tua vita fra le dita di altri. È come specchiarsi nella parte concava di un cucchiaio in cui l’immagine appare capovolta sia in orizzontale sia in verticale.
L’episodio di Parigi è parte di un racconto da guardare ormai con occhi adulti. Un gioco fatto di regole prestabilite, senza molte possibilità di scelta.
“Acqua passata non macina più”, vorrebbe poter dire anche ora, davanti alla sua birra, ripensando a quella notte di tre anni fa che invece si sente ancora serpeggiare dentro indifeso come un bambino. Un gioco le cui regole sono da creare, da cui sarebbe bello poter tornare indietro. Ma non si può.
Ne è consapevole e si accontenta di passare da un pensiero al successivo con la stessa velocità con cui César e Célia switchano da Bob Marley alle note di Mr Jones dei Counting Crows.
Célia, portoghese – a volersi fidare del manifesto – ha un bell’American accent. Dicono che il vedere film in lingua originale possa fare la differenza.
“Non sarebbe male vivere da queste parti”, pensa Simone appoggiando sul tavolo i suoi sensi stanchi e mischiandoli con la ginjinha, un liquore a base di amarene che ha imparato ad apprezzare appena sbarcato all’aeroporto Portela. Alle 9 del mattino. Da quando Slash ha inciso quel suo It’s Five O’Clock Somewhere, è sempre più facile incontrare baristi capaci di trasformare in qualunque momento il bancone di un aeroporto in uno dei peggiori bar della città. Tanto da qualche parte del mondo saranno pure le cinque del pomeriggio.
La ginjinha lo trasporta con la mente a casa, perché è simile alla ratafià, un liquore dolce tipico della sua zona. Non sono poche le cose che Lisbona e L’Aquila hanno in comune. Sono unite dal legame con la terra e le sue sventure – hanno subìto terremoti che le hanno segnate e ridisegnate – ma anche dal baccalà, che nella città lusitana si cucina in mille modi e nel capoluogo abruzzese, invece, rappresenta da sempre la rara possibilità di mangiare pesce in montagna. Era stata sua zia Maria a spiegargli che il baccalà all’Aquila era un piatto tradizionale della festa grande e che arrivava dalla costa insieme alle aringhe. Si cucinava baccalà nelle ricorrenze e all’entrata della Quaresima.
Ma un fil rouge tra le due città si ritrova, per molti versi, nel carattere degli abitanti: chiuso in una iniziale diffidenza che si apre progressivamente e con genero sità. Persino il modo di parlare non è troppo diverso, specie nel suono delle “sh” e delle “nd”, tipico dell’entroterra abruzzese. Un dialetto che si ostenta in branco e che ci si sforza di attenuare mentre si flirta, stemperando una birra sfacciatamente tiepida con una citazione sfacciatamente aulica.
Simone, comunque, si è sempre considerato un montanaro atipico. Uno di quelli nati con la malinconia del mare lontano, delle notti scandite dalle onde e dagli accordi di un canzoniere. Notti umide sulla spiaggia. Le sagome delle barche dei pescatori all’alba, in lontananza. Una chitarra e una sfilza di Peroni vuote, allineate sui bordi di un pattino a riva. Nei mesi più freddi gli ha sempre attraversato le vene quella mancanza. La nostalgia delle vacanze estive. Sulla sabbia, del resto, aveva avuto anche la prima esperienza con una ragazza, poco più grande ma molto più esperta di lui.
Le sinapsi rimbalzano nella testa di Simone che, puntando i gomiti sul legno del bancone, osserva una vecchia bicicletta fissata al soffitto, da cui pende una quantità notevole di reggiseni di ogni misura e foggia. È una trovata dei gestori del bar: per le clienti disposte a sfilarsi il reggiseno e consegnarlo, tre shottini in omaggio!