Dal 20 Ottobre, minimum fax porta in libreria L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans, tradotto da Assunta Martinese.
Danielle Evans, tra le più acclamate giovani autrici statunitensi, si concentra su specifici momenti nelle vite dei suoi personaggi in cui sembra che un equilibrio fragilissimo sia sul punto di spezzarsi, finestre in grado di illuminare l’inestricabile intreccio di colpa, resistenza, vergogna, forza, cordoglio, potere e amore di cui si compone la storia americana. Sette toccanti racconti che ci costringono a confrontarci con i temi della razza, della cultura, e soprattutto della storia.
Cattedrale propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.
L’ufficio delle correzioni storiche
di Danielle Evans
Il nostro ufficio era nascosto in fondo a un corridoio in uno dei labirintici edifici brutalisti della città. Non mi era mai dispiaciuta l’architettura imponente di Washington; quando ho capito che avrei dovuto trovarla brutta e non funzionale e accogliente ero ormai al college. Ma ero cresciuta in mezzo a quell’architettura, ero cresciuta idealizzando le persone che lavoravano in edifici come questo, e comunque ci tenevo sempre a precisare che la parola brutalismo non era nata da un giudizio estetico ma da «cemento grezzo» in francese. Da quando avevo iniziato a lavorare all’istituto avevo dovuto correggere già sette volte alcune affermazioni sull’etimologia del termine. Di solito queste piccole correzioni mi facevano sentire penosa e pedante, ma quella in particolare mi piaceva farla, mi piaceva immaginarci – non solo i miei colleghi in ufficio ma tutti i funzionari pubblici in città – come persone impegnate a creare qualcosa di solido col materiale grezzo che ci era stato dato, mi piaceva pensare che ci trovavamo nell’ambientazione giusta per svolgere il nostro lavoro.
Naturalmente, essendo un’agente operativa, è raro che io trascorra tutta la giornata in ufficio. Normalmente quella libertà mi sembrava un lusso, ma adesso era giugno – non ancora la parte peggiore dell’estate, ma faceva già così caldo che uscivo dai miei giri quotidiani imperlata di sudore ed ero in costante ricerca di pretesti per stare al chiuso. Certi giorni entravo in negozi pieni di souvenir kitsch e correggevo le date sbagliate solo per godermi l’aria condizionata. Alla fine di tutto, avrei ricordato quanto spesso mi ero annoiata all’inizio di quell’estate, quanto mi ero preoccupata che il nostro lavoro stesse diventando insignificante, quante volte mi ero chiesta se mi sarebbe capitato di nuovo nella vita di sentirmi parte di un’impresa rilevante.
L’Istituto per la Storia Pubblica mi aveva reclutata quando insegnavo storia alla George Washington University, e in origine il progetto aveva una visione grandiosa. Un’ambiziosa deputata neoeletta aveva chiesto dei fondi per mettere una persona laureata in storia in ogni distretto del paese, per contrastare quella che lei definiva «l’attuale crisi della verità». Fu presentato come un nuovo progetto occupazionale in ambito pubblico destinato alla classe intellettuale, visto che molti di noi ultimamente si erano ritrovati a fare gli autisti, consegnare la spesa e svolgere lavoretti su commissione per arrivare a fine mese. I nuovi posti di lavoro nel dipartimento governativo avrebbero messo a frutto quelle lauree e sarebbero stati relativamente ben pagati. La deputata immaginava una rete nazionale di storici e fact-checker, un cordiale esercito di cittadini devoti a rendere la verità talmente accessibile e allettante che sarebbe stato impossibile ignorarla. Eravamo partiti come istituto di ricerca, sotto la direzione della Library of Congress: una specie di National Institute of Health per far fronte a un altro tipo di emergenza sanitaria. Eravamo la soluzione a decenni di cattiva informazione e deliberata disinformazione. Il nostro compito era proteggere la memoria storica e non attaccare briga (Direttiva 1) o correggere le interpretazioni che le persone davano alle notizie di cronaca recenti (Direttiva 2).
L’energia postelettorale che ci aveva creati si era esaurita quasi immediatamente; l’ex deputata adesso faceva l’opinionista in televisione. All’istituto eravamo quaranta in tutto, venti dei quali di stanza a Washington. Ora che i parametri della nostra missione erano stati ridimensionati capitava spesso che la gente ci scambiasse per guide turistiche troppo zelanti o logorroici impiegati museali che si erano allontanati dalla casa base. Alcuni miei colleghi ci marciavano. Bill gironzolava attorno ai monumenti correggendo i turisti che avevano nozioni sbagliate, spesso limitandosi a leggere ad alta voce le targhe che avevano sotto gli occhi; Sophie raramente si allontanava dai giardini dello Smithsonian; Ed passava tutta la giornata in qualche birreria, ma ogni settimana presentava un verbale con l’elenco delle correzioni apportate, ed era talmente lunga e plausibile che nessuno avrebbe saputo dire se era un alcolizzato particolarmente funzionale o un talentuosissimo scrittore di dialoghi fittizi.
A quel punto lavoravo all’Istituto per la Storia Pubblica da quattro anni, e volevo prendere il mio incarico molto sul serio. Per evitare di scivolare nella routine, ogni mese mi assegnavo un quartiere diverso di Washington. A giugno ero a Capitol Hill, e poco dopo aver corretto un turista convinto che il Rayburn Building fosse intitolato a Gene Rayburn, mi resi conto che era ora di pranzo. La zona dove mi trovavo era piena di ristoranti i cui nomi erano giochi di parole che vendevano costosissimo comfort food da banconi cromati ostentatamente vintage; tutto mi appariva sinistro, e avevo appena optato per la pizza quando passai vicino a una pasticceria con la tenda rosa all’ingresso sulla quale in un corsivo arzigogolato che imitava la glassa c’era scritto: bella e tonda. Il nome era orrendo – voleva essere un doppio senso e io stentavo anche a capire il primo – ma era il compleanno di Daniel, e in vetrina notai un elaborato alberello di cupcake, con collinette rosse e dorate e color cioccolato. I cupcake erano una cosa leggera e offrivano la possibilità di scegliere, pensai, quindi entrai e passai in rassegna i gusti prima di decidere che i cupcake non andavano bene: portare un vassoio di cupcake gli avrebbe fatto pensare che ero una bambina incapace di decidere, oppure lo avrebbe portato a immaginare lo scenario opposto – una me in versione casalinga che entrava trionfante con un vassoio all’incontro scuola-famiglia, come se stessi aspettando che lui mi offrisse quel futuro. Avanzai lungo il bancone, oltre le torte nuziali e le riproduzioni iperrealistiche dei monumenti di Washington, e le torte a forma di scarpe e bottiglie di champagne e cartoni animati, cercando qualcosa di un po’ più discreto.
L’errore era così piccolo che la me di quattro anni prima lo avrebbe giudicato trascurabile. Su una delle torte c’era scritto juneteenth con la glassa rossa, circondata da fuochi d’artificio e stelle rosse bianche e blu. Il volantino appiccicato sul banco sopra la torta incoraggiava i clienti a ordinare per tempo una torta per la festa del Juneteenth: Il Quattro Luglio lo conosciamo tutti!, diceva il foglietto. Ma perché non iniziare a celebrare la libertà con qualche settimana di anticipo e festeggiare l’anniversario del Proclama di Emancipazione? Dillo con una torta! Una delle due ragazze dietro il banco era nera, ma intuivo che i proprietari non lo fossero. Il quartiere, i prezzi, la stucchevole musica acustica diffusa dalle casse lucide: conoscevo tutte le parole della canzone, ma ogni singolo dettaglio in quel posto dichiarava a chi fosse diretta. I miei ricordi della festa di Juneteenth a Washington erano i miei genitori che mi portavano a una grigliata in giardino a casa di amici, a mangiare budino alla banana e crostata di pesca e torta alla fragola fatta con il mix Jell-O; a nessuna di quelle grigliate avevo visto una torta di pasticceria da 75 dollari che aggiungendo un sovrapprezzo poteva essere realizzata a forma di borsa griffata. L’incipit del volantino – quel lo conosciamo tutti – non era rivolto a quelli che già festeggiavano il Juneteenth, ma ai capufficio che si sarebbero sentiti obbligati a non trascurare una festività afroamericana, o che semplicemente volevano una scusa per un dessert diverso.
«Mi scusi», dissi, con il dito ancora poggiato sul bancone sopra il volantino. La ragazza nera si voltò.
«Vuole quella?», chiese.
«No», dissi. «Ciao. Sono Cassie. Sono dell’Istituto per la Storia Pubblica».
La donna bianca si voltò, ma entrambe mi fissarono senza dare segno che quel nome dicesse loro qualcosa.
«Una sciocchezza», dissi. «Non diamo ordini né niente. Siamo un servizio pubblico. Come il 311! Ma ho pensato che magari vi è utile sapere che il volantino non è del tutto corretto. Il Proclama di Emancipazione è stato emesso nel settembre 1862. Il Juneteenth è diventato la festa di tutti gli schiavi liberati e adesso si celebra a livello nazionale, ma in realtà commemora la data in cui gli schiavi del Texas appresero che erano liberi, a giugno 1865, dopo la fine della guerra civile».
«Uhm, ok», disse la donna bianca.
«Vi lascio un biglietto. Una piccola correzione».
Tirai fuori il nostro sticker ufficiale – con la costosa stampa di una foca sollevata su carta olografica; era facile farne delle imitazioni ironiche, ma quasi impossibile farne repliche accurate. Digitai la correzione nell’unico lusso futuristico concessoci dall’ufficio – la stampante portatile che avevano dato a tutti noi quando ci avevano assunti – e ci infilai lo sticker per stampare il testo. Apposi la data e la firma, staccai la pellicola e lo appiccicai al bancone accanto al volantino.
«Ecco», dissi. «Niente di che».
Sorrisi e guardai negli occhi entrambe le donne. Quando chiedevamo alle persone di dedicarci il loro tempo non dovevamo essere aggressivi – dovevamo correggere le informazioni sbagliate nel modo più rapido e gentile possibile (Direttiva 3) – ma dovevamo mostrarci disponibili a fornire ulteriori informazioni o a intrattenere una conversazione più lunga se qualcuno desiderava saperne di più (Direttiva 5). Dovevamo essere pronti a citare le fonti (Direttiva 7).
«Vuol comprare una torta?», mi chiese la ragazza nera. «O è venuta per il volantino?»
«Ah», dissi. «Sì. Sto uscendo con un ragazzo ed è il suo compleanno. Cercavo di decidere che torta prendere. Ma non lo so, forse sono meglio i cupcake? Lei cosa mi consiglia?»
«Signora, se va a casa di uno con una torta di compleanno e quello si lamenta allora mi sa che non ci esce più. A prescindere dalla torta».
«Ha ragione», dissi. «Mi dia quella».
Indicai una torta che si chiamava blackout. «Come un Oreo senza la crema», diceva la descrizione. Potevo dire a Daniel che gli avevo comprato la torta più nera che avevano. Le scatole erano rosa con elaborate scritte in oro; chiesi quella con la scritta bella e tonda. Avrei lasciato decidere a lui se fare la battuta sconcia o lamentarsi del fatto che negozi di proprietà dei bianchi facevano appropriazione culturale, o optare per il commento scontato sugli Oreo. Avrei tralasciato la parte in cui avevo fatto una correzione. Daniel era un giornalista, scettico sia per indole che per mestiere, e il mio lavoro gli sembrava – nella migliore delle ipotesi – sospetto.
Non era l’unico. Prima di andarmene dalla George Washington University per venire a lavorare all’istituto avevo una traiettoria in ascesa, ero stata fortunata. Potevo recitare a memoria il discorso di avvertimento che mi avevano fatto e che io avrei dovuto fare agli studenti più promettenti: se si voleva lavorare nel proprio campo bisognava essere pronti ad andare ovunque, a lasciare chiunque, e lavorare per stipendi ridicoli, e anche facendolo i posti a disposizione erano scarsi, e ancora più scarse le possibilità di essere scelti tra i mille dottorati che si candidavano. Ma io avevo ottenuto un contratto di quattro anni come visiting professor in un’università del Midwest, e dopo appena un anno mi avevano offerto un lavoro ben pagato che mi avrebbe avviata alla carriera accademica, un posto all’università non solo in una città importante, ma nella città dove ero nata. La Washington della mia infanzia non esisteva più, ovviamente, e se adesso molte parti della città mi sembravano familiari era solo perché cominciavo a dimenticare com’erano prima, ma restava l’unico posto in cui mi fossi mai sentita a casa. La serendipità di ottenere un posto accademico proprio lì rasentava la magia, in un mercato in cui essere «professori» quasi sempre significava tenere sette corsi in quattro campus diversi senza assicurazione medica e senza il minimo sindacale.
Quando partii sentii la mancanza dei miei studenti e dei miei colleghi, mi mancava lavorare ai manoscritti di cui nessuno mi chiedeva più niente – i miei anni di ricerca su Odetta Holmes ancora negli archivi. Mi mancava l’eterna preadolescenza delle feste universitarie e, lo ammetto, mi mancava il fatto di essere sulla vetta – l’intera impalcatura si stava sgretolando, ma io mi sentivo sulla vetta. Tuttavia, quando si era presentata l’opportunità di lavorare per l’Istituto per la Storia Pubblica, avevo mollato tutto per andare a fare qualcosa che, nell’immediato, mi sembrava più importante.
I miei genitori si erano beati nel dire a tutti che ero la professoressa Jacobs, docente universitaria di storia, e adesso non sapevano più cosa dire quando qualcuno chiedeva che lavoro facessi. Avevo provato a spiegargli che professore, perfino nella sua più rosea incarnazione, ormai significava sottostare anno dopo anno alla tirannia di valutazioni e tassi di iscrizione, significava tradurre le cose che amavi perché le amavi e alle quali davi valore perché avevano valore in aziendalese, per convincere gli amministratori che i tuoi studenti erano utili al mercato del lavoro. Significava sentirti dire che il problema eri tu, perché coccolavi troppo gli studenti, tu, la loro ultima possibilità di arrivare preparati a un mondo di squali, ma il problema eri tu anche quando gli studenti entravano in crisi, perché non avevi allertato immediatamente qualcuno del fatto che uno studente costituiva un rischio per se stesso, perché non avevi un piano pronto per mettere al sicuro la tua classe nel caso in cui uno studente si fosse presentato armato in un edificio vecchio di cinquant’anni dove le porte non si chiudevano più. Significava sentirti dire ogni anno con tono trionfante che la facoltà non era mai stata così inclusiva e poi qualche mese dopo, durante una cupa riunione, vederti consegnare un elenco di tutte le misure di autoregolamentazione che non era più il caso di lasciare al giudizio dei docenti e di tutti i parametri valutativi oggettivi che da quel momento in poi andavano osservati in modo più fiscale. Significava ricevere consigli benintenzionati da colleghi più anziani che si rifiutavano di ammettere che l’istituzione alla quale avevano consacrato la loro vita non esisteva più per come l’avevano conosciuta, e sentirti dire da colleghi più precari che eri stata fortunata e non avevi di che lamentarti.
Era stato difficile convincere la gente, perfino i miei colleghi all’isp che erano stati reclutati tra le schiere di disoccupati con un dottorato – che davvero avevo scelto io di andarmene. Il modo migliore in cui riuscivo a spiegarlo era che amavo il mio lavoro e stavo male a vederlo sparire.
© Danielle Evans, 2020 Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Ayesha Pande Literary
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