Invocazione, un racconto di Alfredo Zucchi

Edicola Edizioni porta in libreria Demolition job. Lettere all’usurpatore di Alfredo Zucchi. Cinque racconti che partono dall’evidenza della deflagrazione per restituire un’inattesa utopia della costruzione.
Alternando lo sviluppo dell’azione, spesso sospesa e decontestualizzata, alla riflessione teorica, Alfredo Zucchi sceglie la strada dell’accumulazione e dell’esplosione formale per affrontare temi come l’autorità e la morte, il desiderio e l’amore, il sogno e il linguaggio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


INVOCAZIONE
di Alfredo Zucchi

Tornare ogni volta è stupendo, è rimasto tutto uguale: le pozze sul basalto tra i vicoli sanno di pesce vivo, c’è un’aria salata che viene da est e sembra di stare in un grembo acquatico appena sguainato, apri gli occhi e le cose non sono ancora putrefatte. Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.
Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.

C’è un affare nel mezzo, in piazza, un palco e uno schermo, qualcuno si sgola in piedi per avere l’attenzione dei passanti ma questi s’infilano a imbuto nel mercato coperto a due passi, guardano il tizio che grida e ridono e lui finge una delusione lacerante. Chi sa se dentro c’è ancora il banchetto del baccalà con la bionda che sciacqua, dissala e sviscera come Diana nel bosco dei pesci.
Mi imbuco a spallate, è un festivo e la gente si riversa dentro come al bordello – ogni corpo dice “ho fame” e io pure rispondo che ho fame e voglio scopare. Ma è rimasto tutto uguale: il metallo a vista sul soffitto, le vetrate, i rivoli a terra – sale e acqua, sangue, acqua e visceri – che scorrono come il tappeto rosso delle occasioni uniche. Ogni volta è la prima e l’ultima, l’unica, questo ormai l’ho imparato.
Scorgo, infine, in un angolo, il più remoto del mio sguardo, il banchetto e la donna. L’ultima volta era proprio lì, vicino ai crostacei? Non mi risulta. Non mi scompongo: mi avvicino e incrocio i suoi occhi, sorridiamo insieme. Mi fa cenno con la testa, con le braccia e le mani eterne, dice “un momento e sono tua” e io uguale col capo le dico che il tempo è una pozza di visceri e pinne smembrate. Fisso l’animale morto disposto in vaschette diverse secondo i tagli e i gradi di salatura – io voglio i pezzi alti e spessi, non ho mai voluto altro.

Poi la bionda ritorna, lo sguardo ostile. Qualcosa è andato storto. Mi chiedo se la mia postura ha tradito l’urgenza, se la mia voce ha infranto un codice ignoto – forse un codice nuovo, o uno che ho dimenticato, dopotutto torno solo due volte l’anno, sono uno straniero. Diana si avvicina al banco, senza degnarmi dello sguardo chiede chi è il prossimo.
Io alzo la mano, il braccio teso, mi sembra di toccare il soffitto con un indice che non mi appartiene – alzo la voce e chiedo quattro pezzi alti, i più alti e spessi che esistono. Lei mi fissa, sorride e si volta di lato, dove un altro richiama la sua attenzione. C’era prima il signore. Le guardo le mani: non è vero, rancida vecchia – se una volta sono stato tuo, ora non lo sono, non so più di chi sono. L’uomo dietro di me ha la voce calda, ordina tre pezzi alti e due alette per il fritto – è il momento, mi dico: come la massa liquida a un passo dal foro del tubo striminzito da cui esploderà, è qui che il dramma ha propriamente inizio. Prendo a insultarlo strillando nella lingua che è stata la mia (ricordo dal fondo del tubo infinite varianti della bestemmia che riempie la bocca), lo aggredisco fissando la bionda che mi ride in faccia – così, mi dico, solenne ma incerto, vendicatore delle occasioni uniche, così io privo te, usurpatore dei pezzi alti, del mio sguardo, e me ne riapproprio; e privo te, bionda dei pesci morti, del mio impeto, e lo disperdo nel tubo del tempo.

Infine mi volto. Esaurita la catena del dubbio, i rivoli d’acqua e visceri per terra si prendono il naso e lo stomaco. Ora affoga, dico mentre mi sgonfio, regredisci al brodo dei primordi, anche tu come tutti. La tua bocca sia la fonte putrefatta, la sorgente morta. Mi volto infine e lo fisso, senza impeto, lo guardo in faccia e quell’uomo, l’usurpatore, sono io.