La pazienza dell’acqua sopra ogni pietra, di Alejandra Kamiya

di Debora Lambruschini

 

“Scrivere nel senso stretto e fisico, di sedersi con un pezzo di carta o un computer, è una piccola parte della scrittura. La mia condizione di scrittrice permea ogni gesto, ogni atto, la mia percezione, ogni cosa della mia vita. È una specie di religione, nel senso che mi dà un centro di gravità per essere e trascendere. Quando parlo di trascendere non parlo del dopo morte ma della possibilità di essere nell'altro, di uscire da me stesso e di essere letto da un altro.Sono una scrittrice tanto quanto sono eurasiatica e latinoamericana, quanto sono madre e figlia: non posso smettere di esserlo in nessun momento. Nemmeno voglio farlo”.

 

Quando ho posato la raccolta La pazienza dell’acqua sopra ogni cosa della scrittrice argentina Alejandra Kamiya ho sentito l’urgenza di dialogare con l’autrice, confrontarmi con lei su alcuni aspetti della scrittura che mi avevano particolarmente colpita. Grazie a Gianluca Cataldo, ufficio stampa de La nuova frontiera, editore per cui la raccolta è approdata pochi mesi fa in Italia con la traduzione dallo spagnolo di Elisa Tramontin, ho potuto rispondere a questa urgenza: le parole di Kamiya sono misurate ed evocative al pari dei suoi racconti, lo scambio mi ha permesso di riflettere sul senso della scrittura, su una prosa tesa tra realtà e sogno e l’intersezione tra due culture, quella argentina per parte materna e quella giapponese del padre. Mi sono soffermata a lungo su quanto essere scrittrice identifichi Kamiya, una condizione che, come dice lei «permea ogni gesto, ogni atto», investendo ogni aspetto del quotidiano, la percezione del mondo. Scrivere, dunque, è qualcosa che va ben oltre l’atto in sé di sedersi alla scrivania davanti al foglio bianco, è la postura tutta con cui si osserva il mondo e lo si interpreta.
Nei racconti de La pazienza dell’acqua sopra ogni pietra questa postura si avverte piuttosto chiaramente: sono storie in cui tutti i sensi vengono chiamati in causa, le immagini si intrecciano a una scrittura evocativa, onirica a tratti, racchiuse nello spazio di una manciata di pagine ciascuna. Le etichette di genere sono labili come i contorni delle storie che rifuggono rigide categorizzazioni e di volta in volta si misurano con il reale, il sogno, l’incubo, la memoria, l’invenzione letteraria. Nel racconto di apertura, “Sola”, la protagonista, Eva – e la scelta del nome non è affatto casuale – , si aggira tra le stanze di casa che scopre improvvisamente vuote, avvolte in un’oscurità che attraversa ogni cosa. «Tutto può accadere nelle ore vietate alla luce» e tutto infatti è accaduto: accanto a lei nel letto non c’è traccia di Antonio, il compagno, le sue cose sono dove le aveva lasciate ma la sua presenza è come fosse svanita. Lentamente Eva si muove tra gli spazi vuoti della casa, del palazzo, per accorgersi che non solo Antonio ma tutti quanti intorno a lei sono scomparsi. Kamiya compone una storia dai contorni perturbanti, evoca altri mondi e altre narrazioni, tesa tra realtà e incubo. Un’atmosfera che si ritrova ne “Il bagno” dove al contrario però più che la scomparsa colpisce l’apparizione: una donna sconosciuta «seduta sul bordo della vasca da bagno» di Pola, lo sguardo ferito e fragile. È quasi un gioco di specchi, ciò che per un momento aveva i contorni del sogno assume la forma dell’incubo. Un’altra casa, ora è lei la donna seduta sul bordo della vasca.  
I racconti, dunque, sono sospesi tra due mondi, reale e immaginario, ma anche personale e finzionale: la narrazione si compie in tale intersezione ed è come se attraverso questa atmosfera anche le cose stesse restassero sospese, a partire dal giudizio sui personaggi e le loro scelte.

 

“[…] Non solo le mie storie si sviluppano all'incrocio tra il reale e l'immaginario ma anche la mia vita. I giorni passano lì, credo, che percepiamo e completiamo con le idee e le credenze che ci abitano. Per quanto riguarda il giudizio sui miei personaggi: cerco di non giudicarli, affinché agiscano liberamente, o almeno il più liberamente possibile.”

 

Lo spazio bianco della narrazione occupa una parte molto importante in questi racconti in cui ogni parola, dunque, è caricata di significato, amplificata dal sistema di immagini e simboli che li attraversa. Come lettori dobbiamo venire a patti con il mistero che non potrà mai essere pienamente svelato e calarci in quegli interstizi, trovare da noi la strada.

 

“Poi guardo le storie che ho, che, come dici tu, ognuna è stata scritta come un'unità chiusa, e penso a una forma, una scultura. E quindi organizzo le storie in modo da cercare quella forma e completarla”.

 

All’inizio della lettura riflettevo su quanta distanza ci fosse tra le due culture cui l’autrice appartiene e come questa distanza si traduca nella narrazione. Arrivata alla fine, in realtà, mi sembra di notare una compenetrazione ideale tra le due: è come se il mondo immaginifico di Silvina Ocampo, Mariana Enriquez e della grande tradizione del racconto femminile argentino, si sposi perfettamente alle atmosfere della tradizione nipponica.  

 

“Mi sembra che siamo di nuovo d'accordo: scrivo inserita nelle tradizioni a cui appartengo. Non so se la combinazione è perfetta come dici tu, ma so che è la combinazione di cui sono fatta. È impossibile scrivere racconti in Argentina senza sentire lo sguardo di Borges sulle mie spalle e, nel mio caso particolare, senza sentirlo anche sopra e davanti a me, perché lo ammiro fin da quando ero piccola”.

 

La scrittura, ancora, non come atto in sé ma come identità, percezione del mondo. Ecco, dunque, che i due mondi cui appartiene Kamiya si intersecano nel racconto, affondano le mani nella tradizione, la reinventano. Il perturbante, le atmosfere oniriche, il quotidiano, il realismo magico, la realtà, l’invenzione, il cuento argentino, la cultura giapponese e gli haiku: la voce di Kamiya si forma qui, in questo spazio nuovo, si fa fluida e tende ora all’una ora all’altra. L’esperienza personale entra nel racconto e assume forma letteraria, rielabora situazioni, sentimenti.

 

All’epoca essere giapponese era passato da sorta di disonore a vantaggio. Ero diventata “esotica”, e ciò che prima mi aveva procurato castighi ora sembrava essere una cosa buona. Non ho mai capito il meccanismo né ho mai potuto eluderlo. (“Luoghi buoni”, p. 66)

 

L’identità giapponese nel racconto “Luoghi buoni” passa attraverso fasi diverse di diffidenza e accettazione ma è soprattutto memoria: la voce narrante è quella di una donna anziana, fermata per strada da un ragazzo che vorrebbe donarle l’ultimo cagnolino rimasto da una cucciolata ma del quale lei inizialmente rifiuta di occuparsi per via dell’età; inizia qui il susseguirsi dei ricordi dell’infanzia e della vita adulta, scandito dai diversi cani che l’hanno accompagnata. In poche pennellate Kamiya evoca un mondo, il pregiudizio verso i giapponesi, le vessazioni da parte degli altri bambini, la consolazione dei momenti in compagnia del primo, amatissimo cane. Il tempo scorre veloce nel racconto, un ricordo ne evoca un altro e le cose mutano ma non si dimenticano. Il tempo, ancora, è scandito dai cani che danno misura anche dei rapporti, della perdita, delle relazioni.
Che siano avvolte da atmosfere oniriche o più marcatamente realistiche, le storie di La pazienza dell’acqua sopra ogni pietra sono particolarmente legate dal fil rouge delle relazioni affettive, di cui Kamiya interpreta varie sfumature. È soprattutto il rapporto genitori-figli a colpire in modo peculiare e la forma di accudimento che, in talune storie, si ribalta. “Le prove” è il testo più lungo e a tratti più doloroso di questa raccolta, ma anche il più intimo e ricolmo di affetto: attraverso la storia di una figlia che accudisce l’anziana madre, Kamiya dispiega davanti a noi la complessità dei sentimenti e, come negli altri testi della raccolta, la sensazione come lettori non è di osservare da fuori ma di abitare questa storia.

 

E penso che lei, che mi ha insegnato tanto, non mi ha insegnato a gestire questa cosa, a ridere, a dimenticare, a essere sorda, un’altra, lontana, a essere più capace. O forse l’ha insegnato e io non ho imparato: mia sorella si allontana sempre da mia madre e questo alimenta l’amore di mia madre per lei. C’è una forma di incontro in quella danza. (“Le prove”, p. 92)

 

Ci sono moltissime forme di amore in questi racconti, moltissimi sentimenti, che legano uomini e donne ma evidenti anche nel rapporto umano-animale, che Kamiya esplora con curiosità in un richiamo evidente alla tradizione cuentista sudamericana. La tradizione, dunque, l’influenza di Borges come citato dalla stessa autrice nel corso del nostro dialogo, rappresenta però le radici da cui si sviluppa una voce del tutto nuova, inafferrabile, sospesa tra due mondi e due culture di cui pare assimilare di volta in volta ciò di cui ogni racconto ha bisogno e arricchendo così una realtà letteraria in cui trovano spazio, da sempre, voci e narrazioni tanto diverse. Nella brevitas di queste storie – a proposito, vale la pena recuperare anche la raccolta precedente, Anche gli alberi caduti sono il bosco, pubblicata nel 2023 da Ventanas – c’è il mistero della scrittura, il convergere di due tradizioni letterarie, dal cuento agli haiku, dei due mondi entro cui Kamiya si muove da sempre, forse non appartenendo davvero né all’uno né all’altro. Una terra di mezzo, dove nascono le sue storie immaginifiche.

Il maestoso West di Annie Proulx

di Debora Lambruschini

 

Mi sorprende sempre come i libri possano dialogare fra loro, talvolta direttamente, altre lungo percorsi imprevedibili. Il rapporto di connessione tra loro però non è sempre così diretto, regolare, come si potrebbe pensare, ma si compone una mappa ideale di storie, autori, luoghi, interconnessi tra loro. Stavolta attraverso voci diverse prende vita un luogo, tra passato e presente, ben saldo nell’immaginario collettivo ma quasi sempre basato su stereotipi e pregiudizi, sulla leggenda dei suoi miti fondanti: il West, la frontiera, una storia di sangue, polvere, cowboy e lotta. Una storia di uomini, dove le donne hanno ben poca voce in capitolo, da un lato all’altro della narrazione.
E invece non è così. Un paio di anni fa è uscito per Black Coffee un gioiellino, Il conforto della vastità di Gretel Ehrlich, breve e puntualissima raccolta di saggi sul Wyoming composti tra il 1979 e il 1984 e che mi aveva molto colpita per la forza con cui l’autrice scardinava molti stereotipi sull’Ovest, a partire proprio dal mito dei cowboy e della Frontiera. Originaria della California, Ehrlich era arrivata in Wyoming per girare un documentario e da lì, alla fine, non se n’è mai più andata. Colpita da un grave lutto è proprio nella terra delle grandi pianure che sceglie di restare per curare il suo dolore e capire che fare della propria vita. Si immerge nella vita di un ranch e scopre che buona parte di quello che pensava del West è fondato su stereotipi ben lontani dalla realtà e inizia a scardinare molti preconcetti, tra cui l’idea di un mondo prettamente maschile. Il Wyoming e la vita in un ranch sono fatti tanto di durezza quanto di fragilità, di forza e di tenerezza: «Essere duri significa essere fragili; la tenerezza è l’unica vera forza» ed è su questi due poli opposti che si fonda la stessa figura del cowboy, emblema della frontiera.
Ehrlich è tra le ultime, in ordine cronologico, a dare un’altra rappresentazione dell’Ovest, libera dagli stereotipi su cui si è fondato il mito: prima di lei, un debito enorme verso Dorothy Johnson, la più importante scrittrice della frontiera, che ha saputo dare al genere western una connotazione letteraria e umana ben precisa. Per Ehrlich era il Wyoming, per Johnson il Montana, ma nello sguardo di entrambe la frontiera è una terra di contraddizioni e di stereotipi da abbattere. Al centro delle storie di Johnson ci sono uomini e donne molto spesso duri, come la vita di frontiera richiede di essere, ma anche profondamente umani, preda di dubbi, paure, fragilità. Uomini e donne, anglo e nativi, le cui vite sono raccontate con un’attenzione particolare al dettaglio, alla verità, basandosi su accurate ricerche storiche e restituendo al lettore quindi tutta la loro maestosa complessità.
È impossibile pensare alla frontiera e alle voci femminili che hanno saputo raccontarla senza tornare immediatamente ad Annie Proulx, al Wyoming che pulsa nelle sue storie. Ed è interessante che tutte e tre le autrici che ho citato, radicate nel territorio che hanno così magistralmente saputo raccontare, quei luoghi in realtà li abbiano scelti arrivandoci da altrove: Ehrlich, dicevo, dalla California, Johnson dall’Iowa, Proulx dal Connecticut. Come se fosse necessaria una certa distanza per affondare le mani nella realtà di quel luogo liberando lo sguardo da preconcetti, miti e leggende, e poterla così comprendere in tutta la sua brutale bellezza. Anche per Proulx, come per Johnson, raccontare significa prima di tutto andare a cercare la verità storica, comprendere e poi rappresentare le tradizioni, il territorio, le persone, i dettagli del quotidiano. Prima di dedicarsi alla narrativa – carriera iniziata a cinquant’anni con la prima raccolta di racconti, Heart Songs and Other Stories – Proulx è stata infatti una nota storica e giornalista del Vermont, dove si era stabilita per un master subito dopo la laurea in Storia. Lì si fonda questa lunga e fondamentale fase della sua vita, umana e professionale: si fa notare come autrice di articoli e libri di caccia e pesca, cucina e giardinaggio ed è sempre lì  prende avvio la carriera di narratrice – anche se la prima raccolta pubblicata è ambientata nel New England, dove ha trascorso l’infanzia e gli anni precedenti l’università – e dove si forma quella sensibilità verso la bellezza dei luoghi, il passaggio spesso devastante della modernità e le conseguenze del cambiamento. Una sensibilità che attraversa buona parte delle sue narrazioni, già a partire da Postcards (Cartoline, Minimum Fax 2023) del 1992, notevole romanzo che le valse il Pen/Faulkner Award. Proulx ha trovato la sua voce, quella che la porterà già l’anno dopo la pubblicazione di Postcards e il Pen/Faulkner Awards ad aggiudicarsi due dei più prestigiosi premi letterari degli Stati Uniti, il Pulitzer e il National Book Awards, a seguito dell’uscita di The Shipping News (Avviso ai naviganti, Minimum Fax 2018). Pochi anni dopo, l’approdo in Wyoming e le storie che hanno determinato la caratura letteraria dell’autrice: tre volumi per la serie Wyoming Stories (Close range del 1999, Bad Dirt del 2004 e Fine Just the Way It Is del 2008), in cui la fusione tra luogo e narrazione è totale e il tema western si fa letterario restando assolutamente reale.
Già apparse per editori diversi, le storie del Wyoming sono entrate stabilmente negli ultimi anni nel catalogo minimum fax – insieme ai romanzi di Proulx – e ora, a distanza di vent’anni dalla pubblicazione originale, è approdato in libreria anche l’ultimo volume della serie, Ho sempre amato questo posto (Fine Just the Way It Is) nella traduzione di Silvia Pareschi. Un progetto avviato nel 2019 con la pubblicazione del primo volume, Distanza ravvicinata e seguito nel 2022 da Cattive strade e che conclude quindi un percorso letterario importante.




Percorso che ha nella terra il suo fondamento: nella ricerca accurata su cui poggia ogni pagina scritta, nel desiderio di raccontare la realtà in cui è immersa e le sue contraddizioni, la bellezza crudele e le difficoltà. Quando parliamo di cantori dell’America rurale, di narrazioni di provincia, del rapporto fra uomo e ambiente che lo circonda, da Chris Offutt a Jack Bass, passando per Ron Rash, è alle storie di Annie Proulx che dobbiamo tornare, ai contrasti su cui poggia la narrazione, demistificata, brutale, piena di incanto.
Al cuore di ogni cosa, quindi, il rapporto con la terra, una natura inospitale, ostile ed estrema, che continuamente sfida l’uomo, lo mette alla prova:

 

Affittarono un ranch nella zona di Red Wall: casa di legno, e recinti sparsi qua e là che da lontano sembravano paletti lasciati cadere a caso. Il vento li isolava dal resto del mondo. Entrare in quella vorticosa corrente d’aria significava esserne respinti. Il ranch era alla deriva sull’altopiano. (da Distanza ravvicinata, “Il confine erboso del mondo”)

 

Qui è il vento che si insinua in ogni fessura della casa, più tardi sarà un decennio di siccità devastante con cui fare i conti:

 

Quei rancher che sperando nella pioggia si erano tenuti il bestiame furono presi in trappola come topi. Mentre l’estate si approcciava al suo rovente finale, il bene più prezioso per chi aveva le vacche era il fieno, e il prezzo del fieno eguagliava ormai quello dei rubini. Gli allevatori passavano ore al telefono e su internet cercando foraggio a prezzi ragionevoli. (da Cattive strade, “L’effetto trickle-down”)

 

«La cosa più importante nella vita è resistere», continuano a ripetersi tutti loro come un mantra. Resistere alla fatica del lavoro, alla terra ostile, all’isolamento che fa impazzire, al vizio del bere, al cambiamento. La solitudine è come un fil rouge che attraversa le storie e dà forma a quelle vite nel tentativo di combatterla, arginarla o venirne sopraffatti. Sono spesso storie di uomini, che dei sentimenti non conoscono le parole e spesso neppure i gesti. Come il vento, anche la solitudine si insinua nelle fessure, nelle relazioni:
C’è poco spazio per i sentimenti, meno che mai quando sono quelli “sbagliati”: eccolo lì, nella prima raccolta, il capolavoro, “Brokeback Mountain”. Pubblicato per la prima volta nel 1997 sulle pagine del New Yorker e acclamato da critica e pubblico, fissato per sempre nell’immaginario collettivo dal film di Ang Lee. È un gioiello, una storia struggente e brutale.

 

Se non ci pensa troppo sopra potrebbe nutrirgli la giornata, riportandolo ai vecchi tempi, a quei tempi di gelo sulla montagna, quando erano padroni del mondo e niente sembrava sbagliato. Il vento si abbatte sul caravan come fosse un carico di spazzatura che straborda da un camioncino, poi si acquieta, cessa, lascia che per un po’ ci sia silenzio. (“Brokeback Mountain”)

 

Un sogno, un ricordo, la vita in mezzo. Sono state fatte delle scelte, ci sono state delle conseguenze. E non è la sterile polemica che aveva suscitato in questo nostro angolino di mondo a farne un racconto tanto importante, quanto la scrittura tesa al massimo, la bellezza della rovina, i gesti minimi laddove non possono le parole, l’ambiente, la rottura e il rimpianto.

 

Come ampie nuvole di vapore sprigionate da una fonte termale in inverno gli anni di cose non dette e non dicibili, le ammissioni, le dichiarazioni, le vergogne, le colpe, le paure, si levarono intorno a loro. Ennis rimase come colpito al cuore, la faccia grigia segnata, contratto, gli occhi chiusi, i pugni stretti, poi le gambe cedettero e cadde sulle ginocchia. (“Brokeback Mountain”)

 

«L’immensa tristezza delle pianure a nord si riversò su di lui» ed è davvero difficile trovare parole più adatte per descrivere la perdita. “Brokeback Mountain” è un racconto di struggente bellezza ma non il solo esemplare della capacità letteraria di Proulx e si inserisce infatti perfettamente nel solco delle storie del Wyoming: un intreccio di mancanza, solitudini, nostalgia per un passato glorioso che forse non è mai davvero esistito; di una natura inospitale e sfidante, di strenua resistenza. Qui si muovono le storie di Annie Proulx, e coprono un arco temporale molto ampio, da fine Ottocento fino ai giorni nostri, per raccontare una terra, i desideri che vi si mescolano, cambiamenti e crisi, e gli uomini e le donne che la abitano, tra lampi di lirismo e brutalità. Lontana dal mito e dagli stereotipi della frontiera, il Wyoming di Proulx è un luogo dove il cambiamento ha inciso ferite profonde nel paesaggio e nelle persone:

 

Ma mentre contemplava con gioia quel territorio aspro, Hi notò i cambiamenti sopraggiunti nei due anni che aveva passato a estrarre carbone. C’erano steccati là dove non ce n’erano mai stati, e la vecchia pista White Moon era diventata una strada provinciale, con tanto di fossi e tubi di scolo. C’erano ciocche di lana impagliate nei rami di artemisia e salvia, e Hi immaginò che i pecorai usassero il deserto per far svernare le bestie. (“Il Great Divide”,da Ho sempre amato questo posto)

 

Il legame con la terra, il desiderio di piantarvi le proprie radici, si scontra con le difficoltà ambientali, tra siccità, carestie, mandrie perdute, e poi con il nuovo mondo a venire, l’età del petrolio, il declino dei grandi ranch, la Depressione, la guerra. Ma è un legame a cui pare impossibile sottrarsi, nonostante la discrepanza tra desiderio e realtà. Per alcuni di loro il richiamo degli spazi aperti è più forte di ogni cosa e sopravvive alle difficoltà, al tempo che scorre: «la morte del vecchio cacciatore di cavalli, addossato a una roccia, gli sembrava più onorevole» pensa allora il vecchio cowboy confinato in una casa di riposo dove passare gli ultimi anni della sua vita. (“Un padre di famiglia”). Il ricordo, comunque, non addolcisce la realtà, non smussa gli spigoli delle persone né cancella il peso di certi segreti e scelte. Ecco, di scelte e delle loro conseguenze sono fatte queste storie, ancora una volta intrecciate alla natura, alla terra, al lavoro. In un racconto bellissimo e brutale, “Quelle vecchie canzoni di cowboy”, Proulx narra la parabola di una famiglia e la storia piccola delle persone comuni si intreccia a quella più grande del Paese, la crisi devastante che ne segna le vite, l’allontanamento da casa alla ricerca di maggior fortuna, il pericolo dell’isolamento. Dicevo che queste sono spesso storie di uomini: “Quelle vecchie canzoni di cowboy” è invece anche la storia di una donna, del suo dolore, della sua solitudine, delle terribili conseguenze. Prima ancora, dell’essere donna in un mondo di uomini:

 

Ma per la prima volta Rose capì che lei e Archie non erano due metà della stessa persona, ma due persone diverse, e che lui, essendo un uomo, poteva andarsene quando voleva, cosa che lei, essendo una donna, non poteva fare. Adesso la capanna sapeva di abbandono e tradimento. (“Quelle vecchie canzoni di cowboy”)

 

Non c’è consolazione nei racconti di Proulx, magnifici e crudeli; non c’è nulla di mistico, ancestrale. C’è la realtà frammentata da squarci di bellezza che tolgono il fiato. C’è la vita. E qui, sì proprio qui, c’è la Letteratura.  

Mary McCarthy e l'arte dello short story cycle

di Debora Lambruschini

 

Leggendo Gli uomini della sua vita, il libro con cui esordì la scrittrice statunitense Mary McCarthy, non è facile tenere a mente quando ha fatto la sua prima apparizione in libreria, tale è la contemporaneità delle storie: preceduto dalla pubblicazione su rivista del testo di apertura, “Trattamento barbaro e crudele”, il volume è uscito per la prima volta in America nel 1942. E se forse non possiamo fingere che sia un testo di questo nostro tempo, quasi sicuramente saremo portati a considerarlo almeno degli anni Novanta, quell’epoca eternamente fissata da Sex and the city che, come scoprirete leggendolo, non è poi un così azzardato riferimento. La protagonista di McCarthy, però, la ragazza dapprima senza nome e poi presentata nelle sue molteplici identità e frammenti, Margaret Sargent, si muove per le strade di New York e i suoi circoli intellettuali, ben prima delle quattro eroine di Candace Bushnell. Ma, al pari di Carrie e le altre è una donna libera, indipendente, disinibita, e le sei parti che compongono questo libro ne raccontano – tra le altre cose – le relazioni, i matrimoni, le avventure. C’è poi il contesto, ci sono i dettagli, a ricollocare la storia e lo sguardo del lettore nel suo ambiente, la New York degli anni Trenta-Quaranta. Ma l’incantesimo ormai è stato lanciato e d’ora in poi sarà difficile credere che la voce di Mary McCarthy arrivi in effetti da così lontano.
In Italia The company she keeps, Gli uomini della sua vita, venne pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 1962 e poi ristampato da Minimum fax nel 2012 con la traduzione di Augusta Darè, fino alla recente riedizione, sempre Minimum fax, di pochi mesi fa, nel luglio 2024, che a catalogo ha anche altri testi fondamentali di McCarthy, Il gruppo e Ricordi di un’educazione cattolica. L’interesse di critica e pubblico verso l’autrice e la sua opera, in effetti, non è mai venuto meno, e si concentra soprattutto su alcune questioni chiave: la componente metaletteraria, lo scarto minimo realtà-finzione, il ritratto non edulcorato della classe intellettuale, del mondo accademico e politico, della società americana, il femminismo, il patriarcato. Elementi che ben si radicano anche in questo primo testo pubblicato da McCarthy, di cui volutamente ho finora usato una vaga etichetta perché la questione è complessa e merita di essere approfondita.
Ma intanto, chi era Mary McCarthy? Ciò che di lei abbiamo bisogno di sapere arriva direttamente dalla sua voce, nell’autobiografia Ricordi di un’educazione cattolica, e ancora prima nei pezzi di sé disseminati in romanzi e racconti.
Rimasta orfana ancora bambina, McCarthy viene cresciuta da lontani parenti, a Minneapolis, dove riceve appunto quella rigida educazione cattolica che tanto profondamente la segnerà e dalla quale prenderà le distanze; un’educazione severa, segnata anche da abusi; l’infanzia e adolescenza trascorse in diversi collegi religiosi, cattolici ma anche protestanti, quando in seguito viene affidata alle cure di altri parenti ancora. L’adolescenza porta con sé la ribellione verso quell’educazione cui è stata sottoposta, tra letture considerate proibite, esperienze sessuali, indipendenza, fuga. Dopo la laurea al Vassar College si trasferisce quindi a New York, città d’elezione e palcoscenico ideale per la sua scrittura, e inizia a collaborare con numerose riviste, a partire da Nation e New Republic, fino a Partisan Review dove lavora come redattrice e critico teatrale. È il contatto con l’intellighenzia newyorkese e un ambiente, la sinistra, che la vedrà tra le protagoniste dei principali circoli culturali. Alla scrittura – e all’attivismo politico – intreccia la carriera accademica, insegnando prima al Bard College e poi al Sarah Lawrence.
Si avverte già nelle prime recensioni e analisi critiche il seme di quella scrittura brillante e lucida che caratterizzerà tutta la produzione a venire, non sempre con lo stesso esito felice, ma di certo peculiare. Quella, appunto, che già si va delineando in Gli uomini della sua vita. Che cos’è, quindi, questo testo con cui McCarthy esordì, prima sulle pagine della Southern Review e poi in volume nel 1942? Romanzo o racconti? E se racconti, di quale tipologia?  Iniziamo subito con l’indisporre l’autrice, scomparsa nel 1989 e quindi nell’impossibilità di controbattere: ha sempre definito The Company she keeps un romanzo e come lei una certa parte della critica letteraria, dei lettori e degli editori, non da ultimo Minimum fax con cui è uscito in Italia. Eppure, a ben guardare, l’etichetta più adatta a questo tipo di narrazione è quella dello short story cycle, una forma che affonda le radici nella tradizione del racconto e arriva fino ai giorni nostri, con esempi anche molto diversi tra loro ma accomunati da una certa postura autoriale e da elementi caratteristici. Come sottolineava già il critico James Nagel nel suo saggio The Contemporary American Short-Story Cycle

 

«lo short story cycle è un genere che affonda le radici nell’antichità, ben prima quindi del romanzo; dal punto di vista storico un «ciclo» è una raccolta di versi o di parti narrative incentrati su un evento o un personaggio principale. Ogni unità costitutiva rappresenta un episodio narrativo indipendente; secondo, esiste un principio unificatore che fornisce la struttura, il movimento e lo sviluppo tematico all’intera opera»

 

Il primo a definire e studiare il genere, negli anni Settanta, è stato il critico Forrest Ingramm, che individuava nello short story cycle una forma intermedia fra racconto e romanzo: un ciclo di storie è, per Ingramm, una serie di racconti in cui ognuno è legato all’altro in equilibrio fra autonomia e unità del tutto; ogni racconto che compone la sequenza, pur non perdendo la propria unicità, «non è di per sé stesso un’esperienza formale completamente chiusa, ma temi e motivi risultano evidenti nell’unità complessiva». Semplificando il più possibile, quindi, uno short story cycle è un libro di racconti in cui ogni storia è collegata all’altra, mantiene – e questa è la grande differenza di fondo dal romanzo – la propria autonomia e indipendenza anche libera dall’insieme, ma si regge su un’architettura che può essere data dalla ricorrenza di temi, ambientazione, personaggi, simboli, motivi, voce narrante. Non tutte le raccolte sono quindi delle sequenze, che devono avere unità e ordine preciso dei singoli racconti e il confine con il romanzo è talvolta labile; tuttavia c’è una differenza di fondo tra short story cycle e capitoli di un romanzo, i quali non rappresentano un’unità costitutiva autonoma. Se già definire i confini della short story è complesso, ancora di più, quindi, tentare di incasellare questa tipologia specifica, di cui, come si diceva, non mancano esempi nella produzione letteraria in lingua inglese: da Winesbourg Ohio di Sherwood Anderson o Nel nostro tempo di Hemingway, fino alla letteratura contemporanea con Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, La casa su Mango Street di Sandra Cisneros, Annie John di Jamacia Kincaid, Famiglie ombra di Mia Alvar, Lost in the City di Edward P. Jones, Uno shock di Keith Ridgway, solo per citarne qualcuno.
Se per alcuni di questi titoli l’etichetta di short story cycle – e di racconti come forma – è generalmente accettata dalla maggior parte della critica, degli editori e del pubblico, per altri la questione si fa più complicata, come per esempio La vita delle ragazze e delle donne di Alice Munro e, appunto, Gli uomini della sua vita di Mary McCarthy.  Il testo di Munro è infatti generalmente considerato dalla critica un romanzo, l’unico che avrebbe scritto, ma in realtà si tratta di una serie di sette racconti correlati fra loro, che attraversano le diverse fasi/età della vita della protagonista, in ordine cronologico. Tuttavia, come sottolinea anche Susanna Basso, traduttrice italiana di Munro, La vita delle ragazze e delle donne è una raccolta di racconti, che si sviluppa intorno a un unico personaggio: «con buona pace degli editori che si sono affannati a presentarlo come il tanto atteso "romanzo" di Alice Munro, non è di fatto più romanzo di qualunque altra sua raccolta di storie».
Il discorso si lega, specie nel contesto italiano, anche alle modalità di comunicazione editoriale, perché è ancora piuttosto radicato il pregiudizio sulla forma breve, tanto che spesso vengono scelte etichette giudicate più appetibili per i lettori come la tanto abusata “romanzo in racconti”, che era stata appiccicata anche a Olive Kitteridge. La faccenda a mio avviso va ben oltre la mera questione di etichette e ha a che fare con tutta un’impostazione mentale e, soprattutto, una mancata legittimazione della forma breve.

 

Per quanto riguarda quindi il testo di McCarthy, c’è da rivendicare l’etichetta di short story cycle, nonostante sia presentato come romanzo – ma già nella prefazione e nell’apparato critico si parla di racconti – e così indicato dall’autrice stessa. Questo perché Gli uomini della sua vita soddisfa appieno tutti i requisiti individuati poc’anzi come peculiari della forma, a partire dal più essenziale, l’autonomia del singolo capitolo-racconto inserito in un’architettura che nell’insieme rivela tutto il potenziale, tra occorrenze tematiche, personaggi, scelte formali. Quella stessa frammentarietà che ne distingue la narrazione, poi, è emblema della forma breve stessa, qui rappresentata dall'identità frammentaria della protagonista, Margaret Sargent. L’ordine dei capitoli-racconti – non cronologico – , lo svelamento delle connessioni tra l’uno e l’altro, la pubblicazione su rivista che precede il volume, sono anche questi elementi che ben corrispondono alla definizione scelta.

 

Fuori dalla questione formale, Gli uomini della sua vita si presenta come un testo che sorprende per la straordinaria modernità della narrazione che a tratti sembra quasi estraniarsi dal tempo eppure a esso e al contesto sociale entro cui le storie sono calate si lega in modo inestricabile. La voce di McCarthy è graffiante, resa egregiamente dalla traduzione di Darè, un’opera prima che non possiede quella pienezza dei testi di lì a poco in uscita, ma che inquadra già bene la direzione che l’autrice prenderà. La commistione di finzione e realtà, con la marcata componente autobiografica che lo contraddistingue – e che non venne subito riconosciuta come tale ma solo a seguito della pubblicazione dell’autobiografia – sono un ulteriore spunto di riflessione interessante, per un genere anche qui dalle molteplici forme e interpretazioni, non sempre riuscite, ma che talvolta hanno portato a risultati notevoli. L’esperienza personale ma soprattutto la ripresa in diretta di un contesto sociale che l’autrice conosceva molto bene, vengono quindi rielaborate in queste storie, ritratto quasi mai lusinghiero dei circoli frequentati da McCarthy, come si evince, per esempio, dal racconto “Ritratto dell’intellettuale come uomo di Yale”. Lo sguardo dell’autrice non fa sconti, la scrittura è brillante – eccezion fatta, a mio avviso, per il racconto “La galleria di un imbroglione”, cui un certo sfoltimento non avrebbe guastato – mai brutale o crudele ma neanche disposta a celare le piccole meschinità e mancanze della società newyorkese, filtrati dallo sguardo di una giovane donna che tenta di farsi strada. In “Trattamento barbaro e crudele” incontriamo per la prima volta la protagonista – qui ancora senza nome – quando è già una giovane moglie, in realtà a un passo dal divorzio: da tempo ha intrecciato una relazione con un altro uomo e si sta gustando quel segreto e l’impatto che avrà la sua rivelazione; le cose in realtà prederanno una piega diversa da quello che aveva immaginato. È il primo frammento di Margaret, Meg, che nel racconto successivo, “La galleria di un imbroglione” è una versione più giovane, non ancora sposata, alle prime esperienze lavorative in città. Trova impiego come segretaria presso una galleria, di cui a poco a poco si rende conto della gestione fantasiosa e pericolante. Altro cambio di prospettiva e salto cronologico per la protagonista di “L’uomo con la camicia Brook Brothers”, che già nel titolo ben inquadrava un certo archetipo maschile – e i ritratti di McCarthy le hanno spesso procurato critiche da chi si riconosceva più o meno celato dietro fattezze letterarie – , racconto di un’avventura sessuale in treno con uno sconosciuto e del desiderio di libertà della protagonista. Particolarmente interessante, accennavo prima, la rappresentazione nei testi di McCarthy dell’ambiente intellettuale, che qui si mostra nei racconti “L’amabile anfitrione” e il già citato “Ritratto dell’intellettuale come uomo di Yale”: nel primo la protagonista smania per essere ammessa nei circoli culturali che contano, tra cui la festa di un uomo particolarmente noioso che conosce però molte persone influenti le quali, tuttavia, non sono affatto interessate al loro ospite. Nel secondo, narrato attraverso la voce del protagonista maschile, un intellettuale socialista, Meg viene licenziata dalla rivista per la quale lavora per via delle proprie opinioni non edulcorate, generando inizialmente sostegno e presa di posizione del compagno, che poi ritratta a seguito di una generosa offerta di lavoro.
Impossibile non immaginare come i protagonisti di quegli ambienti ritratti da McCarthy si siano di volta in volta riconosciuti – e infastiditi – nelle sue storie; ma, la celebre lite tra McCarthy e la collega Lillian Hellman conferma che l’autrice non ha mai avuto intenzione di celare le proprie opinioni, come critica letteraria, scrittrice, militante politica.
Acerbe o meno che queste prime storie possano apparire, ci sono senza dubbio alcuni elementi che possono essere utili anche per gli scrittori contemporanei tra cui l’equilibrio fra finzione e realtà, lo sguardo diretto sul mondo che si sceglie di raccontare liberi da perbenismi. È anche da qui che si compone una narrazione capace di superare la prova del tempo.  

 

La voce femminista di fine secolo: Charlotte Perkins Gilman


di Debora Lambruschini


Quando ci si trova a studiare la short story angloamericana tra Otto e Novecento o, più nello specifico, la produzione breve femminile, è inevitabile prima o poi incappare nel nome di Charlotte Perkins Gilman e nel titolo del suo racconto più celebre e incendiario, The Yellow Wallpaper. Nelle primissime fasi di ricerca per la mia tesi magistrale, ormai diversi anni fa, accadde pure a me di notare in saggi critici anche molto diversi tra loro il ricorrere del nome di Gilman, per lo più in riferimento a quel racconto ma anche ad altri testi, di narrativa e non fiction. Fu piuttosto naturale, quindi, deviare, seppur di poco, dall’oggetto specifico delle ricerche – la short story inglese di fin de siècle e quattro scrittrici che vi diedero un contributo considerevole, George Egerton, Sarah Grand, Ella D’Arcy, Mona Caird – per approdare nella “terra di lei”, quella di Gilman: vi trovai una voce potente, capace di raccontare il desiderio femminile, la libertà e l’indipendenza, il cambiamento, che il tempo non aveva del tutto scalfito. Nata ad Hartford, Connecticut, nel 1860, Gilman (cognome che prese dal secondo marito, un lontano cugino) fu scrittrice e giornalista, ma prima di tutto fervente attivista per i diritti delle donne: il suo saggio del 1898, Women and Economics: a Study of the Economic Relationship Between Men and Women as a Factor in Social Evolution (“La donna e l'economia sociale: studio sulle relazioni economiche tra uomini e donne come fattore di evoluzione sociale, Moschini, 2007), segnò uno spartiacque fondamentale nel movimento femminista circa la riflessione del rapporto economico e sociale tra uomini e donne e la suddivisione di ruoli tra sfera pubblica e privata, argomenti che resteranno centrali nella sua riflessione critica e letteraria. La precaria situazione economica della famiglia d’origine – il padre li abbandonò lasciando la madre in gravi ristrettezze economiche – la portò ancora adolescente a cimentarsi in lavori diversi, sviluppando presto un interesse per la questione femminile e i movimenti di riforma sociale. Il suo nome, quindi, iniziò a circolare come conferenziera nell’ambito dei movimenti nazionalisti e poi, nel 1896, come delegata della California fino a Washington per la convention sul suffragio universale. Il 1890 fu un anno determinante per il percorso professionale e umano di Charlotte Perkins Gilman, da quel momento tra le voci più importanti del movimento femminista, impegnata in numerose conferenze in giro per il Paese e in Europa e al lavoro su saggi, racconti, poesie, testi critici che proprio in quell’anno iniziarono a circolare in modo capillare. È nel 1890, appunto, che scrisse anche The Yellow Wallpaper, il suo racconto più celebre, pubblicato due anni dopo dalla Feminist Press (in italiano tradotto per la prima volta da La tartaruga nel 1976). 
Esistono a oggi in Italia varie edizioni a stampa del racconto, a diversi gradi di sciatteria editoriale: sorprende francamente la scarsa cura con cui le opere di Gilman vengono perlopiù pubblicate, con qualche opportuna eccezione, di cui proprio The Yellow Wallpaper è l’esempio più lampante. Tra le recenti edizioni c’è quella a opera di Lorenzo de’Medici Press, per la traduzione di Kristi Veseli, che a mio avviso ha solo il merito di aver reso accessibile al pubblico italiano un paio di racconti fino a quel momento mai tradotti, ma la cui realizzazione sottolinea quanto evidenziavo poco sopra, la scarsa cura con cui l’opera di Gilman viene presentata al pubblico: la traduzione, duole dirlo, non è sempre coerente e diverse scelte linguistiche e ortografiche lasciano alquanto perplessi; la nota introduttiva, a cura di Veseli, è scarna, troppo per un’autrice la cui conoscenza fuori dall’ambito accademico è oggi limitata e il cui lavoro, quindi, andrebbe inquadrato con attenzione. È una mancanza questa con la quale mi trovo spesso a fare i conti, ma che nel caso di Gilman pare purtroppo una costante in edizioni diverse. Più apprezzabile, in questo senso, il lavoro dell’editore La vita felice, che scegliendo di pubblicare il singolo racconto La carta da parati gialla, ne cura in modo particolare la traduzione (di Cesare Ferrari), affiancata dal testo originale, e affida a Franco Venturi una breve ma maggiormente puntuale prefazione. Altre opere di Gilman sono accessibili in italiano: tra queste un’edizione Mondadori de La carta da parati gialla, alcuni racconti riuniti per associazioni tematiche come quelli pubblicati da Astoria (La governante e altri problemi domestici) e da ABEditore (Il glicine rampicante e altri racconti gotico-femministi), i romanzi Herland (Donzelli), Muoviamo le montagne (Le plurali), Delitto senza castigo (Le Lettere). Non esiste, a oggi, un’edizione completa di tutti i suoi racconti, con adeguato apparato critico bibliografico, ma ci auguriamo possa diventare un progetto che qualche editore prenda a cuore. Perché i racconti di Gilman non solo rappresentano un tassello importante nella storia della short story moderna, ma dialogano con la contemporaneità, per tematiche e spunti e una scrittura che non è stata scalfita dal tempo intercorso.
Emblematico, quindi, The Yellow Wallpaper, dalle molteplici chiavi di lettura, denso di spunti e stratificato, a partire dal richiamo al giallo, colore simbolico della fin de siècle.



La protagonista è una donna da poco diventata madre e costretta all’assoluto riposo, confinata in una stanza di una casa di campagna:

 

C’è qualcosa di strano in questa casa – lo sento.

L’ho confessato anche a John una sera di luna piena, ma lui mi ha risposto che avevo sentito una folata di vento, e ha sprangato la finestra.

 

L’inattività forzata, il divieto di ogni stimolo intellettuale e quella che si presume potrebbe essere depressione post partum, portano la donna a sviluppare un’ossessione per la carta da parati gialla che riveste le pareti della stanza, dalla quale inizia a vedere una figura femminile, intrappolata come lei, che tenta di uscire e liberarsi, in una fusione che via via diventerà sempre più totale tra le due.

 

Dietro a quel disegno esterno le figure velate diventano più chiare ogni giorno. È sempre la stessa forma, solo ripetuta più volte. Ed è come una donna che si china e striscia dietro quel disegno. Non mi piace affatto. Vorrei che John mi portasse via da qui!

È così difficile parlargli del mio caso, perché lui è così saggio e mi ama così tanto.

(La carta da parati gialla, La vita felice ed., p. 37)

 

Efficacemente scritto in prima persona e ispirato all’esperienza dell’autrice, il racconto scivola sempre più nell’incubo, nell’ambiguità, aprendosi a suggestioni diverse, dal gotico al flusso di coscienza del Modernismo inglese. Realtà e finzione, incubo e veglia si confondono nel racconto mano a mano che l’ossessione della donna per la figura – le figure? – imprigionata nella carta da parati si fa sempre più forte al punto da non riuscire più a distinguere chi è l’una e chi è l’altra.
Fulcro della narrazione sono la Marriage Question, argomento centrale nel dibattito del tempo, le costrizioni e l’oppressione di cui erano oggetto le donne, la separazione tra vita attiva (maschile) e vita domestica (femminile) allo scopo di mantenere le donne in uno stato infantile e di sottomissione al padre-marito, sottolineato anche dalle scelte lessicali dei dialoghi; la narratrice-protagonista insiste più volte sulle premure del marito, l’amore che prova per lei e con il quale inizialmente giustifica il suo confinamento, nell’ottica anche di mantenere il decoro.
La vicenda, tanto del racconto quanto l’esperienza personale dell’autrice, si pone anche come critica a quei medici che ignoravano il volere delle pazienti e che vedevano nell’attività intellettuale un pericolo per quello che veniva considerato il fragile sistema nervoso femminile. La protagonista di Gilman è una donna annientata dalla mancanza di poter esprimere sé stessa e oppressa da una società che delega al padre-marito-medico ogni decisione che la riguarda. Il potenziale di questo racconto, è chiaro, appare ancora oggi inesaurito, le cui analisi si legano spesso al discorso sulla depressione post partum, alla malattia mentale e che continua a rappresentare uno dei capisaldi della narrativa femminista.
The Yellow Wallpaper è, quindi, un racconto particolarmente stratificato e dalle molteplici chiavi di lettura, tra cui, come si accennava, un certo richiamo al gotico: non a caso ABEditore lo inserisce nella raccolta Il glicine rampicante e altri racconti gotico-femministi dell’autrice. Edizione piuttosto interessante, a cura di Valentina Colafati che ne firma anche la traduzione e una puntuale introduzione. Ai racconti selezionati – tra cui un altro paio di storie inedite in italiano – si alternano alcune poesie, accuratamente scelte tra la produzione di Gilman. L’etichetta di racconti gotico-femministi è in effetti appropriata per queste storie: alle atmosfere e situazioni tipiche del genere si intrecciano riflessioni più o meno velate alla questione femminile, a partire dal racconto d’apertura che dà il nome alla raccolta, Il glicine rampicante: una storia «di fantasmi da manuale» che in realtà è «arricchita dalla velata critica al controllo dei corpi e della morale femminile».
La questione femminile è, dunque, il fil rouge che attraversa tutta la produzione letteraria tra fiction e non fiction dell’autrice statunitense, di cui gli altri racconti contenuti per esempio nella raccolta pubblicata da Lorenzo de’Medici Press sono dimostrazione.
In Cambiamenti è ancora una giovane moglie e madre che attraversa una profonda crisi in seguito alla nascita del figlio; la negazione di una vita propria, di stimoli intellettuali (nel caso della protagonista di The Yellow Wallpaper era la scrittura, in questo la musica), portano la donna sempre più vicino al precipizio e sarà l’inatteso intervento della suocera a fornire quel cambiamento del titolo. Interessante in questo racconto come in altre storie di Gilman la trattazione della maternità, spesso oggetto di sentimenti contrastanti, raramente espressi in certi termini:

 

I nervi di Julia erano al limite. Sulle orecchie stanche e sul cuore di madre sensibile, il pianto stridulo proveniente dalla stanza accanto colpiva come una frusta, marchiava come il fuoco.

(Cambiamenti, p. 35)

 

Il tema dell’istinto materno e del modo adeguato di essere madre, è al centro anche del racconto Una madre snaturata, che chiude la breve raccolta e coinvolge, attraverso il severo giudizio delle donne del paese, una giovane madre del luogo che di fronte all’emergenza – un fiume in piena uscito dagli argini – dà tempestivamente l’allarme salvando tutto il paese ma arrivando così troppo tardi dalla propria figlia, che finirà vittima del disastro. Che razza di madre, si chiedono le donne, non si precipita come prima cosa a salvare la propria figlia? Una madre snaturata, appunto, quella stessa verso cui viene mossa la critica più feroce, di non aver «alcun istinto materno!», pensiero inconcepibile all’epoca ma non del tutto estraneo neanche alla società contemporanea.
Il racconto è anche l’occasione per Gilman di ragionare su un altro dei nodi più controversi del dibattito alla fine del secolo, ossia l’istruzione ed educazione femminile e, nello specifico di questo caso, l’innocenza da preservare rispetto ai fatti della vita.

 

«Le giovani ragazze devono essere mantenute innocenti!»

(Una madre snaturata, p. 86)

 

Un argomento che, più ancora di Gilman, sarà un’altra scrittrice del periodo a sviluppare: Sarah Grand (è a lei, tra l’altro, che si deve il termine New Woman, coniato nel corso di un dibattito tenuto nel 1894, a indicare il nuovo modello femminile, icona della fin de siècle) tanto nei discorsi pubblici quanto nei racconti si schiera frequentemente a favore di una rinnovata educazione femminile; compito delle madri, infatti, istruire le proprie figlie, fornire loro le stesse opportunità di istruzione dei maschi, rompendo con il tradizionale sistema del silenzio che mirava a tenere le giovani nell’ignoranza con la scusa di preservarne l’innocenza. Emblematico, in questo senso, il racconto Eugenia e, ancora di più, The Yellow Leaf. Ancora un’altra scrittrice, forse la più innovativa e purtroppo dimenticata del tempo, George Egerton (pseudonimo di Mary Chavelita Dunne Bright), esprimerà la necessità di rinnovare il sistema educativo-famigliare come fino a quel momento istituito, in un importante confronto generazionale cuore del racconto Virgin Soil, con la giovane protagonista che a cinque anni dal matrimonio torna a casa per esprimere alla madre tutto il rancore per lo stato di ignoranza nel quale era stata volutamente mantenuta; le giovani donne come lei, «terra vergine», del tutto ignare della vita, dei pericoli, delle insidie del matrimonio e quindi spesso condannate all’infelicità.
È allora, talvolta, che entra in scena un’altra donna in questi racconti, anche in quelli di Gilman, e attraverso la solidarietà femminile salvare la protagonista da un tragico destino. È quanto accade in La ragazza con il cappello rosa, in cui una donna, sul treno, assiste alle angherie di un uomo nei confronti della fidanzata:

 

«Ne abbiamo avuto abbastanza di questa storia, non è così cara? Tu non lo sai cara, ma io sono ciò che chiamano “un poliziotto in borghese”. La vedi questa stella?». Dai movimenti di lui e dagli impauriti occhi di lei, fu come se l’avessi vista anche io.

(La ragazza con il cappello rosa, p. 67)

 

Preoccupante, vero, l’eco all’attualità di certe dinamiche e abusi di potere? È un racconto del 1916, ma alcune modalità di sopruso sono cambiate di poco.
La forza innovativa dei racconti di Gilman – e di altre autrici della fin de siècle – ci arriva ancora oggi immutata, caricata di nuovi significati.

Curiose interferenze tra realtà e immaginazione. Guido Morselli ritrovato


di Alice Pisu


“È necessario guardarsi allo specchio. Bisogna «vedersi» ogni tanto; per conservare pieno e reale il senso di sé, bisogna che almeno una volta al giorno ritroviamo le nostre sembianze. Me ne sono accorto in questi ultimi tempi, in cui non trascorse settimana senza che avessi modo di usare lo specchio”.
Era il 18 novembre 1943, il trentunenne Guido Morselli trovava da tempo nel diario una dimensione utile a sviluppare i grandi temi destinati a ossessionarlo per l’intera esistenza, spenta nel suicidio per scomparire e eliminare idealmente i suoi simili, come immaginò nell’ultimo romanzo, Dissipatio H.G.
Il senso del vivere domina la maggior parte della sua produzione, destinata ad apparire postuma a eccezione dei saggi Proust o del sentimento (1943) e Realismo e fantasia (1947), che evidenziano nello sguardo filosofico uno degli aspetti determinanti nel pensiero dell’autore.
Sovrapporre l’aspetto pubblico al privato permette di rintracciare nel percorso letterario e personale gli elementi che resero Morselli un outsider tra i più raffinati e ignorati del tardo Novecento italiano. La lettura caratterizzò già la prima infanzia di Guido, con un’adolescenza segnata precocemente dalla morte della madre. Le sue prime prove di scrittura furono di impronta giornalistica, aspetto riconoscibile anche nella produzione successiva nella tendenza a una prosa nitida, con un taglio tra saggistico e cronachistico. A caratterizzare il suo sguardo le influenze letterarie, l’interesse per la filosofia e per la storia, la sensibilità ecologista, la scelta di condurre un’esistenza appartata dedita alla lettura e alla scrittura, ricca di progetti ma segnata da innumerevoli rifiuti che probabilmente incisero nella scelta di togliersi la vita a sessantuno anni, sparandosi un colpo con la sua Browning 7.65, che nei suoi diari definì "la ragazza dall'occhio nero".
Le testimonianze di amici e intellettuali che si confrontarono con lui a vario titolo restituiscono l’immagine di un uomo a tratti ombroso e irascibile, che per rigore e coerenza non cercò mai di ricorrere a raccomandazioni per ottenere una pubblicazione, e che arrivò a scagliarsi aspramente contro critici e editori che trattennero per un tempo a suo dire troppo lungo i suoi manoscritti. Sperimentò presto la crudeltà di dinamiche editoriali che tuttavia non inibirono l’urgenza della scrittura, nutrita da una visionarietà concepita come mezzo di amplificazione del reale.
La travagliata vicenda personale, l’osservazione delle trasformazioni della società, la rivendicazione di un’esistenza incentrata sulla lettura e sulla scrittura a dispetto delle aspettative paterne e sociali, il desiderio di isolamento, attestano un’indistinguibilità fra arte e vita. La fine della guerra, che disertò, gli impose di ridefinire la propria vita, abbandonando gli incontri legati al cinema, al teatro, alla socialità, per rifugiarsi nella solitudine, nei pressi di Varese, a Gavirate, in una casa che si disegnerà da solo e farà dipingere di rosa (oggi sede di un’esposizione permanente a lui dedicata).
Come ricorda una delle massime studiose di Morselli, Valentina Fortichiari, lo scrittore rimase un uomo solitario e scontroso, frustrato nel non essere riuscito ad affermarsi col suo lavoro. Emblematici due dettagli ricordati dall’intellettuale che negli anni ha curato l’opera di Morselli e gli ha dedicato due saggi: nella cartella delle relazioni con gli editori lo scrittore disegnò un fiasco, e nella carta d’identità indicò come professione quella dell’agricoltore.
L’indifferenza generale per la sua morte (nessun giornale ne diede notizia) stride con l’esplosione del caso letterario appena l’anno successivo, con la pubblicazione per Adelphi di Roma senza Papa, prima opera a portare Morselli all’attenzione del pubblico, a cui seguirono Contro-passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976) e Dissipatio H.G. (1977) con i quali raggiunse picchi letterari paragonabili a altre grandi voci del suo tempo.


Oltre alla singolarità della vicenda editoriale di opere che subirono innumerevoli rifiuti (da Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Frassinelli, Longanesi, Vallecchi a Neri Pozza, tra gli altri, con motivazioni ricorrenti legate alla difficoltà di collocazione in catalogo), appare significativa la complessa gestione del lascito relativo ai millenovecento volumi ceduti nel testamento alla Biblioteca Civica di Varese, divenuti Fondo Guido Morselli, oltre a quella relativa agli effetti personali (come la Olivetti M20, su cui si narra che battesse con un solo dito) divenuti parte di un’esposizione permanente dedicata.
Grazie a il Saggiatore è finalmente possibile vedere pubblicati i soggetti per film, le sceneggiature, i testi per il teatro, gli articoli di giornale, gli inediti e i racconti dell’“autore postumo per antonomasia”, come lo definisce Giorgio Galetto, curatore con Fabio Pierangeli e Linda Terziroli del volume Gli ultimi eroi. Il rilievo dell’opera risiede nel portare alla luce una ricca e varia produzione che nella peculiare ricerca lessicale e nel ricorso a forme espressive attesta la complessità dello scrittore.
La profonda libertà di pensiero si traduce anche in quella espressiva: l’originalità tematica e l’anarchia rivendicata nella mancata adesione a movimenti e tendenze del suo tempo a distanza di cinquant’anni dalla sua morte rendono la voce di Guido Morselli irriverente e attuale nel sollevare istanze sulla crisi dell’individuo, la questione ecologista, le ideologie, l’incomunicabilità di coppia, la presenza del male, la sessualità, la concezione della morte nella vita, il dramma della malattia, il rapporto con l’assenza e con la perdita.
La sua intera produzione indaga la tensione, alla fine, tra paure e fantasie di morte, al cospetto della ferocia e della crudeltà del vivere, nella costante ricerca di nuovi interrogativi anche in relazione all’ultraterreno. In tal senso sono illuminanti le pagine del Diario (Adelphi, 1988) dove afferma che la sua esperienza personale coincide in tutto con l’idea di Schleiermacher in merito alla religione come intuizione o sentimento dell’infinito:

“Non ha a che vedere né con la teologia, o la metafisica, né con la prassi cioè con la morale”. “Ciascuno, in sostanza, deve formarsi la propria religione, in quanto questa è fede, non già dottrina appresa o comunicata”, entro un’idea di rivelazione intesa come questione interiore e privata per ciascun individuo. 
(7 dicembre 1943)

La scrittura intimistica si muove in parallelo rispetto alla vasta produzione letteraria, giornalistica e teatrale, appare necessaria all’autore per elaborare aspetti centrali nel suo studio sulla natura umana. Le annotazioni del Diario accolgono riflessioni dal 1938 alla morte, spaziano dalla letteratura alla complessità delle relazioni, dall’urgenza di isolamento all’osservazione delle trasformazioni continue della società anche in riferimento al legame tra lo sfruttamento del territorio e il turismo, con ingrandimenti sull’incapacità frequente dell’individuo di domare manie e ossessioni. Sono meditazioni che indagano il mondo intorno, il ruolo dell’arte, le tendenze letterarie, la fede, a partire da una dolente esplorazione delle parti oscure del sé – “Io mi sono conosciuto in sogno” (3 dicembre 1943) – che in alcuni casi si scoprono propedeutiche alla stesura di racconti, romanzi e soggetti per il teatro e per il cinema.

 

“Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento, ricavare una indicazione sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando, e che spesso ci sembra irragionevole e ingiusto se non assurdo e iniquo”. (21 novembre 1943)

 

Si tratta di un aspetto centrale in Morselli, riconoscibile anche nei testi incentrati in modo esplicito sulla malattia, come Diphteria, sviluppato a partire dal dramma di un bambino che in condizioni di infermità si strugge per la lontananza della madre. Il crescendo tragico è esaltato dalle condizioni avverse del tempo che rendono ancor più improbabile l’impresa del padre di soddisfare quell’ultimo desiderio. Tra le pagine aleggia un tetro presagio di morte: Morselli individua qui come altrove alcuni elementi-feticcio, dettagli del paesaggio (come il ponte) che si fanno emblema di un collegamento tra dimensioni diverse nel solco tra quel che anticipa e quel che segue un evento ineluttabile.

 

“È quasi buio quando raggiunge il ponte, e non può andare oltre. Lo sospingono contro la spalletta; vi si deve aggrappare, per non cadere. Ma la volontà si scioglie in una torbida indifferenza. Abbandonarsi, da una parte o dall’altra; confondersi nella corrente. La folla procede, immensa e scura. Cartelli, bandiere, a perdita d’occhio, e nomi in file serrate, muti, senza volto. Così scorre il fiume, nell’ombra, sotto di loro”.

 

Il ponte è ricorrente anche nel racconto La voce, la cui data esatta di stesura non è nota, apparso inizialmente su L’Espresso nel 1993 prima di confluire nella raccolta Una missione fortunata, Nem. Qui Morselli immagina l’incontro postumo tra il commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, e l’anarchico e partigiano Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969. Un racconto emblematico per le storie che evoca e per la sorte drammatica dei protagonisti, immortalati mentre da morti passeggiano, dialogano sulla fine e attraversano un ponte. Nella rappresentazione di un confronto tra due rappresentanti di fazioni diverse, Pinelli in particolare ripercorre le tensioni, i soprusi in questura, le preoccupazioni di sua madre e di sua sorella per le sue scelte politiche, la rassegnazione che gli impedì di continuare a professarsi innocente sulle bombe, prima di sentire una voce che gli dava il permesso di cessare ogni sofferenza.
“Suicidio, non so. È suicidio quando uno non ha più fiato? Non ha più nervi? È la vita che si ritira. E quella voce non era la mia, quella voce che mi chiamava”.
Il rilievo di questo racconto risiede anche nella scelta, ricorrente in Morselli, di compiere esperimenti controstorici e ucronici per generare un dialogo ideale tra ambiti diversi e per sondare la soglia del possibile, spesso con il ricorso a ambientazioni allucinate e visionarie. Il gusto per la reinvenzione delle vicende di figure rilevanti della politica, delle lettere, della cronaca, dell’arte, si inserisce nell’ossessione dell’autore per la sovrapposizione della finzione sul reale, nell’intento di studiare possibilità inesplorate, sul confine tra l’assurdo e il verosimile.
È quel che accade tra gli altri nel racconto Il Grande Incontro (rimasto a lungo tra gli inediti e uscito poi nella raccolta Una missione fortunata) che narra il confronto in piena Guerra Fredda tra Pio XII e Stalin. La proposta riguarda l’uso di un sosia per condurre il Papa a Mosca, anticipata dalla descrizione particolareggiata di gesti e dettagli dei due protagonisti, nominati genericamente come personaggi “potenti tra i potentati, venerati tra le maestà della Terra, viventi emblemi per innumerevoli solitudini”. In tale colloquio ad assumere predominanza sarà inaspettatamente il silenzio, che assume una “prestigiosa intensità”, in grado di “compendiare immense distese di spazi e di tempi” per dilatarsi “sul mondo, fra popoli ignari e tuttavia presenti, ansiosamente aspettanti”.
La riscrittura della storia tra continue sovrapposizioni irreali, la sottile indagine filosofica e il gusto per la ricerca di nuove forme espressive nel travalicare il tempo e lo spazio sono riconoscibili anche nella scrittura di soggetti e sceneggiature per il cinema e per il teatro che spaziano dall’ambito marxista a quello cristiano, dai testi incentrati sulla sofferenza umana a quelli di critica sociale, di attualità politica, di coscienza ecologista, di fascinazione meccanica, di sensibilizzazione sui problemi del lavoro e sulla condizione del proletariato.

Degni di nota in particolare alcuni soggetti: da un estratto di Incontro col comunista, Morselli compone una commedia teatrale in tre atti, L’amante di Ilaria, che propone inutilmente a Giorgio Albertazzi. Il testo fa parte del “filone comunista” e, come sottolineato da Pierangeli, si pone come una riflessione sulla dialettica del personalismo-collettivismo nella prassi politica. Entro tale cornice l’autore compie ingrandimenti sui risvolti critici nelle relazioni affettive, un tema tra i più ricorrenti nei suoi testi.
Tra le sue commedie spicca Marx: rottura verso l’uomo, inviata a Morelli-Stoppa, a Luchino Visconti, a Gassman. L’opera segue Marx attraverso alcuni avvenimenti del suo percorso pubblico per scorgere, tra i confronti con figure come Lassalle, Bakunin e Mazzini, alcuni aspetti privati, imperscrutabili, del filosofo.
Esperimenti riscontrabili anche in altri soggetti teatrali o cinematografici come Cose d’Italia con al centro Mussolini rivisitato: debole e vittima del fascino femminile, finirà per democratizzarsi e crollare, nell’incapacità della parte politica avversa di generare un reale cambiamento condannando il popolo a divenire inesorabilmente preda dell’oppressione.
Un altro esempio riconducibile a tale tendenza creativa è Cesare e i pirati. Rappresentazione in tre atti e preambolo, definita una lotta tra amore e realpolitik, che non mira a rivoluzionare interamente la vicenda storica del suo protagonista ma a generare una deviazione funzionale ad aprire una breccia verso un racconto alternativo.
Il racconto eponimo assomma temi e stilemi cari all’autore, che indaga la follia e le storture insite in ogni conflitto a partire dalla vicenda del falegname Schölpke: rinchiuso in manicomio già prima della guerra, finisce per organizzare un esercito capace di raggirare gli americani. Come evoca l’incipit, il racconto è una riflessione sulla confluenza di farsa e tragedia sullo sfondo di eventi storici.

 

“E lo spirito di onor patrio è così tenacemente radicato da sopravvivere, quasi un istinto, anche quando dell’uomo non rimane più che la macchina; se pur non conviene concludere semplicemente, che la guerra è tutta e in tutti pazzia”.

 

A colpire è la tendenza, anche negli scritti dal taglio controstorico, di uno stile vicino a quello giornalistico, con il frequente ricorso alla paratassi, l’attenzione per il dettaglio, le insistenze descrittive con una prosa resa nella brevità e nel distacco.
Ancora una volta soffermarsi sulle pagine del Diario permette di ricondurre le apparenti divagazioni a una coerenza progettuale peculiare. Il 24 novembre 1943 Morselli appuntò riflessioni sulla possibilità di riconoscere in un aspetto della natura un estratto della storia personale di chi la osserva.
“Il valore essenziale che acquistano per noi e soprattutto nel ricordo certi aspetti del paesaggio rimane affatto inesplicabile se non ammettiamo che veramente la natura è soltanto una prospettiva fatta esteriore e sensibile dalla nostra interna vita sentimentale. Quel tratto di paesaggio quegli alberi quel cielo sono in un certo istante, e si mantengono di poi, la vivente allegoria di uno stato d’animo nostro.”
La capacità introspettiva e la necessità di rigenerazione attraverso la solitudine e l’isolamento silvestre si riverberano in passaggi dagli stacchi lirici improvvisi.

 

“La natura è una musica alla quale gli uomini sono quasi sempre sordi. Chi sa «ascoltarsi» vive più vite. Per chi attinge alla propria sensibilità profonda, il passato non è mai morto; non solo, ma la sua vita presente si dilata immensamente di là dai suoi limiti apparenti, ad abbracciare innumerevoli esperienze”.

 (26 novembre 1943)

 

La celebrazione della natura come strumento di conoscenza di sé e al contempo come elemento da tutelare rispetto alla frenesia del turismo, al consumo di suolo e alla trasformazione del paesaggio sono riconducibili a una visione più ampia che contempla il conflitto insanabile tra vecchio e nuovo, la trasfigurazione di un tempo remoto come esito di una corruzione inesorabile, il fallimento epocale del far rivivere forzosamente il passato con un rifacimento inverecondo, esito del consumismo e della cementificazione imponente in relazione alla “paradossale sagacia della Natura”, come la definisce in Mondo su mondo (comprensivo degli scritti Barca-e-bottega, Alpemare e Sacro e profano).
Morselli si mostra fine osservatore delle ipocrisie e delle contraddizioni della natura umana, ne studia la matrice attraverso la composizione di un bizzarro campionario composto da figure disincantate, ciniche, sferzanti, per mettere in luce anomalie e storture, e per compiere un ironico ritratto di ossessioni comuni.
Adotta sovente il punto di vista femminile per narrare l’incomunicabilità tra generi, la crisi delle relazioni, l’inconoscibilità dell’altro, le inquietudini latenti, e interrogarsi sul conflitto tra repressione e libertà sessuale. Con narrazioni caratterizzate dal frequente ricorso all’ironia, compie entro tali ingrandimenti anche un’analisi dei tempi, con una predilezione per il racconto del mondo borghese entro cui sfilano figure femminili indipendenti, colte, emancipate, che intendono affermarsi e che per farlo sono consapevoli di dover sottostare a compromessi.
Su tutti spicca il racconto Sono sana (uscito su Panorama nel 1993, poi nella raccolta Una missione fortunata), che tratta alcuni aspetti poi ripresi nel romanzo Brave borghesi. Narra la vicenda di una vedova trentaquattrenne accusata di sevizie nei confronti dei suoi gatti. Dalla “sensibilità modernamente involuta” e dalla morale cinica, per superare l’incapacità di provare piacere sessuale intrattiene numerose relazioni occasionali. Appassionata lettrice di Bioy Casares e di Huysmans dichiarerà: “Ciò che mi paralizza, non è ripugnanza, s’intende, non è rifiuto a essere strumentalizzata, al contrario, è lo stupore di non riconoscere più l’individuo. Il meccanismo ripetitivo lo annichila. La maschera dell’uomo in foia, non è brutale, secondo me è peggio. È impersonale”.
La profonda attualità dei suoi scritti è riconoscibile anche in altri testi nei quali adotta la prospettiva femminile per affrontare l’integrazione in un contesto diverso da quello di nascita. In Addio, Piero (1971) studia i condizionamenti legati all’apparenza subiti da una venticinquenne siciliana trasferitasi a Milano divenuta self-conditioned e costretta a professare una “pulizia di fuori e di dentro; visto che pulizia, non derivante da pregiudizi e tabù, significa a sua volta libertà, garanzia da eterocondizionamenti, controlli, limitazioni, ingerenze: e grane”.
Nel racconto Ho dirottato sul guardrail, uscito inizialmente nella raccolta I percorsi sommersi, Morselli indaga l’insoddisfazione di una donna per un rapporto matrimoniale stanco, privo di passioni, sostenuto dal benessere borghese con l’aspirazione alla seconda casa, dalla prudenza di due conti in banca separati, e dalla lucida pianificazione della prole. L’autore adotta il punto di vista di una moglie disposta persino a provocare un incidente pur di destare l’attenzione di un giovane ormai spento, descritto per brevi tocchi taglienti: “Enrico; l’integrazione-nel-sistema incarnata e vestita in tweed e flanella”.
Nella sezione dedicata agli inediti spicca Marshe, l’intenso racconto delle vicende di una giovane donna francese originaria di Saint-Denis divenuta profuga a seguito dell’abbandono da parte di suo marito italiano a causa del reclutamento. Morselli usa questa vicenda per calarsi nel punto di vista di chi subisce gli effetti di un cambio repentino di riferimenti, nel dover al contempo accettare una nuova condizione e sopravvivere all’assenza in un luogo estraneo e in totale solitudine.
Réfugiée. Per lei questo termine ha perso ormai il suo tono impreciso e patetico; ha un significato ben definito: compendia la sua condizione presente, l’accomuna a una folla, stabilisce i suoi doveri, determina e regola ogni suo atto, fissa il corso dei suoi pensieri, dei suoi desideri, fissa per lei ogni istante della sua giornata come una catena e un marchio”.
L’attenzione per la geopolitica e per le ripercussioni sociali e culturali dei conflitti risuona anche in altri racconti dallo sguardo femminile come Romana, scritto nel 1972, durante la stesura di Dissipatio H.G.. Ambientato nelle alture del Golan, indaga gli esiti del conflitto arabo-israeliano attraverso le possibilità di pace insite nel semplice accordo sulle proprietà.
Morselli dissemina frammenti di sé attraverso le vicende narrate, i luoghi d’elezione, le visioni, i suoi protagonisti. Le variazioni espressive, stilistiche e formali, accompagnano le evoluzioni del pensiero: il gusto rinnovato per il racconto dei luoghi e per il rapporto tra l’individuo e il paesaggio sono resi con una marcata tendenza descrittiva, tratto comune ai racconti, agli inediti, ai soggetti per il cinema e per il teatro e, in particolare, agli scritti giornalistici (dovuta anche alle sue esperienze di viaggio come mostrano i reportages da Bonn per Il mondo di Pannunzio nell’estate 1954).
Nella continuità di azione e pensiero, scrittura e indagine filosofica, storica e sociale, non risulta determinante operare una classificazione di impronta neorealista o fantascientifica, verosimile o surreale, perché ogni opera concorre a comporre uno sconfinato mosaico in prosa sullo studio dell’umano.
La presa d’atto dello scarto tra lo sviluppo del mondo spirituale di Morselli – la sua “vita interiore” come scrive già nel novembre 1943 nel Diario –  e la povertà del presente della sua “vita pratica”, genera uno sgomento associato a una condizione innaturale presto sovvertita, che motiva ulteriormente il ricorso narrativo alla dimensione del sogno, concepito come spazio fertile per amplificare le riflessioni sulla morte, sulla perdita, sulla crudeltà, sui tormenti e le paure, e al contempo per esplorare le frontiere del fantastico, con suggestioni evocative generate dai riferimenti letterari primari dell’autore.
In Fantasia con moralità, che uscì su Contemporaneo nel 1953 prima di comparire nella raccolta Una missione fortunata, Morselli anticipa aspetti indagati nel romanzo composto poco prima del suicidio. Il racconto è caratterizzato da due sezioni distinte: la prima parte è incentrata su una catena di delitti e sul maleficio che pesava a X – cittadina “grettamente borghese”, un tempo tranquilla – tra orrore e vergogna, in un’oscena pazzia sanguinaria dilagata improvvisa che “scorreva irresistibile e sconvolgitrice”. La seconda mostra uno stacco netto, con una distanza presa dal narratore che afferma che la realtà non si lascia mai soverchiare dal sogno Homo homini lupus: “Il tipo di licantropo non differisce dal tipo medio e consueto della nostra umanità, oggi, peggio o non meglio di ieri”.
Questo racconto è tra i più intensi e complessi del volume, con picchi espressivi di rara intensità nella descrizione della “giungla dell’esistenza, spietata e assurda; da cui non si esce, perché ci governa la fatalità della morte, retaggio di un’antica condanna; e per contrastarla dovremmo credere nella vita, nella bontà e verità della vita, e non sappiamo.”
La consapevolezza del pericolo in agguato nel quotidiano e dell’impotenza umana ad affrontarlo annulla ogni potenziale cambiamento per chi si trascina senza speranza, prigioniero “del gesto primitivo dell’animale, che si guarda alle spalle”.
Il rilievo della pubblicazione de Gli ultimi eroi risiede nel tracciare l’eredità di una voce letteraria dirompente ingiustamente ignorata per decenni, e riconoscere anche grazie agli inediti e ai testi meno noti un autore classico e ipercontemporaneo, “visionario e apocalittico – come lo ha definito Galetto – ma anche ironico e caustico, fedele a un’intelligibilità del dettato che accompagna una descrizione precisa e meticolosa della realtà” spesso fittizia, convinto che l’esperienza interiore dell’individuo sia il gioco di due fattori: la memoria intesa come passato e l’angoscia che incarna il presente.
“Sono orgoglioso (è forse il mio unico orgoglio) di sentirmi, in male e in bene, un riepilogo degli uomini”.

Anna Maria Ortese e le sue piccole creature

di Matteo Moca

In Le piccole persone, magistrale raccolta di saggi di Anna Maria Ortese intorno al «dolore degli animali» (così scrive in una lettera a Guido Ceronetti), dove con la parola “animale” Ortese intende l'intero spettro di esseri viventi sulla Terra dagli uomini fino alla natura, passando appunto dagli animali, le «piccole persone» del titolo, la scrittrice quando parla della scuola, invoca in particolare il ritorno a un certo tipo di insegnamento: «una scuola – scrive Ortese nel libro pubblicato da Adelphi come tutta la sua opera – che formi le generazioni alla conoscenza della Terra, e ai doveri dell'uomo verso tutta la terra. Non ho altra politica. Né altra cultura, forse, se non che leggere nel libro della vita terrestre è la prima strada e scuola per un uomo nuovo». Nel testo che apre il libro, Ma anche una stella per me è natura recita l'emblematico titolo che funziona anche come possibile programma di tutta la sua opera, Ortese indaga il cambiamento nel rapporto con la natura durante la vita degli individui, raccontando come il legame più profondo, rispettoso e autentico esista nell'età dell'infanzia: «Il fanciullo o l'adolescente capisce ciò che l'adulto non capisce più» scrive infatti nell'altra importante raccolta di saggi Corpo Celeste. L'età dell'infanzia diventa quindi nell'opera di Ortese un luogo privilegiato, perché i bambini sono coloro che, grazie all'innocenza e alla capacità di stupirsi davanti al mondo, possono fare da contraltare alla fragilità di un tempo in cui si è più facilmente offesi tra le spire di una società in cui abita prepotentemente la violenza. Ortese, insofferente al dolore di un mondo che avvertiva in ogni sua fibra, sceglie spesso nelle sue opere di combattere questa indifferenza e questo dolore situandosi con i suoi personaggi al confine tra realtà e finzione, tra «sonno e veglia». Si tratta di piccole figure che abitano questo spazio liminare, come folletti, animali, bambini, ridotte presenza magiche e quant'altro, che vanno intesi proprio come simbolo dell'infanzia, come testimonianza di questa straordinaria capacità di vivere nel mondo e, nello stesso tempo, di catalizzare, nella loro vulnerabilità e loro malgrado, il male che lo abita.

*

Già nel suo secondo libro, L'infanta sepolta, pubblicato nel 1950 dopo la raccolta Angelici dolori, Ortese decide di abitare questo spazio di confine con la storia che dà il titolo al volume, un racconto in cui la scrittrice insiste su questo sentimento di incertezza rispetto al reale mostrando come possano essere degli oggetti all'apparenza neutri e inanimati a rivelarsi decisivi generatori di senso per lo svolgimento della storia. Protagonista è una donna che racconta come sua mamma, quando lei era bambina, pregasse la statua di un madonna nera che sembrava, agli occhi del popolo, «vivente di vita umana». Al di là della presenza di uno degli stilemi classici della letteratura fantastica, l'elemento che, assecondando la definizione di Freud, definiremmo “perturbante”, nel racconto irrompe poi un improvviso e decisivo stravolgimento quando la bambina, a cui la statua non sembra solo apparentemente viva, stringe la mano alla statua e scopre che questa è «calda di calore umano» e che, almeno le sembra, questa si muove dolcemente nella sua. Ovviamente, ed è anche il genere fantastico a richiederlo, non sapremo mai la natura di questo avvenimento, anche perché, impaurita, la bambina subito scappa e non tornerà più in quel luogo, ma ciò che è interessante è il fatto che all'interno di questa incredibile concretizzazione di una credenza popolare, sta una delle matrici del fantastico ortesiano, che trova luogo di innesco proprio in queste figure all'apparenza marginali, poco importanti, che nascondono in realtà il cuore di tutta la sua riflessione sul mondo e sul dolore di chi lo sa realmente vedere. Oltre al fatto che la statua rappresenta proprio una bambina, è interessante infatti vedere come anche l'Infanta sepolta assomigli a una delle “piccole persone” di cui parla Ortese, perché l'impressione che ha la bambina quando le due mani si toccano, è quella di un momentaneo e spaventoso incontro con la sofferenza: «Parlava – scrive Ortese con un'immagine realmente indelebile, come lo sono le sue parole quando puntano con coraggio lo sguardo sulla fragilità – come parlano a volte, quasi meccanicamente, una mano, un piede di poveri esseri massacrati, in cui la vita sussulta ancora» e, aggiunge poco dopo, che nel suo muoversi flebile avverte la «stanchezza di un fanciullo che muore». E, a consolidare ancora una lettura in questo senso circa la natura molteplice di questa figura dell'infanzia, e del rapporto tra questa e gli animali, sta il modo in cui Ortese continua a descrivere la mano della statua che, racconta, assomigliava alla «zampina di un uccello».

Proprio in questo coacervo paradossale, dove la realtà si mischia con la fantasia in una continua sfumatura dei confini che rende impossibile comprendere lo statuto di ciò che accade, sta la natura di questo stare sulla soglia di Anna Maria Ortese, nella possibilità quindi che dentro un mondo sofferente siano queste apparizioni miracolose, la statua certamente, ma anche la bambina protagonista, le uniche che riescono a sentire ciò che tutti gli altri non sentono, a offrire uno sguardo diverso sulle cose. Walter Benjamin ha scritto che la soglia non è solo uno spazio di passaggio, ma anche una zona in cui poter soggiornare e trasformarsi, uno spazio quindi, a differenza dell'idea sottesa nell'opinione comune, abitabile seppure rappresenti un filtro tra il dentro e il fuori. Il reale e il fantastico quindi, secondo la lettura di Benjamin che ben si accorda con quella di Ortese, si fondono in questa zona liminare: «La soglia [Schwelle] – scrive Benjamin nei Passages – è una zona. La parola “schwellen” [gonfiarsi] racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento, significati che l’etimologia non deve lasciarsi sfuggire». Assecondando il senso delle parole di Benjamin, emerge dalla statua che Ortese descrive in L'infanta sepolta, e che esplode nei suoi significati grazie al tocco della bambina, una solitudine e una sofferenza assolute, una statua che diventa paradossalmente un fonte di vita. L'infanta sepolta è nello stesso tempo al centro delle credenze popolari e isolata dal mondo, e non è un caso che rimanga sepolta nel bombardamento della chiesa, accidente nel quale Ortese convoglia il passo devastante della grande storia, incurante di tutto ciò che si muove e che finisce schiacciato.

In un clima simile vive anche la piccola creatura protagonista di Folletto a Genova (un racconto che appartiene all'ultima raccolta pubblicata in vita dalla scrittrice, In sonno e in veglia, a testimoniare una riflessione che attraversa tutto l'arco della sua opera), un racconto straziante sulle violenze che questo piccolo essere subisce nella casa in cui vive. Il folletto protagonista è una creatura dallo statuto indefinibile, in parte assomiglia a un bambino e in parte invece a un animale, ciò che è certo nella descrizione di Ortese è che si tratta di un essere che vive letteralmente sulla sua pelle le sofferenze degli altri trasformandosi in una capro espiatorio. Come accadeva in L'infanta sepolta con il bombardamento della chiesa, una simile situazione di allerta, che genera «smarrimento» nella narratrice, anima anche questo racconto, che inizia così: «La gravità dei fatti politici è talora insostenibile. E dire politici è usare un eufemismo. Si tratta di una guerra, o stato di malessere, dell’incedere di una instancabile e martellante violenza che striscia come un fuoco su tutta la terra. Il cielo, anche il più azzurro, sembra dare nel piombo. Una gravezza amara, come se egli fosse ebbro, o la sua vita fosse per finire (e fosse stata tutta inutile), pesa come una montagna sul cuore dell’uomo». Già dalle prime righe si intuisce quindi come la protagonista, l'unica tra l'altro a compatire, nel senso più antico del termine, ovvero soffrire insieme, il piccolo folletto sballottato, picchiato e forse ucciso dalla coppia, si trovi perduta dentro questo stato di guerra perenne. Così infatti continua il racconto: «La vita sulla Terra mi sembrava, a questo punto, non dirò insopportabile (tale stadio era superato), ma proprio priva del minimo interesse, come una pietra che rotoli dall’eternità verso un’altra eternità di pietra». Queste parole sembrano tratte dai testi più “teorici” di Ortese, come Le piccole persone o Corpo celeste, ed è proprio la descrizione della situazione a funzionare come punto d'origine della narrazione: la violenza nel mondo perde la sua concretezza e, all'interno del paradigma classico ortesiano, per le conseguenze che genera nelle esistenze individuali e perché il «terzo Paese miserrimo, per non dire disgraziato» è chiunque sappia vedere cosa succede, scatena una scrittura che attraverso il filtro fantastico denuncia e critica tale condizione. Il folletto Stellino, «una creatura assurda, vestita di una mantelletta fatta di vecchi giornali», è quindi un essere che subisce le angherie e le violenza della donna con cui vive, che lui vede come una mamma, ed è, ancora una volta, una rappresentazione dell'infanzia e del mondo animale: «Alto... non più di un bambino di qualche anno, ma no, più piccino – una bambola – il corpo – soprattutto le gambine che si intravedevano sotto il giornale – simile a quello di una lepre dorata. Dovunque una gran peluria dorato-grigia, che intorno al mento era bianca». Le sofferenze che subisce Stellino e il litigio continuo tra i coniugi sono sullo stesso piano delle violenze tra Stati descritti all'inizio del racconto ed è sempre il più fragile a rimetterci, il più povero terzo stato e il folletto, come accade nel mondo che qui viene trasfigurato grazie a questa figura fantastica.

*

Allo stesso desiderio di sondare le pieghe del reale attraverso queste figure liminari obbedisce anche un racconto che Ortese pubblicò nel 1940, che affonda ancora dentro una credenza popolare e, ancora una volta, fa di una figura di questo universo uno straordinario termometro del mondo. Si tratta di Il Monaciello di Napoli, un racconto che si apre con un'esplicita dichiarazione di poetica: «Del resto, o Lettore intelligente, credi proprio che la vita sia così semplice come appare? Non hai mai, in nessun momento della tua vita, per esempio un giorno di maggio, avvertito nell'aria, coll'odor dei fiori e la danza delle farfalle, l'esistenza di un mondo più brillante, più gioioso e soave? E d'inverno, quando il vento urlava terribilmente intorno alla tua casa, con alti gridi un po' meccanici un po' umani, e tu sedevi ben caldo nella tua poltrona, non ti è mai accaduto di avvertire, in quella voce un po' disuguale e dolorosa, il lamento e la ribellione di povere creature inimmaginabili? Certo che sì, Lettore. Esse sono nascoste dovunque, e ci guardano con occhi sì puri, sì dolci, sì pieni di lagrime e raggianti d'amore. Fate dalle sottili trecce bionde, gnomi, coboldi, maghi, spiritelli, fino al caratteristico Monaciello napoletano, di cui parlava mia Nonna, questi esseri vivono, vivono!».

Il racconto ruota attorno a questa figura classica del repertorio folkloristico napoletano, una figura a metà tra un bambino e un piccolo frate, dedito ad abitare gli spazi nascosti delle grandi case in cui presta servizio, il monaciello Nicola che si muove in «un insieme di miseria, di abbandono, di malinconia» e di cui viene qui raccontata la sua storia d'amore (e di morte come accade spesso in Ortese) con Margherita, la bambina che poi lo sposerà. Nicola diventa qui, ancora una volta, un elemento simbolico all'interno del racconto: già carico di suggestioni popolari sulla sua funzione e la sua figura, qui Ortese ne fa un vero e proprio emblema di quel suo caratteristico “doppio sguardo” che riesce a vedere oltre le cose, come suggerisce la protagonista che rimpiange quello sguardo infantile che gli faceva vedere davvero:

 

L’ingresso, nella nostra cultura, del pensiero francese; i progressi della scienza che mirava con un impetuoso entusiasmo a demolire la credenza nell’irreale ch’era tanta parte della nostra vita.

 

 Il monaciello allora, come tante altre piccole figure che abitano le opere di Ortese, grazie a questa natura ambigua diventa elemento rivelatore dello sguardo della scrittrice, come l'iguana del romanzo omonimo, il puma dell'Arizona in Alonso e i visionari. Tutti questi personaggi vivono in una condizione che mescola l’infanzia e uno stato sospeso tra la specie umana e quella animale e sono accomunati da un'innocenza che li porta sulle strade del dolore e della sofferenza perché si trasformano, loro malgrado, in esseri particolarmente sensibili alla violenza del mondo e testimoni viventi della necessità di cambiare.

 

Giorgio Agamben ha scritto, con parole che ben si prestano alla lettura dell'opera di Ortese, che «le porte del mistero lasciano entrare, ma non lasciano uscire. Viene il momento in cui sappiamo di aver traversato quella soglia e a poco a poco ci rendiamo conto che non potremo più uscirne. Non che il mistero si infittisca, al contrario – semplicemente sappiamo che non ne verremo più fuori». Qual è lo statuto del folletto, del monaciello o della statua dell'Infanta sepolta? Non è questo ciò che è importante, se non per chi tenta di tagliuzzare la letteratura in cerca di fredde definizioni, perché pare assai più fruttuoso assecondare le forme di queste strane creature che brulicano nelle pagine di Ortese per poter osservare, da vicino, gli anelli di congiunzione tra realtà e fantasia, tra mondo sognato e mondo reale. Queste figure sono agenti creatori di una nuova possibilità di osservazione del mondo che può, al massimo delle sue possibilità,  portare a immaginare una realtà differente e un nuovo ordine in grado di scardinare l’uomo dalla sua posizione di ingiustificato dominio.

Le figlie di Saffo e tutte noi


di Giordana Restifo

«io dico che qualcuno si ricorderà di noi»

Saffo, fr. 147[1]

 

La prima voce femminile della letteratura greca, la donna attorno alla quale sono nate moltissime leggende, la prima poetessa conosciuta al mondo. Chi era Saffo? Cosa ha significato la sua figura per il mondo contemporaneo? L’esordio letterario di Selby Wynn Schwartz, Le figlie di Saffo, pubblicato da Garzanti nel marzo 2024 e tradotto da Mariagiulia Castagnone, è un ottimo punto di partenza per ripercorrere la vita della poetessa di Lesbo e di alcune donne venute dopo di lei.
L’opera, il cui titolo in lingua originale è After Sappho, è un «tale ibrido tra il romanzo d’immaginazione e il romanzo-verità, tra la biografia speculativa e i ‘suggerimenti per pezzi brevi’ (come li chiamava Virginia Woolf mentre cominciava la stesura di Orlando) che è impossibile inquadrarla in una categoria», come suggerisce l’autrice stessa nella nota bibliografica finale. Lasciandosi ispirare, o per meglio dire pervadere, dallo spirito di Saffo, Schwartz compone insieme frammenti di vite di donne che hanno lottato per la propria libertà, per potersi esprimere artisticamente senza sottostare alle convezioni sociali e al patriarcato.
Le storie sono raccontate da una narratrice che utilizza la prima persona plurale, quasi a spogliarsi del proprio “io” e a farsi “coro”, come quello che accompagnava e circondava Saffo. Espressione di una collettività composta dapprima da fanciulle e poi da donne. Ragazze che non si conoscono e che per qualche motivo sono attirate da una figura che faccia loro da faro, attorno alla quale riunirsi. 
Nel tìaso (θίασος – ha molti significati tra i quali associazione, schiera di persone che celebra sacrifici e danze in onore di una divinità) ove Saffo era sacerdotessa ed educatrice, a Mitilene, le giovani venivano preparate alla futura vita matrimoniale ed erano considerate sia “allieve” che “compagne”, a indicare la poliedricità dei rapporti che intercorrevano tra loro. Il tìaso di cui scrive Schwartz è composto da donne ribelli che vogliono essere indipendenti e colte; prende forma dalle letture giovanili delle poesie di Saffo e trova in Cordula Poletti la prima delle sue figlie contemporanee. Nata nel 1885 a Ravenna, cresciuta in una famiglia in cui la concezione del matrimonio rappresentava un bene irrinunciabile, ha sempre preferito scappare in biblioteca per leggere i manuali di latino e greco al ricamare il corredo di lino per la dote. Durante l’infanzia l’unica compagnia che aveva era quella «delle costellazioni che riempivano il cielo notturno»; anche nella poesia di Saffo le immagini della notte, soprattutto la luna e le stelle, rivestono un ruolo importante, ma non è l’unica analogia tra le due donne vissute a più di duemila anni di distanza l’una dall’altra.
Nel 1899 decise di cambiare nome e da Cordula diventò Lina Poletti, così la conosciamo oggi e così la conobbero le donne che incontrò nel suo cammino verso la libertà.
Al suo percorso si intreccia quello di una ragazza dovuta diventare adulta troppo presto, Marta Felicina Faccio, detta Rina. A dodici anni fu costretta da un padre intransigente a lavorare nella fabbrica di famiglia e a diciassette a sposare il suo aguzzino, l’uomo che l’aveva violentata sul posto di lavoro. Rina, che aveva provato a cambiare più volte nome, iniziò a odiare aspramente la sua vita. Nel 1902, dopo aver tentato il suicidio qualche anno prima, fuggì a Roma, abbandonando la famiglia, un marito violento e un figlio, le Marche, il suo nome e una vita finita già da tempo con l’assunzione di un’intera bottiglia di laudano. È nella capitale che diventa Sibilla Aleramo, una nuova esistenza la attende, un taccuino bianco tutto da scrivere, e, infatti, da quel momento in poi si dedicherà alla scrittura.
Ben prima di Lina e Sibilla, nel 1854, era nata, nel Sud dell’Ucraina, Anna Kuliscioff. Una donna che per tutta la vita ha lottato per i diritti umani, in special modo per quelli delle donne italiane. Ha esportato il proprio credo, ovvero che le donne non potevano essere considerate delle proprietà, in tutti i luoghi in cui ha vissuto, motivo per il quale è stata più volte esiliata, arrestata, incarcerata e oggetto di critiche e insulti. Di animo sovversivo, Anna Kuliscioff è andata dritta per la sua strada, riuscendo anche a laurearsi in medicina nel 1886 all’Università di Napoli, traguardo non scontato per una donna vissuta in quel secolo. Divenne un medico, «specializzandosi in ginecologia e anarchismo», scrive Schwartz.
Il primo incontro tra Lina, Sibilla e Anna avvenne nel 1908 in occasione del primo Congresso nazionale delle donne, al quale parteciparono in più di un migliaio. In un’Italia governata per la terza volta dallo stesso uomo, nella quale un padre, avvalendosi dell’articolo 544 del codice penale (abrogato solo nel 1981), poteva dichiarare estinto il reato di stupro nei confronti della figlia concedendola in moglie al colpevole, le donne affrontavano tutte insieme le loro esigenze:

Le suffragette volevano il voto, le insegnanti chiedevano che venissero organizzate delle campagne per la scolarizzazione, le direttrici degli orfanotrofi invocavano un aiuto per le madri nubili. Tuttavia due furono le proposte sostenute da tutte; la fine dell’odiosa autorizzazione maritale e la decisione che gli uomini presenti al congresso non avessero diritto di voto.

A intricare ancor più il racconto appare Eleonora Duse che, calcando le scene dei teatri milanesi con Casa di bambola di Ibsen, aveva raccontato a tutti la storia di Laura Kieler attraverso il personaggio di Nora. Nel frattempo, in Gran Bretagna e in Francia nascevano e crescevano altre donne le cui vite si sarebbero annodate tra loro, seppur seguendo sentieri diversi. Così, procedendo con la lettura si incontrano Miss Adeline Virginia Stephen, che nel 1912 diventò Virginia Woolf, Romaine Brooks, Natalie Barney, Eva Palmer e Pauline Tarn, la quale

 

aveva ucciso il suo nome con violenza. La pratica Pauline e la noiosa Tarn vennero entrambe bruciate dal fuoco azzurro e penetrante della sua repulsione, dopodiché lei partì subito per Parigi. Si ripromise di adottare un nuovo nome, scuro come l’inchiostro ed enigmatico, con cui avrebbe firmato le sue poesie, simili a viole che fioriscono la notte. Niente più Pauline che consumava la sua cena, niente più Miss Tarn che rammendava le calze. Lei si sarebbe nutrita solo dell’aria della sera e avrebbe cucito solo frammenti di versi. […] Nel 1899 la vediamo appoggiata a un gomito vestita con una redingote e dei pantaloni alla zuava di lana spessa, che legge Saffo. Alla luce della lampada la sua figura è una linea slanciata e scura.
Era diventata Renée Vivien. 

 

Nonostante né Saffo né Schwartz facciano mai riferimento al tìaso, queste donne facevano parte di veri e propri movimenti, votati all’arte, alla letteratura, alla politica. Così agli inizi del ‘900 le ritroviamo radunate nei loro circoli: il Tempio à l’amitié, al numero 20 di Rue Jacob presso l’abitazione di Natalie Barney a Parigi; The Girls of the Future Society; il Lyceum, nel palazzo della contessa Gabriella Rasponi Spalletti a Roma, del quale si diceva «fosse un luogo sovversivo, dove le donne si abbandonavano a tentazioni saffiche»; l’annuale Congresso internazionale delle donne che si svolgeva a Roma; Odéonia, regno di Gertrude Stein, poco lontano dalla casa di Natalie Barney, un luogo piccolo ma pieno di libri che le donne potevano consultare o prendere in prestito se non potevano permettersi di acquistarli; la Libreria delle Attrici, aperta da Eleonora Duse vicino via Nomentana, un posto dove le attrici potevano recarsi «per imparare a pensare con la propria testa, quello che gli inglesi definivano ‘una stanza tutta per sé’».
Anche se molto attive e impegnate, la maggior parte di queste donne conviveva con un pensiero rivolto sempre altrove: «guai a chi cercava di ostacolare il nostro viaggio verso Lesbo!». Irrequiete, desiderose di salpare verso l’isola sulla quale era nata la loro genitrice, utilizzavano tra loro, per comprendere meglio questo stato d’animo, l’ottativo, il modo verbale del greco antico per esprimere speranza o desiderio. «Dal latino desiderium, formato da de-sidera, preposizione che indica lontananza e ‘stelle’. Fissare con lo sguardo una cosa o persona che attrae, come si fissano di notte i geroglifici delle stelle. Allontanamento, cioè togliere lo sguardo, rivolgerlo altrove. Le stelle non si vedono più. Mancare. Fissare allora con il pensiero una cosa o una persona che non si possiede e che si brama. Quindi, desiderare. In greco antico, tutto questo si dice al modo ottativo» (A. Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza, 2017).
Tra loro c’era chi davvero era partita verso Lesbo, verso Delfi, chi aveva ripiegato su Capri, chi si era imbarcata alla volta di Creta o di Atene e chi ancora bramava di raggiungere Mitilene. Leggevano la poetessa e pensavano alle sue sofferenze, al suo esilio da un’isola (Lesbo) a un’altra (Sicilia); ognuna cercava il proprio locus amoenus, luogo fisico ma anche mentale della pace e della bellezza, un’immagine diventata topos di immensa fortuna letteraria proprio grazie a Saffo. Come accadeva nel tìaso tra le fanciulle greche, anche tra loro gli affetti erano sinceri ma spesso effimeri, i rapporti di sorellanza e quelli amorosi venivano vissuti con intensità per poi abbandonarsi alla tristezza per la partenza, alla nostalgia e al ricordo. 
Allo stesso modo di Saffo, queste donne contemporanee sentivano la tensione che c’è nel momento prima che accada qualcosa, si affidavano alle stelle e alla luna. Quest’ultima è un elemento tipico nell’opera della poetessa poiché scandisce il tempo interiore dell’attesa e della solitudine ed è caratterizzato da una potenza evocativa tale da poterlo utilizzare anche per parlare e scrivere d’amore. Dopo tutto questo attendere, qualcosa avvenne, gli uomini avevano deciso per tutti, la pace e la bellezza vennero messe da parte per fare la guerra, che forzò la separazione dalle donne amate, lodate, ammirate, «Ci giunse soltanto voce che la nazione italiana non permetteva più certe cose». Lina Poletti scomparve, «Avevamo temuto per la sua vita, ma in verità lei aveva molte vite, tutte le sue e le nostre intrecciate insieme». Non vollero credere alla morte di Lina ma pensarla rifugiata in qualche villaggio e tra «le rovine più polverose della Grecia», come mai credettero alla leggenda del suicidio di Saffo dalla rupe di Leucade per amore di un uomo, Faone, che l’aveva rifiutata. Lina Poletti è rimasta tra le donne e con le donne a parlare di letteratura e di diritti, di emancipazione, a fare politica senza dire di farla. D’altronde anche a Mitilene le donne erano istituzionalmente escluse dalla sfera politica e nel tìaso non se ne faceva menzione, ma ditemi se istruire giovani ragazze non è un atto politico. Saffo nel frammento 147 (riportato nell’esergo di questo articolo), prendendo in prestito da Cassandra la facoltà della preveggenza, sa che non ci si dimenticherà di lei e delle sue ragazze, l’opera di Selby Wynn Schwartz lo testimonia, come lo dimostrano i tanti gruppi di donne che si riuniscono quotidianamente in Italia (e nel mondo) per resistere attraverso la letteratura, la musica, la danza, il teatro, l’arte e la lotta. E se per caso una donna dovesse sentirsi sola o afflitta potrebbe provare a riunirsi con altre, interpretare un inno cletico ad Afrodite, a Saffo, a Lina Poletti, e chiedere soccorso; «ci deve essere in qualche lingua un verbo che indica il fatto di lasciare le lampade accese per qualcuna che non è ancora arrivata».
Dei tanti brevi paragrafi che compongono Le figlie di Saffo non sono qui citati quelli dedicati a William Seymour, Florence Nightingale, Miss Case, Liane de Pougy, Giacinta Pezzana, Sarah Bernhardt, Penelope Sikelianos e Isadora Duncan, Nancy Cunard e a molte altre donne le cui storie si intrecciano safficamente e sorprendentemente, fino ad arrivare a oggi, «un frammento è qualcosa di incompiuto, ma noi andremo avanti insieme».
Per provare a dare una risposta agli interrogativi iniziali, Saffo è una musa ispiratrice, il bagliore di una stella, Espero, la rottura di un equilibrio e l’inizio di uno nuovo, un chiaro di luna:

Piena splendeva la luna
e allorché esse intorno all’altare si disposero.
fr. 154[1]

 

 

[1] Saffo, Poesie, Ilaria Dagnini (a cura di), Roma, Newton Compton, 1982, p. 93.

[2] Questa traduzione è riportata direttamente dall’opera di Schwartz, ne esistono altre, tra le quali: Piena splendeva la luna/quando presso l’altare si fermarono, S. Quasimodo, Lirici greci, Milano, Mondadori, 2020, p. 29.

Il racconto in Michele Mari, di Marco Mongelli

Il racconto italiano, nella sua ricchezza e varietà, è stato esplorato negli ultimi decenni da scrittori diversi per generazione e formazione. Se non è possibile scrivere una storia lineare della forma breve, si avverte sempre più l’urgenza di ragionare attorno a questa forma e studiarne le innumerevoli declinazioni. Il fascicolo, risultato di una giornata di studi, raccoglie interventi su racconti di autori molto diversi (come Tommaso Landolfi, Anna Maria Ortese, Claudio Magris, Michele Mari, Giulio Mozzi), coprendo mezzo secolo di scritture e abbracciando diverse estensioni (tra cui le raccolte di Walter Spina sulla Libia coloniale e postcoloniale, degli alpinisti che rievocano le loro scalate, fino al fenomeno dell’autoproduzione). 

Estraiamo e pubblichiamo parte del capitolo 'Infanzia e fantasmi, la forma racconto in Michele Mari' di Marco Mongelli.


Michele Mari appare un alieno nella letteratura contemporanea italiana anche se pensiamo ai suoi racconti, così distanti sia dall'esperienza dei Cannibali sia dall'asciutto minimalismo importato dagli americani, ma anche dal nuovo realismo degli anni Zero. Quando si smette di considerare quelle qualità “intrinseche” alla forma-racconto e si approccia un ragionamento più storicistico, il racconto di Mari appare davvero in controtendenza, se non proprio incollocabile. Il racconto degli anni '80 aveva infatti secondo Angelo Guglielmi il fine di distanziarsi da ogni idea di totalità e come caratteristiche peculiari quelle di rappresentare «frammenti di realtà visti per sé e non dentro una ideologia del tutto» in una maniera antiletteraria e che tendeva alla funzionalità della scrittura invece che alla sua espressività. Risulta evidente come la forma breve in Mari abbia caratteristiche del tutto opposte, essendo al massimo grado, e fieramente, letteraria ed espressivista, e soprattutto avendo l'ambizione di dire una totalità assoluta e irrevocabile. Anche se qualcuno ha sostenuto che il racconto sia un genere meno assertivo del romanzo a me sembra vero piuttosto il contrario e che invece rifiuti l'ambiguità, la polivalenza e qualsivoglia sfaccettatura per farsi invece mezzo di una spiegazione assoluta del mondo. Come ha scritto Lodoli, in maniera sorprendentemente calzante all'opera di Mari, il racconto con la sua emblematicità costante si presta a essere scrittura di un destino, alimentato da una «fedeltà ossessiva» dei suoi personaggi.
Nel tracciare l'evoluzione del genere, dagli albori connessi all'oralità, passando per la codificazione della novella e arrivando fino allo sfuggente passaggio al racconto moderno, si tende a definire il racconto novecentesco come qualcosa che si è liberato della tirannia del finale, espressa in drammatizzazioni, costruzioni ascendenti ed effetti di clôture. In Mari, al contrario, notiamo sempre una grande importanza accordata ai finali: anche quando il peso narrativo si sposta più verso il centro, soprattutto nelle prove più lunghe, se non tirannico il finale è comunque sempre decisivo. Uno dei miracoli narrativi dei suoi racconti è proprio la capacità di fondere funzionalità e ricercatezza. Oltre che preciso e concreto il linguaggio non rinuncia a essere ricco e forbito come è nelle pagine dei suoi romanzi e così facendo riesce a essere sempre incisivo. Se «l'esemplarità è l'inconscio letterario del genere racconto» di quale esemplarità sono portatori i racconti di Michele Mari?

Innanzitutto, egli ha sperimentato le possibilità dello scriver breve attraverso i vari generi e le forme del narrare. Ad esempio, nelle giornate del finto diario di Io venìa pien d'angoscia a rimirarti, negli interventi saggistici raccolti ne I demoni e la pasta sfoglia o nelle poesie quasi epigrammatiche di Cento poesie d'amore a Ladyhawke. Nei casi citati il macrotesto che raccoglie queste scritture brevi le inscrive in un progetto generale senza far perdere loro autonomia e consistenza. Alla stessa maniera, dunque, credo dovremmo leggere le raccolte di racconti, che raccolgono e restituiscono le angosce e le febbri del passato infantile. In uno scandaglio progressivo, Mari comincia il suo doloroso movimento all'indietro con un riferimento all'Orfeo che girandosi perde quello che era andato a ritrovare (Euridice aveva un cane); poi addita e apostrofa quel passato (Tu, sanguinosa infanzia), e infine mette a punto una trattazione precisa sulla genesi della scrittura dei fantasmi (Fantasmagonia).
Possiamo ritrovare nella produzione di Mari una molteplicità di lunghezze e di forme: da quella breve o brevissima (apologhi o favole con tutto il peso sul finale – come le poesie “a effetto” diCento poesie), a quelli più lunghi e stratificati, dove c'è una concentrazione narrativa maggiore al centro e dove il finale è sì fondamentale ma non così “improvviso”. Mentre la prima e l'ultima raccolta sono composte da molti racconti di varia lunghezza e natura quella centrale risulta più compatta e per questo estremamente indicativa per capire il valore della forma-racconto nell'opera di Michele Mari. Se il compito di una raccolta è quella di mostrare la logica unitaria che guida ogni racconto, il cui senso si deve dispiegare in modo vario ma coerente, allora appare evidente che in Tu, sanguinosa infanzia ogni pezzo è ben incastrato in un'architettura superiore: si ha cioè quella percezione dell'insieme che auspicava Poe nel suo celebre La filosofia della composizione. Se nella novella ciò che conta è l'effetto centrale, verso il quale debbono tendere tutti i particolari, e il dénouement, che deve spiegare tutto quel che precede, poniamoci ora la domanda: in che modo l'infanzia e le sue presenze fantasmatiche si declinano nei racconti di Mari?

Cercherò di rispondere attraverso riferimenti ai racconti più noti.

Iniziamo dall'infanzia dunque, che è sempre in Mari una fase della vita seria e decisiva per tutto quello che avverrà dopo. L'età adulta è un mero prolungamento temporale in cui ossessioni e compulsioni restano le stesse: «non sarai titolare di un letto se non avrai dormito in un lettino […] non leggerai e non possederai Columella o Malebranche se non avrai letto e posseduto Collodi o Salgari» (“I giornalini”, p. 4). L'infanzia è inoltre l'età della paura, perché popolata da mostri e fantasmi, ma anche perché il sentimento di diversità dalla «disgustosa logica della strada» (“L'orrore dei giardinetti”, p. 39) costringe costantemente il bambino nel terrore. Nell'infanzia si sviluppa già l'atteggiamento fondamentale che ogni protagonista di Mari assume verso la vita, infliggendosi un rigore impensabile, non per motivazioni ascetiche ma per un'estrema fedeltà al proprio mondo mentale. L'irriducibile distanza dagli altri esseri umani e la propria solitudine presa come un destino irrefutabile, sono certezze scolpite dal primo giorno e con cui si deve fare i conti fino alla fine. Questa alterità rispetto ai coetanei e rispetto al mondo è assunta senza piagnistei ma anche senza indulgenza: i giochi e gli amori sono seri e nessuna voce li relativizza mettendoli fra virgolette. Si tratta di esperienze solipsistiche che nel testo ci vengono riferite con una sola voce e un solo sguardo. A volte pare che questa esibita insofferenza abbia qualcosa di stoico, altre di terribile ma che funzioni sempre da esorcismo verso tutte le paure infantili. Così gli oggetti, i giornalini, i puzzle, i fumetti, i palloni, le figurine sono oggetti dal valore assoluto e non negoziabile, marchi di un'appartenenza stabilita una volta per sempre e quindi incancellabile.

Credo che il racconto più bello e rappresentativo della prima raccolta, ancor più di quello omonimo, sia quello iniziale, ovvero “I palloni del signor Kurz”, dove emerge già chiaramente la sublime capacità di Mari di far coincidere il verso alto, eroico, alla materia più comune, senza sfigurare né l'una né l'altra. Un connubio perfetto che nella forma breve rifulge: per la nettezza e la rapidità con cui sono tracciati gli elementi essenziali di un mondo mentale tanto particolare quanto limpido e per la precisione e la secchezza dell'andamento narrativo, che può essere tale solo nella forma breve. Nonostante sia più lungo degli altri racconti della stessa raccolta “I palloni del signor Kurz” presenta il consueto finale netto e sorprendente, che si rivela spesso la conclusione più logica per un racconto di Mari. I bambini di questa raccolta sono iniziati alla vista del sesso femminile (Cicoria matta), impongono ai coetanei un ferreo rigore nei loro giochi (“L'ora di Carrasco”) o vivono una dolorosa e costante alienazione dal mondo circostante (“Euridice aveva un cane”).

Con Tu, sanguinosa infanzia, siamo invece di fronte alla quintessenza della poetica dell'infanzia di Mari. Quei temi e quelle riflessioni prima accennati e ripresi, si presentano qui al massimo grado di precisione e altezza estetica. A partire dal titolo ci accorgiamo di un'altra qualità che ha l'infanzia, quella di essere sanguinosa: una ferita sempre aperta e non rimarginabile. In ogni racconto di questa raccolta l'uomo adulto la fissa e la qualifica, la riconosce e decide di conservarla. Nel primo racconto l'infanzia delle avide letture va salvaguardata da ogni sguardo infedele, persino quello del figlio che sta per nascere. I giornalini sono «monumenti della mia solitudine» (“I giornalini”, p. 6) dice il protagonista, non sono semplici documenti che stanno lì a testimoniare un passato ormai attingibile solo col ricordo, ma la concretizzazione sempre presente di quel passato. In “L'uomo che uccise Liberty Valance” è presente un altro topos di Mari, quello del senso di colpa dell'uomo adulto verso quegli oggetti che mentre cresceva ha fatto scivolare in secondo piano, addirittura perso o scambiato. Tenere tutto ciò che si è amato anche un solo istante non è però un'operazione difensiva che serve ad allontanare il rimpianto, ma la spia di quell'atteggiamento di feticistica conservazione che ogni personaggio di Mari deve avere verso la sua infanzia e le sue manifestazioni tangibili: tutte le copertine di Urania devono essere scrupolosamente archiviate dal lettore e «memoratore», anche a costo di uscirne «sfibrato» (“Le copertine di Urania”, p. 29). Se l'infanzia è il luogo dove tutto è già accaduto – «Non c'è stato molto altro nella vita» «No, è quasi tutto laggiù» (“Laggiù, p. 129) – dopo c'è solo «l'orrenda vita da vivere» (“Le copertine di Urania, p. 31). Solo nella reiterazione sempre più minuziosa di un gioco di emulazione, nella sua descrizione istante per istante «tu bambino angosciato trovavi la pace» (“Mi hanno sparato e sono morto”, p. 35), ci dice Mari. Una parte fondamentale di questa fenomenologia dell'infanzia la ricoprono i libri: in “La freccia nera” il bambino scopre le paradossali epifanie che possono derivare dalla lettura di due edizioni diverse di uno stesso libro; in “Otto scrittori” l'adulto cerca di capire a chi, fra i suoi scrittori preferiti, deve la maggiore devozione. Ma è forse nel racconto intitolato “Certi verdini” che Mari, attraverso lo schermo di un altro oggetto-feticcio, il puzzle, ci dona la più precisa metafisica dell'infanzia. La maniacale, rigorosa iniziazione all'arte della composizione di un puzzle ci dice che per Mari ogni gesto vuol dire principalmente se stesso, perché nella sua gratuità disinteressata c'è tutto il suo valore.
Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non “per passare del tempo” [...] ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. (p. 94)

In Fantasmagonia, che raccoglie racconti scritti lungo il corso di parecchi anni ed è per questo meno coesa delle raccolte precedenti, notiamo un aumento del carattere breve di molti racconti, che spesso sfruttano una trovata brillante per un finale a effetto. In generale la riflessione sull'atto stesso della scrittura come rielaborazione dei propri fantasmi è molto più esplicito e l'infanzia perde la sua centralità in favore della fase adolescenziale, come in “Iride e madreperla” e “L'ultimo buscadero”, fra i racconti più riusciti della raccolta.

L'altro grande tema di Mari, qui assoluto protagonista, è quello orrorifico dei mostri. Innanzitutto va chiarito che per Mari mostro vuol dire, dall'etimo, prodigio. E prodigiosa, ovvero piena di mostri, è la sua infanzia. Con queste presenze il bambino e poi l'adulto instaurano una lotta che è sempre una lotta contro se stessi: se questi fantasmi sono proiezioni del sé tuttavia non perdono mai il loro carattere corporeo, divenendo presenze che perseguitano ma con le quali instaurare un dialogo. Sono nemici ma anche alleati, spesso coincidono con un io dai desideri indicibili e repressi. Nel testo queste ombre assumono quindi una forma peculiare, quella dei nostri lati oscuri. I racconti di Mari ci dicono l'evidenza dei nostri fantasmi e la loro supremazia su qualsiasi altra realtà: ci sconfiggono sempre perché hanno sempre una concretezza materiale, seppur onirica o immaginosa, che procura dolore oltre che spavento. In definitiva, i fantasmi «non esistono perché essi SONO» (“Fantasmagonia”, p. 150).

Gli spiriti abitano edifici (“In virtù della mostruosa intensità”, “La legnaia”), gli oggetti (“Forse perché”) e le persone: «chissà perché in ogni cosa riesco solo a vedere la morte» (“Forse perché”, p. 127) si chiede il bambino nell'ultimo racconto di Euridice aveva un cane. La risposta chiude il cerchio tra infanzia e fantasmi: perché è proprio il bimbo, in quanto portatore di uno sguardo di morte, a essere il mostro. Sguardo di morte anche inteso come assuefazione all'orrore, allo spavento: «E io, quando da grandicello vidi L'esorcistaLa cosaLa casaLo squalo e Alien, non vidi nulla che non mi fosse familiare, molto familiare da sempre» (p. 124) dice una voce in “Laggiù”, ultimo racconto di Tu, sanguinosa infanzia. Ma le presenze ultraterrene che parlano al bambino ormai cresciuto possono anche prendere le sembianze di un padre giudicante (“L'uomo che uccise Liberty Valance”), di scrittori benevoli (“Otto scrittori”) o una proiezione di una coscienza che considera malevoli dei sentimenti che altrove si chiamerebbero semplicemente infantili. Ma ormai sappiamo che non c'è nulla di innocente in quest'infanzia capace di generare dolori e desideri di spaventosa grandezza. In Fantasmagonia il primo e l'ultimo, omonimo, racconto dicono la parola definitiva sul tema: in “Conversazione notturna con il mostro”, il protagonista scopre il legame indissolubile a cui il proprio mostro è in grado di costringerlo; in “Fantasmagonia”, invece, è questione precisamente della nascita dei fantasmi. «Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo» (p. 142): così comincia questo finto racconto, in realtà una breve trattazione per punti, in cui si enumerano le caratteristiche necessarie al soggetto per essere abitato. Dall'immutabilità al riconoscimento, passando ovviamente per la paura e la commozione, sono diciannove i passi di questo cammino. Se la letteratura è «l'unica scienza esatta in materia» (p. 145) di presenze fantasmatiche è a essa che in ogni pagina tende l'ultima silloge di Mari.

È difficile parlare di un'evoluzione nella narrativa di Mari, proprio a causa di quella coerenza di temi e stili che da ormai un trentennio ne fa un autore riconoscibile da poche righe. Eppure io credo che il meglio, l'apice di questa ricerca letteraria e stilistica sia da ricercarsi negli anni che vanno dal 1997 al 1999 in cui con Tu, sanguinosa infanzia e Rondini sul filo Mari mette a fuoco tutte le tematiche a lui care con una concentrazione narrativa ed espressiva inarrivabili.
Proprio la seconda raccolta è forse il vertice assoluto e i racconti ciò che rimarrà più a lungo della sua produzione, ciò che si leggerà sempre con lo stesso entusiasmo, perché posseggono, ciascuno singolarmente e tutti presi nell'insieme, quell'unità d'effetto che è il primo comandamento di ogni buon racconto. Nettezza e compiutezza espressa nei toni più disparati: dall'assertorio al lirico, passando per l'epico e l'elegiaco, l'effetto è sempre quello di una folgorazione, il riconoscimento di qualcosa che vedevi confusamente e a cui non riuscivi a dare un nome.
In conclusione, se l'infanzia come tempo della vita è un'esperienza condivisa da tutti, non credo sia così universale riconoscersi nell'infanzia per come ce la racconta Michele Mari. Per farlo, infatti, ci vuole uno sguardo preciso e direzionato, in qualche modo sperimentato di persona. L'iniziazione a quella sorta di culto, che sono i libri di Mari, passa secondo me in prima istanza da questo. Da quell'oltranzistica, fanatica, ossessiva volontà di mettere ordine nei propri fantasmi privati unita a un umorismo di struggente tenerezza. È ciò che crea quell'originalissima e inimitabile miscela, che chiamerei, con un ossimoro, il massimalismo privato di Michele Mari.
Il paradosso della scrittura di Mari, in definitiva, è che essa eccelle in tutto ciò che è negletto dalla nostra contemporaneità: lo scrivere breve ma non frammentato, la citazione mascherata o rielaborata, uno stile consapevolmente manierato. Eppure, nemmeno il più ostinato dei detrattori potrà negare che l'originalità e l'altezza di questa operazione sta nel sentimento profondo che anima la letterarietà ricercata ma vivacissima di Mari: una tenace fedeltà, incantata senza essere ingenua, un'immaginazione che non distingue fra alto e basso, ma che rifugge la volgarità ed elegge i propri oggetti d'amore.

Utopie di morte e rinnovamento nei mondi di Livio Santoro

di Alice Pisu

 

Con Le favole nuove (Edicola, 2024) Livio Santoro compone un complesso mosaico di storie che rivelano nella forma breve l’esaltazione della salvezza nella disgregazione. Le micronarrazioni misurano la complessità di scenari soggetti a continue deformazioni esaltate da una prosa dal passo epico e dagli scorci lirici che attestano l’inesorabilità della dispersione. Il peculiare uso dell’elemento fantastico è funzionale a enfatizzare le anomalie del reale. Gli ingrandimenti su catastrofi personali e storiche a partire dall’esordio Piccole apocalissi (Edicola, 2020) tracciano un percorso cupo, oscuro, che riconosce nelle Commedie del vespero e della notte (Edicola, 2022) la cadenza delle stagioni di un dolore inestinguibile attraverso illusioni e abbagli, sacrifici estremi di figure estromesse dalla comunità, prive di salvezza, e che raggiunge il suo culmine con Le favole nuove nell’indagare il solco tra morte e rinnovamento.
La revisione di figure appartenenti al mito e a leggende popolari esalta gli aneliti sopiti e le fantasie di distruzione che dominano l’essere umano anche attraverso un dialogo aperto e sospeso con creature anomale, per stilare un catalogo di traumi corali che esprimono il conflitto irrisolto tra i soggetti narrati e il mondo che abitano.

 

Una creatura irregolare fatta di innumere spoglie aveva preso forma, un ammasso lunghissimo variamente decomposto fatto di mani e di braccia, di gambe e di piedi, di ventri, di lingue e di teste, avanti a tutte quella di Glodana Mosselet. E stava emergendo rapida là sotto,
per farsi portatrice di propositi tutt’altro che concilianti.

 

Sfilano sulla pagina eremiti in fuga nel bosco, bestie parlanti, divinità generatrici di vita, senzatetto che diventano monti appuntiti dal capo brullo, esuli prede di gabbiani famelici, nomadi tormentati da presagi di sangue e distruzione. Ad accomunare le storie la costante riscrittura di una genesi mutevole che, a partire da Memorie del prima, si rinnova con motivi espressivi e tematici nuovi nelle descrizioni di figure sovrannaturali che preesistono al tempo, come Brali in Occhi sorgivi ed equestri primordi che nell’unione spirituale e carnale con Arnali generò gli esseri umani e i cavalli – “Il resto, tutto il resto, venne soltanto dopo” – o come l’essere bifronte fatto in parti uguali d’anima e di carne anteriore che regola gli eventi e vigila il passaggio tra i mondi: con i suoi due membri asperge di seme le due dimensioni, fecondando quanto già inumidito con il latte dei seni (Imaiami).
Le riflessioni sull’origine si nutrono di allegorie e metafore per indagare gli esiti di una trasformazione nell’estrarre la pietra della follia, per riconoscere le condizioni sociali primarie, per immaginare la ricostruzione di paesi deserti e identificare gli elementi necessari a favorire un passaggio di stato. Emblematico in tal senso il racconto Parabola dell’uva, incentrato sulla proposta di un modello per il popolo seguendo l’esempio del grappolo. Occorre saper riconoscere negli acini gli individui capaci di dare vita a una comunità grazie al loro modo di essere collegati tra loro, pur nella consapevolezza che solo uno di loro ne determinerà l’esistenza.


[...]per salvare il tuo popolo devi essere quell’acino, pur sapendo di non poterlo essere tu stesso. Devi esserlo tu ed al contempo devi incoraggiare tutti gli altri ad esserlo, senza che tuttavia nessuno in particolare lo sia. Solo così potrai salvare il tuo popolo, e potrai salvarlo proprio nell’atto di dargli vita.

 

Nel muoversi tra edifici in rovina, boschi infiniti con miracolosi cespugli di luppolo, rotaie e case cantoniere abbandonate, cordigliere, dimore di estremi presidi sacerdotali, meli che generano frutti avvelenati, terre brune, giardini senzienti e minacciosi che preesistono alle città di cui sono i carcerieri, i soggetti di Santoro si scoprono perennemente tormentati dal tempo, e finiscono per diventare agenti del cambiamento nel contribuire a strutturare universi magici. Si confrontano con una natura ostile, indifferente alle loro sorti, non dichiarano sino in fondo i loro scopi nell’errare in regioni utopiche o nel permanere nella soglia tra mondi diversi.
“C’era spesso un interminabile orizzonte, una strada da percorrere per arrivare chissà dove”.
Le apparizioni composte sulla pagina trovano nella dimensione sotterranea e onirica il preambolo al tragico, l’amplificazione di una follia celata da tormenti e brame, il miraggio di un eterno ciclo di disfacimenti e nuove creazioni. Le narrazioni di Santoro ispezionano l’inganno del noto, trovano in scenari apocalittici le possibilità per esperire la fine e immaginare un rinnovamento che passa per una trasfigurazione singolare e collettiva, dagli accenti surreali che amplificano riflessioni sul significato del sacrificio, sulla colpa, sul potere, sulla rabbia e la follia, su un’idea di giustizia in relazione al castigo, sulle vessazioni subite da popoli improvvisamente accesi dalla rivalsa, sulla conoscenza originaria.

 

E Calonia Vanià, che impotente aveva assistito allo scempio, profondò nella colpa: lacrime penitenziali presero a sgorgarle in gran copia dagli occhi, tanto da colmare in breve la forra, che divenne infine rivo: il tristo rivo di Calonia Vanià, come viene ricordato ancor oggi. Tristo per la sua lacrimosa genesi, certo, ma anche per aver inghiottito in un batter d’ali due popoli e due milizie, quando per darsi battaglia cercarono a tutti i costi di valicare le acque senza nemmeno togliersi le vesti, senza nemmeno sfilarsi l’armatura.

 

L’invenzione favolistica che approda alla parabola definisce un’attrazione per il lato oscuro e selvaggio dell’esperienza, misura inquietudini remote e miraggi. La singolare voce letteraria di Santoro si palesa nel bizzarro universo narrativo, nella linea espressiva: i tratti grotteschi dagli stacchi lirici, le distorsioni parodiche, caustiche, tragiche, mostrano gli esiti di un’alienazione che trova nel singolo l’emblema di uno smarrimento che invade ogni cosa e che solo in apparenza è generato da un cataclisma, da un flagello divino o da un destino avverso.
La vena fantastica favorisce nell’opera l’analisi della miseria umana, il presentimento della fragilità di una società moderna svilita dei suoi ideali, intuita negli scenari che ne anticipano le sorti. La prosa febbrile, incorrotta  perlustra le possibilità linguistiche attraverso un groviglio di simbologie, dal canto di versi endogeni –  “Versi di belva ardente e cieca che emerge furiosa in cerca d’aria e di respiro” emessi da bocche dalle “lingue sconosciute di lava” (Poetica dell’igne) –  al verbo che da una voce porpora precede e genera l’oblio o ricostruisce il ricordo (La sua parola).
A definire l’atipicità di questa voce letteraria sono gli esperimenti linguistici, l’espressività stilistica, la ricercatezza lessicale, l’attenzione estrema riservata alle possibilità della lingua, il carattere fantastico, il richiamo simbolista, i motivi tematici, lo studio formale, che rimandano agli esempi di Tommaso Ladolfi, Giorgio Manganelli, Antoine Volodine, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar. Con Le favole nuove Livio Santoro esperisce un rinnovato tempo del mito, scandisce visioni arcaiche e allucinazioni fantastiche, illumina presenze conturbanti e figure inumane che avanzano verso l’ignoto per scandagliare, nell’inatteso dispiegamento di fantasie utopiche, una tensione alla liberazione del represso che illumina di possibilità nuove l’inganno sensibile.

 

La dimensione della collettività ne ‘Le conseguenze’ di Manuel Muñoz

di Debora Lambruschini

 

A noi lettori capitano delle particolari connessioni tra le storie che abitiamo o che ascoltiamo e quando non ricercate la loro eco si espande potente. Di recente ho riletto insieme al mio gruppo di lettura il capolavoro di Steinbeck, Furore, e da allora vado continuamente dicendo che è uno di quei libri che ti cambia un po’ la vita o, perlomeno, la percezione delle cose; un romanzo di una potenza inarrestabile, di estrema attualità. Un classico, per definizione, riletto proprio a ottobre mentre parallelamente scoprivo le storie di Manuel Muñoz, Le conseguenze, pubblicate in Italia da Black Coffee: due contesti storici e culturali differenti come lo sono anche le modalità narrative, ma entrambi caratterizzati da una simile urgenza e dalla riflessione sul tema del migrante, sulla realtà del lavoro nei campi, la discriminazione, l’incertezza, il sogno che si infrange. Steinbeck scriveva, negli anni Trenta, della grande ondata migratoria dagli stati centrali verso la California, delle famiglie di contadini cacciata dalla terra che lavoravano e che andavano verso Ovest a cercare fortuna trovando invece povertà, fame, disprezzo; Muñoz ritorna alla California dove la sua famiglia arrivata dal Messico si è costruita una vita e ambienta le proprie storie tra gli anni Ottanta e Novanta, dando voce alla comunità latinoamericana dei raccoglitori agricoli.
Immediatamente si sono spalancate diverse porte, connessioni da un libro all’altro ma anche parole ed esperienze ascoltate da chi, oggi, vive in California ed è entrato in contatto con nuove storie di immigrazione: Furore, quindi, ma anche il romanzo Paese infinito di Patricia Engel, e, non da ultimo, la raccolta di Freeman’s dedicata alla California tra le cui pagine avevo appunto scoperto Muñoz un paio di anni fa. Su Freeman’s era apparso il racconto Susto ed è grazie a una felice intuizione di Sara Reggiani, fondatrice di Black Coffee e traduttrice, che non solo Le conseguenze è oggi tradotto in italiano, ma è merito suo se la raccolta effettivamente esiste: da anni infatti Muñoz viveva una sorta di blocco e, dopo il successo delle due raccolte del 2003 e del 2007 che gli erano valse numerosi premi e riconoscimenti di pubblico e critica, si era rifugiato nell’insegnamento (all’università di Tucson, Arizona) e alla sporadica pubblicazione su rivista. Folgorata dal quel racconto, Reggiani si è subito messa in contatto con l’autore, spronandolo a scrivere una raccolta e garantendogli l’interesse per la pubblicazione in Italia. I racconti sono fluiti, la raccolta è prima uscita negli Stati Uniti (accolta anche in questo caso con notevole favore) e poco dopo è arrivata la traduzione italiana, a cura di Annalisa Nelson, naturalmente per Black Coffee. Approda nelle librerie a cavallo del National Hispanic Heritage Month, il mese lungo il quale negli Stati Uniti si celebra la rilevanza della cultura ispanica e il contributo alla storia del Paese: una serie di iniziative senza dubbio lodevoli e interessanti, ma che mettono anche in evidenza il vuoto rappresentativo avvertito dalla comunità latinoamericana. Perché nonostante la complessità e stratificazione della società statunitense, la sua letteratura è stata per molto tempo – e in certa misura ancora di recente – specchio e appannaggio perlopiù di una fetta specifica: lo scrittore maschio, bianco, eterosessuale, della middle class. Ancora negli anni Duemila quella che all’epoca era una libraia – e oggi una scrittrice molto apprezzata, anche in Italia – avvertiva il vuoto di rappresentazione per chi come lei veniva da una famiglia di origini latine, messicane e native nel caso specifico. Una comunità numericamente importante – mi dicono per esempio che infatti quasi ovunque negli Stati Uniti i menù dei ristoranti siano scritti sia in inglese che in spagnolo – sulla cui forza lavoro praticamente si fonda da sempre la nazione; ma che, appunto, è stata a lungo trascurata dall’indagine culturale, con poche voci che nel tempo si sono inserite nel panorama letterario nazionale. La scrittrice in questione era Kali Fajardo Anstine, autrice della bellissima raccolta Sabrina&Corina del 2021 con la quale tentava appunto di colmare quel vuoto, rappresentando nelle sue storie la sua stessa comunità latina e indigena.
Manuel Muñoz si colloca quindi in questo filone e le sue storie contribuiscono a riempire uno spazio, rispondere a quella mancanza di rappresentazione. I dodici racconti di Le conseguenze, come gli altri delle raccolte precedenti – per il momento non tradotte in italiano – tornano alla comunità nella quale è cresciuto, ambientate tra Fresno e zone limitrofe, in quella Central Valley di distese infinite di campi, piccoli centri urbani, sacrificio e incertezza; dove, tra gli anni Ottanta e Novanta, il senso di precarietà di quelle vite era acuito dall’Immigration Reform and Control Act, nato per contrastare l’immigrazione clandestina ma degenerato presto in espulsioni di massa, non così lontano da certe dinamiche di anni più recenti. Muñoz dà voce e corpo a una collettività, alla comunità di immigrati di prima o seconda generazione, quasi tutti provenienti dal Messico e che lavorano nei campi. Storie di uomini e donne tra vulnerabilità e resilienza, di vita quotidiana, di lavoro e legami famigliari complessi, segreti, possibilità, rimpianti e di una distanza che pare incolmabile tra loro e gli americani bianchi, una discriminazione fatta anche di dettagli solo all’apparenza minimi, che si rivelano sulla pagina senza fronzoli:

 

[…] il suo viso si accigliò come facevano quelli dei bianchi che Delfina aveva incontrato in Texas, quelli che sembravano sempre sorpresi di sentirla parlare in inglese.
 (“Può farlo chiunque”, p. 31)

 

Ma sono anche storie diverse e al racconto della realtà contadina, il dramma delle espulsioni, l’attesa, la clandestinità, si intreccia anche il discorso su rapporti e identità complesse, di un microcosmo stretto tra casa e lavoro, desiderio di fuga, possibilità e sogni infranti. Dodici storie attraversate tanto dalla ruvidità quanto dalla tenerezza, che è nello sguardo benevolo del suo autore ma anche in certi brevi lampi di gentilezza e umanità dei personaggi. Come Griselda di La ragazza più felice di tutti gli Stati Uniti, in viaggio per recuperare il suo uomo al ritorno dall’ennesima espulsione, coriacea e di poche parole, ma che si prende cura di una ragazza sconosciuta alla prima esperienza con quel viaggio.
In apparenza la soluzione per Griselda e l’uomo sarebbe a portata di mano, il matrimonio potrebbe mettere fine alla precarietà delle loro vite:

 

Io ho la cittadinanza. Sono anni che gli dico che il matrimonio ci risolverebbe un sacco di problemi. Quando mi chiede cosa dobbiamo fare, gli dico che dobbiamo andare in municipio per prendere la licenza, ed è a quel punto che ha paura. Come tanta altra gente ha paura del governo.

(“La ragazza più felice di tutti gli Stati Uniti”, p. 49)

 

La paura, un sentimento che tutti i personaggi di queste storie, in forme diverse, conoscono bene. Ed è, prima di tutto, la paura derivante dalla loro condizione di migranti, la diffidenza, la mancata integrazione, la concreta possibilità di perdere tutto quel poco che hanno se la migra decide di espellerli, se un altro attraversamento del confine la prossima volta non sarà possibile.
Non c’è nei racconti di Muñoz una feroce critica sociale, né sono attraversati dall’intento di denuncia: eppure, in qualche modo, anche queste storie sono un atto politico. Lo sono nella misura in cui raccontano quelle vite ai margini, un quotidiano che a molti di noi è dato il privilegio di non conoscere e che ci spalanca le porte su una realtà che è la stessa nostra ma della quale non ci accorgiamo pienamente. C’è, fortissimo, il desiderio di raccontare una collettività in cui la finzione si intreccia alle storie ascoltate, senza mai scadere nel pietismo ma presentandole nella loro cruda quotidiana verità. E se, a differenza di Furore, manca quella carica potentissima di critica sociale e denuncia alle politiche messe in atto, Le conseguenze è rappresentazione di un microcosmo di cui intuiamo ancora oggi essere cambiate di poco le dinamiche, i timori, le divergenze tra ciò che si immaginava e ciò che è la realtà.

 

«Pensi che mi avrebbero creduto? Pensi che la gente ti creda solo perché dici qualcosa? Pensi che basti dire che hai i documenti? Queste» disse con le mani tese in avanti come un’offerta.  

«Queste sono i miei documenti».

 (“Il lavoro nei campi”, p. 172)

 

È un passaggio particolarmente intenso, che ben sintetizza sentimenti complessi come la paura, la precarietà, la fatica, le possibilità. Quest’uomo, in un centro di riabilitazione dopo un brutto ictus, che mostra le mani al figlio nato sul suolo americano e lo mette di fronte alla realtà, quest’uomo, un padre anziano che è stato tutta la vita a lavorare nei campi dei bianchi e che ogni giorno ha sentito di non avere voce, di non avere diritto di farla sentire, di non essere abbastanza legittimato. Ecco, quando dicevo che Le conseguenze non è un testo di denuncia eppure in qualche modo lo è lo stesso, perché la letteratura, un certo tipo almeno, è sempre un atto politico.
I racconti di Muñoz prendono vita in quella comunità e ne raccontano non solo il lavoro e le incertezze derivanti dalla condizione di immigrati, ma anche le mille altre sfumature dell’individuo: le distanze di certi legami famigliari, le relazioni, l’omosessualità, la rinuncia, i segreti, la fuga come idea potenziale o irrequietezza costante e tragica.

 

Non aveva mai fatto niente di più che limitarsi a sognare distrattamente di andarsene via da Fresno. Ma aveva troppa paura per farlo.

(“Le conseguenze”, p. 115)

 

Sono racconti, inoltre, perfettamente autonomi e autoconclusivi, ma che dialogano anche tra loro in modo particolare: uno short story cycle, per i frequenti piccoli rimandi interni dall’uno all’altro, ma soprattutto una storia collettiva, un coro di voci ed esperienze che compone un quadro più complesso.
C’è sempre un numero limitato di chiavi di lettura con cui scegliamo di addentrarci in una narrazione, che si lega inevitabilmente alla sensibilità del lettore, talvolta all’esperienza personale, a un certo grado di empatia. E non è così necessario a mio avviso riconoscersi in quello che leggiamo, anzi, è proprio nello scostamento tra ciò che viviamo e ciò che una storia ci mostra dell’altro e del mondo che la letteratura compie il suo miracolo: ma è quanto mai urgente calarsi nei panni dell’altro, mettere in discussione le nostre convinzioni e togliere il filtro della realtà che conosciamo per iniziare a comprendere la complessità del mondo e la stratificazione delle nostre società. Una sorta di allenamento per il nostro sguardo, magari per la nostra empatia; forse allora proprio i racconti, con il loro particolare respiro, possono abituarci a osservare le cose da un’angolatura differente, a leggere gli spazi bianchi, a colmare i vuoti della narrazione.  Ad amplificare l’eco di tutte quelle voci che ancora aspettano di essere udite.  

L’apoteosi del visibile, la verità del sogno in Federigo Tozzi

di Alice Pisu

Edizioni degli animali riporta alla luce un testo ormai introvabile di Federigo Tozzi, Fonti. La prima sezione dal titolo omonimo si rifà alla lezione dei Taccuini di Barbablu del 1983, esito del confronto con le otto cartelle del dattiloscritto originale. Le altre tre sezioni sono tratte da Cose e persone (Vallecchi, 1981), con abbozzi e notazioni. Tra le ragioni della riflessione sulle fonti il progetto mai realizzato dal titolo Cose. Gli scritti brevi apparsi originariamente su La ruota (25 agosto 1916) e sul Messaggero della domenica (21 giugno 1919) solcano gli anni della redazione di Bestie, prose liriche tra le più originali nell’ispirarsi al frammentismo e nel lasciare intravedere, al contempo, una traccia condivisa per il ricorso continuo a creature animali con un preciso valore simbolico.
Riscoprire oggi opere meno conosciute di uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, noto in particolare per Con gli occhi chiusi, Il podere e Tre croci, permette ai lettori di rintracciare le ragioni della scrittura negli esperimenti narrativi, nella disposizione all’alterazione fisica nell’osservazione del suo tempo, nel senso di profonda alienazione e rimozione della realtà.
La forma breve esalta la peculiare capacità dello scrittore senese di muoversi tra tensione naturalistica e frammentismo come misura del racconto di sé e per esplorare un personale universo finzionale. Le influenze fondamentali in Tozzi – Dostoevskij, Pirandello, Verga e D’Annunzio, in particolare – inducono a un superamento degli ideali estetici del naturalismo e dell’aderenza a un punto di vista strettamente oggettivo, in favore di immagini sul disordine dell’individuo, visioni perturbanti sul noto.
In Fonti l’autore si pone alla ricerca di quel che c’è nella sua anima.


“Le cose si amano soltanto quando si ricongiungono con le loro immagini sognate; ma, ormai, non ci credo più, e non le sento più mie”.

 

 Scandaglia reperti del passato tra oggetti domestici svicolati da un senso di appartenenza personale che attestano un tempo irraggiungibile a conferma delle poche certezze insite nei sogni.
“Ma niente è più vero dei miei sogni: né meno la mia anima che li vede e li sente”.
Il paesaggio naturale delle fonti di Siena e le insistenze sulla vita contadina sono turbati da elementi minimi che inquinano quell’apparente quiete, anticipano l’incombere del dramma, il presagio della fine. Il contesto selvatico e i riferimenti al mondo rurale non sono confinati a mero sfondo, ma contribuiscono alla narrazione del rapporto con l’io, connotano l’impressionismo lirico tozziano. La dimensione silvestre amplifica lo studio di un malessere radicato che si traduce sul piano formale in una prosa resa per schegge, frammenti, visioni fulminanti, deformazioni del reale che allentano il confine tra interiorità e esteriorità.

Se lo sapesse quest’erba che io mi sono fermato alla fonte, per uccidermi! Ma l’erba ha sentito soltanto le mie scarpe, quand’io mi ci son fermato, pieno di dolore: forse a ripassare, come un mazzo di carte bisunte, i miei sogni simili ad un’erba fresca cresciuta in vece sul margine degli anni; che mi parevano più corti dei minuti e del mio respiro”.

 

A caratterizzare le prose la capacità dell’autore di tradurre stati d’animo nell’attenzione estrema riservata a cenni, gesti e percezioni sensoriali, esplicitata in particolare ne La fonte colma: “Quando si crede di descrivere uno stato d’animo, noi siamo piuttosto in sua balìa. Se una sola delle nostre parole riuscisse a entrare dentro uno dei nostri stati d’animo, la parola vi si annegherebbe per non tornare mai più fuori. Si ha sempre la sensazione di rasentare una specie di caverna immensurabile, dentro la quale è vietato entrare. Chi non sente dentro di sé questa specie di infinito che ci respinge tutte le volte che non ci contentiamo di vederlo soltanto a una certa distanza?”
I turbamenti narrati riguardano anche la sfera affettiva come mostrano le pagine dedicate all’ambiguità del rapporto tra innamorati resa nei desideri sopiti, nelle fantasie, nel dissidio interiore tra attrazione e repulsione.

 

“Non avevamo voglia di parlare; anche noi incerti come l’aria, con improvvisi sentimenti che ciascuno di noi trovava piacere a tener per sé; sognando di baciarci, senza in vece baciarci da vero; sognando le nostre mani, senza né meno sfiorarle pure che le tenessimo quasi insieme sul muricciolo; sognando di amarci senza amarci da vero; sentendoci buoni, ma stando cattivi e melanconici; con certi sprazzi di fecondità che parevano d’un tempo ormai trapassato; con certe conversazioni che gonfiavano la nostra anima; ma zitti, evitando perfino di parlarci; per non smettere di vederci con il nostro pensiero; attenti nelle nostre risposte che ci facevamo l’uno per conto dell’altro; ma con il desiderio di lasciarci[…]”.

 

Ad assumere piena centralità nell’indagine narrativa è la percezione emotiva del soggetto che si rapporta al mondo che abita, resa attraverso oggetti-simbolo che misurano le incertezze, la crisi interiore, l’estraneità al presente, con una prosa dagli accenti espressionistici che traccia tormenti e nodi irrisolti, come emerge in particolare nella minuziosità descrittiva riservata alle zolle, ai “lombrici”, nelle pagine dedicate alle fonti senza voce.
“Era come se quell’acqua avesse attraversato la mia anima, con il suo silenzio, ogni sera”.
Il continuo rimando agli elementi, e all’acqua in particolare, traccia un’evoluzione sensibile, radicata nell’ascolto del codice naturale, che rischiara la peculiare visione del tempo tozziana. 
“Cadute giù le ultime foglie con quella pesantezza che avrebbe avuta tutto l’albero, c’era da domandarsi che avrebbe fatto la fonte, vicino al tronco, aspettando le gemme nuove”.
La riflessione sulla caducità si lega a personali consapevolezze tardive sul limite di una collocazione dell’individuo nello spazio e nel tempo.
“La mia giovinezza io l’ho sentita quasi all’improvviso. Essa era in me da tanti anni, ma credevo di essere restato sempre lo stesso”.
Anche nell’ultima sezione la riflessione sul tempo torna con forza a connettersi al tema del cambiamento e della trasfigurazione.

 

“Ci sono, dentro di me, sgorbi infantili; come pensieri immutabili, che restano insoddisfatti per sempre. Forse, li ritroverò sempre più profondi; e non avrò più il coraggio di avvicinarmici. Sentiamo quel che ha da dirmi, poi, la mia adolescenza quando guardo la cima dei miei castagni
 che il vento fa tremare come allora!”.

 

Tozzi condivide con i suoi contemporanei Svevo e Pirandello il racconto dell’inquietudine esistenziale e storica del suo tempo, con accenti dolorosi che richiamano il difficile rapporto con il tema della perdita che, a partire dalla vicenda personale, risuona nelle frequenti fantasie di morte.
Fonti consegna una riflessione sull’esistenza nei toni assoluti assegnati a visioni che paiono configurare l’inesorabile attraverso elementi che rompono l’armonia composta sulla pagina, per prefigurare nel disordine una strenua necessità di conoscenza. 
“C’era una fonte dove avrei voluto morire, perché non ero contento di me stesso; e mi pareva così di trovare soddisfazione per la mia anima. Ma, uccidendomi, m’illudevo di avere anche dopo coscienza di me stesso”.

Il quotidiano oscuro di Amparo Dávila


di Debora Lambruschini
 

Leggere Amparo Dávila significa accogliere l’ignoto, aprirsi al perturbante e a un mistero che non verrà quasi mai del tutto svelato. È tornare alle origini della short story – o meglio, al cuento – e agli elementi strutturali che caratterizzano la forma: la cura artigiana delle parole, il non detto, la storia sommersa, le increspature sulla superficie, le svolte inaspettate dei finali, il frammento. Leggere Dávila significa anche riconoscere l’unicità della voce di quella che è generalmente considerata la più grande cuentista messicana, a lungo trascurata dalla critica ma il cui culto letterario è a poco a poco cresciuto, fino a farne una scrittrice popolarissima in patria e da qualche anno conosciuta anche tra i lettori nostrani. In Italia il nome di Dávila è iniziato a circolare nel 2020, anno stesso della scomparsa dell’autrice: è la casa editrice Safarà a tradurre per la prima volta i racconti di questa maestra dell’insolito e del fantastico. Alla prima raccolta, L’ospite e altri racconti, si è di recente aggiunta Morte nel bosco e altri racconti, entrambe sapientemente tradotte da Giulia Zavagna, che segue la prosa mai eccessiva di Dávila, una semplicità apparente che è lavoro di scalpello, di sottrazione, di dosaggio sapiente di parole concrete, aderenti alla realtà e che per contrasto evocano il mondo immaginifico dell’autrice.
L’America latina è un confine geografico e letterario ben noto agli amanti della forma breve, perché il racconto qui ha sempre trovato terreno fertile, accanto alla stessa riflessione teorica che l’ha definito. Basterebbe citare uno su tutti Julio Cortázar, nume tutelare del racconto tra scrittura e teoria letteraria, lui stesso grande ammiratore dell’opera di Dávila. E a una certa tradizione sudamericana – cuentista e non solo – il nome di questa scrittrice è stato più volte accostato: Cortázar appunto, Horacio Quiroga, Elena Garro, Gabriel Garcia Marquez. O, per allargare gli orizzonti geografici, Edgar Allan Poe, Kakfa, Shirley Jackson. Buzzati, oserei perfino dire, per quella vena di realismo magico che ne caratterizza alcuni racconti, l’inquietudine e il surreale che irrompono nel quotidiano.
Nomi che si rincorrono e ai quali in qualche modo la scrittura di Dávila si accosta per un comune sentire, una certa tensione di sguardo, un’etichetta che la critica può apporvi; ma la voce di questa scrittrice è unica nel suo genere e per prima in Messico tratta la questione femminile in stretto rapporto con il contesto sociale e la dimensione domestica spogliandola della patina dell’attivismo, della denuncia sociale, dei proclami, e discostandosi quindi dalle tendenze dominanti. Il perturbante di Dávila si fa domestico – e per questo ancora più intenso – , l’orrore, l’oscurità entra nel quotidiano.

 

Torna con il caffè caldo, lo serve a Marcela, ne prende un po’ anche lui. Il sole entra e illumina la stanza, sono le nove e mezza di mattina di una domenica del mese di ottobre, tutto è reale, quotidiano, reale come la donna che mescola il caffè seduta di fronte a lui, come lui stesso che assapora il riposo settimanale. L’unica cosa fuori posto, a quell’ora, sono le parole, il mondo che lei esprime.

(Musica concreta, p. 74)

 

Un quotidiano appunto riconoscibile, dalle descrizioni minuziose e concrete, materiali, dense di dettagli degli ambienti e degli oggetti che li compongono, in cui l’irrompere dell’elemento irrazionale diviene per contrasto ancora più sconvolgente. Lo spazio domestico non più luogo di protezione e riparo, ma abitato dal mistero, dal pericolo, che opprime e imprigiona.
Corre appena sotto la superficie una tensione sempre più forte, esplode in certi finali che quasi mai svelano davvero il mistero, né sciolgono i nodi: leggere Dávila, quindi, significa venire a patti con questo, confrontarsi con l’ignoto ma non riuscire davvero a penetrarne il mistero, un po’ come la scrittura stessa. Presenze oscure, ossessioni, mostri, che talvolta hanno contorni concreti seppur non possiamo assegnarli un nome, molte altre ci fanno muovere a confine tra verità e allucinazione, veglia e incubo.  

 

Quando lo vidi per la prima volta, non riuscii a reprimere un grido di terrore. Era lugubre, sinistro. Aveva grandi occhi giallastri, quasi rotondi e sempre sbarrati,

che sembravano penetrare attraverso le cose e le persone.

 (L’ospite, p. 23)

 

La descrizione mostruosa è tutto ciò che riusciremo a sapere di questo essere che il marito della protagonista porta a casa di ritorno da uno dei suoi viaggi e che da quel momento turba l’equilibrio domestico, si fa sempre più pericoloso, aggressivo, diviene ossessione. Possiamo provare a figurarcelo in un certo modo, ma non sappiamo davvero che cosa sia, se un animale, un mostro, cos’altro. Ciò che sappiamo è che quasi sempre la casa nei racconti di Dávila è il luogo dell’oppressione, è dove l’equilibrio si infrange e si rivelano le ombre e i lati oscuri del cuore umano, dove quasi mai ci si sente al sicuro.
L’ambiente domestico è uno spazio esplorato spesso nella narrativa, specie nella sua tendenza gotica, che Dávila rimaneggia con maestria e apre a nuovi squarci. E, come da miglior tradizione, l’imprigionamento domestico è soprattutto il modo per raccontare l’oppressione patriarcale, la violenza, gli squilibri.

 

«Sei sempre più isterica, è davvero doloroso e deprimente vederti così… ti ho spiegato mille volte che è una creatura inoffensiva».

Allora pensai di fuggire da quella casa, da mio marito, da lui… Ma non avevo soldi, né avrei facilmente potuto comunicare con qualcuno. Senza amici o parenti a cui rivolgermi, mi sentivo sola come un’orfana. (L’ospite, p. 27)

 

Le storie di Dávila si muovono in spazi chiusi, domestici o meno, ambientazione che intrecciata a una certa modalità narrativa concorre a creare sulla pagina un senso di claustrofobia e imprigionamento che accompagna il lettore fino alla fine. Delle numerose occorrenze possibili la mia mente corre subito a certi capisaldi della short story di fin de siècle, uno su tutti The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman: la casa che diventa prigione, il confine sempre più labile tra verità e allucinazione un nodo che il finale non scioglierà davvero del tutto. Lì è il marito a costringere la moglie al riposo, a una sorta di imprigionamento domestico, per curare quella che oggi definiremmo depressione post partum. Qui, nei racconti di Dávila, l’oppressione ha varie forme, è specchio di una società che giudica, non fa sconti e condanna. Sono le donne quasi sempre a pagarne il prezzo più alto, ma nei racconti di Dávila anche i protagonisti maschili si trovano di frequente a fare i conti con l’orrore: ci svela le loro paure più profonde, l’incapacità di venire a patti con l’irrazionale, la resa, la fuga.

 

Quando restammo soli, mi resi conto che entrambi piangevamo in silenzio. Quelle ombre informi e incarcerate, quella loro lotta disperata e inutile, ci avevano sconfitti.

Entrambi riconoscemmo allora tutta la nostra follia.

Non coprimmo mai più lo specchio. Eravamo stati scelti e accettammo quel destino senza ribellione né violenza, ma con la disperazione che accompagna ciò che è irrimediabile.

(Lo specchio, p. 70)

 

I personaggi accettano il loro destino e, soprattutto, l’irrazionale che sconvolge gli equilibri delle loro vite, scivolando sempre più nella follia, nell’ossessione, un perturbante che si muove nei confini riconoscibili del reale.
La narrazione è tutta rivolta su quel momento in cui tutto cambia, l’equilibrio che si infrange: vediamo i personaggi scivolare sempre più nell’incubo, quasi mai uscirne, ancor più raramente da vincitori. Non ci sono netti schieramenti tra buoni e cattivi, le donne si macchiano di colpe al pari degli uomini, questi ultimi sanno cadere nella follia e nell’isterismo quanto le donne cui quelle etichette sono sempre troppo facilmente applicate.
È in questa terra di confine che si muove Dávila, in cui accoglie l’irrazionale e il mistero. Leggendo i racconti della cuentista messicana ho pensato spesso a Shirley Jackson, tra le maestre indiscusse dell’inquietudine, anche a fronte di una certa etichetta imposta a Dávila «risposta messicana ai racconti di Shirley Jackson»: seppur esistano punti di contatto ci sono però sostanziali differenze tra le due prose, a partire proprio dall’inquietudine che le attraversa e, questo sì, le accomuna. Nei racconti di Jackson l’orrore è nel cuore nero dell’essere umano: è la bambina che forse ha avvelato la sua famiglia, è la moglie che sogna – o forse lo fa davvero – di colpire a morte il marito, è una società tutta che autorizza un macabro rituale; l’orrore di Dávila invece, quando è umano si lega alla follia, alla malattia mentale – altro tema infuocato questo, che l’autrice tratta in diversi racconti – ma è soprattutto presenza sovrannaturale, oscura e intangibile. Anche la voce autoriale è profondamente diversa: la produzione di Jackson caratterizzata da una profonda polifonia e se è vero che quasi sempre la identifichiamo con le tendenza gotiche e l’orrore, è bene ricordare che la sua è una produzione letteraria variegata, spesso attraversata dall’ironia, costruita tra racconti, romanzi, sketch; la prosa di Dávila è saldamente legata al mistero, alla «narrativa dell’insolito, del fantastico», come sottolinea anche Alberto Chimal nella bella prefazione alla prima raccolta, che si declina in storie legate da un fil rouge perfettamente riconoscibile. C’è di certo in comune tra le due la tensione che corre lungo la pagina, l’orrore che sconvolge il quotidiano e una predilezione per l’ambiguità di fondo che resta sospesa, mai del tutto svelata.
E c’è, elemento essenziale, un equilibrio ideale tra racconto e storia sommersa: ciò che emerge sulla pagina (il racconto vero e proprio) è solo una minima parte di quello che resta sommerso, non detto e fino a un certo grado intuibile: uno spazio interpretativo che resterà tutto al lettore.

Come ballare da soli in America con i racconti di Lorrie Moore


di Fabrizia Gagliardi

Il modo umbratile e criptico con cui piccole gocce di noia iniziano a cristallizzare in stalattiti di ripensamenti. Il regno del conosciuto inizia a farci schifo. Il momento in cui percepiamo il fastidio negli interstizi di tempo masticato dal nostro compagno. L’affermazione di una routine in cui l’intraprendenza è inversamente proporzionale alla contrazione di uno spirito meno avvezzo all’avventura.
Nel modo frenetico e confuso con cui la vita prende il ritmo c’è il passaggio dal bagaglio delle illusioni alla realtà vera e propria.
A pensarci bene, i “te l’avevo detto” e i “vedrai” di quelli che si dicono esperti sono in grado di mantenere il fascino del segreto rispetto alla mole di esperienze che raccontate a voce, in effetti, avrebbero più che altro il sapore di una teoria da imparare a memoria.
Per uscire dall’impasse basta avere consapevolezza di un paradosso: essere coscienti dei piccoli sommovimenti del cambiamento senza avere la pretesa di domarli. Questa è in fondo, la speranza recondita della lettura: una palestra per non trascurare tutti quei dettagli oscurati dall’abitudine dell’esistenza.
In questo caso, i racconti di Lorrie Moore costituiscono un valido allenamento. Ci troveremo davanti un paesaggio variegato di personaggi alle prese con un compendio vastissimo di casi della vita, dalla disgregazione di relazioni, matrimoni, famiglie, amanti, fino allo sgretolarsi del mondo,  l’approssimarsi della vecchiaia, l’illogicità di malattie incurabili.
Quando le chiedono se da bambina pensava di diventare una delle scrittrici più acclamate d’America, Lorrie Moore ricorda l’infanzia trascorsa in una piccola cittadina ai piedi dei Monti Adirondack, nello stato di New York, seguendo gli spettacoli di teatro amatoriale dei suoi genitori. Tutto lo stupore infantile le ha permesso di assimilare il ritmo incalzante delle scene recitate e la capacità di ritrarre in poche righe la scenografia interiore dei suoi personaggi, il tutto completato da una certa destrezza nella costruzione di dialoghi significativi carichi di ironia.


La carriera letteraria di Moore inizia dall’età di diciannove anni con il premio per la narrativa della rivista Seventeen; all'epoca studiava inglese alla St. Lawrence University. Dopo la laurea, si è trasferita a New York, dove ha lavorato come assistente legale, e poi si è iscritta al Master of Fine Arts della Cornell University.
Nel 1985 viene pubblicata la sua prima raccolta di racconti, Tutto da sola (La Nave di Teseo, traduzione di Marisa Caramella, 2018) che stabilisce fin da subito due capisaldi della sua produzione iniziale: la volontà di sperimentare la temporalità ristretta dei racconti e le tecniche narrative diverse dall’uso della terza persona.
Le voci femminili protagoniste sono fotografate in diverse fasi della vita, nessuna si confonderà con l’altra: è impossibile parlare di sovrapposizione quando una caratterizzazione minuziosa della personalità rivela gradualmente un disegno armonico e multiforme tra spazio riflessivo e vicende narrate.
In Come essere un’altra donna la narrazione in seconda persona racconta gli incontri tra un uomo e la sua amante. Una scelta narrativa che solletica la memoria di poetiche intimiste viene messa sullo stesso piano della cultura del consiglio, in diretta corrispondenza con i libri di auto aiuto:

A sei anni confondevi la parola amante con la parola demente. Ora sei più vecchia e sai che la parola amante può voler dire molte cose, ma che essenzialmente è sinonimo di demente.

Non sei più la stessa. Cammini in modo diverso. Non riconosci la tua immagine riflessa nelle vetrine dei negozi; sei un’altra donna, una vetrinista pazza che inciampa frenetica e ansiosa nei manichini. Nei gabinetti pubblici ti accovacci pericolosamente sulle sedute, uno strano miscuglio di disperazione e felicità, e mormori alle tue cosce livide “Salve, sono Charlene. Sono un’amante.”

È come avere un libro preso a prestito dalla biblioteca. È come avere sempre un libro preso a prestito dalla biblioteca.

Non sempre il “tu” narrante stempera l’inquietudine con l’ironia, ma è in grado di raggiungere vette diametralmente opposte alla risata amara. In Come il disamore di una donna sopraggiunge con la notizia della malattia del compagno; in Come parlare a tua madre (Appunti) il tempo della storia è scandito da anni a ritroso che ricostruiranno il rapporto tra madre e figlia.

Per assaporare un inscalfibile talento che non si cimenta soltanto nella sperimentazione, basta leggere i racconti in cui la prima persona crea narrazioni lunghe ed estremamente toccanti. In Riempire, per esempio, una donna ricorda la vita perduta del passato e deve barcamenarsi nelle frustrazioni del presente fino a scivolare nella fame compulsiva e nel furto. Mia madre racconta il lascito di una madre in punto di morte: tutte le ferite della vita coniugale rimaste oscure durante l’infanzia della figlia verranno inevitabilmente a galla.

Nella foto del matrimonio indossano abiti bianchi contro la macchia scura degli alberi. Sono sottili ed eleganti. Hanno un sorriso placido. La bocca del padre della sposa è una linea breve, dritta. Non so chi abbia fatto le fotografie. Immagino che siano una specie di bugia, rivelano per omissione, indirettamente, per indizi, come le scarpe e le nuvole. Ma dicono una verità, nel solo modo in cui la dicono le bugie. Nel solo modo in cui solo le bugie riescono a dirla.

Con Lorrie Moore individuare un vero e proprio percorso tra le raccolte successive diventa un’impresa ardua. Non a caso la stessa autrice in una nota all’edizione di tutti i suoi racconti di Everyman’s Library precisa che: «tentare di intravedere la crescita di un autore attraverso la disposizione cronologica è, a mio avviso, spesso un'impresa da pazzi e anche se possibile e di successo è alquanto imbarazzante per il giovane autore che rimane vivo all'interno di quello più anziano».

Anche con Amo la vita (La Nave di Teseo, traduzione di Carlo Prosperi, 2020) e Ballando in America (in attesa di una nuova edizione italiana dopo quella di Bompiani, con la traduzione di Marcella Maffi, 2011) attenersi alla cronologia d’uscita ha poco senso con uno stile consolidato sin dai primi racconti. È più interessante notare i piccoli spostamenti di attenzione dell’autrice tra temi e personaggi, come a ricercare costantemente cosa attira lo sguardo di una persona brillante.
In quest’ottica Amo la vita risponde alla domanda cos’è successo, con tempi e luoghi che hanno plasmato la vita dei protagonisti.
Per esempio, Lei è anche bruttarello porta in scena la vita solitaria di una donna che insegna all’università in una cittadina sperduta, i suoi incontri fortuiti, il rapporto affettuoso con la sorella a New York e il tentativo di conservare il proprio essere senza snaturarsi per trovare un compagno di vita. Due ragazzi è percorso da una vena ironica, poi malinconica, dove si snoda la relazione di una donna con due uomini, il tentativo di suscitare amore negli sprazzi di solitudine.

Gli otto racconti accennano a tratti la sensazione di un presagio stranamente attuale: quanto possono dirsi liberi i personaggi di fronte a un mondo in rovina? Gli amori in tempo di apocalissi silenziose sono meno veri di quelli che prosperano in condizioni normali?
Gioia e Sembianza di vita sono storie che raccontano, rispettivamente, la vita di una ragazza che dopo la rottura con il fidanzato torna nella cittadina dov’è cresciuta e la fine dell’amore coniugale in una New York devastata ma sognatrice. Gli incipit dei due racconti, però, continuano a risuonare all’unisono:

Era un autunno, Jane lo sapeva, in cui le piccole cose andavano perse. I pesci finivano spiaggiati e nessuno osava mangiare una vongola nemmeno sotto tortura. Gli ostricai che tendevano le reti sul fondo dell’oceano tiravano a galla solo ostriche morte. Nere come il carbone e nessuno sapeva perché. Chi viveva lontano dalle coste non voleva nemmeno pensarci, vedeva i mari e poi l’intero pianeta sollevarsi in un’onda gigantesca di zuppa di pesce arrabbiata e corvina.

(Gioia)

Tutti i film quell’anno parlavano di persone con un piatto nella testa: spiriti provenienti da un’altra galassia si radunano nottetempo in una località balneare impossessandosi degli abitanti – tutti tranne l’uomo con il piatto nella testa. Oppure: una ragazza con un piatto nella testa vaga per la spiaggia di una città, convinta di essere un’altra persona. Il mare restituisce le tracce. Ci sono marinai. Oppure: una donna sogna una bellissima casa disabitata e un giorno ci passa davanti – lanterna, abbaini, portico. Si avvicina, bussa, la porta viene lentamente aperta da... lei stessa! Una gemella sorridente. Ha un piatto nella testa.

Così sembrava essere diventata la vita. Si era sprigionata da se stessa, come un insetto.

A febbraio il disgelo ridusse la città a una ferita trasudante. Il raffreddore dilagava, gente che tossiva in metropolitana.

(Sembianza di vita)

Ballando in America nelle parole dell’autrice in un’intervista su Paris Review registra una grande varietà di argomenti, vere e proprie preoccupazioni emerse negli anni Novanta. Il compendio di anime perdute alle prese con dolore e delusione ha nuovi adepti, ma persiste la capacità di far lievitare la tragedia con l'umorismo e di fondere il dolore con l'arguzia sovversiva.
Riusciamo a percepire il cuore ferito e vulnerabile dell’attrice in declino che in Buona volontà cerca ingenuamente un amore vero e illuso. Cogliamo lo scetticismo di un nuovo inizio in Una nuova casa, quando la donna protagonista rivela di essersi sottoposta alla chemioterapia e che in fondo le scappatelle primaverili del marito sono un dettaglio trascurabile («Aveva concluso che il segreto del matrimonio era non prendere le cose in modo troppo personale»). In Appunti una coppia scopre il tumore del figlio neonato, e per la protagonista, che è una scrittrice, si presenterà il paradosso della metanarrazione: è davvero possibile trarre dalla vita che sta accadendo il materiale per scrivere?

I dodici racconti di Ballando in America sono un documento temporale che nasce dall’esperienza personale e che rivela una parte fondante del processo di scrittura. «Bisogna immaginare, bisogna creare (esagerare, mentire, fabbricare da tutta la stoffa e rattoppare insieme dai resti) [...] si prendono queste osservazioni, sentimenti, ricordi, aneddoti - qualunque cosa - e si intraprende un viaggio immaginativo con loro. Ciò che si spera di fare in quel viaggio è immaginare profondamente e bene e quindi in qualche modo sia raccogliere che estrarre le cose migliori del mondo.» Ironicamente, proprio come i protagonisti delle sue storie, Lorrie Moore non asseconda cinicamente l’incancrenirsi della vita, ma fa esattamente l’opposto: la vive e la scrive immaginando di arrivare in fondo all’esperienza come unico modo per avere la possibilità di espanderla.
Quando viene pubblicato Bark (traduzione di Alberto Pezzotta, Bompiani) è chiara la frattura di un’America stravolta dai momenti successivi all’11 settembre, dalle proteste pacifiste, i bombardamenti, gli scandali di Abu Ghraib. I protagonisti arrivano a un punto di rottura con la solitudine che da sempre li aveva caratterizzati: hanno bisogno di purificarsi, raschiare via qualcosa col timore di dover scavare per molto. Il titolo, infatti, allude al doppio significato del latrare del cane e dello scorticare, e più volte, in lingua, ricorreranno echi e allitterazioni.

Il racconto che apre la raccolta, per esempio, in inglese è «Debarking» e farà da eco alle vicende di un uomo che non riesce a togliere la fede nuziale dopo il divorzio. Sullo sfondo di marce pacifiste e notizie di bombardamenti, il protagonista dovrà scegliere tra il timore di un’arida vita sentimentale e un legame indesiderato pur di non rimanere solo.
Una sottile vena di umorismo percorre anche Scartoffie in cui due coniugi pacifisti arrivano a odiarsi rinunciando persino ai valori che avevano condiviso in passato («Anche se Kit e Rafe si erano conosciuti nel movimento pacifista tra marce, riunioni e striscioni contro il nucleare, ora si sarebbero ammazzati volentieri a vicenda. Inoltre, erano diventati, seppur timidamente, favorevoli all’energia atomica»).

Il gioco continuo sul filo dello humor ricorda le storie di Lydia Davis, anche se Lorrie Moore se ne allontana con un tono personalissimo, meno distaccato e, nonostante tutto, meno cinico. Tra le sue contemporanee prende le distanze anche dal “feroce” minimalismo di Amy Hempel e dalla solitudine più spigolosa di Mary Gaikill. Nella rosa delle autrici di racconti più stimate Lorrie Moore guadagna un posto di rilievo perché il suo sguardo, a differenza delle altre, lascia trapelare il calore inaspettato dell’umanità che non può distaccarsi da un modo unico e intenso di vivere. Se qualche volta capiterà di dare per scontato un aspetto della vita o a trattare con sufficienza l’abbondanza o, ancora, a non vivere le gioie con l’attenzione dovuta, ci penseranno poche righe dei suoi racconti a riportarci in carreggiata.

La notte surreale di Francisco Tario

di Matteo Moca

Quali sono i pensieri di un battello? Su cosa si posa l'immaginazione di un pupazzo? Quali concetti possono agitare un feretro? Nel suo Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura il critico e francesista Francesco Orlando attraverso una mirabile costellazione di esempi tratti dalle maggiori letterature indagava l'attrazione che gli scrittori, dal mondo classico a quello contemporaneo, e quindi la letteratura di ogni epoca, hanno avvertito nei confronti degli oggetti. Anche la raccolta di racconti La notte di Francisco Tario, scrittore messicano nato nel 1911 da una famiglia spagnola a Città del Messico, prima portiere in una squadra di calcio, poi pianista, scrittore, gestore di sale cinematografiche e quant'altro possa apparire liminale rispetto al mondo letterario, sembra vivere una simile attrazione verso gli oggetti che si animano e acquistano vita, diventano menti in grado di riflettere e di interagire, nella maggior parte delle volte senza risposta, con l'umanità. L'oggetto, in queste storie pubblicate originariamente nel 1943 (tradotte da Silvia Sichel, introdotte da un breve, ma puntuale, saggio di Adriàn N. Bravi e pubblicate dall'attenta Edizioni degli Animali), si trasforma, come suggeriva anche Orlando, in soggetto, e la sua mutazione offre al narratore la possibilità di scivolare nell'impossibile, in una continua scoperta che asseconda il grottesco e l'ironico attraverso un gesto letterario che mira a sondare ciò che non esiste, ma è presente, sfugge ma si può acchiappare a patto di non credere ciecamente nel reale.
I vari oggetti protagonisti di alcuni dei racconti di questa raccolta sembrano infatti la possibilità che può agguantare lo scrittore per descrivere sé stesso attraverso un dispositivo che si frappone tra lui e le realtà, strumento, probabilmente, per dire più di quanto possa fare un ritratto umano. Così in un racconto possiamo scoprire cosa pensa un feretro, il meccanismo che nella sua comunità regola il sesso, l'insofferenza nei confronti delle fosse profonde dove vengono adagiati e l'ambizione a ospiti di un certo tipo, in un altro invece seguiamo i pensieri di un battello che decide di morire, e quindi affondare, anziché finire scartocciato e abbandonato in un molo, trascinando con sé tutto il carico e tutti gli ospiti che ballano e cantano, oppure, in un altro ancora, come un completo grigio sia in grado di leggere e comprendere la solitudine di un uomo che lo indossa. Se si prende per esempio il racconto del battello il meccanismo sfuggente dell'opera di Tario si rivela in tutta la sua energia: a partire da una fusione con l'ambiente che li circonda, e che si tinge di un carattere percettivo che occulta il senso della fine

 

Ho guardato per l’ultima volta il cielo alto, nero; la luna morbosa, sanguinante: la spuma inquieta; la profonda cavità dell’orizzonte. Una sete ardente – sete di acqua salata – mi bruciava la gola, come se un incendio improvviso mi fosse divampato in petto e si propagasse attraverso le mie arterie

 

i pensieri del battello, «pellegrino di tutti i mari; marinaio di tutti i porti; nottambulo di tutte le notti», nascondono la domanda più radicale dell'animo umano, cosa infatti possa seguire la vita nel momento in cui la fine si avvicina: «da tempo ero assediato dal terrore, dall'angoscia, da tutti questi sentimenti pestilenziali che agitano l'uomo all'avvicinarsi della vecchiaia». In questo breve racconto Tario offre l'illustrazione plastica delle capacità del suo dettato di aderire agli oggetti su cui si sofferma, strumento straordinario perché capace di afferrare anche l'inafferrabile, ovvero la morte: «E un altro mondo più nobile, infinitamente più bello, mi è venuto incontro. Un mondo umido, sussurrante e compiuto. Un mondo di strane fosforescenze, di mostri quasi divini, di ombre sottili dalle movenze silenziose, di donne azzurre e di uomini coperti di squame rosse, di calici colmi di sale. Un mondo di perenni fioriture; di sguardi imperturbabili; di pace e piacere costanti».
Ma questo racconto in realtà svela anche al lettore alcuni dei temi che maggiormente abitano questi racconti, la morte e, soprattutto, la fiducia nel mezzo letterario che nelle storie, le più varie, riesce a offrire immagini che, affondando nell'onirico e nel surreale, acquisiscono una concretezza altrimenti impossibile. Così si devono intendere i racconti che hanno per protagonisti oggetti (La notte del valzer e del notturno dove la musica prende forma e ciò che essa veicoli si trasforma in sentimento) o animali (è il caso di La notte della gallina, dove la prevaricazione e la violenza presentano il loro conto) ma, ancor di più, questo accade nei racconti con protagonisti uomini e donne. Accomunati dall'ambientazione notturna, regno del confuso e dei contorni inconoscibili, commovente ispirazione (per Chopin «il notturno piangeva, piangeva, con un dolore che nel freddo silenzio della notte prometteva di essere eterno»), questi racconti sembrano assumere il loro valore rivelatorio nell'istante in cui il buio sembra avvolgere ogni cosa. Questo accade per esempio in La notte dell'uomo dove il mare, assieme all'alternarsi del giorno e della notte, della luce e dell'oscurità, offre la possibilità, attraverso una promessa non mantenuta, di oltrepassare i confini del mondo naturale e agitare nell'animo del protagonista ciò che normalmente non può giungervi: «il mare frangeva, e taceva il cielo, e lo scoglio, nel buio allucinante, diceva all'anima quanto questa stupida vita possa essere disorientante, brutale e vana».
Ma la notte di cui Tario in questa raccolta si fa carico non è solo quella che regola il sorgere e il tramontare del sole, ma ha anche la funzione simbolica di eccezionale spazio del pensiero, una soglia che, grazie agli attraversamenti che la sua porosità permette, fa detonare pensieri e improvvise illuminazioni. È lo spazio in cui lo scrittore si confessa, magicamente padrone di lingua e pensieri anche di animali, come accade in La notte del cane, straziante monologo interiore di un cane all'ombra del padrone morente («Il mio padrone è un poeta malato, giovane, molto triste, e bianco come la cera. Muore così, come ha vissuto da quando lo conosco: in silenzio, sommessamente, senza un grido né un lamento, tremante di freddo fra le lenzuola lise»), ma è anche la notte del pensiero, la follia che abita la mente e la rivoluziona come un'epifania, come accade in uno dei racconti più immaginifici della raccolta, La notte del folle. Qui il delirio del protagonista infesta le pagine del racconto, rende impossibile definire la realtà di ciò che accade, ma contiene anche un condensato di poetica («D’altra parte, sto diventando cieco; cieco a forza di lavorare in questa oscurità insondabile. Non distinguo più i contorni delle cose: solo il loro volume. Così confondo facilmente un albero con un tavolo e un tavolo con un ventre»), una definizione del valore multiforme della notte e una precisa idea della letteratura come gesto estremo, come fatica fisica inarginabile, forza creatrice che non conosce compromesso «in balìa delle belve e dei fantasmi».

 

La notte si accende di una luce fantasmagorica al bagliore di una piccola lampada dimenticata sullo scrittoio; prendono colore e rilievo gli oggetti; fruscia il vento; la pioggia cade a scrosci; solcano lo spazio i lampi; mille profumi insospettati salgono dalla pianura. Tutto palpita, ribolle, torna alla vita.

 

È forse questo racconto il miglior viatico per addentrarsi in un libro forse inattuale per il suo sguardo magico sul reale, ma quantomai importante perché svela come possa esistere una vista ulteriore sul mondo e sulle cose e su come attraverso questa vista dissennata si manifesti un indicibile colpevolmente e continuamente evitato.

 

L'intensità di Katherine Mansfield nel centenario

di Matteo Moca

Quando Katherine Mansfield morì, il marito e critico letterario inglese John Middleton Murry raccolse alcuni racconti risalenti agli anni tra il 1910 e il 1913 per pubblicarli nel volume Qualcosa di infantile. Appartiene a questo libro Come fu rapita Pearl Button, un testo breve, ma sicuramente un epifenomeno decisivo per comprendere la natura dell'opera di Mansfield e la relazione eccezionale tra la sua scrittura e la sua vita (fu d'altronde lei stessa ad annotare nei suoi diari: «Non vivo con altra ragione se non quella di scrivere»). Katherine Mansfield, nata Beauchamp, nacque in Nuova Zelanda nel 1888: nel 1903 andò a Londra per studiare al Queen's College e, dopo vari soggiorni per l'Europa continentale, nel 1906 tornò in Nuova Zelanda. Ma nel suo periodo londinese, segnato da molteplici interessi (la letteratura ovviamente, ma anche lo studio del violoncello e la pittura), la scrittrice è cresciuta e capisce che non può rimanere a Wellington, che deve tornare a Londra o, quantomeno, in Europa. Così farà qualche anno dopo, e non tornerà più in Nuova Zelanda: come ha magistralmente riassunto Nadia Fusini, in questo «andare-tornare è racchiuso il senso delle opere e dei giorni di Katherine Mansfield», in questo rapporto misterioso e ancestrale con la sua terra natale e con l'Europa sta una delle chiavi di accesso più luminose della sua opera, una delle possibilità per provare a cogliere il mistero taciturno e immobile che abita molti suoi racconti. Come fu rapita Pearl Button è un testo che sembra offrire la possibilità di addentrarsi in questa rete, innanzitutto ribaltando qualsiasi sguardo coloniale sull'Altro, in seconda battuta perché la descrizione di luoghi lontani ed esotici offre la possibilità di interpretare il rapporto di Mansfield con i luoghi della sua vita infantile che mai dimenticherà. Il racconto parla di come la bambina Pearl Button venga rapita da due donne maori che la portano nel loro villaggio: il timore della piccola inizia presto a sciogliersi in un'allegria che si nutre del rapporto privilegiato con il paesaggio, dal bosco che occupa lo spazio che le protagoniste percorrono a piedi fino alla magia dell'incontro con lo smalto azzurro del mare, orizzonte sterminato offerto dalle donne a Pearl Button: «un grande, grande pezzo d'acqua blu che strisciava sopra la terra. […] Sopra il blu arrivavano saltellando delle onde con la cima bianca» (la traduzione da cui si citeranno i racconti è quella dei due volumi Tutti i racconti pubblicati da Adelphi). L'idillio si interrompe però bruscamente con l'arrivo di uomini in divisa e armati di fucili che riporteranno a casa la bambina, ma a continuare in maniera perpetua nell'opera di Mansfield è questo irrequieto movimento del pensiero tra l'Europa e i luoghi lontani della famiglia, diaframma che nutrirà alcuni dei suoi racconti più straordinari, come La donna dello spaccio e Millie dove all'ambientazione neozelandese si unisce la scelta di due protagoniste femminili abbandonate e sole nel paesaggio naturale, ma forti e decise nel farsi rispettare. Se in Millie si assiste a un ribaltamento dei ruoli, con il vagabondo aggressore che viene messo in fuga dalla donna, straordinario appare La donna dello spaccio, per il tipo di vicenda che viene costruita da Mansfield e per il legame ancestrale che unisce i luoghi dell'ambientazione con la protagonista del racconto. La donna dello spaccio racconta infatti di come tre viaggiatori, trasposizione letteraria dei colonizzatori, si fermino poco prima di una tempesta in uno spaccio, dove saranno ospitati da una donna bionda dagli occhi azzurri che diventerà l'oggetto del desiderio di tutto il gruppo (in cui è presente, lo si scopre leggendo, anche una donna). Ma la donna, che continua a dire ai tre che il marito è lontano da molto tempo per la tosatura, già da subito assume contorni spettrali, inconoscibile e astuta, misteriosa come un miraggio, tutti elementi che finiranno per dare un senso all'eccezionale finale noir del racconto che unisce omicidio e malattia mentale. Ma in questo racconto c'è anche una descrizione dell'ambiente naturale che sembra rivelare una delle connotazioni predilette della scrittura di Mansfield, ovvero quella zona di penombra dove le donne e gli uomini comuni che abitano i suoi racconti entrano in una zona confusa, un limbo dove tutto assume contorni fumosi e immobili: «Era il tramonto. Le nostre giornate in Nuova Zelanda, non hanno crepuscolo, bensì una mezz'ora strana in cui tutto appare grottesco – fa paura – come se lo spirito selvaggio di questo paese se ne andasse giro a farsi beffe di quello che vede».

Questi racconti e quelli che afferiscono a questa scelta tematica, appartengono a un'ispirazione che rimanda direttamente a un quaderno che Mansfield tenne nel 1907, nel breve periodo che divide i periodi che visse in Europa, che riporta le sue annotazioni su un viaggio che compì nell'entroterra neozelandese, Viaggio in Urewera, tradotto in italiano da Adelphi con la cura di Nadia Fusini. Composti da una registrazione puntuale e per certi versi cinematografica del paesaggio e della sua storia, questi quaderni sono decisivi per la scrittura di Mansfield e diventano un esercizio di scrittura senza il quale non sarebbe possibile afferrare in pieno non solo l'opera giovanile, ma anche quella più matura della scrittrice. Se si pensa per esempio a uno dei suoi racconti più belli, e famosi, Alla baia scritto nel 1921, non sarà difficile riconoscere nella materia pulsante e viva della baia di New Crescent in Nuova Zelanda, nella natura che vive e pare parlare nelle piccole microstorie intessute dentro i paesaggi, la stessa natura osservata con occhi famelici durante il viaggio del 1907 nello scenario naturale di Urewera. Si può prendere a titolo di esempio la poesia Giovinezza, scritta durante il viaggio, dove Mansfield ripensa agli alberi e ai fiori di manuka «sbocciati solo per sfiorire» («O Fiore della Giovinezza! / Vedi stringo in mani / un fiore giallo acceso e oro pallido / e tutti i petali volteggiano ai miei piedi / può esser dolce la Morte? […] Se uno fosse arrivato / in una dolce giornata estiva / trafelato, semisveglio – pieno di giovinezza / se uno fosse arrivato / che succede allora? / Muore con un sospiro / nell'alba rigogliosa di vita / senza mai conoscere il terrore e la lotta / che uccide i fiori d'estate appena si aprono / molto meglio di così / ah! Davvero meglio di così!») per vedere come la stessa immagine torni nelle prime pagine del sesto capitolo del lungo Alla baia. La protagonista Linda Burnell siede in giardino «sotto un manuka che cresceva in mezzo al praticello davanti casa» con i fiori che le cadono addosso: «se tenevi uno di quei fiori nel palmo della mano e lo guardavi da vicino era proprio un piccolo capolavoro. Ognuno dei petali, di un giallo pallido, splendeva come se fosse stato la diligente opera di una mano amorosa. La minuscola linguetta nel centro gli dava la forma di una campana». Anche in questo racconto però il fiore si fa portatore di un'aura effimera, della stessa fugace materia di cui è fatta la vita, perché «appena fioriti, quelli cadevano e si sparpagliavano dappertutto», una bellezza destinata a non durare che apre a una domanda esistenziale: «Ma allora perché fiorire? Chi si prende la pena – o la gioia – di creare tutte queste cose sprecate, sprecate…». Attorno a questa domanda, che rimanda direttamente ai più inaggirabili quesiti che abitano l'animo umano e ai territori ignoti che costeggia l'introspezione più radicale si dipana una parte importante dell'opera di Mansfield: si tratta di un paesaggio sfocato e impervio, che offre pochi appigli e al quale la scrittrice sembra poter rimandare solo per allusioni e per accenni, ed è per questo, come ha scritto Franca Cavagnoli sulla sua Nota alle traduzioni dei racconti della scrittrici, che Mansfield è «volutamente vaga – uno degli aggettivi prediletti dalla scrittrice neozelandese – perché preferisce che il significato rimanga sospeso, per così dire, aleggi impalpabile sulle cose».

*

 La natura della prosa di Mansfield, viva, all'apparenza incurante di ciò che racconta e piuttosto concentrata sulla sua forma eterea, sfiora continuamente i limiti del linguaggio e così improvvisamente sfuma in un vapore poetico leggerissimo come le sue storie dove, all'apparenza, in piena tradizione modernista, non accade nulla. La poetessa argentina Alejandra Pozarnik nelle pagine del suo diario non a caso si chiede su Mansfield: «Come riusciva a sentire la quotidianità con tale intensità?». Questa è infatti una delle caratteristiche dei racconti di Mansfield, soprattutto di quelli europei, l'attenzione verso i particolari, del paesaggio o degli ambienti chiusi, spesso piccoli oggetti inanimati che diventano protagonisti assoluti dei racconti proprio per la capacità della sua scrittura di rendere pieno di vitalità e ritmo ogni particolare che si impone, alla fine, come elemento rivelatore: «ciò che interessa Katherine Mansfield – ha scritto Cristina Campo – è creare un’atmosfera che sia rappresentazione plastica di uno stato d’animo o di uno stato di cose, evitando costantemente l’introspezione psicologica. Nulla di simbolico in ciò; ma piuttosto il naturale predominio di queste notazioni sul fatto in sé, come se la realtà circostante, fusa nell’emozione a ciò che l’ha determinata, fosse la più importante verità, la sola giustificazione». Si tratta di ciò che accade per esempio con i mobili antichi del racconto incompleto Il nido delle colombe, portatori di un alito di morte che la giovane donna protagonista avverte osservandoli, oppure con la scatolina da ventotto ghinee in Una tazza di tè, oggetto che con la sua funzione nel racconto sembra incarnare l'essenza stessa della ricca donna protagonista, con la casa delle bambole dello struggente e duro racconto omonimo; o, ancora, con l'organetto di Questo fiore («Quel che devo dire è tutto qui»), elemento decisivo di ciò che accade a una coppia in visita da un medico. L'impressione è che ognuno di questi oggetti si faccia catalizzatore dei sentimenti e delle sensazioni che altrimenti non troverebbero modo di uscire (Mansfield ha d'altronde scritto: «La gente non mi interessa»), veri e propri testimoni di ciò che accade alle donne e agli uomini che abitano i racconti, «indizi metafisici del dramma al quale hanno partecipato per caso» ma che, grazie a questo evento fortuito, acquisiscono la possibilità di essere detti e raccontati. Introducendo una silloge di racconti di Mansfield da lei tradotti, Cristina Campo, anima affine a quella della scrittrice neozelandese, nata nell'anno della sua morte in un simbolico passaggio spirituale, scrive riferendosi alla sua tecnica narrativa, che «lo scrittore non deve esistere se non come scrittura». È questo uno dei miracoli più sorprendenti dell'opera di Mansfield, come avviene nella storia narrata in Ole Underwood (che ancora si apre con l'immagine dei manuka) dove l'indicibile che ha segnato la vita del protagonista, navigatore, marinaio e per molto tempo prigioniero si stempera in una vita vissuta nel ricordo, nel distacco dal mondo fenomenico, unica possibilità per comprendere, davvero, chi si è, attraverso la salvezza offerta dal mare e dall'orizzonte azzurro, che già segnava le pagine di Come fu rapita Pearl Button, che apre a un ignoto abitabile. Ma anche i suoi racconti più folgoranti e compiuti, capolavori assoluti come Preludio e il già citato Alla baia, vivono di uno stesso andamento, ruotano attorno a particolari minimi delle vite della famiglia Burnell, piccoli indizi che però si rivelano in grado di aprire a una comprensione generale. In un suo appunto Mansfield ha scritto «la trama mi lascia fredda» e questo ci fa capire bene quindi come nei suoi racconti il montaggio delle scene, staccate come se la scrittrice utilizzasse una tecnica cinematografica, non rende la successione lineare degli eventi, ma obbedisce piuttosto al desiderio di disegnare l'ambiente attraverso piccoli elementi all'apparenza insignificanti, ma in realtà decisivi. Non c'è in Mansfield il desiderio di raccontare per intero la storia di un personaggio, segnando in questo una cesura importante rispetto al canone tradizionale, piuttosto regnano l'allusione, il suggerimento e un occultamento che solo in poche occasioni mostra tutto in piena luce. A dissimulare la presenza della scrittrice è prima di tutto il narratore perché la parola passa direttamente ai personaggi o agli oggetti: in Lezioni di canto per esempio, il ritratto della protagonista Mrs. Meadows si compone attraverso un puzzle composto da tessere differenti, frammenti di lettere o conversazioni, la lezione di canto o eventi del passato che si ripresentano alla sua mente. Come accade nel racconto alle studentesse che, davanti allo stato d'animo triste della loro insegnante, sembrano esserne contagiate, così accade al lettore che entra nell'universo psichico della protagonista per induzione, seguendo il suo monologo interiore, che si intreccia in maniera formidabile con il punto di vista del narratore esterno, una catena che non asseconda la successione temporale e crea invece una divergenza tra ordine e fatti che è chiave, complessa, per l'accesso al significato.

La tubercolosi accompagnò Mansfield per gran parte della sua vita tanto che la scrittrice passò gli ultimi mesi in continuo movimento e il suo diario del periodo è una fosca riflessione sulla morte che le appare ogni attimo sempre più vicina, come annota nel 1922 da Parigi: «Posso fare qualcosa colle mie mani e col mio corpo? Assolutamente nulla. Sono una malata che dipende in tutto dagli altri. Cosa è dunque la mia vita? É l'esistenza di una parassita... Il mio spirito è quasi morto. La fonte della mia vita è così impoverita, che si è quasi disseccata». Trascorse gli ultimi mesi della sua vita a Fontainebleu, presso l'Istituto di Gurdjieff, ultima carta rimasta per la guarigione, su cui però non era molto fiduciosa neanche lei, dove morì la sera del 9 gennaio 1923 per essere seppellita nel cimitero della vicina Avon. Gli ultimi giorni della sua vita, come scrive Pietro Citati nel suo insuperato ritratto critico e biografico Vita breve di Katherine Mansfield facendo riferimento alle sue lettere del periodo e alle testimonianze di chi la incontrò in quel frangente, sono segnati da «inesprimibile bellezza», come se la nube di angoscia e disperazione dei mesi precedenti si fosse rischiarata improvvisamente. L'ultimo miracolo prima della morte che la colse quando il marito andò a trovarla all'istituto: «Quella creatura – ha scritto Citati – così leggera e delicata, così dura e avida, appassionata e implacabile, quella farfalla maldestra, che aveva provato le sue ali nel vento, quella remota figurina cinese dipinta sul fondo della tazzina, era scomparsa». Ma, possiamo aggiungere a cento anni da quella morte, le fragili farfalle e i disegni dai contorni incerti dei suoi racconti restano ancora come testimonianza di un'opera straordinaria dai colori tenui, quieta, ma capace di offrire al lettore un ritratto dove non esiste discrimine tra arte e vita. E proprio quest'ultima, per la creatura senza tempo che è stata Katherine Mansfield, si stempera attraverso la letteratura: il pochissimo che da lei viene detto affonda nell'indicibile mentre «da ogni parte si intendono misteriosi fruscii, si intravedono aloni, si ascoltano echi» e «la perfetta chiusura della narrazione è solo apparente». «L’esistenza – ha riassunto in maniera straordinaria Citati – comincia e continua prima e dopo l’inizio e la fine di ogni storia».

Vietato parlare della solitudine: Mary Gaitskill – Oggi sono tua

di Fabrizia Gagliardi

La piazza non è mai stata così piena e assodante. L’io così sordo e bisognoso.
C’è chi ha istituito il Ministero della Solitudine per far fronte ai problemi sociali da essa provocati; chi come tre americani su cinque ammette di percepire un senso di estrema solitudine e, ancora, un paese come l’Italia che rischia di soffrire di una pandemia di solitudine anche dopo il Covid-19.
Nel Secolo della solitudine Noreena Hertz afferma: «È essere distanti non solo da quelli a cui dovremmo sentirci vicini, ma anche da noi stessi. Non è solo la mancanza di sostegno in un contesto sociale o familiare, ma anche sentirsi politicamente ed economicamente esclusi».
È come guardare il negativo di tutte le good vibes diffuse sui social: nei chiaroscuri del benessere instagrammabile, nell’ossessione di fare qualcosa, nel riempire i vuoti canonici della distanza e dell’interiorità, s’intravede il desiderio di dover stare bene a tutti i costi. Per sancirlo basta fare, muoversi, documentare, in maniera socialmente accettabile in un meccanismo che, anche quando innocente, lascia poco spazio alla verosimiglianza.
Negli anni l’intrattenimento televisivo ha più volte portato alla ribalta le imprese solitarie di mad men in situazioni di dubbia moralità, e personaggi come i nerd o i cosiddetti weirdo, e mai come in questo momento si avverte l’ipocrisia dell’idolatria di tali figure notoriamente bistrattate nella vita reale: nessuno li considererebbe un modello ammantato di fascino nella vita di tutti i giorni.
L’ammissione della solitudine – quando non è spettacolarizzazione del dolore – è un tabù in un tempo in cui tutti i protagonisti performativi della piazza la celano dietro confini leciti e normativi. È come se la felicità potesse essere scelta come si pesano i beni di consumo: se non vuoi comprarli è tua la decisione di non partecipare alla moda collettiva.
In questo modo il vociare della piazza sbatte su superfici respingenti che ne riflettono il potere di comprensione trasformando tutto in un travisamento collettivo.
C’è chi, però, con la scrittura ha da sempre smascherato questo meccanismo.
Di Mary Gaitskill l’ex marito ha detto: «Penso di non aver mai incontrato nessuno più solo». Eppure è proprio l’aver trovato una dimensione da abitare, oscura ai più, ad aver costruito la sottile eco dei lavori dell’autrice.
Oltre ai romanzi arrivati in Italia come Veronica, finalista al National Book Award (pubblicato da Nutrimenti con la traduzione di Dora Di Marco) Velvet uscito per Einaudi come l’ultimo, più discusso, Questo è il piacere arrivato in piena era #MeToo, è nei racconti che l’esperienza della solitudine diventa universale, unisce persone di diversa estrazione sociale ma allo stesso tempo non diventa un collante perché tutti continueranno a sbattere tra loro come poli uguali e respingenti.
L’antologia Oggi sono tua (tradotta da Maurizia Balmelli e Susanna Basso) raccoglie i migliori racconti tratti da Bad Behavior (1988), Because They Wanted To (1997) e Don’t Cry (2009). Si avverte la mancanza di una raccolta completa in grado di restituire al lettore il percorso stilistico e tematico dell’autrice, eppure, le impercettibili oscillazioni idiosincratiche degli estratti anticipano molti dei temi che restano attuali ancora oggi.

 

– Sai, tu hai un modo di sbattere in faccia alle persone la tua vulnerabilità. O comunque la cosa che tu chiami vulnerabilità. A volte lo fai appena le incontri. Costringi la gente ad averci a che fare –. Deana parlava animatamente ma con precisione, parole schiette come schegge color vaniglia.
– Deana.
– No, ascoltami. Non arrabbiarti se te lo dico; non lo fai poi così spesso. Un tempo però lo facevi parecchio, ed è un po’ strano essere messi di fronte alla fragilità di qualcuno in modo così aggressivo. Ad alcuni verrà da proteggerti, com’è successo a me, ma ad altri verrà da ferirti. Altri ancora avranno semplicemente paura di te, per l’ovvia ragione che la tua fragilità gli ricorda la loro, e sembrerebbe proprio il caso della tua amica Alice.

Un dialogo di Altri fattori chiarisce le fitte dinamiche relazionali di autocommiserazione, fragilità, senso di colpa e di quanto tutto questo sia socialmente lecito. Nel racconto la protagonista, dopo aver rivisto un vecchio flirt, verrà invitata a una festa dove incontrerà la migliore amica di un tempo, con la quale aveva un legame quasi simbiotico. Il confronto tra luci e ombre delle vite di entrambe definisce un tipo di esperienza performativa, sempre a confronto con l’altro senza comprenderne effettivamente le ragioni.
La debolezza per Mary Gaitskill è un allettamento e una minaccia, instilla il dubbio che nessuno sia innocente alla manipolazione. Cogliere i semi della solitudine dell’altro significa incastrare dei vuoti con l'obiettivo di sfruttarsi: brandire il dolore come senso di colpa, conoscere il dolore altrui per usarlo a proprio vantaggio.
Anche in Legame il ricordo di un’amicizia newyorchese porta in scena protagonisti che misurano la felicità in base a quanto sono in grado di sentirsi realizzati, senza che la condizione di paragone perenne riesca ad avvicinarli e a portare un’effettiva conoscenza di sé e dell’altro.
D’altronde come raccontato nel più emblematico Weekend romantico, che apre l’antologia, l’altro diventa un feticcio, un’idealizzazione schiava di desideri, pulsioni e istinti.
La storia più superficiale di una fuga tra amanti mal amalgamati diventa difficile da incasellare, perché slega le differenze tra i sessi dal cliché. Un vortice caotico fatto di bisogni biologici, pensieri irrazionali, manipolazioni e insicurezze definiscono un confronto tra individui alla pari, senza ricercare una qualsiasi morale di circostanza.
Così il desiderio della donna di essere umiliata per rincorrere il luogo sperduto dell’eccitazione pura, cozza con la volontà di dominio di un uomo insicuro che scimmiotta schemi relazionali che danno per scontato la passività della donna. Il livellamento del desiderio a un terreno comune di incontro e scontro sovverte tutte le aspettative di una qualsiasi storia sentimentale e sprigiona il potenziale frenato dalla morale.
Succede molto chiaramente in Segretaria, racconto reso celebre dal film del 2002 di Steven Shainberg e interpretato da James Spader e Maggie Gyllenhaal. Anche in questo caso la segretaria che si lascia sculacciare dal proprio capo ha poco a che fare con le molestie sul lavoro.

Quando sono tornata a casa quella sera era tutto come sempre. L’accaduto non mi aveva scombinato la vita, tolta la distanza tra me e la mia famiglia, che era leggermente aumentata. Quando me lo sono guardata allo specchio del bagno, il mio fondoschiena non era neanche arrossato.
Ma, andando a letto e ripensando alla cosa, mi sono eccitata. Ero più eccitata di quanto non fossi mai stata in vita mia, a dire il vero. E non mi sorprendeva nemmeno. [...] Mi sono masturbata piano, per ritardare l’orgasmo il più possibile.

Tutta l’atmosfera fastidiosa prodotta dalla sculacciata sul luogo del lavoro e la posizione di potere dell’avvocato scompaiono senza neanche lasciare la possibilità d’indignarsi.
La narrativa dell’autrice ha sempre sfruttato l’ambiguità che la relegava in posizioni poco comprensibili a un pensiero femminista più strutturato. In compenso la Gaitskill affida alla non-fiction il compito di chiarire una visione innovativa.
Per esempio, nel saggio del 1994 su Harper's Magazine, On Not Being a Victim, è intervenuta in un dibattito sul tema dello stupro. Molte femministe volevano stabilire un regolamento destinato agli uomini al fine di definire l’approccio sessuale non molesto. Dall'altro lato, c'erano figure come Camille Paglia e Katie Roiphe, che insistevano sul fatto che le donne che si rendevano vulnerabili alla violenza erano stupide o ingenue, o rinnegavano le loro esperienze per vergogna o rimpianto.
Mary Gaitskill ha cercato di tracciare una terza possibilità osservando con occhio abbastanza critico gli incontri sessuali della sua vita, inclusi due stupri. Per arrivare all’uguaglianza sessuale c’è bisogno di una maggiore introspezione da parte di entrambi i sessi: la necessità per uomini e donne è di comprendere meglio desideri profondi e azioni.
Anche nei racconti un eterno presente non cade nella trappola performativa del costruire un futuro accettato da tutti. La scelta di abbandonarsi alla corrente, e sperimentare le diverse possibilità caotiche in cui accade l’amore, allontana i protagonisti dalla scelta dell’altro secondo valori legittimati dalla maggioranza.
Nei racconti della Gaitskill nessuno nomina i sentimenti o i progetti di vita di un futuro matrimoniale e non ci sarà un qualsiasi lieto fine che implica l’evoluzione della vicenda. Gli amori, i dolori, le vite e le morti, i dispiaceri e le scoperte sciolgono una narrazione lunga, che procede per flashback e flashforward a dare l’impressione di un ciclo continuo. Si tratta di narrazioni interrotte che non avrebbero la stessa potenza se spalmate nel tempo più lungo di un romanzo: la sensazione che pervade il lettore è il senso di un tempo che vanifica l’importanza di pensieri cruciali qui e ora, se visti in prospettiva di un futuro in cui tutte le tracce svaniranno.
La  compilazione maniacale degli oggetti che circondano i corpi occupa interi paragrafi e s’impone non tanto come un capriccio barocco della scrittura quanto come una sospensione e un’illusione. Non leggeremo di personaggi allo sbaraglio che dimenticheranno tutto come fosse un brutto sogno: una lucidità così dettagliata fa parte dell’idealizzazione, del bisogno di chiarezza e coerenza mai raggiunti. È proprio essere sempre così presenti e autoconsapevoli delle proprie idee in solitudine a rendere scontrosa la scrittura di Mary Gaitskill, molto diversa da altre autrici americane incontrate fino ad ora.
Tutte, in modo vivo e variegato, hanno declinato esperienze autobiografiche o vicende vissute in terza persona. Non si è mai trattato di una scrittura ombelicale, in ognuna lo sguardo autoriferito si estendeva poi al ritratto di un’epoca, della donna inserita nel tempo specifico, del panorama interiore collettivo, con ironia o meno.
Amy Hempel, per esempio, si è affidata al modo analogo con cui la memoria e le azioni si susseguono. Un’aggregazione di frammenti discontinui, così com’è discontinuo il pensiero, è abilmente diretto dal collante di uno stile contratto, che lascia intendere più che spiegare e analizzare.
Oppure, ancora, Lydia Davis disperde il materiale del sé donandolo alla scienza di una composizione sperimentale: i racconti, anche solo di una pagina, sono piccoli poemi in cui l’esasperazione di un soliloquio crea il paradosso di far passare l’egoismo in secondo piano.
Anche leggendo le storie di Mary Gaitskill non è difficile intuire che una lente così caratterizzata deve aver appreso l’arte del cinismo a proprie spese con una storia personale che, se conosciuta, non è difficile da ricondurre ai racconti dove i legami, il sesso e l’amore si mescolano caoticamente senza la possibilità di etichettarli.
Come ha spiegato in Out of it!, sua newsletter periodica destinata ai lettori: «Scrivo da un punto di vista schietto ma moralmente ambiguo (leggi: realistico), con enfasi sulla natura emotiva strana e granulare dell'esperienza umana. Forse a causa di quello che chiamo punto di vista "granulare", non sono mai andata sui social media. Parte della mia granularità sta nel leggere le persone fisicamente, e mi inquieta comunicare con estranei quando non riesco a vedere chi sono o a sentirli».
L’aderenza totale alla realtà del mondo, per sua natura ambiguo, non ha la pretesa di sbrogliarlo o di imporre un giudizio, ma racchiude la capacità di osservarlo come cosa viva, costantemente in movimento. Ecco perché si avverte uno sguardo malinconico quando, nel numero intitolato The Hidden Life of Stories, la Gaitskill spiega cosa sono e da dove vengono le storie. La trama interiore di un qualsiasi racconto, quel filo che funziona come un “condotto” diretto all’inconscio e alle viscere di una persona, non è altro che lo stile dello scrittore.

La narrativa (anche quando è fantasy o fantascientifica) riguarda la vita e la vita non riguarda principalmente le parole. Considera quante cose hai pensato o visto che ti è impossibile dire a parole, anche qualcosa di semplice, come l'espressione facciale di qualcuno. La vita, anche in una giornata tranquilla, si svolge così densamente e rapidamente intorno a noi e la maggior parte riguarda il vedere, sentire e pensare in modo non strettamente verbale. La scrittura traduce tutto questo in parole, ma paradossalmente la scrittura più potente usa le parole in un modo che trascende le parole per diventare più fedele alla vita, nel senso che imita il modo in cui viviamo in un mondo che cambia e si muove continuamente davanti ai nostri occhi.

E se la scrittura del presente è disperatamente attaccata al reale, così aderente alla persona che scrive uno stato sui social la solitudine - della composizione e della contemplazione - non è come quella del passato. Si tratta di una solitudine più reale, meno contemplativa, poco lungimirante. E se il mondo fisico viene dato per scontato è chiaro che persino l’osservazione quotidiana è un uso e abuso della realtà, un modo per affermare il singolo e non il singolo in rapporto di scambio con l’altro.

«La natura profonda delle storie può essere rivelata attraverso immagini descrittive di piccole cose irrilevanti per la narrativa ovvia: cose inaspettatamente toccanti che notiamo intensamente o appena con la coda dell'occhio, schemi intravisti al di fuori dello spettro della nostra vita quotidiana». Forse è proprio un amore dubbioso, che a tratti deve rafforzarsi per essere stato trascurato, disinteressato a qualsiasi forma progettuale, slegato da qualsiasi ansia sociale, ma attento a cogliere i dettagli contraddittori alla periferia del nostro sguardo, è in grado di farci guardare alla solitudine in compagnia. Un luogo affollato in cui tornare e coltivare una cura dell’altro, partecipe e silenziosa.

Greenleaf, un racconto esemplare di Flannery O’Connor

di Debora Lambruschini

 

Un racconto dopo l’altro – e qualche incursione nei romanzi e nei saggi – sono anni che mi affascina il mistero della scrittura di Flannery O’Connor. L’ironia feroce che ne attraversa le storie, una certa occorrenza di tematiche e spunti, il realismo che si intreccia al grottesco, la fede, i dialoghi spiazzanti, sono alcuni degli elementi caratteristici della prosa di questa scrittrice leggendaria, morta prematuramente e all’apice della sua carriera letteraria, entrata presto nel canone occidentale. Bastano poche pagine per riconoscerne la voce, la postura autoriale che la contraddistingue, eppure quando pensi di averla inquadrata, quando i mezzi che come lettore hai a disposizione ti paiono adeguati a comprenderne il mistero, ecco che qualcosa sfugge e uno dei suoi caratteristici finali irrompe sulla pagina lasciandoti senza fiato. Ho un rapporto piuttosto viscerale con certi autori e scritture e O’Connor, i suoi racconti spietati, l’ironia pungente, i contrasti che li distinguono, mi affascinano come pochi altri. Mi abbandono quindi al godimento della lettura, consapevole che l’incanto ogni volta si ripeterà immutato. E che certi racconti più di altri torneranno a “tormentarmi”, per il mistero che appunto rappresentano, per la loro riconoscibilità, per la stratificazione. È stato il caso di Un brav’uomo è difficile da trovare, che dà il titolo alla raccolta omonima uscita lo scorso anno per minimum fax nell’ottima traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli, cui sono affidate tutte le traduzioni di O’Connor: un masterpiece che la rilettura apre di volta in volta a spunti e considerazioni nuovi. E quel finale! Lo conosco, so bene come si chiuderà quella storia, ma bastano un paio di righe a O’Connor per fare la sua magia, stregare completamente e far arrivare il lettore ancora una volta lì, chissà come inconsapevole di quello che accadrà. La violenza che esplode feroce sulla pagina scortica con la sua brutalità inattesa, in un equilibrio perfetto tra ironia e dramma. È la cifra stilistica di O’Connor, uno dei suoi segni distintivi e quello che più attrae per la potenza, il contrasto su cui si posa, la deflagrazione sulla pagina. Punto Omega, l’ultima raccolta approdata in libreria per minimum fax e come sempre tradotta da Cenciarelli, è attraversata da questo filo sottile, che in tali storie raggiunge forse la tensione massima, in un equilibrio ideale. È la raccolta finale, che uscì postuma e segna un punto fondamentale nella sua produzione letteraria. Nove racconti costruiti perfettamente tra la tragedia che va consumandosi sulla pagina e il registro quasi mai drammatico. Nove pezzi essenziali, che si inseriscono nella bibliografia dell’autrice e dialogano perfettamente con una produzione coerente, di cui uno tra gli altri è quello che continuerà a ronzarmi in testa, a distanza di molto tempo dalla lettura, come con la raccolta precedente. Non so se è il “migliore” della raccolta, qualunque significato o utilità possa avere tale etichetta in questo contesto, ma Greenleaf, il secondo racconto, è quello che maggiormente mi è entrato sottopelle. E che, guarda un po’, dialoga perfettamente con Un brav’uomo è difficile da trovare.

 

La finestra della camera da letto della signora May era bassa e dava a est, e il toro, d’argento sotto la luna, era proprio lì sotto, la testa alta quasi in attesa, come un dio paziente sceso a corteggiarla, di sentire un movimento nella stanza. (p. 45)

 

È l’incipit con cui O’Connor cattura il lettore portandolo immediatamente al centro della storia: la signora May, vedova di mezz’età con due figli adulti che abitano con lei nella fattoria di famiglia, è tormentata da un toro scappato ai figli del suo aiutante. Un animale, un simbolo. E lì, sotto la sua finestra, si insinua nel dormiveglia della donna, il lento masticare la siepe inizia a occupare i suoi pensieri e delineare lo spazio narrativo. Dal momento in cui lo vede, inizia la sua battaglia per farlo catturare dai responsabili, i figli del signor Greenleaf appunto, il fattore. E intanto, noi lettori, osserviamo la vita minima di queste persone in un luogo qualunque del Sud degli Stati Uniti, la fatica del tirare avanti con mezzi modesti, le disgrazie che ne hanno segnato la vita (molte, in queste storie, le famiglie gravate da un lutto), le problematiche quotidiane, il lavoro. Ci sono due figli maschi, che dal modo in cui parlano e si comportano sembrano poco più che adolescenti e invece scopriamo essere adulti, almeno dal punto di vista anagrafico. Hanno combinato poco o nulla nella vita, punzecchiano la madre con battute feroci, le procurano grattacapi e dispiaceri. La signora May non raccoglie le loro provocazioni, dentro di sé li difende, paragonandoli continuamente ai Greenleaf, quelli sì due scansafatiche buoni a nulla che vai a capire come sono però riusciti a farsi strada nell’esercito, essere feriti e ricevere una pensione da veterani, studiare agraria grazie agli aiuti del governo, acquistare un pezzo di terra e servirsi di nuove apparecchiature per prendersi cura dei propri animali; hanno mogli francesi e figli, forse non particolarmente ben vestiti e puliti, ma al riparo dalle preoccupazioni che invece attanagliano lei, sul futuro della fattoria, sulla fine dei suoi due ragazzi che probabilmente la manderanno in malora.

 

«Io lavoro come una schiava, combatto e sudo per conservare questa proprietà per loro e appena sarò morta si sposeranno due poveracce e rovineranno tutto quello che ho fatto», e in quel momento aveva deciso di cambiare il testamento. Il giorno dopo era andata dal notaio e aveva fatto vincolare la proprietà in modo tale che, se si fossero sposati, non avrebbero potuto lasciarla alle mogli. (p. 51)

 

Lo sguardo di O’Connor si posa qui, nel raccontarci i tormenti di questa donna che suo malgrado tira avanti, in continuo confronto con la famiglia dei Greenleaf; e tale rapporto diviene, o così pare, il cuore della storia, al punto da dargli il titolo stesso. Ma sappiamo, leggendo O’Connor, che al pari di Carver i titoli possono essere fuorvianti o rappresentano un dettaglio minimo di ciò che raccontano; scopriremo alla fine se è anche questo il caso, quale significato assume. Nel frattempo seguiamo la signora May nei suoi affanni e ricostruiamo pezzi di vita che aprono squarci sul mondo inventato da Flannery O’Connor: il Sud, mirabilmente ricreato, nonostante l’etichetta di autrice regionale che spesso le andava stretta, il rapporto tra bianchi e neri, la terra, un mondo che sembra sgretolarsi, la fede. Anche in questo racconto si condensano molte delle tematiche e degli spunti cari all’autrice, di volta in volta declinati in forme diverse. A partire dal rapporto tra bianchi e neri, dalla rappresentazione di questi ultimi, che per un attimo la frenesia da cancel culture ha alimentato la polemica: in tutti i racconti di O’Connor ricorre la parola “negro”, che saggiamente la traduzione italiana sceglie di lasciare così per aderenza alla forma originale; ma non è usata in modo offensivo, tutt’altro, funge da semplice specchio di una realtà ben fissata sulla pagina; i bianchi di queste storie guardano spesso con fare paternalistico ai neri, li considerano pigri, indulgenti con se stessi e i propri figli, una collezione di stereotipi razzisti che nelle mani di altri autori potrebbero davvero risultare offensivi. Ma basta leggere un paio di racconti per rendersi conto che i neri di O’Connor sono invece i personaggi più saggi e accorti ed è proprio la diffidenza nei loro confronti a generare in più di un’occasione il dramma della storia – come per esempio in Punto Omega. E quella parola, che oggi giustamente condanniamo, va ricollocata in un contesto storico e culturale ben preciso che rivive nelle atmosfere, nelle ambientazioni ma anche e soprattutto nei dialoghi costruiti da O’Connor, abilmente resi dalla traduzione di Cenciarelli, che restituisce questo valore contestuale utile al testo.
Alla perenne preoccupazione della signora May si contrappone la calma serafica dei Greenleaf, soprattutto del padre, che con i suoi modi esaspera la donna la quale tuttavia lo sopporta da molti anni spinta da umana compassione nei confronti di chi, poveretto, non potrebbe trovare altro nella vita. Arriva con passo lento ogni mattina, svolge i suoi compiti dopo che gli sono stati ricordati più volte, pronuncia poche frasi e quasi sempre nei momenti meno opportuni per i nervi della signora May. L’incidente del toro è l’apice di un rapporto che capiamo trascinarsi così da decenni: su tutti loro, il padre, i due figli e soprattutto la stravagante moglie dalla fede plateale, la signora May punta il faro e confronta costantemente le famiglie e il modo di vivere.
Il punto di vista con cui O’Connor ci racconta questa storia è quello della signora May e come tale siamo inizialmente indirizzati a interpretare ciò che vediamo; ma lentamente intuiamo che dietro le parole della donna c’è una realtà diversa ed è necessario prendere le distanze per osservare questo affresco umano nell’insieme. Anche ciò che resta fuori è interessante, proprio per le pennellate rapide con cui l’autrice lo tratteggia: chi sono questi due figli finto adolescenti che litigano tra loro, che non sembrano avere combinato nulla nella vita né hanno prospettive di farlo in futuro? Sappiamo che hanno perso il padre, ma molto tempo prima, li ha cresciuti una madre che si è rimboccata le maniche e reinventata agricoltrice e allevatrice; uno di loro è stato riformato per cardiopatia, l’altro ha trascorso due anni nell’esercito ma non è stato in grado di far carriera; l’uno intellettuale mancato, l’altro assicuratore – pensate, vende polizze assicurative ai neri!
Per tutto il racconto O’Connor mette in bocca alla signora May frasi di giustificazione verso i propri figli inetti, ma iniziamo presto a sospettare che neppure lei ormai ci creda più:

 

Il signor Greenleaf le aveva fatto notare, una volta, che i suoi figli non sapevano distinguere il fieno dall’insilato. Lei, a sua volta, gli aveva fatto notare che i suoi figli avevano altri talenti, che Scofield era un uomo d’affari di successo e che Wesley era un intellettuale di successo. Il signor Greenleaf non aveva commentato, ma non perdeva mai occasione di dimostrarle, con la sua espressione o semplicemente con un gesto, che provava per entrambi un disprezzo infinito. (p. 54)

 

Vi siete dimenticati anche voi del toro, vero? Ma parafrasando Cechov, se c’è una pistola deve sparare: e quella di O’Connor non è caricata solo a salve. La violenza esplode brutale nelle ultimissime pagine, il contrasto fra la scena cui assistiamo e le modalità narrative per raccontarla è quella cifra stilistica di cui dicevamo in apertura e che qui tende la corda al massimo. Come la donna di Un brav’uomo è difficile da trovare, l’anziana signora chiacchierona, una brava donna «se solo qualcuno le avesse sparato ogni minuto della sua vita», anche la signora May va incontro al suo destino inconsapevole di quanto sta per accadere di lì a poco.

 

Dopo qualche minuto qualcosa emerse dalla linea degli alberi, una pesante ombra nera che scosse la testa alcune volte e poi si slanciò in avanti. Un attimo dopo la signora May capì che si trattava del toro. (p. 75)

 

Il toro è di fronte a lei, rimasta sola alla macchina, indifesa, mentre il signor Greenleaf è stato mandato nel bosco con l’ordine di sparare al toro – ma abbiamo presto capito la differenza tra l’ordine dato e la sua effettiva esecuzione – e lo vede spuntare tra gli alberi, guardare verso di lei; sono loro due, di nuovo, come all’inizio della storia, quasi come un corteggiamento. Come tale, nella scena finale si carica di inattesa tensione erotica. Consapevole del pericolo, la signora May resta «assolutamente immobile, non per paura, ma per una raggelante incredulità»: e qui si compie il suo destino tragico. Immobile, incapace di reagire, non per paura ci dicono lei e l’autrice, ma per quella «raggelante incredulità» di chi non crede che stia succedendo davvero, che la realtà fino a quel momento conosciuta di colpo appare capovolta, tanto che «tutta la scena davanti a lei era cambiata», il mondo sottosopra. Come lei, come la sua famiglia e quella dei Greenleaf, come la sua fede obbediente ma priva di slancio e quella viscerale della signora Greenleaf; il mondo non si è capovolto, forse è la signora May che adesso lo vede per quello che è.  È un attimo fugace in cui ogni cosa le appare chiara, inevitabile, quando ormai però è troppo tardi. E a noi lettori solo adesso appare chiaro il senso profondo del titolo, Greenleaf, il ruolo del personaggio nel dramma che si compie.
È una scena brutale e bellissima, una di quella in pieno stile O’Connor che mi ha smosso per chissà quale associazione il ricordo di un racconto di un’altra fuoriclasse della Southern Literature, Shirley Jackson, e quel racconto in cui l’idillio domestico è rotto dalla violenza di un gesto – forse solo immaginato – che appare ancora più brutale per il luogo in cui si svolge e i suoi protagonisti, per il suo essere inaspettato. Perché sì, i lettori di O’Connor sanno che dietro l’ironia feroce li aspetterà una scena di questo genere, ma ogni volta arriva sulla pagina con un carico sorprendente. Sono le increspature sulla superficie di certi racconti o le crepe sulla facciata di Yates che si fanno deflagrazione e spazzano via ogni cosa. Quello che verrà dopo non importa, tutto il dramma si è consumato lì, in quel momento. Spiazzante. Crudele. Bellissimo.
Gli stessi aggettivi per definire questo racconto, che apre a molteplici spunti, dialoga con altre storie dentro e fuori questa raccolta. Leggere Flannery O’Connor è entrare «nel territorio del diavolo», la scrittura, e restarne totalmente ammaliati.

Una panoramica sul gotico inglese

di Debora Lambruschini

E così fummo lasciate, due creature giovani e sole, nel vecchio, grande maniero.
(“Il racconto della vecchia balia”, Elizabeth Gaskell, p. 32)

 

Bastano appena un paio di righe, in questo caso nate dalla penna di Elizabeth Gaskell, per far intuire al lettore le atmosfere che avvolgono la narrazione e, proseguendo poi nella lettura del racconto, inserirla in una tradizione ben salda nel panorama letterario inglese. Nato negli ultimi anni del Settecento, il genere gotico è stato a lungo considerato letteratura meramente popolare, forma di evasione che nulla aveva a che spartire con il novel che di lì a poco avrebbe consolidato la propria egemonia letteraria. Tuttavia gli strumenti critici idonei a riflettere intorno al gotico inglese non sono in effetti quelli del novel, quanto più propriamente quelli del romance (specie quello fantastico), di cui il gotico delle origini richiamava la caratterizzazione dei personaggi con la morale ben definita e la partecipazione del lettore all’avventura. Se poi ci avventuriamo nelle storie brevi, il fraintendimento si fa ancora più marcato. La popolarità tra i lettori e la varietà dei testi, le influenze mai esaurite, hanno impiegato molto tempo a interessare il discorso critico sul genere ed è stato solo a partire dagli anni Settanta del Novecento (similmente a quanto accaduto appunto per la short story moderna) che tali opere entrano nell’analisi critica, grazie soprattutto alle ricerche di Todorov, che per primo attribuisce al gotico inglese anche una funzione psicanalitica, quale mezzo per esorcizzare le paure della società entro cui si sviluppava. Un genere che fin dalla sua genesi si declina in tipologie differenti: il gotico del terrore, inaugurato da Horace Walpole con la pubblicazione nel 1764 di The castle of Otranto e che delinea molti degli elementi essenziali di questo genere; il gotico dell’orrore, il cui prototipo è rappresentato da The Monk di M.G. Lewis, la dannazione del protagonista che vende l’anima al diavolo (con un immediato riferimento al Dr Faustus e una tematica ben radicata nella coscienza romantica) e la sua miscela di sesso, sangue e sadismo; il gotico femminile, la cui strada è aperta da Clara Reeve nel 1778 con The old english baron a gothic story, per arrivare all’immensa popolarità di Ann Radcliffe; e, ancora, il gotico sentimentale, storico, esotico.

Al netto delle differenze che intercorrono tra le varie opere, gli elementi fondanti del genere sono ben saldi: l’ambientazione tetra, le scene notturne, il confine sempre più labile tra realtà e immaginazione, l’isolamento dei personaggi (da intendersi tanto come luoghi in cui si svolge l’azione quanto come emarginazione sociale), la presenza di elementi sovrannaturali, la suspence che attraversa la narrazione. L’influenza del genere gotico attraversa tutta l’età vittoriana, dal Regno Unito al Nord America, con la ripresa di certe atmosfere ed elementi caratteristici o lo sviluppo di narrazioni peculiari che arrivano fino al contemporaneo. Tratti che derivano dal gotico sono rintracciabili anche in romanzi vittoriani che poco o nulla hanno a che fare con il genere, ma di cui accolgono alcuni elementi: basta pensare a certe atmosfere presenti in Great Expectation di Dickens, a Wuthering heights di Emily Bronte (e questo è probabilmente il novel più gotico dell’età vittoriana) e a Jane Eyre della sorella Charlotte; o, ancora, al fecondo filone della sensational fiction e i romanzi di Wilkie Collins che all’elemento tipico del giallo intrecciano abilmente alcuni topoi del gotico. Genere molto popolare nato alla fine del Settecento, quindi, dirama la sua influenza per tutto il secolo successivo e molti degli elementi che lo caratterizzano restano a oggi ben visibili in tanta narrativa contemporanea.
Specchio della coscienza e dell’inconscio collettivi della società romantica inglese, il gotico era il mezzo ideale attraverso cui esorcizzare molte delle ansie e delle paure dell’epoca, il senso di colpa e i timori per essersi allontanati dall’ordine divino e naturale, i dubbi dell’uomo moderno e le sfide che si trovava ad affrontare, il confronto con la scienza e la tecnologia. E forse più di ogni altro il testo che ben rappresenta tali timori è Frankenstein di Mary Shelley, che già in quel sottotitolo “Or the modern Prometheus” esplica perfettamente il senso dell’opera. Romanzo gotico ma considerato anche come capostipite della narrativa fantascientifica, è entrato nell’immaginario collettivo come emblema dell’incubo sulla conoscenza che perseguita la coscienza borghese, la scienza e i limiti dell’umano e, per certi versi, anticipatore di istanze che saranno poi proprie della distopia. Nell’interrogativo alla base del romanzo, fino a che punto la scienza possa spingersi e con quali conseguenze nel suo volersi sostituire a Dio ma incapace di creare qualcosa di altrettanto perfetto come l’uomo, si insinuano molte delle paure e delle domande con cui oggi ancora di più siamo chiamati a confrontarci e che rendono la rilettura del romanzo di Shelley straordinariamente attuale.
Ma la popolarità del genere gotico si fonda anche sulla forma breve: grazie alla diffusione sempre più capillare della stampa e delle riviste, per tutto l’Ottocento le pagine dei giornali ospitano un numero molto alto di short story molte delle quali di chiara influenza gotica che, per natura stessa di forma, permettono agli autori un grado di sperimentazione tematica e formale che difficilmente viene concessa al novel. Nomi autorevoli del panorama vittoriano affidano alle riviste storie che consolidano il ruolo del genere gotico nella narrativa dell’epoca, ma che a leggere con attenzione talvolta si inseriscono in un discorso letterario più ampio e interessante.

 

Una fessura apertasi nelle nuvole mi permise di distinguere le linee di una villa desolata e grigia, ornata da obelischi in parte frantumati posti sulla facciata triangolare. Il mio cuore ebbe un balzo, e mi fermai incurante della pioggia che continuava a cadere. Un cane cominciò ad abbaiare furioso da una casupola di contadini sull’altro lato della strada, fiocamente illuminata da quella luce che avevo visto da lontano. (“L’avventura di Winthrop”, Vernon Lee, in Dark ladies, p. 186

La fascinazione del gotico vittoriano perdura nei decenni a venire e fino alla contemporaneità, non solo come riscritture e nuove interpretazioni del genere, ma anche come ricerca e traduzione di testi noti e meno noti.
Tra le uscite recenti che si ascrivono al filone del racconto gotico, una pubblicazione particolarmente interessante è Dark Ladies, antologia pubblicata da Blackie edizioni per la traduzione di Sabrina Bottari che riunisce alcune tra le voci femminili più autorevoli del gotico vittoriano. Elizabeth Gaskell, Charlotte Bronte, Vernon Lee, Willa Cather e, a chisura del volume, tre autrici italiane del periodo in oggetto, sono tra le voci di cui si compone l’antologia a rappresentare la varietà di un genere popolarissimo nell’Inghilterra vittoriana con cui si sono misurati autori diversi. Un volume prezioso perché permette anche di ritrovare autrici il cui nome oggi è poco noto fuori dai circuiti accademici, accanto ad altre la cui fama non si è mai esaurita, ma tutte accomunate da un approccio narrativo simile e molto popolari tra il pubblico dell’epoca. I racconti qui presentati coprono un arco temporale che va dal 1830 al 1900, abbracciando quindi tutta la stagione vittoriana, e permettono al lettore di intuire la varietà di un genere la cui influenza non è mai venuta meno. Undici autrici molto diverse fra loro, accomunate oltre che dal contesto storico geografico entro cui si muovono – fatta eccezione delle tre voci italiane a chiusura dell’opera, su cui torneremo – dal desiderio di «abbattere il mito del perfetto uomo vittoriano»: sono proprio gli uomini, infatti, a confrontarsi in queste storie con l’inafferrabile, a mostrare tutta la loro vulnerabilità e timori di fronte al mistero.

 

[…] anche mio padre iniziò a vergognarsi un po’ della sua stessa debolezza. Lui, un uomo razionale e un padre di famiglia, si era piegato a quella che era una mera fantasia, una superstizione dovuta probabilmente a una cena un po’ pesante e a un cervello sovreccitato!
(“L’ultima casa di via C.”, Dinah M. Mulock Craik, p. 76)

 
Il solido uomo vittoriano, il suo equilibrio e la morale integerrima, vacilla di fronte a strane apparizioni, voci, rumori misteriosi, che la mente razionale non può spiegare. Eccoli, dunque, alle prese con il terrore di trovarsi in tetre dimore, a vagare per le strade e i cimiteri di qualche luogo “esotico” – l’ambientazione fuori dal Regno Unito è ricorrente nel filone gotico – , a cadere vittima della maledizione che li colpisce, non darsi pace. La casa è uno dei luoghi più simbolici della narrativa gotica, che torna in forme differenti anche in questi racconti: costrette alla domesticità dal sistema patriarcale, le donne scrittrici si riappropriano qui degli spazi per farne il set ideale dell’incubo. Esemplare a mio avviso resta sempre in questo senso il racconto The Yellow Wallpaper, che non si trova nella raccolta in questione ma che vale la pena ancora segnalare: con una narrazione tesissima, Charlotte Perkins Gilman costruisce una storia di ossessione, in cui il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è si fa sempre più labile, fino a confondere perfettamente ragione e follia, punto di vista e narratore. Costretta in casa per riprendersi dalle fatiche del parto, la donna protagonista è ossessionata dalla carta da parati gialla che ricopre la stanza da letto entro cui è confinata, nella quale le pare di scorgere una figura femminile in trappola. Un racconto denso di spunti e rimandi, in cui le influenze gotiche si intrecciano alla questione femminile centrale nel dibattito sociale e letterario di fine secolo di cui la New Woman ne è l’emblema.

Ecco quindi, tornando ai racconti radunati in Dark Ladies, come gli elementi del gotico si prestino di volta in volta a interpretazioni diverse e la short story si conferma mezzo narrativo ideale per accogliere le istanze della modernità, affrancarsi dal novel, sperimentare, trattare anche quelle tematiche giudicate scabrose dalla morale vittoriana. Uomini impauriti, vecchi segreti e colpe che turbano la vita domestica di rispettabili anziane signore, fanciulle che si aggirano per cimiteri desolati, ossessioni, misteri. La linea di confine nell’interpretazione di questi testi spinge il lettore a interrogarsi: i protagonisti stanno davvero vivendo esperienze soprannaturali o è tutto frutto della loro fantasia? E noi come reagiamo di fronte all’una o all’altra risposta? I simboli di cui i racconti gotici sono disseminati, fanno presa anche sulla coscienza moderna che trova fra le pagine nuove interpretazioni e timori.
Da qui, dai racconti scelti con cura per questa raccolta e che ben rappresentano la varietà del genere nell’epoca vittoriana, l’influenza del gotico si dirama oltre i confini geografici entro cui si era sviluppato e assume caratteri peculiari: approda con esiti particolarmente interessanti in Nord America e si trasforma nella mani di Edgar Allan Poe che del gotico assimila il gusto per il mistero e certe atmosfere, trasfigurandole in storie dell’orrore, di morte e di angoscia; è l’eco che vive nella Southern Gothic Literature, la superstizione contrapposta alla religione come in certi racconti di Flannery O’Connor, il mistero, l’inafferrabile; il simbolismo di H.P. Lovecraft, erede di Poe, l’incubo rappresentato dagli sviluppi scientifici immaginando un futuro dai tratti oscuri; o, sempre per restare alla letteratura nordamericana, è il sovrannaturale che si trasforma nelle mani di Shirley Jackson, le atmosfere che affondano nella tradizione gotica, la domesticità che diviene incubo. Il gotico attraversa la narrativa statunitense tra Otto e Novecento: da Poe a Flannery O’Connor, Eudora Welty, Katherine Ann Porter, William Faulkner, voci diversissime ma nelle cui opere c’è traccia di un’influenza mai venuta meno. L’American Gothic, quindi, diviene a sua volta terreno fertile per altre contaminazioni, attraverso la letteratura o altre forme espressive.
Influenze, spunti, fino a contaminazioni di genere che arrivano all’horror e alla contemporaneità, esempi di un filone letterario mutevole e ancora ben saldo nell’immaginario collettivo. Abbiamo ancora bisogno di credere nel mistero e, ancor di più, confrontarci con la parte più tormentata dell’essere umano.  





Andre Dubus. Il sofisticato scrittore della quotidianità

 

di Debora Lambruschini

Il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo. (“Voci dalla luna”, p. 123)

 

C’è questo passaggio nel racconto lungo Voci dalla luna di Andre Dubus – pubblicato per la prima volta nel 1984 e in Italia edito da Mattioli come il resto della sua produzione letteraria – che a ogni lettura mi fa perdere un battito. È una frase breve, ma che condensa molto dello spirito del suo autore e fa da cartina per orientarsi nelle sue storie. Andre Dubus è stato un grande scrittore, devoto fino alla fine alla forma breve nonostante le lusinghe con cui editori importanti tentavano di convincerlo a scrivere un romanzo o anche solo a prometterne uno. Allievo di Richard Yates – la cui eco in qualche misura si avverte nelle pagine di Dubus ma con sostanziali differenze – , acclamato dagli scrittori suoi contemporanei – John Updike e Kurt Vonnegut sopra a tutti – la cui influenza si avverte in molti autori di racconti – a partire, per fare un esempio, dallo sguardo pieno di grazia di Elizabeth Strout – è stato spesso definito uno “scrittore per scrittori”, quell’etichetta che si appiccica addosso agli autori che sembrano attirare più il plauso dei colleghi che del pubblico, almeno per un certo periodo della loro carriera. L’affetto a lui rivolto dai colleghi e dagli studenti dei suoi corsi di letteratura è stato provvidenziale quando la vita di Dubus ha subito un brusco arresto: il 23 luglio 1986, mentre soccorreva due fratelli coinvolti in un incidente stradale, nel tentativo di salvare uno di loro viene investito da un’auto; l’impatto gli provoca numerose fratture, l’amputazione di una gamba e lo costringerà su una sedia a rotelle per gli ultimi anni della sua vita. È stato allora che gli amici e i colleghi di tutta una vita si prodigano per aiutarlo, istituendo un fondo di beneficienza, organizzando letture e raccolte per sostenere e omaggiare allo stesso tempo una delle voci più importanti della narrativa breve statunitense. A sessant’anni, prima dell’incidente, Dubus ha già vissuto molte vite: nato in Louisiana nel 1936 da una famiglia di origini irlandesi, riceve un’educazione cattolica che pervaderà la sua produzione letteraria, tra fede e dubbio; si sposa piuttosto giovane, costruisce una famiglia ed entra nel corpo dei marines, altro elemento che ritorna spesso nei suoi racconti. Preso congedo dalla marina la famiglia Dubus si trasferisce ad Iowa City ed è qui che incontra Richard Yates, che diventerà suo insegnante e amico intimo, nonostante qualche divergenza; si laurea in scrittura creativa e si traferisce al Bradford College in Massachussetts dove insegna letteratura e scrittura, dedicandosi come autore alla forma breve. Ben salda in mente la direzione da dare alla propria scrittura, la vita privata è invece segnata da differenti difficoltà: l’instabilità affettiva – divorzia tre volte – e, soprattutto, il trauma di una figlia vittima di violenza, il conseguente smarrimento e la scelta per un periodo di girare armato per difendere i propri cari, fino a un incidente in cui ferisce un uomo sparando con la propria arma. Poi, la notte fatale del 1986 che cambia ogni cosa nella vita e, in certa misura, nella scrittura.
Ma che cosa c’è nella scrittura di Dubus? Da dove deriva questa sua devozione alla forma breve? Se da Richard Yates ha acquisito una certa sensibilità verso la narrazione del quotidiano, le crepe lungo la facciata, le ombre nella vita borghese della provincia americana, lo sguardo di Dubus è più clemente, la «luce che entra dalla finestra» illumina frammenti di vite in cui si intravede ancora la grazia del quotidiano; il peccato è già stato commesso ma Dubus ne racconta le conseguenze, il turbamento certo, ma anche l’idea che qualcosa sia ancora possibile. Le colpe, gli sbagli, le azioni e i loro effetti da affrontare, i fallimenti cui difficilmente seguiranno sterili happy ending ma la pietà con cui guarda ai suoi personaggi umanissimi e la speranza nell’amore, nella felicità, aprono squarci anche nelle pagine più dolorose. In quelle vite minime, quindi, nella grazia del quotidiano, c’è il racconto.
In Italia l’opera di Dubus, composta di raccolte di racconti e novelle, i saggi e le riflessioni, è pubblicata da Mattioli nelle traduzioni di Nicola Manuppelli la cui voce aderisce perfettamente a quella dell’autore nel restituirne la cadenza, il ritmo, i riferimenti dentro e fuori dalla pagina e che in ogni pubblicazione guida il lettore nel testo. Da Non abitiamo più qui – forse il suo libro più noto, da cui era stato tratto anche un film premiato al Sundance Film festival, I giochi dei grandi, per la regia di John Curran – a Voci dalla luna, fino a Ballando a notte fonda, l’ultima raccolta pubblicata e la prima dopo l’incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle, le storie di Dubus, che siano short story in senso canonico o racconti lunghi, compongono tutte insieme un dialogo letterario e umano di rara bellezza e sensibilità. Come il suo insegnante Yates, anche Dubus in fondo ha scritto e riscritto sempre la stessa storia, riuscendo a tessere intorno a quei temi e spunti che sono il perno della sua riflessione letteraria e personale, un dialogo mai interrotto tra loro e la contemporaneità, anche quando la distanza geografica e temporale si allunga sempre più.
L’intensità del racconto, l’attenzione sui personaggi, è un tratto acquisito dalla lettura appassionata di Čechov, che più di ogni altro autore ha influenzato la scrittura di Dubus, e la scelta, appunto, di non tradire mai la forma breve perché è già lì che si trova la storia perfetta. Una fede assoluta nella forma racconto che lo appassionava tanto come scrittore quanto come insegnante. Il ricordo delle sue lezioni e soprattutto delle riunioni del circolo letterario che negli ultimi anni avvenivano il giovedì sera a casa sua, ha alimentato il ricordo e l’omaggio di molti studenti e colleghi scrittori di questo insegnante che anno dopo anno trovava la scintilla per alimentare la passione nella forma breve.
Quella di Dubus, come sottolinea anche Manuppelli nella sua prefazione alla nuova edizione di Non abitiamo più qui, è una scrittura piena, di cose da raccontare, di dettagli, di parole, di vita, ma mai strabordante; lo sguardo sui personaggi è sempre carico di pietà, capace di perdono, la colpa si lega alla compassione; la tensione narrativa abilmente costruita, si modella su storie legate sì da istanze e una sovrastruttura comuni, ma capace anche di adattarsi a narrazioni e punti di vista diversi, talvolta molteplici nello spazio di un unico racconto. Sono le persone il cuore delle storie di Dubus, lo sguardo pieno di grazia: uomini e donne colti nel momento dopo che qualcosa è successo, dopo la perdita e lo smarrimento, ma in certa misura ancora capaci di sopravvivere.
Le relazioni, i legami famigliari, sono complicati da tradimenti, mancanze, molto spesso dal logorio del sentimento:

 

[…] ancora adesso lei mi veniva incontro se giravo per casa, o mi toccava quando le capitava di passare vicino al divano dove leggevo. Ma io non cercavo più il contatto fisico. Di notte, a letto, capitava ancora. Ma non più alla luce del giorno.
(“Non abitiamo più qui”, p. 24)

 

È l’amore che si sfilaccia dopo una lunga relazione, la vita domestica, i malumori e le incomprensioni. L’intimità che si sgretola, l’insofferenza sempre più forte. La distanza che si insinua nel matrimonio. Il tradimento è un peccato che i personaggi di Dubus, uomini e donne, commettono di frequente, talvolta diviene perfino l’equilibrio precario su cui costruire la propria idea di matrimonio, o, quando non consumato, prende corpo e allarga la crepa sulla facciata. Nelle tre storie di Non abitiamo più qui, legate tra loro dai personaggi che le abitano, il tradimento si intreccia all’amicizia, alla crisi personale, ma per le due coppie avrà esiti differenti.
Ma, ancora, nonostante i matrimoni e le relazioni finite alle spalle, con tutti i dubbi e gli sbagli, è ancora vivo quel lampo di speranza, quel senso di possibilità:

 

Eppure, di tanto in tanto, le vedevi: queste vecchie coppie di venti, venticinque, trent’anni di convivenza che sedevano nei ristoranti e si guardavano con affetto e, soprattutto, parlavano.

(“Non abitiamo più qui”, p. 79)

 

Ed è quella speranza la spinta per tentare ancora, una fede cieca e disperata nell’amore, quasi fosse un’ancora di salvezza mentre tutto il resto va a pezzi. O meglio, sono l’amore e il suo tradimento a mandare ogni cosa in pezzi. Come nel bellissimo racconto lungo Voci dalla luna, lungo poco più di cento pagine e che nell’arco narrativo di un solo giorno dispiega una quantità di spunti e riflessioni ben più ampie dello spazio sulla pagina. Tutto è già accaduto e ciò che l’occhio dell’autore inquadra sono le conseguenze delle azioni, delle scelte incaute: Greg ha una relazione – o più precisamente, sta per sposare – Brenda, la ex moglie del figlio maggiore, Larry; a raccogliere i cocci delle loro vite ci sono il figlio dodicenne, Richie, determinato a entrare in seminario ma scosso dal dubbio dell’adolescenza; c’è Carol, la figlia, l’elusività sulla sua vita e il rapporto col padre, Joan la ex moglie di Greg che qualche anno prima se n’è andata scegliendo la solitudine per salvare se stessa.
Ci sono molte chiavi con cui leggere questa storia; la prima, per me, è la paternità: nonostante il dolore causato da certe scelte, Greg non smette mai di essere padre, per nessuno dei tre figli che, in modi diversi, sono toccati dalla vicenda e la interpretano, ne condividono le conseguenze e i dubbi. C’è la rabbia di Larry per il tradimento paterno, le distanze createsi già molto tempo prima, l’affetto che nonostante tutto lo lega a lui:

 

Ma quello che Larry pensava di quell’uomo, che raramente leggeva un libro, era che fosse una buona anima, uno capace di fare soldi, un anarchico che andava in giro con una pistola. E adesso un uomo che aveva violato confini e distanze fra padre e figlio. Confini che loro stessi avevano tracciato negli anni, e distanze che loro stessi avevano creato, in modo che potessero sedersi nella stessa stanza col conforto di un amore e di un rispetto riconosciuti.

 

La complessità di un rapporto imperfetto, fragile, che muta nel tempo, come per Carol. Lontana dal caos che si è scatenato, in una casa e una vita di cui mostrare solo la parte minima e meno pericolosa, accoglie quel padre con le sue debolezze, con la complessità del sentimento che li lega:

 

A ventuno anni lei lo amava con il distacco di una figlia adulta, e così era più facile, più doloroso, forse anche più profondo. Eppure, al tempo stesso, sentiva anche nostalgia, un tangibile sospiro di nostalgia nel cuore, per l’amore che aveva provato per lui quand’era ragazza, quando credeva che fosse il miglior padre che si potesse avere, il più bello, e che potesse fare qualsiasi cosa lei gli chiedesse.

 

L’amore muta forma, i nostri padri se abbiamo la fortuna di averli accanto anche per tutta la vita adulta, ci mostrano la fragile umanità di cui ognuno è fatto, sono fallaci, imperfetti. Ma sono i nostri padri.

 

Lui l’abbracciò e rimasero fermi nella stanza, al suono della musica, tenendosi, e lei sentì la vita battere nel petto di lui e sperò che fosse lunga e che quell’amore fosse felice. E desiderò, più di quanto avesse mai desiderato qualsiasi altra cosa da tantissimo tempo, di potergli regalare tutto questo, facendolo scorrere dal proprio cuore a quello del padre, mentre stavano abbracciati al suono di quella canzone.

 

Voci dalla luna è, ancora, una storia che ne contiene molte altre, come spesso accade nei racconti di Dubus. Alla sovrastruttura principale (il tradimento e la crisi che si è creata nella famiglia) si intreccia la storia silenziosa di Richie e la sua fede scossa dal dubbio, i problemi famigliari e le prime pulsioni sessuali.  «Sarà molto difficile rimanere cattolici a casa nostra» dice a un certo punto rivolgendosi al suo confessore ed è facile immaginare quanto le conseguenze delle scelte paterne possano mettere in dubbio le sue certezze, soprattutto l’idea dell’amore – cattolico e secolare. Ma è anche la storia accennata di Joan, del suo abbandono, del dolore causato, della «serena solitudine» che si è imposta, unica scelta possibile per salvarsi. Rimane il ricordo di un matrimonio ormai logoro, del fastidio, dell’insofferenza, con Greg che sembrava suonare «come la campana a morto del loro amore». Eppure è lei che trova la luce in questa storia:

 

Voglio dirti una cosa a cui questa sera non sei costretto a credere. E non lo sarai per molto tempo. Continuerai a lavorare per tuo padre e, dopo un po’, tutto si aggiusterà. Lo vedrai al negozio e non penserai a lui con Brenda. Proverai qualche fitta, certo, come una vecchia ferita di cui ci si ricorda. Ma non ti compariranno davanti le immagini di quel dolore. Probabilmente sentiresti quella fitta  comunque, ogni volta che vedi tuo padre, perché avete sempre litigato voi due, e vi siete sempre voluti bene.

(“Voci dalla luna”, p. 121)

 

Eccola lì la grazia, la pietà, con cui Dubus guarda i suoi personaggi, eccola lì, nelle parole di Joan, la speranza che ci sia ancora, sempre, un’altra possibilità. E forse il racconto migliore per chiudere la lettura e rilettura di Dubus, per chiudere queste lunghe riflessioni, è Ballando a notte fonda, contenuto nell’omonima raccolta del 1996, l’ultima pubblicata e la prima scritta dopo l’incidente. Ritorna l’ambientazione in un bar, la notte, le storie di uomini e donne che si intrecciano, anche solo per un momento; c’è un uomo, disabile, accompagnato da un ragazzo che se ne prende cura; c’è una donna che non sa fidarsi dei sentimenti; ci sono parole che mancano e storie invece che devono essere raccontate per trovare un senso. Ci sono un gruppo di persone che ballano e ascoltano la musica, ma più di tutto ascoltano i battiti minimi dei loro cuori. Questo racconto chiude una raccolta molto spesso dolorosa – a partire proprio dal primo racconto, L’intruso, il più cupo – con una danza nella notte carica di possibilità e fiducia. Di strade da percorrere, se non abbiamo troppa paura. O forse proprio perché ce l’abbiamo.

L’enciclopedia dell’incongruo nelle cronache della montagna di Alexandre Vialette


di Alice Pisu

 

Riscoprire oggi Alexandre Vialatte attraverso le sue cronache novecentesche permette di riconoscere in quei racconti che virano verso l’assurdo il genio di un autore irriverente capace di elevare il frammento a primario strumento di misurazione del presente. Attraverso una feroce critica sociale Vialatte immortala una comunità inadatta a intravedere una direzione unitaria perché incapace di sorprendersi. Da intellettuale “notoriamente sconosciuto” ai suoi contemporanei, nelle sue prime traduzioni farà scoprire Kafka ai lettori francesi, per poi confrontarsi anche con le opere di Nietzsche, Goethe, von Hoffmannsthal, Mann, Brecht. Il suo rapporto fluido con la scrittura lo conduce a esiti diversi dalla narrativa alla poesia alle cronache che ne sanciscono la natura eclettica. Aspetto evidente in Battling il tenebroso, romanzo d’esordio uscito nel 1928, a cui seguiranno Il Fedele Berger (1942) e I Frutti del Congo (1950). La fama di Vialatte oggi è dovuta soprattutto alle sue cronache, pubblicate con cadenza settimanale su La Montagne. Grazie a Prehistorica editore i lettori italiani possono finalmente scoprire Battling il tenebroso e le Cronache dalla montagna, collana che comprende la recente uscita dei volumi Di lupi, foche e altre cose singolari e Di vette inarrivabili e mezzi straordinari, tutti tradotti da René Corona.
Sul modo in cui Battling il tenebroso irrompe nel panorama letterario e si colloca nel contesto storico del primo Novecento è di particolare rilievo l’analisi di Pierre Jourde che perlustra la geografia di Vialatte evidenziando il peso assunto da due poli opposti, l’Alvernia delle origini con realtà di provincia uguali a sé stesse in una dimensione atavica che rifiuta il cambiamento, e la Germania tra le due guerre, nel suo “carnevale al tempo stesso ridicolo e inquietante, in cui ci si abbandona intensamente a ogni sorta di esperienza”.
Attraverso storie che gravitano attorno a un bizzarro e tetro campionario del vivente, Vialatte usa l’ordinario per stravolgere convinzioni e stereotipi e enfatizzare accadimenti minimi per ridefinire certezze e mostrare il ridicolo dell’umano. La sua intera produzione narrativa si interroga sul senso del vivere, sul peso del destino, con immagini che restituiscono la fatica umana di muoversi tra tragedia e farsa, sfiorando l’alienazione o ricadendo nel conformismo. Le esistenze mediocri che immortala richiamano la continua ricerca di un senso da dare al vuoto, un’affascinante inconsistenza senza rimedio. Abitato da pizzicagnoli senza clientela, cicogne, professori, farmacisti che fuggono dal temporale, sogni fluttuanti, vedove coraggiose, fabbricanti di birra, giraffe malvagie, vecchie signore che vendono spille da balia in mercerie di sobborghi piovosi, lo strambo e vivace mondo di Vialatte definisce la misura di un’inesausta ricerca, un desiderio impreciso e urgente.

La vita è diventata razionale. L’uomo ha ripreso il suo posto di vittima schiacciata in un incubo rallegrato, ogni tanto, da un negozietto di giocattoli e di maschere spassose, spazioso come un francobollo sopra una superficie murale di diecimila metri quadri.

Il suo particolare uso dell’elemento ironico reso con una singolare pacatezza lirica permette di esasperare e annullare i confini del noto, mostrando una comune matrice malinconica in quei figuranti grotteschi immersi nel “delirio surrealista” urbano. Il modello delle cronache parte da un assunto iniziale che Vialatte usa per comporre pagine che celano dietro l’apparente linearità una complessità strutturale e contenutistica in grado di ritrarre con una vena sarcastica l’ambiente sociale dell’epoca. Le deformazioni liriche prendono corpo sulla pagina attraverso gli esiti comici e satirici generati a partire dall’iniziale semplificazione delle caratteristiche dei personaggi ritratti che troverà nel caricaturale l’espediente per confermare la tesi iniziale concludendo immancabilmente con la formula “Ed è così che il Divino è grande”.
La brevità e la natura eterogenea rivelano nella ricerca formale di Vialatte l’intento di generare una sottile e intima tensione etica e filosofica. Tale visionarietà, all’apparenza in contrasto con il tono vivace e la disinvoltura con cui l’autore attinge all’incongruo per amplificare il reale, appare talmente moderna da faticare a collocarsi nel suo tempo. Ogni racconto condensa assunti stravolti, sapere enciclopedico capovolto, dalla cronaca delle giuste altitudini che sottolinea i risultati di una geografia orientata, a quella dei marciapiedi più spaziosi che ne esalta la ricchezza culturale, umana e scientifica, alla cronaca degli argomenti più vasti, in cui dissertare sul mare, l’oceano, le isole, la montagna, i lacci delle scarpe, la carne di cavallo, il castello di Brimborion. Si tratta di apparenti divagazioni mistiche, sensuali e a tratti ciniche, usate per supportare tesi stravaganti dall’ombra inquieta che finiscono sempre per accertare le meraviglie della natura e l’inettitudine dell’individuo.
Le esplorazioni sperimentali che rendono inconfondibile la voce letteraria di Vialatte non rifuggono la realtà ma ne diventano la riproduzione alternativa attraverso incessanti giochi a contrasti e ripetizioni in cui riluce il sottile racconto dello smarrimento. Aspetti evidenti in particolare nelle cronache in cui l’autore si interroga sul significato della poesia – “D’altronde la poesia è un po’ tutto. Per il poeta tutto è poetico. E innanzitutto una bella salumeria. In pieno inverno” – o nelle Cronache della parola e qualche volta del pensiero, in cui parte dai tornei greci di eloquenza per arrivare agli insulti degli automobilisti, dei marxisti leninisti e degli sposi in collera per poi interrogarsi, così, sulla “ventura delle parole e delle cose”.
L’umanità sezionata in verticale da Vialatte risiede nelle consuetudini di esistenze comuni, rese da coloriture su grettezze quotidiane, nelle ipocrisie degli ambienti artistici dei gala parigini, nelle figure mostruose che compongono l’élite intellettuale. Per osservarla si nutre dello sguardo di un moralista prodigioso, Sempé, “il miglior fotografo di un’epoca folgorata fin nei suoi sobborghi e fin nella sua anima, nella salute, nell’igiene e nella risata attraverso il crimine dell’uniformità. Lui la esprime in duecento modi, tutti tanto tristi quanto divertenti”.
Vialatte mostra un artista sconfortato ormai incapace di schernire quell’umanità alla deriva immortalata nelle sue opere e solleva quella che ritiene la questione del secolo, l’inaccessibilità dell’uomo alla felicità, intesa come un sottoprodotto.
Si chiede quale sia il posto dell’uomo, quale sia la sua direzione, e lo fa attraverso frammenti che richiamano i frantumi di un’umanità disorientata e inconsapevole della propria condizione, per questo raffigurata nel suo disordine e nelle sue miserie. Attraverso continui ingrandimenti su minuzie irrilevanti Vialatte assegna a quelle immagini una vena umoristica dalla matrice assurda nella convinzione che l’incoerente trovi sempre “degli echi nel subcosciente di colui che contempla” perché “è la chiave stessa dell’abisso interiore”.
L’eredità di Vialatte risiede negli interrogativi disseminati nella sua intera produzione letteraria sull’uomo moderno, sul concetto di felicità e sul significato del nulla, e nelle strade indicate al lettore, a partire dalla necessità della poesia che “filtra sempre attraverso le fessure dell’insolito”, sino all’incapacità di una concreta rivolta nell’individuo, privo di un’opinione personale e sottomesso al rispetto del “pro, del contro e del tutto ciò che si vuole”, incline maggiormente alla sapienza che alla felicità.

Dove va l’uomo? Va su una panchina. Accanto a lui una piccola palma dal fogliame piatto, dal tronco color avana, storto, ingobbito come un piccolo sigaro, sembra un ventaglio piantato in un sigaro. L’uomo si siede in riva al mare. Non si sa quale sogno vi persegua nel fumo della sua pipa di amianto. Il Napoleone è diventato ormai piccolissimo all’orizzonte. Sta entrando nella zona in cui non si vedono più le cose. Ed è così che il Divino è grande.