Andre Dubus. Il sofisticato scrittore della quotidianità

 

di Debora Lambruschini

Il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo. (“Voci dalla luna”, p. 123)

 

C’è questo passaggio nel racconto lungo Voci dalla luna di Andre Dubus – pubblicato per la prima volta nel 1984 e in Italia edito da Mattioli come il resto della sua produzione letteraria – che a ogni lettura mi fa perdere un battito. È una frase breve, ma che condensa molto dello spirito del suo autore e fa da cartina per orientarsi nelle sue storie. Andre Dubus è stato un grande scrittore, devoto fino alla fine alla forma breve nonostante le lusinghe con cui editori importanti tentavano di convincerlo a scrivere un romanzo o anche solo a prometterne uno. Allievo di Richard Yates – la cui eco in qualche misura si avverte nelle pagine di Dubus ma con sostanziali differenze – , acclamato dagli scrittori suoi contemporanei – John Updike e Kurt Vonnegut sopra a tutti – la cui influenza si avverte in molti autori di racconti – a partire, per fare un esempio, dallo sguardo pieno di grazia di Elizabeth Strout – è stato spesso definito uno “scrittore per scrittori”, quell’etichetta che si appiccica addosso agli autori che sembrano attirare più il plauso dei colleghi che del pubblico, almeno per un certo periodo della loro carriera. L’affetto a lui rivolto dai colleghi e dagli studenti dei suoi corsi di letteratura è stato provvidenziale quando la vita di Dubus ha subito un brusco arresto: il 23 luglio 1986, mentre soccorreva due fratelli coinvolti in un incidente stradale, nel tentativo di salvare uno di loro viene investito da un’auto; l’impatto gli provoca numerose fratture, l’amputazione di una gamba e lo costringerà su una sedia a rotelle per gli ultimi anni della sua vita. È stato allora che gli amici e i colleghi di tutta una vita si prodigano per aiutarlo, istituendo un fondo di beneficienza, organizzando letture e raccolte per sostenere e omaggiare allo stesso tempo una delle voci più importanti della narrativa breve statunitense. A sessant’anni, prima dell’incidente, Dubus ha già vissuto molte vite: nato in Louisiana nel 1936 da una famiglia di origini irlandesi, riceve un’educazione cattolica che pervaderà la sua produzione letteraria, tra fede e dubbio; si sposa piuttosto giovane, costruisce una famiglia ed entra nel corpo dei marines, altro elemento che ritorna spesso nei suoi racconti. Preso congedo dalla marina la famiglia Dubus si trasferisce ad Iowa City ed è qui che incontra Richard Yates, che diventerà suo insegnante e amico intimo, nonostante qualche divergenza; si laurea in scrittura creativa e si traferisce al Bradford College in Massachussetts dove insegna letteratura e scrittura, dedicandosi come autore alla forma breve. Ben salda in mente la direzione da dare alla propria scrittura, la vita privata è invece segnata da differenti difficoltà: l’instabilità affettiva – divorzia tre volte – e, soprattutto, il trauma di una figlia vittima di violenza, il conseguente smarrimento e la scelta per un periodo di girare armato per difendere i propri cari, fino a un incidente in cui ferisce un uomo sparando con la propria arma. Poi, la notte fatale del 1986 che cambia ogni cosa nella vita e, in certa misura, nella scrittura.
Ma che cosa c’è nella scrittura di Dubus? Da dove deriva questa sua devozione alla forma breve? Se da Richard Yates ha acquisito una certa sensibilità verso la narrazione del quotidiano, le crepe lungo la facciata, le ombre nella vita borghese della provincia americana, lo sguardo di Dubus è più clemente, la «luce che entra dalla finestra» illumina frammenti di vite in cui si intravede ancora la grazia del quotidiano; il peccato è già stato commesso ma Dubus ne racconta le conseguenze, il turbamento certo, ma anche l’idea che qualcosa sia ancora possibile. Le colpe, gli sbagli, le azioni e i loro effetti da affrontare, i fallimenti cui difficilmente seguiranno sterili happy ending ma la pietà con cui guarda ai suoi personaggi umanissimi e la speranza nell’amore, nella felicità, aprono squarci anche nelle pagine più dolorose. In quelle vite minime, quindi, nella grazia del quotidiano, c’è il racconto.
In Italia l’opera di Dubus, composta di raccolte di racconti e novelle, i saggi e le riflessioni, è pubblicata da Mattioli nelle traduzioni di Nicola Manuppelli la cui voce aderisce perfettamente a quella dell’autore nel restituirne la cadenza, il ritmo, i riferimenti dentro e fuori dalla pagina e che in ogni pubblicazione guida il lettore nel testo. Da Non abitiamo più qui – forse il suo libro più noto, da cui era stato tratto anche un film premiato al Sundance Film festival, I giochi dei grandi, per la regia di John Curran – a Voci dalla luna, fino a Ballando a notte fonda, l’ultima raccolta pubblicata e la prima dopo l’incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle, le storie di Dubus, che siano short story in senso canonico o racconti lunghi, compongono tutte insieme un dialogo letterario e umano di rara bellezza e sensibilità. Come il suo insegnante Yates, anche Dubus in fondo ha scritto e riscritto sempre la stessa storia, riuscendo a tessere intorno a quei temi e spunti che sono il perno della sua riflessione letteraria e personale, un dialogo mai interrotto tra loro e la contemporaneità, anche quando la distanza geografica e temporale si allunga sempre più.
L’intensità del racconto, l’attenzione sui personaggi, è un tratto acquisito dalla lettura appassionata di Čechov, che più di ogni altro autore ha influenzato la scrittura di Dubus, e la scelta, appunto, di non tradire mai la forma breve perché è già lì che si trova la storia perfetta. Una fede assoluta nella forma racconto che lo appassionava tanto come scrittore quanto come insegnante. Il ricordo delle sue lezioni e soprattutto delle riunioni del circolo letterario che negli ultimi anni avvenivano il giovedì sera a casa sua, ha alimentato il ricordo e l’omaggio di molti studenti e colleghi scrittori di questo insegnante che anno dopo anno trovava la scintilla per alimentare la passione nella forma breve.
Quella di Dubus, come sottolinea anche Manuppelli nella sua prefazione alla nuova edizione di Non abitiamo più qui, è una scrittura piena, di cose da raccontare, di dettagli, di parole, di vita, ma mai strabordante; lo sguardo sui personaggi è sempre carico di pietà, capace di perdono, la colpa si lega alla compassione; la tensione narrativa abilmente costruita, si modella su storie legate sì da istanze e una sovrastruttura comuni, ma capace anche di adattarsi a narrazioni e punti di vista diversi, talvolta molteplici nello spazio di un unico racconto. Sono le persone il cuore delle storie di Dubus, lo sguardo pieno di grazia: uomini e donne colti nel momento dopo che qualcosa è successo, dopo la perdita e lo smarrimento, ma in certa misura ancora capaci di sopravvivere.
Le relazioni, i legami famigliari, sono complicati da tradimenti, mancanze, molto spesso dal logorio del sentimento:

 

[…] ancora adesso lei mi veniva incontro se giravo per casa, o mi toccava quando le capitava di passare vicino al divano dove leggevo. Ma io non cercavo più il contatto fisico. Di notte, a letto, capitava ancora. Ma non più alla luce del giorno.
(“Non abitiamo più qui”, p. 24)

 

È l’amore che si sfilaccia dopo una lunga relazione, la vita domestica, i malumori e le incomprensioni. L’intimità che si sgretola, l’insofferenza sempre più forte. La distanza che si insinua nel matrimonio. Il tradimento è un peccato che i personaggi di Dubus, uomini e donne, commettono di frequente, talvolta diviene perfino l’equilibrio precario su cui costruire la propria idea di matrimonio, o, quando non consumato, prende corpo e allarga la crepa sulla facciata. Nelle tre storie di Non abitiamo più qui, legate tra loro dai personaggi che le abitano, il tradimento si intreccia all’amicizia, alla crisi personale, ma per le due coppie avrà esiti differenti.
Ma, ancora, nonostante i matrimoni e le relazioni finite alle spalle, con tutti i dubbi e gli sbagli, è ancora vivo quel lampo di speranza, quel senso di possibilità:

 

Eppure, di tanto in tanto, le vedevi: queste vecchie coppie di venti, venticinque, trent’anni di convivenza che sedevano nei ristoranti e si guardavano con affetto e, soprattutto, parlavano.

(“Non abitiamo più qui”, p. 79)

 

Ed è quella speranza la spinta per tentare ancora, una fede cieca e disperata nell’amore, quasi fosse un’ancora di salvezza mentre tutto il resto va a pezzi. O meglio, sono l’amore e il suo tradimento a mandare ogni cosa in pezzi. Come nel bellissimo racconto lungo Voci dalla luna, lungo poco più di cento pagine e che nell’arco narrativo di un solo giorno dispiega una quantità di spunti e riflessioni ben più ampie dello spazio sulla pagina. Tutto è già accaduto e ciò che l’occhio dell’autore inquadra sono le conseguenze delle azioni, delle scelte incaute: Greg ha una relazione – o più precisamente, sta per sposare – Brenda, la ex moglie del figlio maggiore, Larry; a raccogliere i cocci delle loro vite ci sono il figlio dodicenne, Richie, determinato a entrare in seminario ma scosso dal dubbio dell’adolescenza; c’è Carol, la figlia, l’elusività sulla sua vita e il rapporto col padre, Joan la ex moglie di Greg che qualche anno prima se n’è andata scegliendo la solitudine per salvare se stessa.
Ci sono molte chiavi con cui leggere questa storia; la prima, per me, è la paternità: nonostante il dolore causato da certe scelte, Greg non smette mai di essere padre, per nessuno dei tre figli che, in modi diversi, sono toccati dalla vicenda e la interpretano, ne condividono le conseguenze e i dubbi. C’è la rabbia di Larry per il tradimento paterno, le distanze createsi già molto tempo prima, l’affetto che nonostante tutto lo lega a lui:

 

Ma quello che Larry pensava di quell’uomo, che raramente leggeva un libro, era che fosse una buona anima, uno capace di fare soldi, un anarchico che andava in giro con una pistola. E adesso un uomo che aveva violato confini e distanze fra padre e figlio. Confini che loro stessi avevano tracciato negli anni, e distanze che loro stessi avevano creato, in modo che potessero sedersi nella stessa stanza col conforto di un amore e di un rispetto riconosciuti.

 

La complessità di un rapporto imperfetto, fragile, che muta nel tempo, come per Carol. Lontana dal caos che si è scatenato, in una casa e una vita di cui mostrare solo la parte minima e meno pericolosa, accoglie quel padre con le sue debolezze, con la complessità del sentimento che li lega:

 

A ventuno anni lei lo amava con il distacco di una figlia adulta, e così era più facile, più doloroso, forse anche più profondo. Eppure, al tempo stesso, sentiva anche nostalgia, un tangibile sospiro di nostalgia nel cuore, per l’amore che aveva provato per lui quand’era ragazza, quando credeva che fosse il miglior padre che si potesse avere, il più bello, e che potesse fare qualsiasi cosa lei gli chiedesse.

 

L’amore muta forma, i nostri padri se abbiamo la fortuna di averli accanto anche per tutta la vita adulta, ci mostrano la fragile umanità di cui ognuno è fatto, sono fallaci, imperfetti. Ma sono i nostri padri.

 

Lui l’abbracciò e rimasero fermi nella stanza, al suono della musica, tenendosi, e lei sentì la vita battere nel petto di lui e sperò che fosse lunga e che quell’amore fosse felice. E desiderò, più di quanto avesse mai desiderato qualsiasi altra cosa da tantissimo tempo, di potergli regalare tutto questo, facendolo scorrere dal proprio cuore a quello del padre, mentre stavano abbracciati al suono di quella canzone.

 

Voci dalla luna è, ancora, una storia che ne contiene molte altre, come spesso accade nei racconti di Dubus. Alla sovrastruttura principale (il tradimento e la crisi che si è creata nella famiglia) si intreccia la storia silenziosa di Richie e la sua fede scossa dal dubbio, i problemi famigliari e le prime pulsioni sessuali.  «Sarà molto difficile rimanere cattolici a casa nostra» dice a un certo punto rivolgendosi al suo confessore ed è facile immaginare quanto le conseguenze delle scelte paterne possano mettere in dubbio le sue certezze, soprattutto l’idea dell’amore – cattolico e secolare. Ma è anche la storia accennata di Joan, del suo abbandono, del dolore causato, della «serena solitudine» che si è imposta, unica scelta possibile per salvarsi. Rimane il ricordo di un matrimonio ormai logoro, del fastidio, dell’insofferenza, con Greg che sembrava suonare «come la campana a morto del loro amore». Eppure è lei che trova la luce in questa storia:

 

Voglio dirti una cosa a cui questa sera non sei costretto a credere. E non lo sarai per molto tempo. Continuerai a lavorare per tuo padre e, dopo un po’, tutto si aggiusterà. Lo vedrai al negozio e non penserai a lui con Brenda. Proverai qualche fitta, certo, come una vecchia ferita di cui ci si ricorda. Ma non ti compariranno davanti le immagini di quel dolore. Probabilmente sentiresti quella fitta  comunque, ogni volta che vedi tuo padre, perché avete sempre litigato voi due, e vi siete sempre voluti bene.

(“Voci dalla luna”, p. 121)

 

Eccola lì la grazia, la pietà, con cui Dubus guarda i suoi personaggi, eccola lì, nelle parole di Joan, la speranza che ci sia ancora, sempre, un’altra possibilità. E forse il racconto migliore per chiudere la lettura e rilettura di Dubus, per chiudere queste lunghe riflessioni, è Ballando a notte fonda, contenuto nell’omonima raccolta del 1996, l’ultima pubblicata e la prima scritta dopo l’incidente. Ritorna l’ambientazione in un bar, la notte, le storie di uomini e donne che si intrecciano, anche solo per un momento; c’è un uomo, disabile, accompagnato da un ragazzo che se ne prende cura; c’è una donna che non sa fidarsi dei sentimenti; ci sono parole che mancano e storie invece che devono essere raccontate per trovare un senso. Ci sono un gruppo di persone che ballano e ascoltano la musica, ma più di tutto ascoltano i battiti minimi dei loro cuori. Questo racconto chiude una raccolta molto spesso dolorosa – a partire proprio dal primo racconto, L’intruso, il più cupo – con una danza nella notte carica di possibilità e fiducia. Di strade da percorrere, se non abbiamo troppa paura. O forse proprio perché ce l’abbiamo.