L’enciclopedia dell’incongruo nelle cronache della montagna di Alexandre Vialette


di Alice Pisu

 

Riscoprire oggi Alexandre Vialatte attraverso le sue cronache novecentesche permette di riconoscere in quei racconti che virano verso l’assurdo il genio di un autore irriverente capace di elevare il frammento a primario strumento di misurazione del presente. Attraverso una feroce critica sociale Vialatte immortala una comunità inadatta a intravedere una direzione unitaria perché incapace di sorprendersi. Da intellettuale “notoriamente sconosciuto” ai suoi contemporanei, nelle sue prime traduzioni farà scoprire Kafka ai lettori francesi, per poi confrontarsi anche con le opere di Nietzsche, Goethe, von Hoffmannsthal, Mann, Brecht. Il suo rapporto fluido con la scrittura lo conduce a esiti diversi dalla narrativa alla poesia alle cronache che ne sanciscono la natura eclettica. Aspetto evidente in Battling il tenebroso, romanzo d’esordio uscito nel 1928, a cui seguiranno Il Fedele Berger (1942) e I Frutti del Congo (1950). La fama di Vialatte oggi è dovuta soprattutto alle sue cronache, pubblicate con cadenza settimanale su La Montagne. Grazie a Prehistorica editore i lettori italiani possono finalmente scoprire Battling il tenebroso e le Cronache dalla montagna, collana che comprende la recente uscita dei volumi Di lupi, foche e altre cose singolari e Di vette inarrivabili e mezzi straordinari, tutti tradotti da René Corona.
Sul modo in cui Battling il tenebroso irrompe nel panorama letterario e si colloca nel contesto storico del primo Novecento è di particolare rilievo l’analisi di Pierre Jourde che perlustra la geografia di Vialatte evidenziando il peso assunto da due poli opposti, l’Alvernia delle origini con realtà di provincia uguali a sé stesse in una dimensione atavica che rifiuta il cambiamento, e la Germania tra le due guerre, nel suo “carnevale al tempo stesso ridicolo e inquietante, in cui ci si abbandona intensamente a ogni sorta di esperienza”.
Attraverso storie che gravitano attorno a un bizzarro e tetro campionario del vivente, Vialatte usa l’ordinario per stravolgere convinzioni e stereotipi e enfatizzare accadimenti minimi per ridefinire certezze e mostrare il ridicolo dell’umano. La sua intera produzione narrativa si interroga sul senso del vivere, sul peso del destino, con immagini che restituiscono la fatica umana di muoversi tra tragedia e farsa, sfiorando l’alienazione o ricadendo nel conformismo. Le esistenze mediocri che immortala richiamano la continua ricerca di un senso da dare al vuoto, un’affascinante inconsistenza senza rimedio. Abitato da pizzicagnoli senza clientela, cicogne, professori, farmacisti che fuggono dal temporale, sogni fluttuanti, vedove coraggiose, fabbricanti di birra, giraffe malvagie, vecchie signore che vendono spille da balia in mercerie di sobborghi piovosi, lo strambo e vivace mondo di Vialatte definisce la misura di un’inesausta ricerca, un desiderio impreciso e urgente.

La vita è diventata razionale. L’uomo ha ripreso il suo posto di vittima schiacciata in un incubo rallegrato, ogni tanto, da un negozietto di giocattoli e di maschere spassose, spazioso come un francobollo sopra una superficie murale di diecimila metri quadri.

Il suo particolare uso dell’elemento ironico reso con una singolare pacatezza lirica permette di esasperare e annullare i confini del noto, mostrando una comune matrice malinconica in quei figuranti grotteschi immersi nel “delirio surrealista” urbano. Il modello delle cronache parte da un assunto iniziale che Vialatte usa per comporre pagine che celano dietro l’apparente linearità una complessità strutturale e contenutistica in grado di ritrarre con una vena sarcastica l’ambiente sociale dell’epoca. Le deformazioni liriche prendono corpo sulla pagina attraverso gli esiti comici e satirici generati a partire dall’iniziale semplificazione delle caratteristiche dei personaggi ritratti che troverà nel caricaturale l’espediente per confermare la tesi iniziale concludendo immancabilmente con la formula “Ed è così che il Divino è grande”.
La brevità e la natura eterogenea rivelano nella ricerca formale di Vialatte l’intento di generare una sottile e intima tensione etica e filosofica. Tale visionarietà, all’apparenza in contrasto con il tono vivace e la disinvoltura con cui l’autore attinge all’incongruo per amplificare il reale, appare talmente moderna da faticare a collocarsi nel suo tempo. Ogni racconto condensa assunti stravolti, sapere enciclopedico capovolto, dalla cronaca delle giuste altitudini che sottolinea i risultati di una geografia orientata, a quella dei marciapiedi più spaziosi che ne esalta la ricchezza culturale, umana e scientifica, alla cronaca degli argomenti più vasti, in cui dissertare sul mare, l’oceano, le isole, la montagna, i lacci delle scarpe, la carne di cavallo, il castello di Brimborion. Si tratta di apparenti divagazioni mistiche, sensuali e a tratti ciniche, usate per supportare tesi stravaganti dall’ombra inquieta che finiscono sempre per accertare le meraviglie della natura e l’inettitudine dell’individuo.
Le esplorazioni sperimentali che rendono inconfondibile la voce letteraria di Vialatte non rifuggono la realtà ma ne diventano la riproduzione alternativa attraverso incessanti giochi a contrasti e ripetizioni in cui riluce il sottile racconto dello smarrimento. Aspetti evidenti in particolare nelle cronache in cui l’autore si interroga sul significato della poesia – “D’altronde la poesia è un po’ tutto. Per il poeta tutto è poetico. E innanzitutto una bella salumeria. In pieno inverno” – o nelle Cronache della parola e qualche volta del pensiero, in cui parte dai tornei greci di eloquenza per arrivare agli insulti degli automobilisti, dei marxisti leninisti e degli sposi in collera per poi interrogarsi, così, sulla “ventura delle parole e delle cose”.
L’umanità sezionata in verticale da Vialatte risiede nelle consuetudini di esistenze comuni, rese da coloriture su grettezze quotidiane, nelle ipocrisie degli ambienti artistici dei gala parigini, nelle figure mostruose che compongono l’élite intellettuale. Per osservarla si nutre dello sguardo di un moralista prodigioso, Sempé, “il miglior fotografo di un’epoca folgorata fin nei suoi sobborghi e fin nella sua anima, nella salute, nell’igiene e nella risata attraverso il crimine dell’uniformità. Lui la esprime in duecento modi, tutti tanto tristi quanto divertenti”.
Vialatte mostra un artista sconfortato ormai incapace di schernire quell’umanità alla deriva immortalata nelle sue opere e solleva quella che ritiene la questione del secolo, l’inaccessibilità dell’uomo alla felicità, intesa come un sottoprodotto.
Si chiede quale sia il posto dell’uomo, quale sia la sua direzione, e lo fa attraverso frammenti che richiamano i frantumi di un’umanità disorientata e inconsapevole della propria condizione, per questo raffigurata nel suo disordine e nelle sue miserie. Attraverso continui ingrandimenti su minuzie irrilevanti Vialatte assegna a quelle immagini una vena umoristica dalla matrice assurda nella convinzione che l’incoerente trovi sempre “degli echi nel subcosciente di colui che contempla” perché “è la chiave stessa dell’abisso interiore”.
L’eredità di Vialatte risiede negli interrogativi disseminati nella sua intera produzione letteraria sull’uomo moderno, sul concetto di felicità e sul significato del nulla, e nelle strade indicate al lettore, a partire dalla necessità della poesia che “filtra sempre attraverso le fessure dell’insolito”, sino all’incapacità di una concreta rivolta nell’individuo, privo di un’opinione personale e sottomesso al rispetto del “pro, del contro e del tutto ciò che si vuole”, incline maggiormente alla sapienza che alla felicità.

Dove va l’uomo? Va su una panchina. Accanto a lui una piccola palma dal fogliame piatto, dal tronco color avana, storto, ingobbito come un piccolo sigaro, sembra un ventaglio piantato in un sigaro. L’uomo si siede in riva al mare. Non si sa quale sogno vi persegua nel fumo della sua pipa di amianto. Il Napoleone è diventato ormai piccolissimo all’orizzonte. Sta entrando nella zona in cui non si vedono più le cose. Ed è così che il Divino è grande.