La dimensione della collettività ne ‘Le conseguenze’ di Manuel Muñoz

di Debora Lambruschini

 

A noi lettori capitano delle particolari connessioni tra le storie che abitiamo o che ascoltiamo e quando non ricercate la loro eco si espande potente. Di recente ho riletto insieme al mio gruppo di lettura il capolavoro di Steinbeck, Furore, e da allora vado continuamente dicendo che è uno di quei libri che ti cambia un po’ la vita o, perlomeno, la percezione delle cose; un romanzo di una potenza inarrestabile, di estrema attualità. Un classico, per definizione, riletto proprio a ottobre mentre parallelamente scoprivo le storie di Manuel Muñoz, Le conseguenze, pubblicate in Italia da Black Coffee: due contesti storici e culturali differenti come lo sono anche le modalità narrative, ma entrambi caratterizzati da una simile urgenza e dalla riflessione sul tema del migrante, sulla realtà del lavoro nei campi, la discriminazione, l’incertezza, il sogno che si infrange. Steinbeck scriveva, negli anni Trenta, della grande ondata migratoria dagli stati centrali verso la California, delle famiglie di contadini cacciata dalla terra che lavoravano e che andavano verso Ovest a cercare fortuna trovando invece povertà, fame, disprezzo; Muñoz ritorna alla California dove la sua famiglia arrivata dal Messico si è costruita una vita e ambienta le proprie storie tra gli anni Ottanta e Novanta, dando voce alla comunità latinoamericana dei raccoglitori agricoli.
Immediatamente si sono spalancate diverse porte, connessioni da un libro all’altro ma anche parole ed esperienze ascoltate da chi, oggi, vive in California ed è entrato in contatto con nuove storie di immigrazione: Furore, quindi, ma anche il romanzo Paese infinito di Patricia Engel, e, non da ultimo, la raccolta di Freeman’s dedicata alla California tra le cui pagine avevo appunto scoperto Muñoz un paio di anni fa. Su Freeman’s era apparso il racconto Susto ed è grazie a una felice intuizione di Sara Reggiani, fondatrice di Black Coffee e traduttrice, che non solo Le conseguenze è oggi tradotto in italiano, ma è merito suo se la raccolta effettivamente esiste: da anni infatti Muñoz viveva una sorta di blocco e, dopo il successo delle due raccolte del 2003 e del 2007 che gli erano valse numerosi premi e riconoscimenti di pubblico e critica, si era rifugiato nell’insegnamento (all’università di Tucson, Arizona) e alla sporadica pubblicazione su rivista. Folgorata dal quel racconto, Reggiani si è subito messa in contatto con l’autore, spronandolo a scrivere una raccolta e garantendogli l’interesse per la pubblicazione in Italia. I racconti sono fluiti, la raccolta è prima uscita negli Stati Uniti (accolta anche in questo caso con notevole favore) e poco dopo è arrivata la traduzione italiana, a cura di Annalisa Nelson, naturalmente per Black Coffee. Approda nelle librerie a cavallo del National Hispanic Heritage Month, il mese lungo il quale negli Stati Uniti si celebra la rilevanza della cultura ispanica e il contributo alla storia del Paese: una serie di iniziative senza dubbio lodevoli e interessanti, ma che mettono anche in evidenza il vuoto rappresentativo avvertito dalla comunità latinoamericana. Perché nonostante la complessità e stratificazione della società statunitense, la sua letteratura è stata per molto tempo – e in certa misura ancora di recente – specchio e appannaggio perlopiù di una fetta specifica: lo scrittore maschio, bianco, eterosessuale, della middle class. Ancora negli anni Duemila quella che all’epoca era una libraia – e oggi una scrittrice molto apprezzata, anche in Italia – avvertiva il vuoto di rappresentazione per chi come lei veniva da una famiglia di origini latine, messicane e native nel caso specifico. Una comunità numericamente importante – mi dicono per esempio che infatti quasi ovunque negli Stati Uniti i menù dei ristoranti siano scritti sia in inglese che in spagnolo – sulla cui forza lavoro praticamente si fonda da sempre la nazione; ma che, appunto, è stata a lungo trascurata dall’indagine culturale, con poche voci che nel tempo si sono inserite nel panorama letterario nazionale. La scrittrice in questione era Kali Fajardo Anstine, autrice della bellissima raccolta Sabrina&Corina del 2021 con la quale tentava appunto di colmare quel vuoto, rappresentando nelle sue storie la sua stessa comunità latina e indigena.
Manuel Muñoz si colloca quindi in questo filone e le sue storie contribuiscono a riempire uno spazio, rispondere a quella mancanza di rappresentazione. I dodici racconti di Le conseguenze, come gli altri delle raccolte precedenti – per il momento non tradotte in italiano – tornano alla comunità nella quale è cresciuto, ambientate tra Fresno e zone limitrofe, in quella Central Valley di distese infinite di campi, piccoli centri urbani, sacrificio e incertezza; dove, tra gli anni Ottanta e Novanta, il senso di precarietà di quelle vite era acuito dall’Immigration Reform and Control Act, nato per contrastare l’immigrazione clandestina ma degenerato presto in espulsioni di massa, non così lontano da certe dinamiche di anni più recenti. Muñoz dà voce e corpo a una collettività, alla comunità di immigrati di prima o seconda generazione, quasi tutti provenienti dal Messico e che lavorano nei campi. Storie di uomini e donne tra vulnerabilità e resilienza, di vita quotidiana, di lavoro e legami famigliari complessi, segreti, possibilità, rimpianti e di una distanza che pare incolmabile tra loro e gli americani bianchi, una discriminazione fatta anche di dettagli solo all’apparenza minimi, che si rivelano sulla pagina senza fronzoli:

 

[…] il suo viso si accigliò come facevano quelli dei bianchi che Delfina aveva incontrato in Texas, quelli che sembravano sempre sorpresi di sentirla parlare in inglese.
 (“Può farlo chiunque”, p. 31)

 

Ma sono anche storie diverse e al racconto della realtà contadina, il dramma delle espulsioni, l’attesa, la clandestinità, si intreccia anche il discorso su rapporti e identità complesse, di un microcosmo stretto tra casa e lavoro, desiderio di fuga, possibilità e sogni infranti. Dodici storie attraversate tanto dalla ruvidità quanto dalla tenerezza, che è nello sguardo benevolo del suo autore ma anche in certi brevi lampi di gentilezza e umanità dei personaggi. Come Griselda di La ragazza più felice di tutti gli Stati Uniti, in viaggio per recuperare il suo uomo al ritorno dall’ennesima espulsione, coriacea e di poche parole, ma che si prende cura di una ragazza sconosciuta alla prima esperienza con quel viaggio.
In apparenza la soluzione per Griselda e l’uomo sarebbe a portata di mano, il matrimonio potrebbe mettere fine alla precarietà delle loro vite:

 

Io ho la cittadinanza. Sono anni che gli dico che il matrimonio ci risolverebbe un sacco di problemi. Quando mi chiede cosa dobbiamo fare, gli dico che dobbiamo andare in municipio per prendere la licenza, ed è a quel punto che ha paura. Come tanta altra gente ha paura del governo.

(“La ragazza più felice di tutti gli Stati Uniti”, p. 49)

 

La paura, un sentimento che tutti i personaggi di queste storie, in forme diverse, conoscono bene. Ed è, prima di tutto, la paura derivante dalla loro condizione di migranti, la diffidenza, la mancata integrazione, la concreta possibilità di perdere tutto quel poco che hanno se la migra decide di espellerli, se un altro attraversamento del confine la prossima volta non sarà possibile.
Non c’è nei racconti di Muñoz una feroce critica sociale, né sono attraversati dall’intento di denuncia: eppure, in qualche modo, anche queste storie sono un atto politico. Lo sono nella misura in cui raccontano quelle vite ai margini, un quotidiano che a molti di noi è dato il privilegio di non conoscere e che ci spalanca le porte su una realtà che è la stessa nostra ma della quale non ci accorgiamo pienamente. C’è, fortissimo, il desiderio di raccontare una collettività in cui la finzione si intreccia alle storie ascoltate, senza mai scadere nel pietismo ma presentandole nella loro cruda quotidiana verità. E se, a differenza di Furore, manca quella carica potentissima di critica sociale e denuncia alle politiche messe in atto, Le conseguenze è rappresentazione di un microcosmo di cui intuiamo ancora oggi essere cambiate di poco le dinamiche, i timori, le divergenze tra ciò che si immaginava e ciò che è la realtà.

 

«Pensi che mi avrebbero creduto? Pensi che la gente ti creda solo perché dici qualcosa? Pensi che basti dire che hai i documenti? Queste» disse con le mani tese in avanti come un’offerta.  

«Queste sono i miei documenti».

 (“Il lavoro nei campi”, p. 172)

 

È un passaggio particolarmente intenso, che ben sintetizza sentimenti complessi come la paura, la precarietà, la fatica, le possibilità. Quest’uomo, in un centro di riabilitazione dopo un brutto ictus, che mostra le mani al figlio nato sul suolo americano e lo mette di fronte alla realtà, quest’uomo, un padre anziano che è stato tutta la vita a lavorare nei campi dei bianchi e che ogni giorno ha sentito di non avere voce, di non avere diritto di farla sentire, di non essere abbastanza legittimato. Ecco, quando dicevo che Le conseguenze non è un testo di denuncia eppure in qualche modo lo è lo stesso, perché la letteratura, un certo tipo almeno, è sempre un atto politico.
I racconti di Muñoz prendono vita in quella comunità e ne raccontano non solo il lavoro e le incertezze derivanti dalla condizione di immigrati, ma anche le mille altre sfumature dell’individuo: le distanze di certi legami famigliari, le relazioni, l’omosessualità, la rinuncia, i segreti, la fuga come idea potenziale o irrequietezza costante e tragica.

 

Non aveva mai fatto niente di più che limitarsi a sognare distrattamente di andarsene via da Fresno. Ma aveva troppa paura per farlo.

(“Le conseguenze”, p. 115)

 

Sono racconti, inoltre, perfettamente autonomi e autoconclusivi, ma che dialogano anche tra loro in modo particolare: uno short story cycle, per i frequenti piccoli rimandi interni dall’uno all’altro, ma soprattutto una storia collettiva, un coro di voci ed esperienze che compone un quadro più complesso.
C’è sempre un numero limitato di chiavi di lettura con cui scegliamo di addentrarci in una narrazione, che si lega inevitabilmente alla sensibilità del lettore, talvolta all’esperienza personale, a un certo grado di empatia. E non è così necessario a mio avviso riconoscersi in quello che leggiamo, anzi, è proprio nello scostamento tra ciò che viviamo e ciò che una storia ci mostra dell’altro e del mondo che la letteratura compie il suo miracolo: ma è quanto mai urgente calarsi nei panni dell’altro, mettere in discussione le nostre convinzioni e togliere il filtro della realtà che conosciamo per iniziare a comprendere la complessità del mondo e la stratificazione delle nostre società. Una sorta di allenamento per il nostro sguardo, magari per la nostra empatia; forse allora proprio i racconti, con il loro particolare respiro, possono abituarci a osservare le cose da un’angolatura differente, a leggere gli spazi bianchi, a colmare i vuoti della narrazione.  Ad amplificare l’eco di tutte quelle voci che ancora aspettano di essere udite.