L’apoteosi del visibile, la verità del sogno in Federigo Tozzi

di Alice Pisu

Edizioni degli animali riporta alla luce un testo ormai introvabile di Federigo Tozzi, Fonti. La prima sezione dal titolo omonimo si rifà alla lezione dei Taccuini di Barbablu del 1983, esito del confronto con le otto cartelle del dattiloscritto originale. Le altre tre sezioni sono tratte da Cose e persone (Vallecchi, 1981), con abbozzi e notazioni. Tra le ragioni della riflessione sulle fonti il progetto mai realizzato dal titolo Cose. Gli scritti brevi apparsi originariamente su La ruota (25 agosto 1916) e sul Messaggero della domenica (21 giugno 1919) solcano gli anni della redazione di Bestie, prose liriche tra le più originali nell’ispirarsi al frammentismo e nel lasciare intravedere, al contempo, una traccia condivisa per il ricorso continuo a creature animali con un preciso valore simbolico.
Riscoprire oggi opere meno conosciute di uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, noto in particolare per Con gli occhi chiusi, Il podere e Tre croci, permette ai lettori di rintracciare le ragioni della scrittura negli esperimenti narrativi, nella disposizione all’alterazione fisica nell’osservazione del suo tempo, nel senso di profonda alienazione e rimozione della realtà.
La forma breve esalta la peculiare capacità dello scrittore senese di muoversi tra tensione naturalistica e frammentismo come misura del racconto di sé e per esplorare un personale universo finzionale. Le influenze fondamentali in Tozzi – Dostoevskij, Pirandello, Verga e D’Annunzio, in particolare – inducono a un superamento degli ideali estetici del naturalismo e dell’aderenza a un punto di vista strettamente oggettivo, in favore di immagini sul disordine dell’individuo, visioni perturbanti sul noto.
In Fonti l’autore si pone alla ricerca di quel che c’è nella sua anima.


“Le cose si amano soltanto quando si ricongiungono con le loro immagini sognate; ma, ormai, non ci credo più, e non le sento più mie”.

 

 Scandaglia reperti del passato tra oggetti domestici svicolati da un senso di appartenenza personale che attestano un tempo irraggiungibile a conferma delle poche certezze insite nei sogni.
“Ma niente è più vero dei miei sogni: né meno la mia anima che li vede e li sente”.
Il paesaggio naturale delle fonti di Siena e le insistenze sulla vita contadina sono turbati da elementi minimi che inquinano quell’apparente quiete, anticipano l’incombere del dramma, il presagio della fine. Il contesto selvatico e i riferimenti al mondo rurale non sono confinati a mero sfondo, ma contribuiscono alla narrazione del rapporto con l’io, connotano l’impressionismo lirico tozziano. La dimensione silvestre amplifica lo studio di un malessere radicato che si traduce sul piano formale in una prosa resa per schegge, frammenti, visioni fulminanti, deformazioni del reale che allentano il confine tra interiorità e esteriorità.

Se lo sapesse quest’erba che io mi sono fermato alla fonte, per uccidermi! Ma l’erba ha sentito soltanto le mie scarpe, quand’io mi ci son fermato, pieno di dolore: forse a ripassare, come un mazzo di carte bisunte, i miei sogni simili ad un’erba fresca cresciuta in vece sul margine degli anni; che mi parevano più corti dei minuti e del mio respiro”.

 

A caratterizzare le prose la capacità dell’autore di tradurre stati d’animo nell’attenzione estrema riservata a cenni, gesti e percezioni sensoriali, esplicitata in particolare ne La fonte colma: “Quando si crede di descrivere uno stato d’animo, noi siamo piuttosto in sua balìa. Se una sola delle nostre parole riuscisse a entrare dentro uno dei nostri stati d’animo, la parola vi si annegherebbe per non tornare mai più fuori. Si ha sempre la sensazione di rasentare una specie di caverna immensurabile, dentro la quale è vietato entrare. Chi non sente dentro di sé questa specie di infinito che ci respinge tutte le volte che non ci contentiamo di vederlo soltanto a una certa distanza?”
I turbamenti narrati riguardano anche la sfera affettiva come mostrano le pagine dedicate all’ambiguità del rapporto tra innamorati resa nei desideri sopiti, nelle fantasie, nel dissidio interiore tra attrazione e repulsione.

 

“Non avevamo voglia di parlare; anche noi incerti come l’aria, con improvvisi sentimenti che ciascuno di noi trovava piacere a tener per sé; sognando di baciarci, senza in vece baciarci da vero; sognando le nostre mani, senza né meno sfiorarle pure che le tenessimo quasi insieme sul muricciolo; sognando di amarci senza amarci da vero; sentendoci buoni, ma stando cattivi e melanconici; con certi sprazzi di fecondità che parevano d’un tempo ormai trapassato; con certe conversazioni che gonfiavano la nostra anima; ma zitti, evitando perfino di parlarci; per non smettere di vederci con il nostro pensiero; attenti nelle nostre risposte che ci facevamo l’uno per conto dell’altro; ma con il desiderio di lasciarci[…]”.

 

Ad assumere piena centralità nell’indagine narrativa è la percezione emotiva del soggetto che si rapporta al mondo che abita, resa attraverso oggetti-simbolo che misurano le incertezze, la crisi interiore, l’estraneità al presente, con una prosa dagli accenti espressionistici che traccia tormenti e nodi irrisolti, come emerge in particolare nella minuziosità descrittiva riservata alle zolle, ai “lombrici”, nelle pagine dedicate alle fonti senza voce.
“Era come se quell’acqua avesse attraversato la mia anima, con il suo silenzio, ogni sera”.
Il continuo rimando agli elementi, e all’acqua in particolare, traccia un’evoluzione sensibile, radicata nell’ascolto del codice naturale, che rischiara la peculiare visione del tempo tozziana. 
“Cadute giù le ultime foglie con quella pesantezza che avrebbe avuta tutto l’albero, c’era da domandarsi che avrebbe fatto la fonte, vicino al tronco, aspettando le gemme nuove”.
La riflessione sulla caducità si lega a personali consapevolezze tardive sul limite di una collocazione dell’individuo nello spazio e nel tempo.
“La mia giovinezza io l’ho sentita quasi all’improvviso. Essa era in me da tanti anni, ma credevo di essere restato sempre lo stesso”.
Anche nell’ultima sezione la riflessione sul tempo torna con forza a connettersi al tema del cambiamento e della trasfigurazione.

 

“Ci sono, dentro di me, sgorbi infantili; come pensieri immutabili, che restano insoddisfatti per sempre. Forse, li ritroverò sempre più profondi; e non avrò più il coraggio di avvicinarmici. Sentiamo quel che ha da dirmi, poi, la mia adolescenza quando guardo la cima dei miei castagni
 che il vento fa tremare come allora!”.

 

Tozzi condivide con i suoi contemporanei Svevo e Pirandello il racconto dell’inquietudine esistenziale e storica del suo tempo, con accenti dolorosi che richiamano il difficile rapporto con il tema della perdita che, a partire dalla vicenda personale, risuona nelle frequenti fantasie di morte.
Fonti consegna una riflessione sull’esistenza nei toni assoluti assegnati a visioni che paiono configurare l’inesorabile attraverso elementi che rompono l’armonia composta sulla pagina, per prefigurare nel disordine una strenua necessità di conoscenza. 
“C’era una fonte dove avrei voluto morire, perché non ero contento di me stesso; e mi pareva così di trovare soddisfazione per la mia anima. Ma, uccidendomi, m’illudevo di avere anche dopo coscienza di me stesso”.