di Debora Lambruschini
Mi sorprende sempre come i libri possano dialogare fra loro, talvolta direttamente, altre lungo percorsi imprevedibili. Il rapporto di connessione tra loro però non è sempre così diretto, regolare, come si potrebbe pensare, ma si compone una mappa ideale di storie, autori, luoghi, interconnessi tra loro. Stavolta attraverso voci diverse prende vita un luogo, tra passato e presente, ben saldo nell’immaginario collettivo ma quasi sempre basato su stereotipi e pregiudizi, sulla leggenda dei suoi miti fondanti: il West, la frontiera, una storia di sangue, polvere, cowboy e lotta. Una storia di uomini, dove le donne hanno ben poca voce in capitolo, da un lato all’altro della narrazione.
E invece non è così. Un paio di anni fa è uscito per Black Coffee un gioiellino, Il conforto della vastità di Gretel Ehrlich, breve e puntualissima raccolta di saggi sul Wyoming composti tra il 1979 e il 1984 e che mi aveva molto colpita per la forza con cui l’autrice scardinava molti stereotipi sull’Ovest, a partire proprio dal mito dei cowboy e della Frontiera. Originaria della California, Ehrlich era arrivata in Wyoming per girare un documentario e da lì, alla fine, non se n’è mai più andata. Colpita da un grave lutto è proprio nella terra delle grandi pianure che sceglie di restare per curare il suo dolore e capire che fare della propria vita. Si immerge nella vita di un ranch e scopre che buona parte di quello che pensava del West è fondato su stereotipi ben lontani dalla realtà e inizia a scardinare molti preconcetti, tra cui l’idea di un mondo prettamente maschile. Il Wyoming e la vita in un ranch sono fatti tanto di durezza quanto di fragilità, di forza e di tenerezza: «Essere duri significa essere fragili; la tenerezza è l’unica vera forza» ed è su questi due poli opposti che si fonda la stessa figura del cowboy, emblema della frontiera.
Ehrlich è tra le ultime, in ordine cronologico, a dare un’altra rappresentazione dell’Ovest, libera dagli stereotipi su cui si è fondato il mito: prima di lei, un debito enorme verso Dorothy Johnson, la più importante scrittrice della frontiera, che ha saputo dare al genere western una connotazione letteraria e umana ben precisa. Per Ehrlich era il Wyoming, per Johnson il Montana, ma nello sguardo di entrambe la frontiera è una terra di contraddizioni e di stereotipi da abbattere. Al centro delle storie di Johnson ci sono uomini e donne molto spesso duri, come la vita di frontiera richiede di essere, ma anche profondamente umani, preda di dubbi, paure, fragilità. Uomini e donne, anglo e nativi, le cui vite sono raccontate con un’attenzione particolare al dettaglio, alla verità, basandosi su accurate ricerche storiche e restituendo al lettore quindi tutta la loro maestosa complessità.
È impossibile pensare alla frontiera e alle voci femminili che hanno saputo raccontarla senza tornare immediatamente ad Annie Proulx, al Wyoming che pulsa nelle sue storie. Ed è interessante che tutte e tre le autrici che ho citato, radicate nel territorio che hanno così magistralmente saputo raccontare, quei luoghi in realtà li abbiano scelti arrivandoci da altrove: Ehrlich, dicevo, dalla California, Johnson dall’Iowa, Proulx dal Connecticut. Come se fosse necessaria una certa distanza per affondare le mani nella realtà di quel luogo liberando lo sguardo da preconcetti, miti e leggende, e poterla così comprendere in tutta la sua brutale bellezza. Anche per Proulx, come per Johnson, raccontare significa prima di tutto andare a cercare la verità storica, comprendere e poi rappresentare le tradizioni, il territorio, le persone, i dettagli del quotidiano. Prima di dedicarsi alla narrativa – carriera iniziata a cinquant’anni con la prima raccolta di racconti, Heart Songs and Other Stories – Proulx è stata infatti una nota storica e giornalista del Vermont, dove si era stabilita per un master subito dopo la laurea in Storia. Lì si fonda questa lunga e fondamentale fase della sua vita, umana e professionale: si fa notare come autrice di articoli e libri di caccia e pesca, cucina e giardinaggio ed è sempre lì prende avvio la carriera di narratrice – anche se la prima raccolta pubblicata è ambientata nel New England, dove ha trascorso l’infanzia e gli anni precedenti l’università – e dove si forma quella sensibilità verso la bellezza dei luoghi, il passaggio spesso devastante della modernità e le conseguenze del cambiamento. Una sensibilità che attraversa buona parte delle sue narrazioni, già a partire da Postcards (Cartoline, Minimum Fax 2023) del 1992, notevole romanzo che le valse il Pen/Faulkner Award. Proulx ha trovato la sua voce, quella che la porterà già l’anno dopo la pubblicazione di Postcards e il Pen/Faulkner Awards ad aggiudicarsi due dei più prestigiosi premi letterari degli Stati Uniti, il Pulitzer e il National Book Awards, a seguito dell’uscita di The Shipping News (Avviso ai naviganti, Minimum Fax 2018). Pochi anni dopo, l’approdo in Wyoming e le storie che hanno determinato la caratura letteraria dell’autrice: tre volumi per la serie Wyoming Stories (Close range del 1999, Bad Dirt del 2004 e Fine Just the Way It Is del 2008), in cui la fusione tra luogo e narrazione è totale e il tema western si fa letterario restando assolutamente reale.
Già apparse per editori diversi, le storie del Wyoming sono entrate stabilmente negli ultimi anni nel catalogo minimum fax – insieme ai romanzi di Proulx – e ora, a distanza di vent’anni dalla pubblicazione originale, è approdato in libreria anche l’ultimo volume della serie, Ho sempre amato questo posto (Fine Just the Way It Is) nella traduzione di Silvia Pareschi. Un progetto avviato nel 2019 con la pubblicazione del primo volume, Distanza ravvicinata e seguito nel 2022 da Cattive strade e che conclude quindi un percorso letterario importante.
Percorso che ha nella terra il suo fondamento: nella ricerca accurata su cui poggia ogni pagina scritta, nel desiderio di raccontare la realtà in cui è immersa e le sue contraddizioni, la bellezza crudele e le difficoltà. Quando parliamo di cantori dell’America rurale, di narrazioni di provincia, del rapporto fra uomo e ambiente che lo circonda, da Chris Offutt a Jack Bass, passando per Ron Rash, è alle storie di Annie Proulx che dobbiamo tornare, ai contrasti su cui poggia la narrazione, demistificata, brutale, piena di incanto.
Al cuore di ogni cosa, quindi, il rapporto con la terra, una natura inospitale, ostile ed estrema, che continuamente sfida l’uomo, lo mette alla prova:
Affittarono un ranch nella zona di Red Wall: casa di legno, e recinti sparsi qua e là che da lontano sembravano paletti lasciati cadere a caso. Il vento li isolava dal resto del mondo. Entrare in quella vorticosa corrente d’aria significava esserne respinti. Il ranch era alla deriva sull’altopiano. (da Distanza ravvicinata, “Il confine erboso del mondo”)
Qui è il vento che si insinua in ogni fessura della casa, più tardi sarà un decennio di siccità devastante con cui fare i conti:
Quei rancher che sperando nella pioggia si erano tenuti il bestiame furono presi in trappola come topi. Mentre l’estate si approcciava al suo rovente finale, il bene più prezioso per chi aveva le vacche era il fieno, e il prezzo del fieno eguagliava ormai quello dei rubini. Gli allevatori passavano ore al telefono e su internet cercando foraggio a prezzi ragionevoli. (da Cattive strade, “L’effetto trickle-down”)
«La cosa più importante nella vita è resistere», continuano a ripetersi tutti loro come un mantra. Resistere alla fatica del lavoro, alla terra ostile, all’isolamento che fa impazzire, al vizio del bere, al cambiamento. La solitudine è come un fil rouge che attraversa le storie e dà forma a quelle vite nel tentativo di combatterla, arginarla o venirne sopraffatti. Sono spesso storie di uomini, che dei sentimenti non conoscono le parole e spesso neppure i gesti. Come il vento, anche la solitudine si insinua nelle fessure, nelle relazioni:
C’è poco spazio per i sentimenti, meno che mai quando sono quelli “sbagliati”: eccolo lì, nella prima raccolta, il capolavoro, “Brokeback Mountain”. Pubblicato per la prima volta nel 1997 sulle pagine del New Yorker e acclamato da critica e pubblico, fissato per sempre nell’immaginario collettivo dal film di Ang Lee. È un gioiello, una storia struggente e brutale.
Se non ci pensa troppo sopra potrebbe nutrirgli la giornata, riportandolo ai vecchi tempi, a quei tempi di gelo sulla montagna, quando erano padroni del mondo e niente sembrava sbagliato. Il vento si abbatte sul caravan come fosse un carico di spazzatura che straborda da un camioncino, poi si acquieta, cessa, lascia che per un po’ ci sia silenzio. (“Brokeback Mountain”)
Un sogno, un ricordo, la vita in mezzo. Sono state fatte delle scelte, ci sono state delle conseguenze. E non è la sterile polemica che aveva suscitato in questo nostro angolino di mondo a farne un racconto tanto importante, quanto la scrittura tesa al massimo, la bellezza della rovina, i gesti minimi laddove non possono le parole, l’ambiente, la rottura e il rimpianto.
Come ampie nuvole di vapore sprigionate da una fonte termale in inverno gli anni di cose non dette e non dicibili, le ammissioni, le dichiarazioni, le vergogne, le colpe, le paure, si levarono intorno a loro. Ennis rimase come colpito al cuore, la faccia grigia segnata, contratto, gli occhi chiusi, i pugni stretti, poi le gambe cedettero e cadde sulle ginocchia. (“Brokeback Mountain”)
«L’immensa tristezza delle pianure a nord si riversò su di lui» ed è davvero difficile trovare parole più adatte per descrivere la perdita. “Brokeback Mountain” è un racconto di struggente bellezza ma non il solo esemplare della capacità letteraria di Proulx e si inserisce infatti perfettamente nel solco delle storie del Wyoming: un intreccio di mancanza, solitudini, nostalgia per un passato glorioso che forse non è mai davvero esistito; di una natura inospitale e sfidante, di strenua resistenza. Qui si muovono le storie di Annie Proulx, e coprono un arco temporale molto ampio, da fine Ottocento fino ai giorni nostri, per raccontare una terra, i desideri che vi si mescolano, cambiamenti e crisi, e gli uomini e le donne che la abitano, tra lampi di lirismo e brutalità. Lontana dal mito e dagli stereotipi della frontiera, il Wyoming di Proulx è un luogo dove il cambiamento ha inciso ferite profonde nel paesaggio e nelle persone:
Ma mentre contemplava con gioia quel territorio aspro, Hi notò i cambiamenti sopraggiunti nei due anni che aveva passato a estrarre carbone. C’erano steccati là dove non ce n’erano mai stati, e la vecchia pista White Moon era diventata una strada provinciale, con tanto di fossi e tubi di scolo. C’erano ciocche di lana impagliate nei rami di artemisia e salvia, e Hi immaginò che i pecorai usassero il deserto per far svernare le bestie. (“Il Great Divide”,da Ho sempre amato questo posto)
Il legame con la terra, il desiderio di piantarvi le proprie radici, si scontra con le difficoltà ambientali, tra siccità, carestie, mandrie perdute, e poi con il nuovo mondo a venire, l’età del petrolio, il declino dei grandi ranch, la Depressione, la guerra. Ma è un legame a cui pare impossibile sottrarsi, nonostante la discrepanza tra desiderio e realtà. Per alcuni di loro il richiamo degli spazi aperti è più forte di ogni cosa e sopravvive alle difficoltà, al tempo che scorre: «la morte del vecchio cacciatore di cavalli, addossato a una roccia, gli sembrava più onorevole» pensa allora il vecchio cowboy confinato in una casa di riposo dove passare gli ultimi anni della sua vita. (“Un padre di famiglia”). Il ricordo, comunque, non addolcisce la realtà, non smussa gli spigoli delle persone né cancella il peso di certi segreti e scelte. Ecco, di scelte e delle loro conseguenze sono fatte queste storie, ancora una volta intrecciate alla natura, alla terra, al lavoro. In un racconto bellissimo e brutale, “Quelle vecchie canzoni di cowboy”, Proulx narra la parabola di una famiglia e la storia piccola delle persone comuni si intreccia a quella più grande del Paese, la crisi devastante che ne segna le vite, l’allontanamento da casa alla ricerca di maggior fortuna, il pericolo dell’isolamento. Dicevo che queste sono spesso storie di uomini: “Quelle vecchie canzoni di cowboy” è invece anche la storia di una donna, del suo dolore, della sua solitudine, delle terribili conseguenze. Prima ancora, dell’essere donna in un mondo di uomini:
Ma per la prima volta Rose capì che lei e Archie non erano due metà della stessa persona, ma due persone diverse, e che lui, essendo un uomo, poteva andarsene quando voleva, cosa che lei, essendo una donna, non poteva fare. Adesso la capanna sapeva di abbandono e tradimento. (“Quelle vecchie canzoni di cowboy”)
Non c’è consolazione nei racconti di Proulx, magnifici e crudeli; non c’è nulla di mistico, ancestrale. C’è la realtà frammentata da squarci di bellezza che tolgono il fiato. C’è la vita. E qui, sì proprio qui, c’è la Letteratura.