Curiose interferenze tra realtà e immaginazione. Guido Morselli ritrovato


di Alice Pisu


“È necessario guardarsi allo specchio. Bisogna «vedersi» ogni tanto; per conservare pieno e reale il senso di sé, bisogna che almeno una volta al giorno ritroviamo le nostre sembianze. Me ne sono accorto in questi ultimi tempi, in cui non trascorse settimana senza che avessi modo di usare lo specchio”.
Era il 18 novembre 1943, il trentunenne Guido Morselli trovava da tempo nel diario una dimensione utile a sviluppare i grandi temi destinati a ossessionarlo per l’intera esistenza, spenta nel suicidio per scomparire e eliminare idealmente i suoi simili, come immaginò nell’ultimo romanzo, Dissipatio H.G.
Il senso del vivere domina la maggior parte della sua produzione, destinata ad apparire postuma a eccezione dei saggi Proust o del sentimento (1943) e Realismo e fantasia (1947), che evidenziano nello sguardo filosofico uno degli aspetti determinanti nel pensiero dell’autore.
Sovrapporre l’aspetto pubblico al privato permette di rintracciare nel percorso letterario e personale gli elementi che resero Morselli un outsider tra i più raffinati e ignorati del tardo Novecento italiano. La lettura caratterizzò già la prima infanzia di Guido, con un’adolescenza segnata precocemente dalla morte della madre. Le sue prime prove di scrittura furono di impronta giornalistica, aspetto riconoscibile anche nella produzione successiva nella tendenza a una prosa nitida, con un taglio tra saggistico e cronachistico. A caratterizzare il suo sguardo le influenze letterarie, l’interesse per la filosofia e per la storia, la sensibilità ecologista, la scelta di condurre un’esistenza appartata dedita alla lettura e alla scrittura, ricca di progetti ma segnata da innumerevoli rifiuti che probabilmente incisero nella scelta di togliersi la vita a sessantuno anni, sparandosi un colpo con la sua Browning 7.65, che nei suoi diari definì "la ragazza dall'occhio nero".
Le testimonianze di amici e intellettuali che si confrontarono con lui a vario titolo restituiscono l’immagine di un uomo a tratti ombroso e irascibile, che per rigore e coerenza non cercò mai di ricorrere a raccomandazioni per ottenere una pubblicazione, e che arrivò a scagliarsi aspramente contro critici e editori che trattennero per un tempo a suo dire troppo lungo i suoi manoscritti. Sperimentò presto la crudeltà di dinamiche editoriali che tuttavia non inibirono l’urgenza della scrittura, nutrita da una visionarietà concepita come mezzo di amplificazione del reale.
La travagliata vicenda personale, l’osservazione delle trasformazioni della società, la rivendicazione di un’esistenza incentrata sulla lettura e sulla scrittura a dispetto delle aspettative paterne e sociali, il desiderio di isolamento, attestano un’indistinguibilità fra arte e vita. La fine della guerra, che disertò, gli impose di ridefinire la propria vita, abbandonando gli incontri legati al cinema, al teatro, alla socialità, per rifugiarsi nella solitudine, nei pressi di Varese, a Gavirate, in una casa che si disegnerà da solo e farà dipingere di rosa (oggi sede di un’esposizione permanente a lui dedicata).
Come ricorda una delle massime studiose di Morselli, Valentina Fortichiari, lo scrittore rimase un uomo solitario e scontroso, frustrato nel non essere riuscito ad affermarsi col suo lavoro. Emblematici due dettagli ricordati dall’intellettuale che negli anni ha curato l’opera di Morselli e gli ha dedicato due saggi: nella cartella delle relazioni con gli editori lo scrittore disegnò un fiasco, e nella carta d’identità indicò come professione quella dell’agricoltore.
L’indifferenza generale per la sua morte (nessun giornale ne diede notizia) stride con l’esplosione del caso letterario appena l’anno successivo, con la pubblicazione per Adelphi di Roma senza Papa, prima opera a portare Morselli all’attenzione del pubblico, a cui seguirono Contro-passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976) e Dissipatio H.G. (1977) con i quali raggiunse picchi letterari paragonabili a altre grandi voci del suo tempo.


Oltre alla singolarità della vicenda editoriale di opere che subirono innumerevoli rifiuti (da Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Frassinelli, Longanesi, Vallecchi a Neri Pozza, tra gli altri, con motivazioni ricorrenti legate alla difficoltà di collocazione in catalogo), appare significativa la complessa gestione del lascito relativo ai millenovecento volumi ceduti nel testamento alla Biblioteca Civica di Varese, divenuti Fondo Guido Morselli, oltre a quella relativa agli effetti personali (come la Olivetti M20, su cui si narra che battesse con un solo dito) divenuti parte di un’esposizione permanente dedicata.
Grazie a il Saggiatore è finalmente possibile vedere pubblicati i soggetti per film, le sceneggiature, i testi per il teatro, gli articoli di giornale, gli inediti e i racconti dell’“autore postumo per antonomasia”, come lo definisce Giorgio Galetto, curatore con Fabio Pierangeli e Linda Terziroli del volume Gli ultimi eroi. Il rilievo dell’opera risiede nel portare alla luce una ricca e varia produzione che nella peculiare ricerca lessicale e nel ricorso a forme espressive attesta la complessità dello scrittore.
La profonda libertà di pensiero si traduce anche in quella espressiva: l’originalità tematica e l’anarchia rivendicata nella mancata adesione a movimenti e tendenze del suo tempo a distanza di cinquant’anni dalla sua morte rendono la voce di Guido Morselli irriverente e attuale nel sollevare istanze sulla crisi dell’individuo, la questione ecologista, le ideologie, l’incomunicabilità di coppia, la presenza del male, la sessualità, la concezione della morte nella vita, il dramma della malattia, il rapporto con l’assenza e con la perdita.
La sua intera produzione indaga la tensione, alla fine, tra paure e fantasie di morte, al cospetto della ferocia e della crudeltà del vivere, nella costante ricerca di nuovi interrogativi anche in relazione all’ultraterreno. In tal senso sono illuminanti le pagine del Diario (Adelphi, 1988) dove afferma che la sua esperienza personale coincide in tutto con l’idea di Schleiermacher in merito alla religione come intuizione o sentimento dell’infinito:

“Non ha a che vedere né con la teologia, o la metafisica, né con la prassi cioè con la morale”. “Ciascuno, in sostanza, deve formarsi la propria religione, in quanto questa è fede, non già dottrina appresa o comunicata”, entro un’idea di rivelazione intesa come questione interiore e privata per ciascun individuo. 
(7 dicembre 1943)

La scrittura intimistica si muove in parallelo rispetto alla vasta produzione letteraria, giornalistica e teatrale, appare necessaria all’autore per elaborare aspetti centrali nel suo studio sulla natura umana. Le annotazioni del Diario accolgono riflessioni dal 1938 alla morte, spaziano dalla letteratura alla complessità delle relazioni, dall’urgenza di isolamento all’osservazione delle trasformazioni continue della società anche in riferimento al legame tra lo sfruttamento del territorio e il turismo, con ingrandimenti sull’incapacità frequente dell’individuo di domare manie e ossessioni. Sono meditazioni che indagano il mondo intorno, il ruolo dell’arte, le tendenze letterarie, la fede, a partire da una dolente esplorazione delle parti oscure del sé – “Io mi sono conosciuto in sogno” (3 dicembre 1943) – che in alcuni casi si scoprono propedeutiche alla stesura di racconti, romanzi e soggetti per il teatro e per il cinema.

 

“Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento, ricavare una indicazione sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando, e che spesso ci sembra irragionevole e ingiusto se non assurdo e iniquo”. (21 novembre 1943)

 

Si tratta di un aspetto centrale in Morselli, riconoscibile anche nei testi incentrati in modo esplicito sulla malattia, come Diphteria, sviluppato a partire dal dramma di un bambino che in condizioni di infermità si strugge per la lontananza della madre. Il crescendo tragico è esaltato dalle condizioni avverse del tempo che rendono ancor più improbabile l’impresa del padre di soddisfare quell’ultimo desiderio. Tra le pagine aleggia un tetro presagio di morte: Morselli individua qui come altrove alcuni elementi-feticcio, dettagli del paesaggio (come il ponte) che si fanno emblema di un collegamento tra dimensioni diverse nel solco tra quel che anticipa e quel che segue un evento ineluttabile.

 

“È quasi buio quando raggiunge il ponte, e non può andare oltre. Lo sospingono contro la spalletta; vi si deve aggrappare, per non cadere. Ma la volontà si scioglie in una torbida indifferenza. Abbandonarsi, da una parte o dall’altra; confondersi nella corrente. La folla procede, immensa e scura. Cartelli, bandiere, a perdita d’occhio, e nomi in file serrate, muti, senza volto. Così scorre il fiume, nell’ombra, sotto di loro”.

 

Il ponte è ricorrente anche nel racconto La voce, la cui data esatta di stesura non è nota, apparso inizialmente su L’Espresso nel 1993 prima di confluire nella raccolta Una missione fortunata, Nem. Qui Morselli immagina l’incontro postumo tra il commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, e l’anarchico e partigiano Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969. Un racconto emblematico per le storie che evoca e per la sorte drammatica dei protagonisti, immortalati mentre da morti passeggiano, dialogano sulla fine e attraversano un ponte. Nella rappresentazione di un confronto tra due rappresentanti di fazioni diverse, Pinelli in particolare ripercorre le tensioni, i soprusi in questura, le preoccupazioni di sua madre e di sua sorella per le sue scelte politiche, la rassegnazione che gli impedì di continuare a professarsi innocente sulle bombe, prima di sentire una voce che gli dava il permesso di cessare ogni sofferenza.
“Suicidio, non so. È suicidio quando uno non ha più fiato? Non ha più nervi? È la vita che si ritira. E quella voce non era la mia, quella voce che mi chiamava”.
Il rilievo di questo racconto risiede anche nella scelta, ricorrente in Morselli, di compiere esperimenti controstorici e ucronici per generare un dialogo ideale tra ambiti diversi e per sondare la soglia del possibile, spesso con il ricorso a ambientazioni allucinate e visionarie. Il gusto per la reinvenzione delle vicende di figure rilevanti della politica, delle lettere, della cronaca, dell’arte, si inserisce nell’ossessione dell’autore per la sovrapposizione della finzione sul reale, nell’intento di studiare possibilità inesplorate, sul confine tra l’assurdo e il verosimile.
È quel che accade tra gli altri nel racconto Il Grande Incontro (rimasto a lungo tra gli inediti e uscito poi nella raccolta Una missione fortunata) che narra il confronto in piena Guerra Fredda tra Pio XII e Stalin. La proposta riguarda l’uso di un sosia per condurre il Papa a Mosca, anticipata dalla descrizione particolareggiata di gesti e dettagli dei due protagonisti, nominati genericamente come personaggi “potenti tra i potentati, venerati tra le maestà della Terra, viventi emblemi per innumerevoli solitudini”. In tale colloquio ad assumere predominanza sarà inaspettatamente il silenzio, che assume una “prestigiosa intensità”, in grado di “compendiare immense distese di spazi e di tempi” per dilatarsi “sul mondo, fra popoli ignari e tuttavia presenti, ansiosamente aspettanti”.
La riscrittura della storia tra continue sovrapposizioni irreali, la sottile indagine filosofica e il gusto per la ricerca di nuove forme espressive nel travalicare il tempo e lo spazio sono riconoscibili anche nella scrittura di soggetti e sceneggiature per il cinema e per il teatro che spaziano dall’ambito marxista a quello cristiano, dai testi incentrati sulla sofferenza umana a quelli di critica sociale, di attualità politica, di coscienza ecologista, di fascinazione meccanica, di sensibilizzazione sui problemi del lavoro e sulla condizione del proletariato.

Degni di nota in particolare alcuni soggetti: da un estratto di Incontro col comunista, Morselli compone una commedia teatrale in tre atti, L’amante di Ilaria, che propone inutilmente a Giorgio Albertazzi. Il testo fa parte del “filone comunista” e, come sottolineato da Pierangeli, si pone come una riflessione sulla dialettica del personalismo-collettivismo nella prassi politica. Entro tale cornice l’autore compie ingrandimenti sui risvolti critici nelle relazioni affettive, un tema tra i più ricorrenti nei suoi testi.
Tra le sue commedie spicca Marx: rottura verso l’uomo, inviata a Morelli-Stoppa, a Luchino Visconti, a Gassman. L’opera segue Marx attraverso alcuni avvenimenti del suo percorso pubblico per scorgere, tra i confronti con figure come Lassalle, Bakunin e Mazzini, alcuni aspetti privati, imperscrutabili, del filosofo.
Esperimenti riscontrabili anche in altri soggetti teatrali o cinematografici come Cose d’Italia con al centro Mussolini rivisitato: debole e vittima del fascino femminile, finirà per democratizzarsi e crollare, nell’incapacità della parte politica avversa di generare un reale cambiamento condannando il popolo a divenire inesorabilmente preda dell’oppressione.
Un altro esempio riconducibile a tale tendenza creativa è Cesare e i pirati. Rappresentazione in tre atti e preambolo, definita una lotta tra amore e realpolitik, che non mira a rivoluzionare interamente la vicenda storica del suo protagonista ma a generare una deviazione funzionale ad aprire una breccia verso un racconto alternativo.
Il racconto eponimo assomma temi e stilemi cari all’autore, che indaga la follia e le storture insite in ogni conflitto a partire dalla vicenda del falegname Schölpke: rinchiuso in manicomio già prima della guerra, finisce per organizzare un esercito capace di raggirare gli americani. Come evoca l’incipit, il racconto è una riflessione sulla confluenza di farsa e tragedia sullo sfondo di eventi storici.

 

“E lo spirito di onor patrio è così tenacemente radicato da sopravvivere, quasi un istinto, anche quando dell’uomo non rimane più che la macchina; se pur non conviene concludere semplicemente, che la guerra è tutta e in tutti pazzia”.

 

A colpire è la tendenza, anche negli scritti dal taglio controstorico, di uno stile vicino a quello giornalistico, con il frequente ricorso alla paratassi, l’attenzione per il dettaglio, le insistenze descrittive con una prosa resa nella brevità e nel distacco.
Ancora una volta soffermarsi sulle pagine del Diario permette di ricondurre le apparenti divagazioni a una coerenza progettuale peculiare. Il 24 novembre 1943 Morselli appuntò riflessioni sulla possibilità di riconoscere in un aspetto della natura un estratto della storia personale di chi la osserva.
“Il valore essenziale che acquistano per noi e soprattutto nel ricordo certi aspetti del paesaggio rimane affatto inesplicabile se non ammettiamo che veramente la natura è soltanto una prospettiva fatta esteriore e sensibile dalla nostra interna vita sentimentale. Quel tratto di paesaggio quegli alberi quel cielo sono in un certo istante, e si mantengono di poi, la vivente allegoria di uno stato d’animo nostro.”
La capacità introspettiva e la necessità di rigenerazione attraverso la solitudine e l’isolamento silvestre si riverberano in passaggi dagli stacchi lirici improvvisi.

 

“La natura è una musica alla quale gli uomini sono quasi sempre sordi. Chi sa «ascoltarsi» vive più vite. Per chi attinge alla propria sensibilità profonda, il passato non è mai morto; non solo, ma la sua vita presente si dilata immensamente di là dai suoi limiti apparenti, ad abbracciare innumerevoli esperienze”.

 (26 novembre 1943)

 

La celebrazione della natura come strumento di conoscenza di sé e al contempo come elemento da tutelare rispetto alla frenesia del turismo, al consumo di suolo e alla trasformazione del paesaggio sono riconducibili a una visione più ampia che contempla il conflitto insanabile tra vecchio e nuovo, la trasfigurazione di un tempo remoto come esito di una corruzione inesorabile, il fallimento epocale del far rivivere forzosamente il passato con un rifacimento inverecondo, esito del consumismo e della cementificazione imponente in relazione alla “paradossale sagacia della Natura”, come la definisce in Mondo su mondo (comprensivo degli scritti Barca-e-bottega, Alpemare e Sacro e profano).
Morselli si mostra fine osservatore delle ipocrisie e delle contraddizioni della natura umana, ne studia la matrice attraverso la composizione di un bizzarro campionario composto da figure disincantate, ciniche, sferzanti, per mettere in luce anomalie e storture, e per compiere un ironico ritratto di ossessioni comuni.
Adotta sovente il punto di vista femminile per narrare l’incomunicabilità tra generi, la crisi delle relazioni, l’inconoscibilità dell’altro, le inquietudini latenti, e interrogarsi sul conflitto tra repressione e libertà sessuale. Con narrazioni caratterizzate dal frequente ricorso all’ironia, compie entro tali ingrandimenti anche un’analisi dei tempi, con una predilezione per il racconto del mondo borghese entro cui sfilano figure femminili indipendenti, colte, emancipate, che intendono affermarsi e che per farlo sono consapevoli di dover sottostare a compromessi.
Su tutti spicca il racconto Sono sana (uscito su Panorama nel 1993, poi nella raccolta Una missione fortunata), che tratta alcuni aspetti poi ripresi nel romanzo Brave borghesi. Narra la vicenda di una vedova trentaquattrenne accusata di sevizie nei confronti dei suoi gatti. Dalla “sensibilità modernamente involuta” e dalla morale cinica, per superare l’incapacità di provare piacere sessuale intrattiene numerose relazioni occasionali. Appassionata lettrice di Bioy Casares e di Huysmans dichiarerà: “Ciò che mi paralizza, non è ripugnanza, s’intende, non è rifiuto a essere strumentalizzata, al contrario, è lo stupore di non riconoscere più l’individuo. Il meccanismo ripetitivo lo annichila. La maschera dell’uomo in foia, non è brutale, secondo me è peggio. È impersonale”.
La profonda attualità dei suoi scritti è riconoscibile anche in altri testi nei quali adotta la prospettiva femminile per affrontare l’integrazione in un contesto diverso da quello di nascita. In Addio, Piero (1971) studia i condizionamenti legati all’apparenza subiti da una venticinquenne siciliana trasferitasi a Milano divenuta self-conditioned e costretta a professare una “pulizia di fuori e di dentro; visto che pulizia, non derivante da pregiudizi e tabù, significa a sua volta libertà, garanzia da eterocondizionamenti, controlli, limitazioni, ingerenze: e grane”.
Nel racconto Ho dirottato sul guardrail, uscito inizialmente nella raccolta I percorsi sommersi, Morselli indaga l’insoddisfazione di una donna per un rapporto matrimoniale stanco, privo di passioni, sostenuto dal benessere borghese con l’aspirazione alla seconda casa, dalla prudenza di due conti in banca separati, e dalla lucida pianificazione della prole. L’autore adotta il punto di vista di una moglie disposta persino a provocare un incidente pur di destare l’attenzione di un giovane ormai spento, descritto per brevi tocchi taglienti: “Enrico; l’integrazione-nel-sistema incarnata e vestita in tweed e flanella”.
Nella sezione dedicata agli inediti spicca Marshe, l’intenso racconto delle vicende di una giovane donna francese originaria di Saint-Denis divenuta profuga a seguito dell’abbandono da parte di suo marito italiano a causa del reclutamento. Morselli usa questa vicenda per calarsi nel punto di vista di chi subisce gli effetti di un cambio repentino di riferimenti, nel dover al contempo accettare una nuova condizione e sopravvivere all’assenza in un luogo estraneo e in totale solitudine.
Réfugiée. Per lei questo termine ha perso ormai il suo tono impreciso e patetico; ha un significato ben definito: compendia la sua condizione presente, l’accomuna a una folla, stabilisce i suoi doveri, determina e regola ogni suo atto, fissa il corso dei suoi pensieri, dei suoi desideri, fissa per lei ogni istante della sua giornata come una catena e un marchio”.
L’attenzione per la geopolitica e per le ripercussioni sociali e culturali dei conflitti risuona anche in altri racconti dallo sguardo femminile come Romana, scritto nel 1972, durante la stesura di Dissipatio H.G.. Ambientato nelle alture del Golan, indaga gli esiti del conflitto arabo-israeliano attraverso le possibilità di pace insite nel semplice accordo sulle proprietà.
Morselli dissemina frammenti di sé attraverso le vicende narrate, i luoghi d’elezione, le visioni, i suoi protagonisti. Le variazioni espressive, stilistiche e formali, accompagnano le evoluzioni del pensiero: il gusto rinnovato per il racconto dei luoghi e per il rapporto tra l’individuo e il paesaggio sono resi con una marcata tendenza descrittiva, tratto comune ai racconti, agli inediti, ai soggetti per il cinema e per il teatro e, in particolare, agli scritti giornalistici (dovuta anche alle sue esperienze di viaggio come mostrano i reportages da Bonn per Il mondo di Pannunzio nell’estate 1954).
Nella continuità di azione e pensiero, scrittura e indagine filosofica, storica e sociale, non risulta determinante operare una classificazione di impronta neorealista o fantascientifica, verosimile o surreale, perché ogni opera concorre a comporre uno sconfinato mosaico in prosa sullo studio dell’umano.
La presa d’atto dello scarto tra lo sviluppo del mondo spirituale di Morselli – la sua “vita interiore” come scrive già nel novembre 1943 nel Diario –  e la povertà del presente della sua “vita pratica”, genera uno sgomento associato a una condizione innaturale presto sovvertita, che motiva ulteriormente il ricorso narrativo alla dimensione del sogno, concepito come spazio fertile per amplificare le riflessioni sulla morte, sulla perdita, sulla crudeltà, sui tormenti e le paure, e al contempo per esplorare le frontiere del fantastico, con suggestioni evocative generate dai riferimenti letterari primari dell’autore.
In Fantasia con moralità, che uscì su Contemporaneo nel 1953 prima di comparire nella raccolta Una missione fortunata, Morselli anticipa aspetti indagati nel romanzo composto poco prima del suicidio. Il racconto è caratterizzato da due sezioni distinte: la prima parte è incentrata su una catena di delitti e sul maleficio che pesava a X – cittadina “grettamente borghese”, un tempo tranquilla – tra orrore e vergogna, in un’oscena pazzia sanguinaria dilagata improvvisa che “scorreva irresistibile e sconvolgitrice”. La seconda mostra uno stacco netto, con una distanza presa dal narratore che afferma che la realtà non si lascia mai soverchiare dal sogno Homo homini lupus: “Il tipo di licantropo non differisce dal tipo medio e consueto della nostra umanità, oggi, peggio o non meglio di ieri”.
Questo racconto è tra i più intensi e complessi del volume, con picchi espressivi di rara intensità nella descrizione della “giungla dell’esistenza, spietata e assurda; da cui non si esce, perché ci governa la fatalità della morte, retaggio di un’antica condanna; e per contrastarla dovremmo credere nella vita, nella bontà e verità della vita, e non sappiamo.”
La consapevolezza del pericolo in agguato nel quotidiano e dell’impotenza umana ad affrontarlo annulla ogni potenziale cambiamento per chi si trascina senza speranza, prigioniero “del gesto primitivo dell’animale, che si guarda alle spalle”.
Il rilievo della pubblicazione de Gli ultimi eroi risiede nel tracciare l’eredità di una voce letteraria dirompente ingiustamente ignorata per decenni, e riconoscere anche grazie agli inediti e ai testi meno noti un autore classico e ipercontemporaneo, “visionario e apocalittico – come lo ha definito Galetto – ma anche ironico e caustico, fedele a un’intelligibilità del dettato che accompagna una descrizione precisa e meticolosa della realtà” spesso fittizia, convinto che l’esperienza interiore dell’individuo sia il gioco di due fattori: la memoria intesa come passato e l’angoscia che incarna il presente.
“Sono orgoglioso (è forse il mio unico orgoglio) di sentirmi, in male e in bene, un riepilogo degli uomini”.