Anna Maria Ortese e le sue piccole creature

di Matteo Moca

In Le piccole persone, magistrale raccolta di saggi di Anna Maria Ortese intorno al «dolore degli animali» (così scrive in una lettera a Guido Ceronetti), dove con la parola “animale” Ortese intende l'intero spettro di esseri viventi sulla Terra dagli uomini fino alla natura, passando appunto dagli animali, le «piccole persone» del titolo, la scrittrice quando parla della scuola, invoca in particolare il ritorno a un certo tipo di insegnamento: «una scuola – scrive Ortese nel libro pubblicato da Adelphi come tutta la sua opera – che formi le generazioni alla conoscenza della Terra, e ai doveri dell'uomo verso tutta la terra. Non ho altra politica. Né altra cultura, forse, se non che leggere nel libro della vita terrestre è la prima strada e scuola per un uomo nuovo». Nel testo che apre il libro, Ma anche una stella per me è natura recita l'emblematico titolo che funziona anche come possibile programma di tutta la sua opera, Ortese indaga il cambiamento nel rapporto con la natura durante la vita degli individui, raccontando come il legame più profondo, rispettoso e autentico esista nell'età dell'infanzia: «Il fanciullo o l'adolescente capisce ciò che l'adulto non capisce più» scrive infatti nell'altra importante raccolta di saggi Corpo Celeste. L'età dell'infanzia diventa quindi nell'opera di Ortese un luogo privilegiato, perché i bambini sono coloro che, grazie all'innocenza e alla capacità di stupirsi davanti al mondo, possono fare da contraltare alla fragilità di un tempo in cui si è più facilmente offesi tra le spire di una società in cui abita prepotentemente la violenza. Ortese, insofferente al dolore di un mondo che avvertiva in ogni sua fibra, sceglie spesso nelle sue opere di combattere questa indifferenza e questo dolore situandosi con i suoi personaggi al confine tra realtà e finzione, tra «sonno e veglia». Si tratta di piccole figure che abitano questo spazio liminare, come folletti, animali, bambini, ridotte presenza magiche e quant'altro, che vanno intesi proprio come simbolo dell'infanzia, come testimonianza di questa straordinaria capacità di vivere nel mondo e, nello stesso tempo, di catalizzare, nella loro vulnerabilità e loro malgrado, il male che lo abita.

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Già nel suo secondo libro, L'infanta sepolta, pubblicato nel 1950 dopo la raccolta Angelici dolori, Ortese decide di abitare questo spazio di confine con la storia che dà il titolo al volume, un racconto in cui la scrittrice insiste su questo sentimento di incertezza rispetto al reale mostrando come possano essere degli oggetti all'apparenza neutri e inanimati a rivelarsi decisivi generatori di senso per lo svolgimento della storia. Protagonista è una donna che racconta come sua mamma, quando lei era bambina, pregasse la statua di un madonna nera che sembrava, agli occhi del popolo, «vivente di vita umana». Al di là della presenza di uno degli stilemi classici della letteratura fantastica, l'elemento che, assecondando la definizione di Freud, definiremmo “perturbante”, nel racconto irrompe poi un improvviso e decisivo stravolgimento quando la bambina, a cui la statua non sembra solo apparentemente viva, stringe la mano alla statua e scopre che questa è «calda di calore umano» e che, almeno le sembra, questa si muove dolcemente nella sua. Ovviamente, ed è anche il genere fantastico a richiederlo, non sapremo mai la natura di questo avvenimento, anche perché, impaurita, la bambina subito scappa e non tornerà più in quel luogo, ma ciò che è interessante è il fatto che all'interno di questa incredibile concretizzazione di una credenza popolare, sta una delle matrici del fantastico ortesiano, che trova luogo di innesco proprio in queste figure all'apparenza marginali, poco importanti, che nascondono in realtà il cuore di tutta la sua riflessione sul mondo e sul dolore di chi lo sa realmente vedere. Oltre al fatto che la statua rappresenta proprio una bambina, è interessante infatti vedere come anche l'Infanta sepolta assomigli a una delle “piccole persone” di cui parla Ortese, perché l'impressione che ha la bambina quando le due mani si toccano, è quella di un momentaneo e spaventoso incontro con la sofferenza: «Parlava – scrive Ortese con un'immagine realmente indelebile, come lo sono le sue parole quando puntano con coraggio lo sguardo sulla fragilità – come parlano a volte, quasi meccanicamente, una mano, un piede di poveri esseri massacrati, in cui la vita sussulta ancora» e, aggiunge poco dopo, che nel suo muoversi flebile avverte la «stanchezza di un fanciullo che muore». E, a consolidare ancora una lettura in questo senso circa la natura molteplice di questa figura dell'infanzia, e del rapporto tra questa e gli animali, sta il modo in cui Ortese continua a descrivere la mano della statua che, racconta, assomigliava alla «zampina di un uccello».

Proprio in questo coacervo paradossale, dove la realtà si mischia con la fantasia in una continua sfumatura dei confini che rende impossibile comprendere lo statuto di ciò che accade, sta la natura di questo stare sulla soglia di Anna Maria Ortese, nella possibilità quindi che dentro un mondo sofferente siano queste apparizioni miracolose, la statua certamente, ma anche la bambina protagonista, le uniche che riescono a sentire ciò che tutti gli altri non sentono, a offrire uno sguardo diverso sulle cose. Walter Benjamin ha scritto che la soglia non è solo uno spazio di passaggio, ma anche una zona in cui poter soggiornare e trasformarsi, uno spazio quindi, a differenza dell'idea sottesa nell'opinione comune, abitabile seppure rappresenti un filtro tra il dentro e il fuori. Il reale e il fantastico quindi, secondo la lettura di Benjamin che ben si accorda con quella di Ortese, si fondono in questa zona liminare: «La soglia [Schwelle] – scrive Benjamin nei Passages – è una zona. La parola “schwellen” [gonfiarsi] racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento, significati che l’etimologia non deve lasciarsi sfuggire». Assecondando il senso delle parole di Benjamin, emerge dalla statua che Ortese descrive in L'infanta sepolta, e che esplode nei suoi significati grazie al tocco della bambina, una solitudine e una sofferenza assolute, una statua che diventa paradossalmente un fonte di vita. L'infanta sepolta è nello stesso tempo al centro delle credenze popolari e isolata dal mondo, e non è un caso che rimanga sepolta nel bombardamento della chiesa, accidente nel quale Ortese convoglia il passo devastante della grande storia, incurante di tutto ciò che si muove e che finisce schiacciato.

In un clima simile vive anche la piccola creatura protagonista di Folletto a Genova (un racconto che appartiene all'ultima raccolta pubblicata in vita dalla scrittrice, In sonno e in veglia, a testimoniare una riflessione che attraversa tutto l'arco della sua opera), un racconto straziante sulle violenze che questo piccolo essere subisce nella casa in cui vive. Il folletto protagonista è una creatura dallo statuto indefinibile, in parte assomiglia a un bambino e in parte invece a un animale, ciò che è certo nella descrizione di Ortese è che si tratta di un essere che vive letteralmente sulla sua pelle le sofferenze degli altri trasformandosi in una capro espiatorio. Come accadeva in L'infanta sepolta con il bombardamento della chiesa, una simile situazione di allerta, che genera «smarrimento» nella narratrice, anima anche questo racconto, che inizia così: «La gravità dei fatti politici è talora insostenibile. E dire politici è usare un eufemismo. Si tratta di una guerra, o stato di malessere, dell’incedere di una instancabile e martellante violenza che striscia come un fuoco su tutta la terra. Il cielo, anche il più azzurro, sembra dare nel piombo. Una gravezza amara, come se egli fosse ebbro, o la sua vita fosse per finire (e fosse stata tutta inutile), pesa come una montagna sul cuore dell’uomo». Già dalle prime righe si intuisce quindi come la protagonista, l'unica tra l'altro a compatire, nel senso più antico del termine, ovvero soffrire insieme, il piccolo folletto sballottato, picchiato e forse ucciso dalla coppia, si trovi perduta dentro questo stato di guerra perenne. Così infatti continua il racconto: «La vita sulla Terra mi sembrava, a questo punto, non dirò insopportabile (tale stadio era superato), ma proprio priva del minimo interesse, come una pietra che rotoli dall’eternità verso un’altra eternità di pietra». Queste parole sembrano tratte dai testi più “teorici” di Ortese, come Le piccole persone o Corpo celeste, ed è proprio la descrizione della situazione a funzionare come punto d'origine della narrazione: la violenza nel mondo perde la sua concretezza e, all'interno del paradigma classico ortesiano, per le conseguenze che genera nelle esistenze individuali e perché il «terzo Paese miserrimo, per non dire disgraziato» è chiunque sappia vedere cosa succede, scatena una scrittura che attraverso il filtro fantastico denuncia e critica tale condizione. Il folletto Stellino, «una creatura assurda, vestita di una mantelletta fatta di vecchi giornali», è quindi un essere che subisce le angherie e le violenza della donna con cui vive, che lui vede come una mamma, ed è, ancora una volta, una rappresentazione dell'infanzia e del mondo animale: «Alto... non più di un bambino di qualche anno, ma no, più piccino – una bambola – il corpo – soprattutto le gambine che si intravedevano sotto il giornale – simile a quello di una lepre dorata. Dovunque una gran peluria dorato-grigia, che intorno al mento era bianca». Le sofferenze che subisce Stellino e il litigio continuo tra i coniugi sono sullo stesso piano delle violenze tra Stati descritti all'inizio del racconto ed è sempre il più fragile a rimetterci, il più povero terzo stato e il folletto, come accade nel mondo che qui viene trasfigurato grazie a questa figura fantastica.

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Allo stesso desiderio di sondare le pieghe del reale attraverso queste figure liminari obbedisce anche un racconto che Ortese pubblicò nel 1940, che affonda ancora dentro una credenza popolare e, ancora una volta, fa di una figura di questo universo uno straordinario termometro del mondo. Si tratta di Il Monaciello di Napoli, un racconto che si apre con un'esplicita dichiarazione di poetica: «Del resto, o Lettore intelligente, credi proprio che la vita sia così semplice come appare? Non hai mai, in nessun momento della tua vita, per esempio un giorno di maggio, avvertito nell'aria, coll'odor dei fiori e la danza delle farfalle, l'esistenza di un mondo più brillante, più gioioso e soave? E d'inverno, quando il vento urlava terribilmente intorno alla tua casa, con alti gridi un po' meccanici un po' umani, e tu sedevi ben caldo nella tua poltrona, non ti è mai accaduto di avvertire, in quella voce un po' disuguale e dolorosa, il lamento e la ribellione di povere creature inimmaginabili? Certo che sì, Lettore. Esse sono nascoste dovunque, e ci guardano con occhi sì puri, sì dolci, sì pieni di lagrime e raggianti d'amore. Fate dalle sottili trecce bionde, gnomi, coboldi, maghi, spiritelli, fino al caratteristico Monaciello napoletano, di cui parlava mia Nonna, questi esseri vivono, vivono!».

Il racconto ruota attorno a questa figura classica del repertorio folkloristico napoletano, una figura a metà tra un bambino e un piccolo frate, dedito ad abitare gli spazi nascosti delle grandi case in cui presta servizio, il monaciello Nicola che si muove in «un insieme di miseria, di abbandono, di malinconia» e di cui viene qui raccontata la sua storia d'amore (e di morte come accade spesso in Ortese) con Margherita, la bambina che poi lo sposerà. Nicola diventa qui, ancora una volta, un elemento simbolico all'interno del racconto: già carico di suggestioni popolari sulla sua funzione e la sua figura, qui Ortese ne fa un vero e proprio emblema di quel suo caratteristico “doppio sguardo” che riesce a vedere oltre le cose, come suggerisce la protagonista che rimpiange quello sguardo infantile che gli faceva vedere davvero:

 

L’ingresso, nella nostra cultura, del pensiero francese; i progressi della scienza che mirava con un impetuoso entusiasmo a demolire la credenza nell’irreale ch’era tanta parte della nostra vita.

 

 Il monaciello allora, come tante altre piccole figure che abitano le opere di Ortese, grazie a questa natura ambigua diventa elemento rivelatore dello sguardo della scrittrice, come l'iguana del romanzo omonimo, il puma dell'Arizona in Alonso e i visionari. Tutti questi personaggi vivono in una condizione che mescola l’infanzia e uno stato sospeso tra la specie umana e quella animale e sono accomunati da un'innocenza che li porta sulle strade del dolore e della sofferenza perché si trasformano, loro malgrado, in esseri particolarmente sensibili alla violenza del mondo e testimoni viventi della necessità di cambiare.

 

Giorgio Agamben ha scritto, con parole che ben si prestano alla lettura dell'opera di Ortese, che «le porte del mistero lasciano entrare, ma non lasciano uscire. Viene il momento in cui sappiamo di aver traversato quella soglia e a poco a poco ci rendiamo conto che non potremo più uscirne. Non che il mistero si infittisca, al contrario – semplicemente sappiamo che non ne verremo più fuori». Qual è lo statuto del folletto, del monaciello o della statua dell'Infanta sepolta? Non è questo ciò che è importante, se non per chi tenta di tagliuzzare la letteratura in cerca di fredde definizioni, perché pare assai più fruttuoso assecondare le forme di queste strane creature che brulicano nelle pagine di Ortese per poter osservare, da vicino, gli anelli di congiunzione tra realtà e fantasia, tra mondo sognato e mondo reale. Queste figure sono agenti creatori di una nuova possibilità di osservazione del mondo che può, al massimo delle sue possibilità,  portare a immaginare una realtà differente e un nuovo ordine in grado di scardinare l’uomo dalla sua posizione di ingiustificato dominio.