Confini e Saudade: una panoramica a est della letteratura

di Giordana Restifo

«Vi depois, numa rocha, uma cruz
E o teu barco negro dançava na luz
».
Amália Rodrigues - Barco negro


Una specie di Saudade

Struggente, forte, malinconico, disperato. Così era il fado interpretato da Amália Rodrigues dagli anni Quaranta in poi, e ancora oggi ascoltarla suscita un incongruo sentimento di afflizione. La sua commovente voce incarna alla perfezione quel sentimento, che in portoghese è definito “Saudade”. Una sorta di ricordo nostalgico legato agli affetti, che rievoca persone, cose e luoghi, in una dimensione, alle volte, mistica. Se, comunemente, questo trasporto nel sentire è attribuito al popolo portoghese, leggendo l’ultima opera di Kapka Kassabova, Il lago. Ritorno nei Balcani in pace e in guerra, pubblicata da Crocetti lo scorso maggio e tradotta da Anna Lovisolo, si scoprirà che anche altri popoli sono stati sconvolti da uno struggimento simile. Il lago ne è contaminato e tutti i capitoli ne sono intrisi.
Kassabova ci invita a entrare nella sua vita e in quella della sua famiglia attraversando conflitti, generazioni, confini. Percorrendo insieme il «paesaggio esistenziale» della sua famiglia materna e dei suoi antenati ci si rende conto di avere a che fare con quello che potremmo definire un trattato di storia, di politica, di geografia e di antropologia molto più ampio della sola biografia. Il mondo dentro il quale si entra, già dall’introduzione, è poco conosciuto, ne fanno parte paesi che, grossolanamente, definiamo con “est”, come fossero lontani chilometri da noi e con tutt’altre storie che non ci interessano. L’autrice bulgara ci offre una via d’accesso all’area balcanica differente, impervia, ma non ci lascia mai la mano fino all’ultima pagina, ci sostiene. Ogni tanto ce la stringe, ogni tanto la stringiamo noi a lei, ci sosteniamo.
Nel percorso ci sono vallate, catene montuose, strade desolate, e, soprattutto, ci sono i due laghi gemelli di Ocrida e di Prespa, attorno ai quali tutto ruota, si divide e si ricompone. Sono i laghi più antichi d’Europa, circondati da sorgenti e collegati tra loro da corsi d’acqua sotterranei. Nonostante le peculiarità idrografiche, ciò che stupisce maggiormente è che sulla loro superficie s’incontrano due, in certi punti tre, confini nazionali: Grecia, Albania, Macedonia (del Nord). Queste frontiere impercettibili via acqua, ma presidiate via terra, hanno causato, nei decenni, sofferenza e fughe, alimentato leggende, verità soggettive e menzogne. Quella di San Naum, tra Macedonia (del Nord) e Albania, ad esempio, era stata istituita nei primi anni Novanta:

per quasi cinquant’anni non c’era stata alcuna dogana in questa zona lacustre tra le due nazioni. Ma non si poteva tracciare una vera e propria linea tra gli albanesi e i macedoni del lago. La linea era soltanto fittizia, una linea nell’acqua

Come Anastassia, la nonna materna dell’autrice, anche tante altre donne, e prima di loro gli uomini, i padri di famiglia o i ragazzi in cerca di speranza, hanno lasciato le rive del lago per trasferirsi altrove. Viaggiatori leggeri, che partivano soltanto con i vestiti indossati quel giorno, perché di pesante avevano già il macigno della storia, personale e collettiva, e della nostalgia attanagliante. Nelle prime pagine appare un ricordo materiale del paesaggio perduto:

Sul tavolo rotondo nel salotto dei nonni, coperto da una tovaglia di velluto con le frange, c’era un vaso con i ciottoli del lago. Erano lisci come tutti gli altri, bianchi e rosa, ma erano anche dei talismani che si portavano dietro la brezza di un mondo più leggero e arioso.

Infatti, per i molti figli della diaspora, andare via dai propri luoghi era stato un atto dovuto o una conseguenza delle “liste nere” compilate dalle politiche nazionali, per tutti, a prescindere dai motivi dell’allontanamento, il dolore e il rimpianto non si erano mai attenuati.

Visti dall’alto i laghi di Ocrida e Prespa sono un’immagine topografica della psiche, la luce e l’ombra, il conscio e l’inconscio, collegati da canali sotterranei. Ciascuno contiene l’altro senza negarlo, come un simbolo perfetto di yin e yang. È così che sono sopravvissuti per un milione di anni in un sistema che si autorigenera.

Tra gli abitanti rimasti, invece, alcuni si sono abbandonati al “destino balcanico” dal quale non si può fuggire, e anche per loro la situazione si è trasformata in uno struggimento continuo, hanno vissuto accettando la malinconia di quello che poteva essere e non è stato, una sofferenza inevitabile. Ed ecco che torna il principio del fado: «Il fado non si canta, accade. È un avvenimento. […] Il fado si sente, non si comprende né si spiega. Il fado è sapere che non si può lottare contro quello che abbiamo. È quello che non possiamo cambiare. È chiedere perché e non sapere il motivo. È non smettere di chiedere e, allo stesso tempo, sapere che non c’è risposta», diceva Amália Rodrigues (Vítor P. Dos Santos, Amália Rodrigues, una biografia, Cavallo di ferro, 2006). Altri hanno preferito un’emigrazione interiore, come intuisce l’autrice parlando di politica interna con i cugini:

L’emigrazione interiore, praticata in massa durante il comunismo, qui era ritornata in auge: abiti nel tuo paese ma fino a un certo punto. Con la mente sei altrove, in un luogo più equo, più emancipato, proprio come dovrebbe essere la nazione in cui vivi.

L’intera opera è intrisa di questo sentimento malinconico, che l’autrice non definisce Saudade ma alla quale somiglia molto. La madre e la nonna avevano sempre nostalgia di qualcosa; le zie della signora Slavche, colei che ha fatto scoprire a Kapka Kassabova la «straordinaria e mistica tradizione del sufismo», emigrate nei travagliati anni Trenta in Romania, per tutta la vita avevano avuto nostalgia di Ocrida. Ancora, le molte religioni osservate nei Balcani, che hanno sempre convissuto (a tal proposito si legga questo passo: «I cristiani frequentavano i tekke [alloggio comunitario sufi – dal glossario presente alla fine del libro] e i musulmani i monasteri»), fanno riferimento a tale sentimento: la chiesa di Santa Maria Perivlepta, la “Più Gloriosa”, era dotata di alloggi per ospitare chi soffriva di malinconia; tra le attività del tekke era previsto di dare ospitalità «ai malati di mente e ai malinconici», finché non fossero guariti; infine, Naum, un teologo missionario, al quale è stato dedicato un miracoloso monastero, tra le sue tante qualità, aveva anche quella di «guarire i folli e i malinconici».
Ne Il lago c’è molto più di questo, ci sono le leggende che riguardano i due specchi d’acqua, ci sono personaggi illustri e personaggi sgradevoli della storia di quei paesi confinanti, c’è il folclore e ci sono i Santi, c’è l’immancabile bevanda dei Balcani (qui denominata rakija). C’è la famiglia dell’autrice e ci sono le tante famiglie balcaniche, sopra le cui pene sono passati senza remore i governi (quelli nazionali, quelli europei e quelli extraeuropei), i regimi e la politica tutta. Ci sono le “Questioni”, quella orientale, quella macedone, che sembrano sempre riguardare altri e mai noi. C’è anche quella che Rebecca West (citata dalla Kassabova) definisce la “religione fondamentale” in Macedonia, ovvero il culto della natura, «con una particolare predilezione per l’acqua». La pacifica convivenza delle tante popolazioni, che, nei secoli, era stata mantenuta nonostante le differenti lingue e religioni, nel corso della storia è cessata: «La gente dei laghi era composta da popoli che, con il trascorrere del tempo, dei confini e di politiche retrive, erano diventati nemici». Hanno dimenticato che da un lato e dall’altro dei confini sono le stesse persone, che hanno patito sofferenze simili specchiandosi l’un l’altra.

 

Confine diverso, stesso tormento

In questo viaggio partito dal confine che più guarda a Occidente e si affaccia, perdendosi, sull’Oceano Atlantico, e passato da quello che associamo più all’Oriente, si arriva a uno familiare, se non proprio fisicamente almeno geograficamente e storicamente. È il confine tra l’Italia e la Slovenia. Un tratto di terra travagliato, che ha fatto da scenario a molti scontri sanguinosi, a sommosse tra militari, alla lotta partigiana, e che negli anni ha subito numerose modifiche alle linee di frontiera. Nel suo Bestiario di confine, pubblicato anch’esso durante la primavera del 2022 da Bottega Errante Edizioni (BEE) e tradotto da Lucia Gaja Scuteri, Primoz Sturman affronta tutti i limiti e le potenzialità di questa terra di mezzo. Undici racconti in cui i sogni, le debolezze, le speranze, la questione della lingua e dell’identità, la politica e la religione, assomigliano incredibilmente a quelli letti poche righe più su, come se non ci si fosse mossi di oltre mille chilometri a Nord rispetto a dove ci si trovava con Kapka Kassabova.
In tempi più recenti, la distanza ravvicinata e il veloce, ma non semplice, passaggio tra una nazione e l’altra, per alcuni, sono stati una benedizione:

In effetti il confine, che prima era una maledizione per tutto e tutti, negli ultimi tempi era diventato una vera e propria benedizione. Rimasti tagliati fuori per una decina d’anni scarsa subito dopo la guerra, i borghi e i paesini a ridosso del confine ora se la passavamo molto meglio del resto della madrepatria jugoslava, proprio grazie alla vicinanza con Trieste e l’Italia.

Non tutti, però, hanno fatto affari e sono riusciti ad accantonare soprusi e sofferenze. C’è chi ha perso la testa, come il protagonista di Gorizia è nostra che viene portato all’ospedale psichiatrico di Idrija perché non si vuole arrendere all’idea che Gorizia sia una città italiana, anche se gli altri personaggi provano a disfare i suoi sognanti progetti di rivolta: «Il mio nono mi raccontava sempre com’era tra partigiani… e che non è per niente giusto che Gorizia non sia nostra…», a questo ricordo il dottor Skof risponde: «Ma se ce l’abbiamo da una vita la nostra, di Gorizia: Nova Gorica! Lasci stare quel che è accaduto nelle generazioni precedenti. Anche mio zio dal lato materno era partigiano. È trascorso tanto di quel tempo da allora… Non ci riguarda, di certo non al punto da rovinarci l’esistenza. Lei viva la sua vita qui e ora!». E poi c’è suo fratello che alla proposta di «spostare il confine un po’ più a ovest» lo mette a tacere dicendo solamente «lascia stare il confine dove sta, tanto non esiste più».
C’è anche chi ha dovuto subire passivamente il declino culturale, linguistico e identitario del proprio paese, lo spiega bene Martina Vocci nella postfazione del Bestiario: «”le parole sono importanti”, urlerebbe infastidito Nanni Moretti, e per un lungo periodo nel lembo occidentale dell’Italia, al confine con la Slovenia e poi la Croazia, sono state tutto, anche una forma inaudita di violenza imposta a chi qui era a casa sua ma non poteva che parlare o studiare la lingua italiana: ogni uso della lingua slovena era pubblicamente vietato». Così come per gli sloveni, ciò era accaduto anche per i portoghesi, i greci, gli albanesi, i macedoni e per tutti quei popoli soggiogati da regimi totalitari fautori di un discorso ideologico incentrato sull’omologazione della vita culturale e su principi ipernazionalistici come la lingua unica, la famiglia, la patria, la religione. Tutto doveva essere tenuto sotto controllo, anche se in alcuni paesini sul Carso l’unica cosa che veramente contava, durante gli anni del fascismo, era se fossi o meno uno di loro: «Questa gente del Carso ha ereditato dai propri avi il vigore, la resistenza, oserei quasi dire l’infrangibilità, necessari a cavarsela su una terra che tanto pretende e così poco offre in cambio. È interessante notare come mi considerino uno di loro, seppur solo fino a un certo punto», annota il protagonista del racconto Scherzando col fuoco, «a salvarmi è il fatto che la nona sia di Dutovlje, altrimenti non farebbero grandi distinzioni tra me e gli altri triestini che vengono qui in vacanza. Nel borgo, infatti, non conta se parli la stessa lingua e se sei, pertanto, anche tu un membro del popolo oppresso e perseguitato, conta solo se sei o non sei uno di loro».

Cosa resta quindi in quest’epoca moderna, dopo tutto questo carico crudele di storia e destino? Restano il fatalismo, la rassegnazione, una passionalità lugubre; ma quello appena compiuto non è un viaggio da turisti, si tratta di una ricerca, di un’ammissione a noi stessi, che dovremmo approfondire. Come ci suggerisce Kapka Kassabova: «Se si vuole compiere un viaggio nei luoghi dei propri antenati bisogna essere disposti a vedere cose che è più facile negare». Proprio questo è stato il motivo che l’ha spinta a partire, perché se non avesse scoperto, saputo, conosciuto a fondo, avrebbe potuto ripetere certi vecchi schemi, «e poiché in questo secolo ancora assistiamo a guerre civili e fratricide, a politiche divisive tra gli stati e al loro interno, a revisionismi e autocrazie di natura patriarcale, a migrazioni di massa e a spostamenti di popoli, poiché assistiamo a tutto questo, rischiamo di trasformarci anche noi in involontari agenti della distruzione, a meno di non prendere coscienza del modo in cui ci portiamo dietro la nostra storia familiare».  

Un bagno nello stagno sotto la pioggia, di George Saunders

di Debora Lambruschini

Sì: è una forma spietata, il racconto.
Spietata come una barzelletta, una canzone, un biglietto scritto dal patibolo.
(p. 38)

 

Ci sono molte cose contenute in questo libro. Direte voi: “Voglio ben vedere, è un volume di quasi cinquecento pagine!”. Ma sappiamo che la mole di un testo non sempre è al pari dei contenuti, per un verso o per l’altro. Qui, dopotutto, siamo lettori di racconti e nella forma breve ritroviamo una dimensione immensa. Un bagno nello stagno sotto la pioggia, pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Cristiana Mennella, non solo contiene, ma è molte cose: una dichiarazione d’amore per la forma breve, per i racconti russi dell’Ottocento, un’antologia minima con sette racconti esemplari, un manuale di scrittura e di lettura. A metterlo insieme, questo libro strano, anacronistico, che rifugge ogni logica commerciale ma cui auguriamo di raggiungere lo stesso tanti lettori coraggiosi, è lo scrittore statunitense George Saunders: anche lui non proprio incasellabile, autore di eccellenti racconti che ha vinto però un Booker Prize con Lincoln nel Bardo (Feltrinelli), noto al pubblico italiano soprattutto per L’egoismo è inutile (minimum fax) originariamente nato come graduation speech, e il suo capolavoro Dieci dicembre (minimum fax) . Da vent’anni Saunders ha una cattedra alla Syracuse University con un corso sui racconti russi dell’Ottocento e questo libro nasce lì, nell’esperienza con i suoi studenti, nelle letture degli autori amati, nello studio minuzioso di ogni racconto oggetto del corso.
Qui riunisce sette racconti esemplari, di quattro fra i suoi autori russi prediletti, pubblicati integralmente e smontati pezzo per pezzo, analizzati nel tentativo di penetrare il mistero della scrittura, comprendere i meccanismi profondi della short story e, non da meno, l’influenza che tali letture possono avere nel nostro sguardo sul mondo stesso. Perché la lettura è tutt’altro che un esercizio sterile fine a sé stesso, la lettura ti mette invece di fronte a una certa idea di mondo, affina lo sguardo e la sensibilità, spinge a porsi quesiti che non troveranno risposta tra le pagine forse, perché non è lì che vanno ricercate ma dove è necessario vengano poste. È questo che fa la Letteratura, almeno. E Saunders lo sa bene, scrittore, sì, ma prima di tutto lettore appassionato cui a un certo punto le storie hanno cambiato la vita, gli hanno dato la possibilità di un’altra direzione. La scoperta folgorante di Steinbeck con Furore che pareva prendere vita e l’urgenza di certe domande dentro e fuori la pagina, similmente alla scoperta, di lì a poco, della narrativa russa dell’Ottocento:

Quando gli ho scoperti alcuni anni dopo, i russi mi hanno fatto lo stesso effetto. Sembrava che per loro la narrativa non fosse un oggetto decorativo ma un indispensabile strumento etico-morale. Quando li leggevi ti cambiavano, il mondo sembrava raccontare una storia diversa, più interessante, una storia in cui potevi svolgere un ruolo significativo, in cui avevi delle responsabilità.
(p. 16)

Si intuisce già da qui, dalla nota introduttiva, che Un bagno nello stagno sotto la pioggia è, prima di tutto, una dichiarazione d’amore per le storie, un libro nelle intenzioni dell’autore pensato sì per chi scrive ma anche e soprattutto per chi legge; per gli amanti del racconto ma ancora di più forse per coloro che si avvicinano un po’ timorosi a questa forma, prendendone le misure, forse ancora scettici. La forma breve, oggetto di fraintendimenti e scarsa frequentazione nei percorsi scolastici italiani, è un materiale incandescente, che necessita degli strumenti adeguati per essere maneggiato, di mezzi che sono propri e non possono essere presi in prestito invece al romanzo o ad altre forme, come pare ancora troppo spesso consuetudine. Ecco quindi che Saunders guida il lettore dentro il racconto, osservando da vicino tutto ciò che funziona, tutto ciò che ne fa appunto racconto, ma anche i limiti, le debolezze.
Partendo da sette storie specifiche, analizzate con cura, si crea tuttavia una poetica della forma breve più generale, generata da una lettura capace di mettere insieme aspetti emozionali ad altri più tecnici, di mestiere.
È molte cose, si diceva, questo libro, come altri dal simile intento: penso per esempio a Nel territorio del diavolo di Flannery O’Connor, On writing di Stephen King, Il mestiere di scrivere di Raymond Carver, che contengono lezioni di lettura e scrittura, pagine zeppe di riflessioni sull’arte, il metodo, la propria personale visione del mondo e della scrittura stessa; ma anche a Scompartimento per lettori e taciturni di Grazia Cherchi, che più di tante lezioni e saggi specifici mi ha saputo illuminare sul mestiere di critico letterario, il rispetto per i lettori, la professionalità.

Un bagno nello stagno sotto la pioggia si rivolge ai lettori – perché questo, prima di tutto, uno scrittore deve sempre restare – e agli scrittori, come gli studenti di quel corso da cui il libro prende origine. In cattedra c’è Saunders o, per meglio dire, è quello che si aggira tra i banchi, il piglio appassionato e gentile, tutt’altro che accademico e didascalico. Le analisi però sono lucide e profonde, le considerazioni mutuate da anni di scrittura e docenza. Attraverso le letture di testi di Čechov, Tolstoj, Turgenev, Gogol’, quella che ne scaturisce è anche, appunto, un’accennata ma interessante una panoramica della forma breve, che muove da un punto di vista personale e già adottato, per esempio, da Virginia Woolf: il principio per cui la lettura sia prima di tutto una questione emozionale e che è grazie a tale effetto che si crea il legame con il lettore. Saunders condivide l’idea della potenza emotiva dell’arte, che nella letteratura russa dell’Ottocento pare farsi materica, e vi intreccia ulteriori spunti e considerazioni che mettono in costante dialogo testo e lettore, in una connessione strettissima dentro e fuori la pagina. Se l’obbiettivo della letteratura russa ottocentesca era porre i grandi interrogativi, la capacità delle storie di spingere il lettore a farsi delle domande non si è certo esaurita e la complessità e stratificazione dei personaggi e dei sentimenti, questo meccanismo metaletterario, è alla base della scrittura stessa di Saunders:

Io voglio scrivere racconti così, che smettono di essere scrittura e cominciano a essere vita.
(p. 266)

Ma che cos’è un racconto? Quando un testo può dirsi tale? O, ancora, come si conciliano nella short story cesellatura, brevità, e digressioni? Perché è importante osservare le dinamiche interne di un racconto e non limitarsi alla sola trama? Perché saper creare il rapporto causa-effetto è il marchio principale di un bravo scrittore?
Sono le domande che si pone Saunders mentre smonta pezzo per pezzo questi racconti amatissimi, alle quali tenta di dare opportune risposte, pur consapevole che ci sarà sempre una piccola parte di mistero impenetrabile nella scrittura. Nel farlo, lui e noi insieme – perché questo libro è per così dire “interattivo”, un continuo esercizio anche per il lettore – ci confrontiamo anche con talune perplessità e “limiti” – uso un virgolettato, perché siamo pur sempre di fronte a sette fuoriclasse della scrittura – , con la distanza temporale che ci separa dall’opera e, non da meno, una distanza data invece dalla differenza linguistica. Ecco, questo ultimo punto è per Saunders motivo più volte di riflessione, una questione che tutti noi lettori siamo chiamati spesso a considerare; il profondo rispetto per il mestiere del traduttore si lega inevitabilmente alla fruizione di un testo che per quanto aderente all’originale è anche in parte qualcosa di altro, come altro è il pubblico che lo riceve. Pure laddove leggiamo in originale, fino a che punto conosciamo la cultura entro cui si è originato, fino a che punto, quindi, comprendiamo ogni sfumatura, ogni dettaglio e implicazione? Sarà sempre una versione in cui qualcosa si perde, in cui si cerca e si accetta un compromesso. Smontare, osservare così da vicino un racconto e ragionare non semplicemente su questioni di trama ma anche e soprattutto sulla struttura del testo è, per forza di cose in situazioni come queste, un atto di fiducia nei confronti del traduttore che ci ha dato accesso a una storia che altrimenti per molti di noi sarebbe rimasta non fruibile; ragioniamo su una parola, su un “alquanto rispettabile” con cui Gogol e il traduttore del suo racconto Il naso catturano la nostra attenzione di lettori-critici. Sono considerazioni che ogni lettore si è prima o poi trovato ad affrontare.

Saunders con umiltà e consapevolezza insieme agli studenti del proprio corso – e adesso con noi lettori del volume – si confronta anche con talune perplessità e, dicevamo, “limiti” riscontrati in certi racconti. Per esempio con le numerose digressioni de I cantori di Turgenev che sembrano farci perdere la rotta e ignorare il principio intrinseco della forma breve per il quale sulla pagina deve esserci solo quanto assolutamente necessario, mai nulla di troppo; o, ancora, un certo pregiudizio di classe che rischia di compromettere la perfetta riuscita de Il padrone e il lavorante di Tolstoj, con la caratterizzazione un po’ stereotipata da “contadino ideale” di Nikita, cui mancherebbe la profondità di personaggio concessa invece al suo padrone. Riflessioni, spunti, anche in questo caso interessanti, condivisibili o meno ma assai utili per sottolineare quale sia l’approccio con cui dovremmo noi tutti, lettori per passione o per mestiere, affrontare un testo, specie se si tratta di un racconto; di quale cassetta degli attrezzi fornirci per metterci al lavoro, con che tipo di lettura consapevole, in profondità, dovremmo onorare una short story. Anche per scardinare uno degli stereotipi più resistenti e insidiosi su questa forma, quella leggerezza e velocità di fruizione data dalla brevità del testo: no, Saunders ci aiuta a ribadire ancora una volta che leggere racconti richiede uno sforzo notevole, non è possibile concedersi la distrazione che permette il romanzo, nel rispetto di un testo che al suo autore ha richiesto un ancor più profondo sforzo. Ogni parola che vediamo lì sulla pagina e ogni parola che è nascosta sotto, in un racconto riuscito è lì per una ragione e dobbiamo essere attenti a coglierla, non passarvi sopra distrattamente, concentrati solo sulla trama, sul capire che cosa succederà o meno. 

Quando li analizziamo [i racconti] tendiamo a ridurli alla trama (quello che succede). Sentiamo, non a torto, che il loro significato risiede lì. Ma i racconti traggono significato anche dalle loro dinamiche interne – dalla maniera in cui procedono, in cui una parte interagisce con l’altra, nell’accostamento istantaneo, percepibile, degli elementi.
(p. 177)

È una lezione di lettura, quindi, e di scrittura, due cose indissolubilmente legate. È, anche, una riflessione sull’approccio critico a un testo per chi di mestiere si trova a lavorare sulle parole degli altri e che non si può limitare ai contenuti più immediati ed evidenti, per leggerezza o tempistiche. Leggere un testo, che sia per piacere o dovere, significa permettergli di prendere vita, penetrare nel mondo, cambiare il nostro sguardo e perfino un po’ noi stessi. E ricordarci la potenza emotiva dell’arte, forse la sua essenza stessa.

Sono emozionato da quest’opera imperfetta che sembra voler dimostrare che l’arte può essere imperfetta, purché riesca a emozionarci.
(p. 127)




La mente dell’orso. Note di lettura a partire da La pelle dell’orso di Joy Sorman


di Andrea Cafarella

Il coltello per capirlo non bisogna ammirarlo, bisogna usarlo, come per ogni cosa. Lo sapete perché l’uomo è più intelligente dell’animale? Perché ha le mani. Il bue e la gallina non hanno le mani, l’avrete notato, e d’altronde si dice: tenere il coltello per il manico.

Joy Sorman, Come una bestia

 

C’è questa immagine che mi si è impressa nel cervello: un delfino che lentamente affiora dall’acqua della sua vasca, espira tutta l’aria fuori dallo sfiatatoio e si lascia poi cadere; si abbandona al peso dell’acqua, come uno spicchio di luna che tramonta. Si suicida.

Si tratta di un fatto realmente accaduto e documentato, purtroppo. (Uno di quei casi in cui la realtà sembra più assurda della finzione). L’episodio a cui mi riferisco è la storia di Peter, un delfino coinvolto in un esperimento sulla possibilità di questi mammiferi acquatici di apprendere il linguaggio umano. Peter passava moltissimo tempo con la responsabile dell’esperimento, Margaret Howe, tanto da arrivare a sfogare su di lei le pulsioni sessuali che erano sopraggiunte al compiersi della maturità biologica dell’animale. Scoppiò quindi uno scandalo e, nonostante il supporto del neuroscienziato John Lilly (cui si deve una lunga e interessante ricerca sull’effetto dell’LSD sul cervello dei delfini), sarà proprio il diffondersi di voci e dicerie circa l’ambigua relazione di Peter e Margaret a non permettere la prosecuzione della sperimentazione condotta dalla dottoressa Howe, ufficialmente: per mancanza di fondi. A quel punto Peter, trasferito in vasche piccole e senza luce solare, decide di suicidarsi, smette di respirare.

Questa storia che potrebbe indurre i romantici a concludere rapidamente che il caro Peter si sia suicidato per puro amore (ricordandoci il vecchio modo di dire “è morto di crepacuore”), resta comunque impressionante e ci dà immediatamente la sensazione di poter riconoscere, nell’anti-naturale gesto di questo delfino, un modo di sentire, di emozionarsi, molto simile al nostro.
Per questo ci tocca, la storia di Peter.

In questi ultimi anni il discorso sulla cosiddetta «Questione animale» sta diventando uno dei nodi fondamentali del dibattito politico e filosofico. Fermo restando che si tratta pur sempre di uno degli argomenti che sta alla base di tutta la storia del pensiero e della rappresentazione artistica e simbolica, da prima ancora che la Storia cominciasse a dare un senso cronologico all’esistenza della nostra specie. Dai dipinti rupestri alle battaglie ecologiche dei movimenti per i diritti degli animali nel nuovo millennio ci siamo sempre confrontati con le altre specie per comprendere noi stessi e l’idea stessa di essere consapevoli di esistere.

Questo non è certamente il luogo adatto per discutere in profondità il tema, ma ci serve piuttosto come punto di partenza per introdurre innanzitutto una serie di opere narrative che da questo genere di ragionamenti prendono luogo, e in particolare un libro, molto interessante, che mi ha condotto a questo punto. Parlo di testi importanti e che hanno fatto discutere anche e soprattutto per la loro forma. Tentativi di far parlare l’animale, come l’esordio di Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti (Sellerio, 2021) in cui a parlare è una faina. Oppure – forse ancora più calzante – il profondo legame, tra Nastassja Martin e l’orso che l’ha aggredita, sfigurandola completamente, raccontato in Credere allo spirito selvaggio (Bompiani, 2021). E potremmo continuare con libri clamorosi come Una donna nella notte polare (Keller, 2020) di Christiane Ritter, Orso (La Nuova Frontiera, 2019) di Marian Engel, o Il cottage degli uccelli (nottetempo, 2022) di Eva Mejier (di cui era già stato pubblicato il saggio Linguaggi animali e della quale seguirà per lo stesso editore la pubblicazione degli altri suoi romanzi).

L’elenco di questi libri, che mettono al centro della narrazione l’animale, potrebbe continuare e continuare ancora, potremmo passare in rassegna i saggi e le collane dedicate all’argomento apparse negli ultimi anni, e poi andare indietro nel tempo fino alle Metamorfosi di Ovidio e ancora e ancora fino ai dipinti rupestri. Desidero tuttavia, per forza di cose, focalizzare l’attenzione su di una novella, appena pubblicata da Alter Ego con il titolo La pelle dell’orso, dell’autrice francese Joy Sorman, già vincitrice di molti premi e conosciuta in Francia soprattutto per il suo primo libro, ancora inedito in lingua italiana, Boys boys boys. Viene tradotta per la prima volta in Italia da un editore emblematico per ciò che concerne il discorso sull’ecologia e sulla questione animale: nottetempo, che pubblica il suo Come una bestia nel 2014, in un momento in cui forse il tema non ha consentito all’autrice di ricevere l’attenzione che meriterebbe. Non tanto per l’imprescindibile questione che mette in luce e problematizza (così come aveva già fatto con Boys boys boys, diventato un classico del femminismo europeo – ripercorrendo così anche la parabola tematica della più celebre Donna Haraway), quanto per il linguaggio vertiginoso e sregolato, la voce potente e precisa, magica (che si sprigiona nelle splendide traduzioni di Cinzia Poli – per Come una bestia – e Valentina Maini – per La pelle dell’orso).

Nella prefazione di Credere allo spirito selvaggio, a cura di Antonio Franchini, si prova a dare al lettore il contesto etnologico nel quale l’autrice si muove per raccontare la sua storia. Franchini passa in rassegna rapidamente gli studi preziosissimi di Éveline Lot-Falck e quelli di Matteo Piludu che hanno raccolto nel tempo i miti e i rituali legati all’orso e non solo. Tutti riferimenti che potrebbero essere legati anche a La pelle dell’orso di Joy Sorman. Termina però la prefazione, Franchini, scrivendo che il testo «non avrebbe bisogno di presentazioni se non sottintendesse una quantità immensa di riti, credenze, culture, leggende, storie, concrezioni culturali di tutti i generi che sono andate sedimentando nell’inconscio dell’umanità da quando i nostri antenati contendevano gli spazi vitali all’Ursus Spelaeus, l’orso delle caverne». Ed è senz’altro vero che tutti questi libri contengono una gran quantità di materiali, provenienti dalle fonti più disparate, che però non c’è necessità, a mio modesto parere, di dover esplicitare ma semmai indicare, come fa con sapienza Franchini nella suddetta prefazione. Il culto dell’orso è antico come il linguaggio stesso e forse persino anteriore. Il culto dell’orso, potremmo dire, è il culto dell’altro, dell’alterità che ci nobilita, del Grande Altro.

 In un memorabile pamphlet, La Donna che Divenne l’Orso, pubblicato dalle Edizioni Volatili in una pregiata edizione numerata, Francesca Matteoni, poetessa, scrittrice e studiosa di folklore, ci introduce al mito e alle storie che raccontano l’unione tra la donna e l’animale, in questo caso l’orso. Una storia di sacrificio e sofferenza, di sciamani e rapimenti, dove magicamente l’uomo si fa orso e viceversa, la donna diviene orso a sua volta. La fiaba «The Girl Who Married the Bear», che è al centro de meraviglioso libello di Matteoni, è di sicuro anche il riferimento iniziale da cui parte Joy Sorman per compiere la sua opera metamorfica e distorsiva.

La racconto brevemente – si tratta delle primissime pagine del libro, le uniche in terza persona e con un tono palesemente fiabesco: si narra del conflittuale rapporto degli orsi e degli abitanti di un villaggio, basato su un patto di non belligeranza che però non può essere mantenuto fino in fondo. Esattamente come per la fiaba de «La ragazza che sposò l’orso», dove, ci dice Matteoni, si «narra della relazione fra la tribù e l’orso grigio, il grizzly, stabilita da un’antenata che visse sia come umana che come orsa».
Ne La pelle dell’orso questa storia viene completamente trasfigurata e quasi realizzata, nel senso che l’autrice prova in qualche modo a immaginarsi le conseguenze reali di ciò che sarebbe potuto avvenire nella fiaba.
Omicidi fraudolenti, rapimenti e stupri di una violenza inaudita portano gli orsi e gli umani a stabilire una pace duratura, basata sull’ignorarsi vicendevolmente, finché «malgrado queste precauzioni, un orso e una donna si incontrarono, e la cosa degenerò». Come nella fiaba, l’orso rapisce la donna e la rinchiude nella sua caverna. «Ancora una volta, gli uomini furono costretti ad abbattere un orso, il più nobile e il più coraggioso degli animali, innescando di nuovo una guerra che nessuno tuttavia desiderava – poiché è sempre con la morte dell’anima che ci si inimica il re delle montagne». E qui Sorman fa un’altra acrobazia concettuale e immaginifica: il figlio dell’unione tra l’orso e la donna (non la donna stessa, come negli altri casi), è un essere ibrido, uomo e bestia.
In più, è un essere maledetto che non troverà mai pace.
Un po’ come il delfino Peter, senza speranza.
Senza alcuna ragione per vivere.


Perché guardiamo l’orso?
 

In sostanza: dal momento in cui la donna torna al villaggio con suo figlio, frutto dell’unione con l’orso, la maledizione del re delle montagne si abbatte su di loro. Joy Sorman cambia repentinamente punto di vista: è questo cucciolo, ibrido uomo-orso, a parlare e a raccontarci la sua tristissima esistenza. Venduto e rivenduto, l’orso passa di mano in mano conoscendo tutti i gradini della sofferenza e della resa incondizionata. E in questa odissea di scellerati dolori l’orso s’interroga sulla sua esistenza, cerca di comprendere il perché di questo destino infausto, supera l’odio e cerca di sopravvivere in un mondo che lo vuole in catene. Fino a pensare, in certi momenti, di essere persino una divinità.

 

Scopro il potere delle bestie sugli spiriti umani, un potete molto più forte di quello, pietoso, che esercitavo io con l’ammaestratore, il potere di riaccendere la follia, di indurre in trance, una devozione assoluta, un amore famelico, una speranza insensata – cosa si aspettano da noi? Pensano che siamo i loro salvatori? Credevo di essere un re deposto, sono forse un dio, caduto – certo –, sottomesso, addomesticato, ma pur sempre un dio.

 

In questo libro, in maniera stupefacente e assolutamente naturale, emergono le riflessioni di John Berger nel suo famoso libricino Perché guardiamo gli animali? (il Saggiatore), dove l’esperienza degli animali allo zoo fa da perno centrale per la speculazione filosofica che ne consegue. A un certo punto si fa spazio una situazione che rimanda inevitabilmente a un libro memorabile come Bestie da soma (Edizioni degli animali) di Susane Taylor, nel quale la disabilità viene paragonata all’animalità in modo sorprendente e rivelatorio, poiché l’orso di Joy Sorman troverà un momento di “pace” proprio a contatto con i freaks e soprattutto con le donne che lo attorniano in quel frangente speciale, nel quale la speranza sembra riaccendersi. «Solo le donne potrebbero perorare la mia causa, parlare agli uomini, ma è la loro pelle che devono salvare prima di quella dell’orso». Sorman – tramite la voce dell’orso – qui sembra quasi indicare, intrinsecamente, una prospettiva che ricorda quello che oggi chiamiamo ecofemminismo, e che è forse una delle declinazioni più interessanti del femminismo e dell’ecologia, insieme; l’idea che selvaggio e femminile possano avvicinarsi e creare una chiave concettuale di lettura del reale e del presente, e che, usandola come un grimaldello magico, possa dischiudere nuove possibilità per il futuro e per il pensiero ecosistemico che bisognerebbe senza dubbio sviluppare al giorno d’oggi, per le evidenti urgenze che stiamo attraversando e che ci chiamano all’azione, o quantomeno alla reazione.

Ecco la loro ossessione, il loro incubo e il loro crimine: che se un animale scompare è l’intera foresta a morire, che se l’orso scompare sono migliaia di microscopiche bestie ospitate nelle foglie e nell’humus a morire. Eppure le bestie non sono fatte per invecchiare né per sopravvivere, sopravvivere è faccenda degli uomini, il destino che si sono inventati. Ecco la disgrazia della bestia che invecchia e si sfalda, congiungersi con gli uomini, comprendere con loro che il tempo è un presente che non finisce, appesantito dalla prospettiva lontana della morte.

Il paradosso di tutto questo ragionamento è che – e torniamo alla storia di Peter il delfino – l’esistenza penosa dell’orso di Joy Sorman è un’esistenza quasi normale per un orso. Sicuramente iperbolica ma non così assurda come ci si aspetterebbe in una fiaba. In pratica l’autrice prova a fare un esercizio di fantasia classico, che sarà capitato di fare a molti di noi: pensare a come ci sentiremmo nelle condizioni di un animale in cattività, in gabbia, allo zoo, o sul ring prima di una lotta all’ultimo sangue contro un altro animale, come un tempo facevano i gladiatori – schiavi che potevano considerarsi fortunati rispetto agli altri schiavi, con qualche opportunità in più. E allora questa esperienza di lettura diventa sì un’avventura nei meandri del mito – rivisitato –, dove uomo e animale sono già e ancora la stessa cosa, nello stesso corpo; e inoltre si configura come ragionamento politico, ideologico e filosofico, sotteso alla narrazione; ma soprattutto guarda empaticamente alle profondità del nostro spirito, e dello spirito di ogni vivente.

 

L’inconveniente di essere nati

Sarebbe troppo facile dire che Peter il delfino si è suicidato per amore della sua Margaret. Sarebbe presuntuoso e moralistico. Forse l’assenza di luce, forse gli spazi ridotti. Forse pura casualità. Forse Peter non si è nemmeno suicidato. Non ci interessa qui dare una spiegazione logica o scientifica di questa morte. Ci interessa, con Joy Sorman, provare a immaginare: e se Peter si fosse suicidato per amore, avendo capito che non avrebbe mai più rivisto la sua Margaret? E se fosse proprio una certa ottusità e crudeltà dell’essere umano, di tutti noi, che da una parte pretendiamo che il nostro gatto domestico sopravviva per l’eternità, e dall’altra non ci scomponiamo venendo a conoscenza di comportamenti gravissimi che mettono gli animali in condizioni di stupefacente e gratuita crudeltà, scene di cui La pelle dell’orso è cosparso e attraverso le quali l’orso, protagonista del racconto, sviluppa una certa indifferenza cioraniana, una noia e un fastidio che solo pochissime volte consente alla coscienza dell’orso un risveglio, e spesso solo per paura di qualcosa che possa turbare lo stato di cose nel quale si trova. Non si tratta di pigrizia – che sarebbe simbolicamente facile da accostare all’orso – ma quasi di un’anestetizzazione, un’abitudine al dolore e alla sfiducia verso gli esseri umani e gli eventi che lo coinvolgono che porterà l’orso ad arrendersi totalmente e a diventare un mansueto animale capace di approfittare delle sue innate qualità di ibrido per vivere una vita quantomeno insignificante, comunque migliore di tante delle vite che i suoi padroni lo costringeranno a vivere.

 

Seduto a gambe incrociate nella mia gabbia, guardo altrove, il collo ruotato in una torsione eccessiva, provo a tenermi a distanza da ogni emozione mentre il mio cuore batte fino a squarciarmi il petto – è la prospettiva dell’ignoto,
ma l’ignoto è questo uomo o è forse l’oceano?

 

Questa storia, questo lampo di genio, questo percorso funambolico nel quale siamo vertiginosamente scaraventati nel tentativo disperato di seguire l’orso e di sperare per lui ci porterà a una sola inevitabile consapevolezza. La chiameremo qui, per ipotesi, “Il suicidio del delfino”, riferendoci a Peter – quel bisogno di amare così profondo e radicato che porta inevitabilmente al sacrificio, al sacrificio sciamanico, che avviene per tutti e che dovremmo – l’epilogo di questo libro ce lo mostra chiaramente e con grande violenza – imparare a sentire o quantomeno a vedere. Perché potrebbe salvarci la vita, la vita di questo pianeta.

Joy Sorman

La scrittura come disgrazia. Autobiografia con Giochi di spiaggia, Régis Jauffret

di Alice Pisu

 

A pochi giorni dall’uscita di Ferdydurke nel 1937 Witold Gombrowicz scrisse una nota intitolata Per evitare malintesi, per smentire le prevedibili accuse da parte della critica. Nel chiarire i motivi dell’insensatezza dell’individuazione di un’impronta di denuncia sociale nell’opera, l’autore pone l’accento su un aspetto fondamentale: il problema della forma. “Occorre trovare una forma per tutto ciò che nell’uomo è ancora immaturo, non cristallizzato e non sviluppato, come pure un lamento per la mancanza di speranza di questo postulato: questa è l’emozione principale del mio libro. Mi preme dimostrare che la nostra cultura non è né completa né intera, non essendo che una fragile costruzione sopra la ribollente anarchia che poco per volta sta facendo crollare tutto il sistema culturale delle nostre convenzioni. Ecco perché ciascuna delle parti del libro termina con l’irruzione di elementi di nonsense, di anarchia, di anomalia, che si insinuano attraverso le crepe della forma e sommergono i poveri protagonisti, adatti soltanto a un’apparenza di normalità”.
La forma, dunque. Quella che Vladimir Nabokov è contrario a distinguere rispetto al contenuto, quella che Régis Jauffret usa per ispezionare le radici dell’odio e radiografare il presente. Partire dalla forma permette di abbandonare la rassicurante convinzione di etichettare un’opera letteraria sulla base dei temi affrontati, della sua presunta attualità o della sua collocazione sociale e politica. Per muoversi all’interno di un romanzo occorre, come suggerisce Nabokov, concepirne la realtà come attinente esclusivamente al mondo costruito al suo interno. Solo basandosi sull’armonia con cui una figura o un evento si inseriscono nella storia, e non su una supposta coerenza che ne deforma l’esperienza, si può godere di quella “verità artistica”.
Riconoscere al contempo il genio individuale dell’autore e l’architettura dei testi, come insegna Nabokov, si rivela la condizione necessaria per affrontare qualsiasi opera di Régis Jauffret.
Tra le voci letterarie francesi contemporanee di maggior rilievo, arriva ai lettori italiani grazie all’intuizione di Edizioni Clichy di pubblicarne i romanzi e i racconti con un ordine diverso rispetto alla prima uscita francese per tracciare un’evoluzione che da Il banchiere, Dark Paris Blues, e Cannibali arriva a Microfictions. È quest’ultima opera-monstre – due volumi con cinquecento racconti ciascuno, rigorosamente di due pagine –  a sancirne il successo internazionale: racchiude storie inesorabilmente legate alla ferocia e alla violenza con il provocatorio sottotitolo “romanzo” inteso come invito a concepire quell’insieme di tetre istantanee come un’unica grande storia dell’essere umano.

Si torna oggi a due opere uscite originariamente nei primi anni Duemila in Francia pubblicate ora in un unico volume: il romanzo Autobiografia (trad. Tommaso Gurrieri) e i racconti Giochi di spiaggia (trad. Giuseppe Girimonti Greco, Maria Laura Vanorio). Riannodare i fili della sua prima produzione permette di scorgere immagini e motivi che anticiparono la personale e inconfondibile rappresentazione del mondo come groviglio inestricabile. Affine a Gombrowicz nel portare in scena lo scontro tra l’individuo e il suo tempo, vicino a Gustave Flaubert per la capacità di dare forma a un mondo sordido dominato dall’inganno, associato a Louis-Ferdinand Céline per l’effetto di leggerezza con cui sovrasta la tragedia e la commedia, Régis Jauffret si rivela attratto e disgustato dalla finitezza dell’umano, dai tentativi vani di contrastare un inesorabile dissolvimento. Quel terrore del non esistere, “la paura del non essere, l’ansia del non vivere, il timore della non realtà”, affrontato dal più significativo scrittore polacco del Novecento, trova in Jauffret una traduzione farsesca, la raffigurazione di una lugubre canzonatura della miseria umana necessaria per rivelare la natura ridicola dell’individuo, l’inadeguatezza del vivere. Aspetti affrontati in particolar modo in Autobiografia, opera centrale nell’evoluzione letteraria di Jauffret, traduzione parossistica della matrice corrotta dell’umano.
Il protagonista senza nome è un giovane che si affaccia all’età adulta perpetuando efferatezze, opportunismi di ogni genere nel vivere di espedienti per strada o nell’occupare case altrui dopo averne sedotto le proprietarie. Il suo distacco traduce una leggerezza che irride il dramma. Spietato, cinico, privo di morale, perverso, è un antieroe votato alla distruzione. Attorno a quel “burattino dai modi volgari” si susseguono amanti non vedenti sfruttate e abbandonate, bambini rapinatori, minori che si prostituiscono, madri che attendono la morte per inedia.
La cronaca della propria esistenza genera nel protagonista una sottile malia nel ripercorrere le fasi di coscienza dalla prima giovinezza alla senilità, nel tracciare un distorto patrimonio emotivo. Il suo piano di annientamento dell’umano trova nella dimensione sessuale lo strumento primario per dare forma a una deviazione radicata. La serialità con cui l’uomo passerà da una donna all’altra dopo averne distrutto l’esistenza non è riducibile a un piacere perverso, sadico, o al desiderio di rivalsa nei confronti di una società che lo rifiuta. È l’esito di un’assenza di volontà, di un’inerzia che sopprime ogni impulso e che disperde ogni traccia di rimorso o compassione nell’infliggere dolore al prossimo, per risolversi nella constatazione della propria irrisolvibile solitudine, “il più mostruoso degli orgasmi”.

 

Non ero sicuro di aver mai amato un essere vivente, e nemmeno di aver provato affetto per un oggetto. Eppure, al di là del sesso, avevo potuto beneficiare della simpatia di partner di cui avevo dimenticato perfino il colore degli occhi.

L’unico reale moto interiore è generato dalla sotterranea tensione alla morte, dalla brama della fine che solletica un immaginario folle nell’esasperazione del piacere e del dolore. Un’angoscia di vivere nutrita dalle continue mistificazioni del vero, visioni che traducono nell’assurdo un’esasperazione del reale.

 

Avevo provato la beatitudine che procura l’emissione dello sperma, quella di ingoiare il cibo, le bevande, e il piacere di portare a termine la digestione. Mi ero preso la briga di aprire gli occhi ogni mattina, avevo respirato giorno e notte. La morte era lì, la vedevo, raggio di polvere nel fascio luminoso della lampada. Sentivo già i vermi divorare la mia carcassa e riprodursi alla velocità della luce. Sembrava che la mia memoria la precedesse nel suo compito, autodistruggendosi, divorando i ricordi con la noncuranza e la rapidità di una ragazza che mangia popcorn al cinema.

 

Il romanzo dello sradicamento non assegna alcuna collocazione spaziale o temporale agli eventi narrati: il protagonista e le donne che incontrerà sono senza nome, i luoghi che attraverserà sono sconosciuti, le descrizioni dei posti visitati potrebbero essere sovrapponibili a innumerevoli destinazioni. La natura anonima dell’allestimento urbano traduce lo smarrimento dell’individuo, l’estraneità a un mondo ignoto: fa da sfondo alla costellazione di personaggi che si susseguono sulla pagina e che concorrono a costruire un mondo privo di valori e incapace di progettare utopie.
Che si tratti del dettaglio di una violenza o della caratterizzazione di una figura, la prosa acuminata di Jauffret riduce al minimo ogni descrizione fisica. Con un periodare breve e lineare favorito dall’uso dell’imperfetto e del passato remoto per assegnare continuità al tempo del romanzo e scandire ripetizioni pur nelle variazioni di personaggi e spazi, inserisce giochi di parole e sottili contrasti, attriti, dissonanze, per comporre una tetra sinfonia, un elogio della vacuità del vivere.
Memorabili i passaggi dedicati alla visita alla madre, ormai irriconoscibile e ripugnante, descritta a partire dai suoi tentativi vani di morire ingerendo insetticida, tra i ripiani vuoti della dispensa e il frigo spento, con il tetto rotto e il bagno ricoperto di escrementi di piccioni.

 

Dissi a mia madre di non contare su di me per farla fuori, l’avevo persa di vista da troppo tempo. Fece un sorrisetto, come se rimpiangesse che non ci fosse più tra noi l’intimità sufficiente perché io accettassi di ucciderla. Le rimproverai di non essersi ammazzata quando ancora aveva l’energia sufficiente.

 

Nell’osservare l’oscuro campionario umano composto dall’autore, sono riconoscibili figure che incarnano la ferocia della sopravvivenza, condizione che annulla ogni pietà verso il prossimo. Con le finzioni composte in Giochi di spiaggia Jauffret si interroga sugli indifferenti che avanzano nell’esistenza privi di ambizioni e senza correre rischi, definiti “passeggeri clandestini delle famiglie, delle coppie” che “si rintanano nel fondo di sé stessi come in una stiva”.
Forgia figure ai margini, esiliati, fratelli che condividono un’intimità sessuale, coppie che nutrono la routine, uomini indolenti, pagliacci dalle facce disperate. La sua personale visione della realtà sensibile è soggetta a continui rimaneggiamenti: il paradosso, l’assurdo e il caricaturale ammantano esistenze ordinarie, demoliscono la società tradizionale. La scrittura irriverente e blasfema colloca la figura dello scrittore all’apice di un distorto sistema valoriale, raffigurandone la natura beffarda, aspetto su cui tornerà a più riprese nelle Microfictions.

 

Sono uno scrittore. La mia scrittura è mediocre. Eppure sono degno d’ammirazione perché scrivo con l’ostinazione folle del roditore. […] La mia mancanza di talento non ha rappresentato un ostacolo.

 

Definisce la scrittura una disgrazia desiderata con ardore, e la letteratura come un organismo vivo che si deteriora col tempo, e che “dietro di sé non lascia né cadaveri né archivi”.
Il sistema editoriale non è che una delle realtà demolite dall’autore. Un pretesto tra gli altri per popolare di volti le sue storie, redigere cronache di ordinarie distruzioni consumate tra pareti domestiche che esibiscono fallimenti, in un night, in un parco pubblico, in una stanza da letto testimone della fine di un idillio, in uno squallido appartamento con una tenda che divide in parti uguali due spazi e due vite.
Le visioni e i miraggi composti in Autobiografia con Giochi di spiaggia immortalano il nitore agghiacciante del quotidiano. Jauffret porta in scena la miseria dell’individuo attraverso una personificazione del male che allaga ogni cosa, rende sublime del degrado, illumina con slanci lirici improvvisi un dramma esistenziale privo di redenzione.

 

Ricordo con voluttà quell’intervallo di abbandono, di sregolatezza, di libertà. Ho volato, ho planato, mi sono schiantato. Non sono salito molto in alto, ma ho toccato il mio apogeo.

Ora mi trattengo, mi freno. Ho paura di me.

Lejos. Sedici racconti dal Perù

Di Anna Lo Piano

Raccontare l’America Latina attraverso la voce dei suoi cuentistas, questa l’intuizione della Casa editrice Gran Vía, che dopo Cuba, Cile, Bolivia e Colombia, pubblica un volume dedicato al Perù.  All’interno, sedici racconti di scrittori e scrittrici (in una buona percentuale) della generazione nata tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’80. Stupisce la diversità di stili, la sperimentazione, la capacità di giocare con i piani temporali e con i generi, così che pur nella capacità affabulatoria, nella creazione di personaggi irresistibili, si ha la sensazione di essere trascinati su un piano diverso, simbolico, anche quando si parla di avvenimenti quotidiani.
Ciò che accomuna queste narrazioni è espresso dal titolo: Lejos, a cura di Maria Cristina Secci.  Lontani perché emigrati o figli di immigrati, questi autori sono discendenti di famiglie dalle origini multiple, confusi in lingue e paesaggi stranieri.  Questa non è però una letteratura di immigrazione, quanto un modo di raccontare che porta le tracce di un trauma, di una separazione forzata. La lontananza è il risultato di qualcosa di strappato, rimosso, che non è più possibile ricucire. Un esilio sperimentato anche sopravvivendo alle divisioni interne del proprio paese, alla rimozione del passato storico, alla perdita del legame con la natura e la tradizione andina. C’è in ognuno di questi racconti un elemento di violenza.  È il racconto della campagna di sterilizzazione forzata sotto il presidente Fujimori attraverso gli occhi di una ginecologa che opera le donne indie, in La morte aveva le nostre dita di Jennifer Thorndike. È la pervasività della presenza militare, il loro apparire all’improvviso, inaspettati, nelle immagini di un televisore, interrompendo la dimensione domestica. Gli anni del conflitto tra Sendero Luminoso e il governo militare hanno lasciato una traccia profonda nell’immaginario di questi autori, che va al di là dell’elemento di denuncia. Anche il racconto di Thorndike, il più simile a un reportage, si muove in una dimensione allucinata, interiore, tanto da poter apparire, non conoscendo il contesto, come un racconto distopico. E d’altronde non è la distopia un genere che mette in evidenza i livelli più nascosti della realtà?
Ciascun personaggio è in lotta con il mondo, ne subisce l’oppressione, la sottile tortura, la forza fisica. Se Rocky Balboa porta sul collo una cicatrice (Una foto con Rocky Balboa, di Francisco Angeles) la protagonista di Acquario di Susanne Noltenius combatte una guerra quotidiana per restare a galla in un mondo maschile, portando in salvo figli, lavoro e se stessa.
Ma c’è poi una violenza più sottile e subdola, che ha a che fare con la perdita della memoria, o meglio con l’imposizione di una memoria altra sulla propria.

 

L’Alleanza possiede il miglior esercito del mondo perché è capace di aggiustare la mente. Perché un soldato senza memoria è il mioglior soldato che possa esistere. Non c’è niente da rivedere. Lei ha svolto un lavoro straordinario.
(Costellazione nostalgia,
di Juan Manuel Robles)

 

 K, il generale del comando congiunto, tortura il matematico Herford per convincerlo che la sua teoria dei numeri è frutto della sua immaginazione. (Herford, di Gunter Silva Passuni). Ma per Herford i numeri sono tutto. Sono la sua lingua, il codice attraverso il quale concepisce la realtà. Senza quello tutto si sgretola, non c’è più orientamento. In Costellazione nostalgia, un complicato esperimento scientifico mira a rimuovere i ricordi traumatici delle violenze inferte dalla memoria di alcuni ex militari. I ricordi non vengono però tolti del tutto, solo sgretolati, atomizzati. Rimangono tracce, visioni, impossibili da ricollocare in uno schema di senso, che vanno a innestarsi tra le memorie felici come il cordolo di una perenne cesura.
Se in questi racconti la narrazione sconfina quasi nel genere della science-fiction, il trauma della memoria ferita ritorna anche in ambientazioni più quotidiane e realistiche.

 

“Odio quando fa così”, dice la protagonista di Dobsonfly di Gabriela Wiener, parlando della madre che si nasconde. Poi allunga il braccio e si rallegra che il mondo sia ancora lì, che la madre non sia riuscita a farlo scomparire. Perché questo è il potere degli altri, anche di quelli che ci dovrebbero amare: sovrapporre i loro ricordi, la loro visione, alla nostra. Il racconto che apre la raccolta, uno dei più belli, a mio avviso, è giocato tutto sulla scomposizione della linea temporale degli eventi che hanno segnato la protagonista e la sua famiglia.

Mia madre porta sempre qualcosa la domenica. Il passato fa ritorno in veste di episodi. Lei si ostina nell’imprimermi nuovi ricordi, i suoi.

(Tutto quello che ho lo porto con me, di Katia Adaui)

 

Ciò che davvero è accaduto va ricontrattato nella nostra memoria con la versione degli altri, per questo la narrazione non riesce a seguire una trama regolare ma si scompone in frammenti dove il prima e il dopo si susseguono secondo un ordine apparentemente caotico. Per chi è stato separato dalla propria terra, dal proprio passato, l’incubo peggiore è dunque quello della perdita di memoria, che è anche perdita dell’identità.
Essere stranieri vuol dire essere esposti a un’incomprensione continua che costringe a una battaglia senza tregua contro la lingua, contro le piccole abitudini rivelatrici.
Vuol dire anche vivere nel pericolo costante di rimanere in quel limbo da cui non si può né avanzare né tornare indietro, in cui si smette di appartenere a qualcosa e si diventa emarginati.

 

«Quell’uomo lo ha vissuto, mademoiselle, e secondo lui se non torni prima dei cinque anni è finita. Non potrai più tornare. E se lo fai, ti sentirai sempre un estraneo».

«Diventi un emarginato» avevo detto.

«Esatto. Una persona scissa, duale, divisa. Dr Jekyll e Mr Hyde»

(Un viaggio al Great Glen, di Nataly Villena Vega)

 

Per non svanire nell’oblio un peruviano a Phiiladelfia si traveste da Ricky Balboa, sperando che qualche giornalista connazionale possa riportarlo in patria raccontandone la storia.
Un uomo ripensa da adulto all’estate del ‘93, in cui la violenza militare ha spazzato via l’innocenza di un’estate spensierata e della sua giovinezza. Nella nostalgia di un amore spera che il ricordo di Penelope (nome, forse, non scelto a caso) possa ricucire i lembi della sua esistenza.

 

Penso a Penélope e alla vita dopo Penélope, e la malinconia mi secca la bocca e mi
ammutolisce. Scrivo da drogato e da drogato credo di capire che è a partire da qui, da questo presente oscillante, che l’atto di ricordare può diventare ostile e ingannevole.  
(Non ho mai saputo come odiarla,
di Diego Trelles Paz)

 

In questo caso la ricomposizione è interrotta dalla realtà. La donna che ha accanto, che “rompe l’incantesimo” e lo riporta alla realtà del piccolo appartamento di Brooklyn, è “l’altra”: Mercedes.
Se si sfugge alla realtà – ma qual è poi la realtà vera, se questa è messa continuamente in discussione – l’alternativa è seguire l’istinto. Proteggere un uccellino a costo di apparire folle, diversa (Uccellino, Claudia Udoa Donoso), o affidarsi a un essere ancestrale, guardiano della natura, quel Chuyachaqui che assume le sembianze di un essere amico e ti trascina nella selva. (La selva, di Santiago Roncagliolo) Ma d’altronde era lì che il protagonista si era rifugiato per entrare in “connessione con le posizioni più recondite dell’impresa”, nel tentativo di dimenticare la sua fidanzata. Ovvero, come sanno tutti quelli che cercando di dimenticare un dolore, per ricordarla meglio.

I racconti delle case

di Debora Lambruschini

Cos’è una casa?

Una geografia da cui ci siamo discosti, certo, ma che non smette di esistere, fantasma, e quella stretta inconfessabile che ci punge e che continua a farci male quando seguitiamo a immaginarla.

Il mio amore senza casa. L’ombra del mio amore senza casa.

(“Il mio amore senza casa”, p. 22)

 

La casa del prete di campagna e quella al limitare di ogni cosa della misteriosa Zelinda, che porta con sé un segreto e una domanda sospesa lungo tutto l’arco della narrazione, in una crescente tensione; la dimora di famiglia, custode di un passato ormai perduto, che una stanza dopo l’altra estromette i suoi abitanti; le camere abitate di inquietudini, assenze e oggetti da catalogare minuziosamente, una realtà perturbante scossa da un dettaglio, un’increspatura; la stanza, opprimente, quasi una prigione, per sottomettere l’io femminile; l’antica dimora, custode di segreti e colpe, protezione e gabbia dorata in ugual misura, la narrazione claustrofobica di una scrittrice abituata a muoversi fra stanze antiche, ricolme di oggetti, un isolamento più o meno volontario dal mondo fuori; stanze abitate da oscure presenze, forse suggestioni o forse davvero espressioni del sovrannaturale, che si stringono sempre più intorno ai protagonisti, ne rivelano vizi e debolezze, paure profonde; la casa, come rifugio loro malgrado, da un pericolo incombente, eppure proprio fra tali mura potrebbe celarsi il pericolo; la claustrofobia dell’ambiente domestico sempre più disturbante, il senso di minaccia impossibile da identificare chiaramente e, per questo, ancor più inquietante.
Avrete riconosciuto molte delle “citazioni” sopra, brevi cenni a opere letterarie diverse: Casa d’altri di Silvio D’Arzo, Casa occupata di Cortàzar, le Sette case vuote di Samanta Schweblin, la soffitta della moglie pazza di Mr Rochester e la stanza circondata dalla carta da parati gialla di C. P. Gilman, le dimore sfondo e protagonista di molte storie di Shirley Jakcson, l’inafferrabile di Amparo Dàvila. Sono solo alcuni esempi di un filone letterario mai esaurito, che affonda le radici nella tradizione gotica, nel romanticismo, attraversa la stagione vittoriana e le sperimentazioni brevi della short story moderna, malleabile alle suggestioni di ogni autore, arrivando fino al contemporaneo con il proprio carico di urgenze, mondi narrativi, certo rinnovandosi ogni volta ma pur mantenendo saldo il contatto con la tradizione che l’ha preceduto. In tutti gli esempi citati, ognuno con le proprie peculiarità, la casa non è soltanto luogo privilegiato – quando non esclusivo – della narrazione, ma protagonista quanto i personaggi che ne abitano le stanze, partecipe del dramma e custode di simboli, rimandi, significati. Un topos letterario vero e proprio, che come tale ha innumerevoli esempi e sfumature, tanto è vasta e variegata la materia. Stanze che accolgono e proteggono, stanze che alimentano l’incubo e fungono da prigione e tormento. Stanze che, spesso, raccontano moltissimo di chi le abita e attraversa.
Le stanze e questa sorta di specchiamento, sono al centro anche dell’ultima raccolta di racconti di Piera Ventre, pubblicata da Neri Pozza, ulteriore esempio delle infinite possibilità di questo topos letterario. Le stanze del tempo sono luoghi attraverso cui tentare di penetrare il mistero di chi li abita, cercando fra quegli oggetti che le ingombrano o, al contrario, nelle camere spoglie, la natura intima dei loro abitanti; stanze, giardini, dimore perdute o solo sognate, custodi di identità, di vite e di storie che non possiamo conoscere davvero del tutto, ma solo intuire, talvolta sbagliando.

Dice Piera Ventre:

 

È proprio il rapporto che sviluppiamo con quanto ci circonda ad attirarmi. Se ci si pensa, ogni casa è piena di oggetti, mobili, suppellettili coi quali stipuliamo una sorta di patto emotivo, e su di essi spesso riversiamo sentimenti ed emozioni personali. Perfino una casa vuota, spoglia, minimale può fornirci delle informazioni preziose su coloro che la abitano. Eppure esiste anche un correlativo ambiguo con le cose che possono essere conforto, ma talvolta anche zavorra. Così come le stesse case che da rifugio possono trasformarsi in trappole. L’ambiguità è quasi sempre nel limine, l’esigua linea di contatto che fa da tramite tra due opposti.

 

In una narrazione tesa fra racconto e memoir, Ventre costruisce una raccolta di racconti coesa, la voce narrante ben caratterizzata, densa, elegante, che talvolta fa richiama dal passato termini quasi desueti ma che ben si collocano nel narrato; come di fronte a un vecchio album di fotografie, il racconto si intreccia saldamente a narrazioni in cui il tempo e i luoghi hanno contorni sfocati e solo ciò che l’obiettivo inquadra è importante per la storia, la rende riconoscibile e viva, strappandola alla memoria, all’immaginazione. La prima persona, insieme al tema della casa, è il fil rouge che lega tali racconti, una scelta che, come sottolinea Ventre, ha implicazioni diverse:

 

La prima persona, nel lettore, innesca sempre, e inesorabilmente, l’impressione che il narratore sia l’autore. Che tutto quanto si racconti, insomma, sia un vissuto reale. Ho voluto giocare anche con questo, con l’ambiguità dell’autofiction. In verità, da autrice, amo moltissimo la prima persona poiché mi permette un meccanismo identificativo estremamente potente. Per quanto riguarda lo stile sono convinta che una voce, per essere letteraria, debba essere distinguibile, autonoma. Lavoro davvero tanto sul testo, fino a quando mi sembra che quella voce sia proprio la mia, senza compromessi.

 

Ogni narrazione è attraversata da numerose domande, che inizialmente paiono restare senza risposta; ma basta proseguire con la lettura – a volte anche dei racconti successivi – perché queste in un certo senso si svelino e se non possiamo trovare risposta piena (dopotutto non è il compito dell’autore) vi leggiamo i numerosi indizi lasciati dalle storie ed è in tale direzione che si intreccia il dialogo fra autore e lettore in questi racconti che sembrano mirare a un piccolo momento di verità. Ogni racconto lo fa con le sue specificità, eppure tutti insieme paiono concorrere alla delineazione di un motivo che nel mistero dell’identità e della natura dei protagonisti cerca in quelle stanze, in quegli oggetti, una risposta:

 

[…] a me una casa è sempre sembrata un corpo, una sorta di estensione di noi stessi

e, al contempo, un’espansione.

(“Come la rondine”, p. 169)

 

Piccoli squarci sulle vite altre, occorrenze, svolte improvvise dalle conseguenze ora salvifiche ora tragiche, che innestano altre domande, altri spazi della narrazione. Scatole cinesi, storie che contengono altre storie – talvolta espresse sulla pagina, altre sommerse , ma anche molti sentimenti, riflessioni. E dentro quelle stanze sono soprattutto i rapporti umani ad attirare lo sguardo dell’autore e, di conseguenza, del lettore, di cui Ventre tratteggia forme diverse di connessione umana: i rapporti complessi fra vicini di casa, la ritrosia e l’invadenza, il calore che consola per la lontananza dalla famiglia, l’estraneità che nulla scalfisce in taluni rapporti, le crepe di una relazione, il passato e le possibilità del futuro, le lontananze e le attese.
E se le case hanno contorni ben definiti, anche quando vivono solo nel ricordo o nell’immaginazione, il luogo e il tempo assumono, invece, contorni più evanescenti, non hanno nome, solo riferimenti più o meno precisi perché sono appunto le stanze e gli oggetti a raccontare moltissimo dei personaggi che le abitano. E a proposito del tempo all’interno della narrazione, l’autrice mi dice:

 

le narrazioni abbracciano periodi differenti della vita dell’io narrante, una donna di cui poco sappiamo, che si pone domande sulle case, quelle nelle quali ha vissuto e quelle magari soltanto visitate, e dunque sul modo in cui ciascuno vive il suo quotidiano. Mi interessava, insomma, esplorare il concetto dell’abitare in senso ampio: quanta parte di noi finisce nelle stanze e quanta di quella delle stanze finisce in noi.

 
Ecco, quest’ultima considerazione racchiude a mio avviso l’anima de Le stanze del tempo e, in certa misura, buona parte delle narrazioni sulla casa: che cosa e quanto di noi entra in certe stanze e quanto di esse si posa su di noi, mentre le abitiamo o le visitiamo nel ricordo. La casa ingombra di oggetti e collezioni di “Eudora, lascia perdere” è essenza stessa della sua protagonista, custode di storie che è troppo tardi per raccontare e che andranno disperse, perdute, come certe stanze buie e fuori dal tempo dei racconti di Jackson sono custodi di segreti e verità indicibili, riparo ed esclusione dal mondo. Qualcosa di sinistro, talvolta, si aggira anche fra le stanze di Ventre, solo per un attimo, ma basta ad aprire una crepa dentro chi le abita, a mettere in moto una decisione.
Intimità, memoria, nostalgia e lontananza, ritorni e attese, le pieghe del tempo e i simboli della narrazione: ci sono molti mondi dentro questi racconti, molte domande che restano sospese. Molti “indizi”, come li definiva Ventre, disseminati in quelle stanze. Molta vita, soprattutto. Nulla importa se reale o immaginaria.

Tutti i racconti, di Javier Marías




di Giordana Restifo

Il tempo è l’unica risorsa che abbiamo per poterci dire vivi, questi ultimi anni ce ne hanno dato conferma. Ad alcuni è sembrato che ci sia stato sottratto, ad altri che si sia cristallizzato. Per alcuni la locuzione hic et nunc ha perso di significato o ne ha acquistato uno nuovo: hereafter (da adesso in avanti, più avanti, in seguito, in futuro, nell’aldilà –tratto dal dizionario il Ragazzini 2021 Zanichelli). Javier Marías ci aveva indotto a una riflessione sul valore del tempo già dieci anni fa con il suo Gli innamoramenti (Einaudi, 2012), utilizzando proprio l’avverbio inglese hereafter.

È tornato a farcelo presente con Tutti i racconti (con le traduzioni di Valerio Nardoni, Glauco Felici, Maria Nicola, Paola Tomasinelli), una raccolta pubblicata dalla casa editrice Einaudi nel 2020, della quale è appena uscita la versione tascabile. Sono trenta i racconti che compongono il volume, suddivisi secondo il personale giudizio dell’autore madrileno in “accettati” («quelli di cui ancora non mi vergogno») e “accettabili” («quelli per i quali un po’ di vergogna la provo, anche se non troppa»); ventisei erano stati pubblicati in precedenza in Mentre le donne dormono (uscito in Spagna nel 1990, poi ampliato nel 2000, e in Italia nel 2014) e in Quand’ero mortale (uscito in Spagna nel 1996 e in Italia nel 2001), gli altri quattro, pubblicati anch’essi tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, diventati difficili da reperire, appaiono qui riveduti e, in certi casi, ampliati rispetto agli originali. Rimane fuori dalla raccolta una terza categoria, gli “inaccettabili” («si tratta per lo più di lavori preistorici, ovvero scritti o pubblicati intorno al 1968»), con la certezza, da parte dell’autore, che «è meglio, ve lo assicuro, che nessuno di questi testi riveda mai la luce (non tutti la videro)».

La sua cifra è inconfondibile anche nella forma breve: enigmi, tradimenti, trame e situazioni oscure, inganni e menzogne, richiami al passato e alla nera storia della Spagna.
Leggendo le sue opere aleggia sempre una sensazione plumbea, come se da un momento all’altro la situazione potesse ulteriormente peggiorare; non sempre, però, il lettore scoprirà cosa succederà, perché, come spesso accade anche nei suoi romanzi, il finale non è chiaro, definitivo, la storia non si conclude (si vedano, tra gli altri, i racconti La canzone di Lord Rendall, Una notte d’amore, Un immenso favore e In viaggio di nozze, anche se, per quanto riguarda quest’ultimo, una soluzione potrebbe trovarsi nelle pagine del romanzo Un cuore così bianco – Einaudi, 1999).


Eros e Thanatos

 

«Wise men say only fools rush in
But I can’t help falling in love with you
Shall I say Would it be a sin?
If I can’t help falling in love with you

Like a river flows surely to the sea
Darling so it goes
Some things are meant to be
Take my hand, take my whole life too
For I can’t help falling in love with you
».


Prendi la mia mano, prendi anche la mia vita intera
recita una delle canzoni d’amore più famose e cult, che ha fatto battere il cuore di donne e di uomini a tutte le latitudini. L’amore è davvero quel sentimento tenero, da sogno, che cantava il Re del rock? Non poter fare a meno della persona amata e, quindi, donarvisi completamente?
Lungi dal voler essere questo un trattato psicologico, sociologico o filosofico sull’amore, d’altronde di romanticismo analizzato, sviscerato, studiato, ne è piena la storia della letteratura e della musica. Anche Erich Fromm, per citarne uno, ha provato a indirizzarci. Con il suo L’arte di amare (Il Saggiatore, 1975), l’autore tedesco instilla più di un dubbio sull’innamoramento e sugli innamorati che «scambiano l’intensità dell’infatuazione, il folle amore che li lega, per la prova dell’intensità del loro sentimento, mentre potrebbe solo provare l’intensità della loro solitudine». Ben prima di Fromm, un poeta mondano che risponde al nome di Ovidio, ci ha lasciato un prontuario di tattiche di corteggiamento e seduzione (L’arte di amare, BUR, 2004), dal quale emergono, oltre a un certo maschilismo segno dei tempi (passati o presenti?), velati consigli erotici, attitudini e propensioni alla promiscuità (per le quali venne additato come peccatore e maestro di peccato e, successivamente, mandato in esilio). Nulla a che vedere con gli amori di Javier Marías, anche se qualche punto in comune con il poeta dal sesso in testa non v’è dubbio che ci sia: le loro opere sono pregne di una certa dose di cinismo (un esempio nella raccolta di racconti sono Meno scrupoli o Un senso di cameratismo); riconoscono che la sensualità dovrebbe essere allusiva, utilizzare il linguaggio dei gesti, degli sguardi (il romanzo Così ha inizio il male, Einaudi, 2015), invece di essere esplicita; infine, entrambi hanno intuito che in amore, talvolta, è il sadismo a farla da padrone e, così, ci si ritrova a provare piacere per il dolore dell’amante.
Si potrebbero definire degli acuti interpreti delle debolezze umane.
I personaggi dell’autore spagnolo, come nei romanzi anche nei racconti, sono mossi sovente da passioni disdicevoli, da invidie e vendette (persino autolesioniste come in Gualta), da un erotismo che facilmente sconfina nel feticismo, da tradimenti e labili lealtà (Alla corte del re Jorges), da ossessioni e manie (L’eredità italiana). Amori più umani, quindi, più verosimili rispetto a quelli romantici di Elvis Presley (il paragone è sorto leggendo il racconto Malanimo – un omaggio da parte di Marías per il cantante – comparso per la prima volta nel 1996, successivamente in edizione limitata nel 1998 per i tipi di Plaza y Janés, diventato da parecchi anni introvabile e ora riproposto nella raccolta). Anche se, a dire il vero, la melodia di Can’t help falling in love è basata su un’antica romanza del XVIII secolo intitolata Plaisir d’amour, il cui testo originale ripete senza tregua per gli amanti: «Plaisir d’amour ne dure qu’un moment, chagrin d’amour dure toute la vie» (La gioia dell’amore non dura che un momento, la pena d’amore dura tutta la vita – poiché l’ingrate Sylvie ha lasciato l’innamorato per un altro uomo).
 L’altro grande macro tema ricorrente nelle opere di Marías è quello della morte che convive con quello dell’amore - vanno di pari passo più che in contrasto. Oltre che per morte naturale (come nel triste racconto Quello che disse il maggiordomo o nel romanzo Domani nella battaglia pensa a me), i personaggi muoiono uccisi da un amore estremo (nel racconto Sangue di lancia) o talmente interessato da superare il limite tra pensare di compiere un omicidio e compierlo (nei racconti Quand’ero mortale e Il medico di notte o nel romanzo Gli innamoramenti). C’è anche la morte ordita da personaggi insospettabili e che pensano di poter «sapere nientemeno che l’ordine della morte» (Mentre le donne dormono). Un evergreen che si accompagna a quello dell’esistenza di fantasmi. Presenze che tornano dal passato per sconvolgere la vita di chi li percepisce (Le dimissioni di Santiesteban, Non più amori o Saranno nostalgie – questi ultimi due sono essenzialmente lo stesso racconto riadattato), che si sentono vive pur essendo riconosciute come morte:

 

Pensavo, vedevo, sentivo, dunque esistevo, dunque vivevo, e il giorno dopo mi avrebbero sepolto. Lottai per muovermi, ma non potei. Allora mi resi conto che ero morto, che dopo la morte non c’era nulla, e l’unica cosa che mi restava era di restare chiuso nella mia tomba per sempre, senza respirare, però vivendo; senza occhi,
però vedendo; senza orecchie, però sentendo
.
(da La vita e la morte di Marcelino Iturriaga, scritto dall’autore a quattordici anni, nel 1965).

 

 

Tutto torna (a Shakespeare)

In molti di questi racconti tornano (che non siano mai andati via?) i personaggi conosciuti nei romanzi di Javier Marías. Amati, detestati, o non considerati, sono presenti e ci dimostrano come nulla sia cambiato nel corso del tempo. C’è Luisa, colei che resta viva, c’è quel matto di Custardoy, che vive di eccessi e di arte (quella di arrangiarsi), e poi c’è lui, lo sfacciato Ruibérriz de Torres, intrallazzino di professione con una volontà da truffatore. Tutti loro, certo insieme ad altri, prendono parte alla piece di Marías e, come nelle opere di Shakespeare, tanto caro all’autore spagnolo, si muovono districandosi tra amori incompresi, non corrisposti, attenuati, sesso che «è il posto più sicuro» perché «si controlla l’altro, lo si tiene immobile e in salvo» (dal racconto Meno scrupoli), suicidi, morti violente, imbrogli e scoperte.
In Shakespeare e in Marías, Eros, dio dell’amore fisico e del desiderio, e Thanatos, figlio della Notte e dell’Erebo e fratello del Sonno, si mescolano fino a creare un tutt’uno, nel quale sono imprescindibili il dolore, l’inquietudine, le perplessità, le apparizioni in forma di presenze spettrali, le convinzioni del passato. Da questo amalgama scaturisce un senso di turbamento che costringe il lettore, o lo spettatore, a interrogarsi sulle primordiali questioni esistenziali. E quando, se non ora?
Non è un caso se nell’incipit di questo articolo è presente quell’avverbio usato da Shakespeare in una delle sue tragedie più note per indicare la reazione che provò Macbeth all’annuncio della morte di sua moglie, poi ripreso dall’autore spagnolo.
Ci interrogheremo, rifletteremo, ci struggeremo. E quando, se non ora? Hereafter.





Le gemme letterarie di Sarah Orne Jewett: un ritratto

di Debora Lambruschini

Le piccole comunità. La vita quotidiana. Il linguaggio vernacolare. La dignità delle persone. Il rapporto intimo con la natura e la ciclicità delle cose. La rappresentazione non stereotipata del femminile. Il mondo letterario che si dispiega nei racconti di Sarah Orne Jewett fa appiglio su molte delle mie personali “ossessioni” e, una storia dopo l’altra, colpisce il dialogo che intercorre fra queste pagine e moltissime delle narrazioni dell’epoca, da Mark Twain a Henry James o, ancora, Emily Dickinson e Louise May Alcott, per restare al solo nord America fra Otto e Novecento. Eppure di questa scrittrice molto apprezzata dai signori di cui sopra e dal pubblico suo contemporaneo, il lettore di oggi non ha sentito molto parlare, non fuori dai circuiti accademici almeno, schiacciata dal peso del tempo e di una tradizione che ha fagocitato tutto il resto. Da un paio d’anni tuttavia, l’editore Mattioli 1885 ha avviato un attento lavoro di recupero dell’opera di Jewett, di cui ha pubblicato due piccole raccolte di racconti: Il Natale di Betty Leicester e La vigilia di Natale di Mrs Parkins, e il suo romanzo più celebre (Deephaven, che arriverà in libreria proprio a inizio febbraio): ora, non lasciamoci fuorviare dal richiamo al Natale con cui le due raccolte sono state proposte, perché le storie in esse contenute sono piccole gemme che poco o nulla hanno a che fare con le strenne natalizie che affollano gli scaffali nel mese di dicembre. Certo, alcuni racconti sono ambientati nel periodo natalizio, ma la loro valenza letteraria va oltre i confini temporali o commerciali. E basta una manciata di pagine per rendersi conto che, dietro l’apparente semplicità delle storie, si rivela una più complessa stratificazione e conoscenza dell’indole umana e dell’ambiente da cui scaturiscono, il New England in cui ha l’autrice trascorso tutta l’esistenza (nacque a South Berwick nel 1849 e vi morì nel 1909), la vita di provincia e la quotidianità dei piccoli villaggi di pescatori e contadini che influenzarono tanto profondamente la sua scrittura.

 

Non si sente mai parlare di Brookton quando si è lontani da lì, eppure, nonostante tutto, anche laggiù la vita è importante e piena di emozioni come lo è ovunque; ed è come ogni cittadina, un mondo in miniatura, con gente importante e meno importante, gente cattiva e brava gente,
gelosie e rivalità, gentilezza e paziente eroismo.
(“Una cena a tarda ora”, La viglia di Natale di Mrs Parkins, p. 74)

Luoghi che Jewett imparò a conoscere viaggiando al seguito del padre medico e per mezzo di lunghissime passeggiate nella natura nel tentativo di alleviare i dolori causati dall’artrite reumatoide che l’affisse fin dalla giovane età. Se lo sguardo della scrittrice è tutto rivolto alle comunità di provincia come nella più solida tradizione dell’American Literary Regionalism cui la sua opera si inserisce, Jewett conobbe molto bene anche il fermento culturale della città e a Boston frequentò con successo i principali circoli letterari, stringendo amicizie importanti che l’avrebbero accompagnata tutta la vita. Ma sulla pagina non c’è quasi mai spazio per la città, tutto il suo mondo letterario è circoscritto entro i confini di un villaggio, comunità solide fatte di uomini e donne semplici e di gioie e dolori quotidiani ma non per questo meno importanti, forte di quella tendenza regionalista di cui si accennava: ecco quindi che i luoghi e il paesaggio diventano parte integrante della narrazione, i dialoghi si arricchiscono di sfumature vernacolari, le tradizioni e i caratteri peculiari della vita quotidiana entrano nella narrazione; una tendenza che come un fil rouge lega idealmente autori quali J. L. Allen, S. Anderson, Faulkner, Harper Lee, Wendell Berry, Willa Cather, Kate Chopin, Eudora Welty, solo per citarne alcuni, che si esprime negli sketch e nelle short stories come nella poesia e nel romanzo. È chiaro quanto il lavoro di traduzione di opere di questo genere sia particolarmente delicato: nel caso di Jewett è un lavoro a quattro mani, nella prima raccolta affidato a Tonina Giuliani e Marta Viazzoli, nell’ultima ancora a Giuliani insieme a Livio Crescenzi, tutti ottimi interpreti capaci di restituire sonorità, immagini e tratti peculiari di Jewett e nella breve ma fondamentale postfazione inquadrarne l’opera fornendo utili chiavi di lettura con cui avvicinarsi al testo con consapevolezza. E se come è naturale nella traduzione qualcosa vada perduto dell’originale, un lavoro attento come questo diviene importantissimo per i lettori non anglofoni e il mondo evocato da Jewett prende vita sulla pagina:

 

Era una di quelle giornate perfette del New England di fine estate, quando lo spirito dell’autunno fa un primo volo furtivo, come una spia, attraverso la campagna in via di maturazione, e, con una comprensione del tutto simulata per coloro che si sentono oppressi dal caldo d’agosto, lancia il proprio fresco mantello di aria tonificante sulle foglie, sui fiori e sulle spalle degli uomini.
(“Il corteggiamento di Sorella Wisby”, La viglia di Natale di Mrs Parkins, p.105)

 

I racconti di Jewett non sono fatti dell’epica di Steinbeck o di Faulkner e nemmeno dell’intensa drammaticità delle short stories di James Still: sono, piuttosto, fotografia di vite semplici, messe alla prova dalle sorprese del destino, conoscono il dramma e le difficoltà, ma anche la tenacia e la capacità di accogliere il cambiamento, accettare le piccole avventure che la vita gli propone.

Più di ogni altra cosa sono i personaggi femminili a colpire il lettore di queste storie, tanto dell’epoca quanto del contemporaneo: le donne di Jewett, infatti, sono piene di grazia e forza, determinate, escono dalla sfera domestica cui generalmente le si vorrebbe rilegare per avventurarsi nel “mondo” e, soprattutto, molto spesso scelgono l’indipendenza al matrimonio.

 

[…] se una donna ha una bella casa come questa, e sa cavarsela da sola, è meglio che rimanga lì dov’è. Non lasciare mai il certo per l’incerto.
(“Il fidanzato perduto”, Il Natale di Betty Leicester, p. 35)

Ecco dunque che queste storie celano ben più di un racconto pieno di buoni sentimenti da leggere accanto all’albero di Natale, ma si inseriscono a pieno titolo dentro una solida tradizione e la arricchiscono. E arrivano ancora, intatti, a noi lettori contemporanei, grati di una riscoperta di questa portata.

 

Il bianco nei racconti di Isaac B. Singer

di Matteo Moca

Nel Talmud Babilonese, nel trattato Megillah, è scritto che «tutti i canti si scrivono nero su bianco e bianco su nero», a sottolineare proprio la natura duale di ogni testo e le prospettive ermeneutiche che questo apre. Lo studioso di cultura ebraica, David Banon, riflettendo proprio sulla natura di questi spazi bianchi, scrive che tutte le grandi narrazioni non consentono un accesso diretto al significato, soprattutto a causa dell'emergenza ermeneutica che può nascere da ogni luogo del libro, quindi anche dagli spazi bianchi, portatori di non-detto, «riserve di senso» che il testo nasconde. Se gli spazi bianchi figurano allora come inviti all'interpretazione proprio attraverso il non-detto che suggeriscono, ci sono alcuni testi in cui questo meccanismo sembra rappresentare una chiave privilegiata per addentrarsi tra i suoi risvolti più significativi. La letteratura per l'infanzia pare particolarmente adatta alla messa in prova di questo meccanismo interpretativo perché è vero che i testi funzionano come narrazioni adatte alla costruzione di immaginari per i bambini, ma, quando la letteratura per l'infanzia è costruita da grandi creatori e raccontatori di storie, sono proprio questi spazi bianchi a presentarsi agli occhi del lettore adulto, capace, talvolta, di muoversi con maggior profondità tra le pieghe del testo. Questo è ciò che accade per esempio con la raccolta di racconti per bambini Zlateh la capra e altre storie di Isaac Beshevis Singer (pubblicata in una nuova versione adesso da Adelphi con la traduzione di Elisabetta Zevi, che coordina l'edizione adelphiana di tutte le opere dello scrittore, nella collana “I cavoli a merenda” e con le evocative illustrazioni in bianco e nero di Maurice Sendak, un altro autore americano nato da genitori ebrei polacchi), una raccolta capace di rivolgersi a lettori di ogni età e, soprattutto, incubatore di molti dei temi fondamentali dell'opera di Singer. Possiamo seguire, per esempio, le storie di un giovane uomo convinto di essere morto e curato da un medico con un metodo particolarmente teatrale (Il paradiso degli sciocchi), di un gruppo di governanti anziani sciocchi e incapaci di comprendere ciò che la natura riserva all'uomo spaventandosi del furto della luna o dello scioglimento della neve (La neve a Chelm), di bambini mai stanchi di ascoltare storie e poco vogliosi di dormire che vengono spaventati con la storia di un diavolo (La storia della nonna) o di un piccolo bambino capace di fronteggiare il diavolo e sua moglie la diavolessa pur di salvare la propria famiglia (Lo scherzo del diavolo). Molte delle storie sono ambientate durante Channukkah, la festa delle luci (una festa che rievoca la ribellione dei Maccabei contro Antioco IV deciso a inserire nel tempio di Gerusalemme alcuni idoli e costringere gli ebrei ad adorarli), che ricorda quando l'olio della lampada che ardeva perennemente di fronte all'Arca durò miracolosamente otto giorni, una ricorrenza gioiosa che proprio per questo è considerata una festa per i bambini. Nei lumi della lampada che per gli otto giorni della festa viene accesa, nella luce soffusa che questa emana e che sfuma i contorni degli oggetti e delle persone, si situano i racconti di questa raccolta, tutti sospesi in un mondo straordinario che abita i confini tra il sonno e la veglia, tra l'incredulità e la fiducia nel valore, negli insegnamenti e nella verità delle storie. Ma il bianco che abita queste storie è la cornice invisibile che li avvolge e che rimanda al resto dell'opera romanzesca di Singer: nella sua introduzione lo scrittore, nato in Polonia nel 1901 e poi costretto, poco più che trentenne, ad abbandonare l'Europa per gli Stati Uniti in cerca di libertà e salvezza, partendo proprio dalla meraviglia dei bambini (per il «tempo che passa») che si chiedono dove «vanno a finire i nostri ieri, con le loro gioie e i loro dolori», lascia emergere i confini della sua opera e la sua profonda fiducia nelle forme del racconto:

 

Nelle storie il tempo non svanisce, e nemmeno gli uomini e gli animali. Per lo scrittore e i suoi lettori tutte le creature vivono per sempre. Ciò che è successo tanto tempo fa è ancora presente.

 In queste poche parole si possono rintracciare anche i legami profondi, e problematici, che hanno attraversato il rapporto di Singer con la cultura ebraica. Figlio di un rabbino, e quindi cresciuto in un universo famigliare particolarmente attento e devoto, ma anche incentrato sul racconto orale, intervistato da Enzo Biagi proprio sulla sua relazione con la cultura ebraica, Singer ricorda della temporanea opposizione giovanile all'atmosfera religiosa, ma anche di come, con lo scorrere dei decenni e con gli avvenimenti che hanno costellato la storia ebraica creando nuovi, tragici e ulteriori punti di vista, si è fatta spazio nella sua mente l'idea che il mondo non possa essere considerato un semplice scontro di casualità, ma che, invece, debba esserci una sorta di principio ordinatore, un'entità responsabile dell'origine del mondo e di ciò che continua ad accadere. La strada che Singer ha trovato per dare spazio a questa idea è stata sempre la letteratura e, ancor di più, la sua radice antica, anche ebraica, di racconto orale, come testimoniano le sue storie romanzesche spesso dipendenti dal mondo ebraico dell'Europa orientale e della Polonia (la località di Chelm, cara alla narrativa tradizione, torna spesso in questi racconti, il romanzo Satana a Goraj è proprio ambientato in uno shtetl della provincia di Lublino dove gli abitanti seguono un folle piano di redenzione, Il mago di Lublino è una superba, divertente e tragica interrogazione sulla religione) oppure dall'ambientazione americana con personaggi in fuga dal mondo polacco che costruiscono nuove comunità negli Stati Uniti (Hertz Minsker, protagonista di Il ciarlatano è proprio uno dei simboli di questa scelta letteraria, così come i vari protagonisti di Nemici. Una storia d'amore o di Ombre sullo Hudson). Il celebre racconto che dà il titolo a questa raccolta, come gli altri, si indirizza verso la prima delle due strade percorse da Singer e ricostruisce proprio quel mondo passato e senza tempo delle storie ebraiche provenienti dall'Europa Orientale. Nelle pagine che Singer costruisce con pochi e magistrali tratti e nella storia di Aaron e della sua capretta Zlateh, Singer non è interessato solo all'amore per il racconto, ma inserisce silenziosamente anche aspetti maggiormente problematici, in questo caso sul rapporto tra uomo e animale e sulle necessità economiche, che invitano il lettore a interrogarsi anche sugli imprevisti e gli eventi minacciosi, come la neve che nel racconto blocca i protagonisti e fa intravedere certe ombre ben più inquietanti che il popolo ebraico ha dovuto sopportare (e ne è limpida esposizione la dedica di questi racconti: «Dedico questo libro ai molti bambini che non hanno avuto la possibilità di diventare grandi a causa di stupide guerre e di persecuzioni crudeli che hanno devastato città e distrutto famiglie innocenti»). Sono questi, ancora una volta, gli spazi bianchi del testo che invitano il lettore all'interpretazione e alla riflessione.

L'universale nelle storie di James Still


di Debora Lambruschini

 

Una casa costruita bene per tirar su i figli, una cantina per conservarci la roba da mangiare, e buoni vicini. Insomma, non è che chiedo la luna.
(“I fieri camminatori”, p. 49)

 

C’è in queste poche parole buona parte del senso delle storie di James Still, tra gli autori di riferimento della Appalachian and Southern literature: le piccole comunità agricole nell’America rurale dopo la Grande Depressione, i desideri semplici, la quotidiana lotta contro la fame. E l’immediatezza di una lingua che non deve essere stato per niente facile tradurre – plauso a Livio Crescenzi e Tonina Giuliani – perché intrisa di oralità e vocabolario peculiare. Considerato tra i più importanti autori della Southern Reinassance, Still è in Italia scoperta recente, grazie alle traduzioni per Mattioli 1885 che ha prima portato i due romanzi più celebri, Fiume di terra (2018) e Chinaberry (2019), e in seguito due pregevoli raccolte di racconti, Le colline ricordano (2020) e L’incendio delle acque (2021) appena pubblicata che contiene anche diverse storie inedite. Curioso che questo gigante della letteratura statunitense non fosse stato tradotto prima in italiano, magari sulla scia dell’interesse per un certo tipo di ambientazione che ha coinvolto la nostra ricezione della letteratura nordamericana degli ultimi anni. Quali che siano le ragioni, è ancora una volta una casa editrice indipendente e autorevole come Mattioli a proporre ai lettori l’opera più significativa di un autore senza confini di forma e che ben si inserisce nel più ampio discorso letterario contemporaneo, pur con narrazioni nate in un ben connotato contesto sociale e cronologico.
C’è qualcosa in questi racconti, un sentire e un’universalità, che vanno ben oltre confini geografici e temporali, pienamente capace di dialogare con il lettore contemporaneo. Quello stesso lettore che legge Chris Offutt, Ron Rash, Wendell Berry e James Allen Lane – solo per citare alcuni tra gli autori legati al Kentucky – , interessato alle narrazioni di una realtà rurale stretta fra le montagne, in zone impervie dove la natura non ha alcuna connotazione mistica ma è molto spesso spietata e la fatica, la consuetudine alla morte e alla violenza, si intrecciano al quotidiano. Autori molto diversi fra loro ma legati a quei luoghi in cui sono nati o che hanno scelto, e ai quali sono tornati come Still, dopo i numerosi viaggi e studi e la sua decisione di vivere quasi come un eremita in una capanna nei boschi sugli Appalachi. E rendersi presto conto che le storie che doveva raccontare erano proprio lì davanti a lui, tra quelle montagne, tra le vite che ben conosceva, isolate in quegli spazi ristretti e impervi ma non meno degne di farsi letteratura. Le piccole comunità agricole che si scontrano con l’industrializzazione, le miniere in esaurimento e la vita che ci gira intorno e ne dipende, l’isolamento e la solitudine in una natura aspra e selvaggia, il lavoro e la fatica: era tutto davanti a lui, e Still riesce a imprimere sulla pagina il contrasto tra fatica e dignità di uomini e donne – ma pure bambini – che nonostante tutto non cedono allo sconforto; non perché le storie si risolvano in happy ending – capita decisamente di rado – ma nel senso di una capacità di mantenere intatta, nonostante tutto, la forza di andare avanti, conservando una dignità che contrasta fortemente con un certo tipo di narrazione sulla povertà cui siamo abituati. Uomini e donne che sopportano un isolamento logorante, la solitudine che pare gonfiarsi «dentro di noi, enorme come un mucchio di ghiande». Un quotidiano precario, dove ogni cosa può andare perduta da un giorno all’altro, rappresentano una condizione cui è necessario abituarsi presto nel tentativo di sopravvivere.
Brevi lampi di speranza a squarciare la pagina, qualche risata di bambini e i borbottii di mogli che lottano contro mariti testardi, desideri semplici: una casa con dei buoni vicini, appunto, una camicia comprata in un negozio, scorte di cibo sufficienti per tutti.

 

Le verdure selvatiche presero il posto dei fagioli e dei conigli. Mangiavamo cespi di lattuga selvatica, stracciabraghe, borragine e cicoria di campo. E di nuovo fagioli e coniglio, quando le piante divennero dure e fibrose. Verso la fine di aprile la carne salata si era ormai ridotta alla cotenna, il sacco del cibo era più sacco che pane, il lardo poco o niente. Papà dissodò un fazzoletto d’orto e poi lasciò che fosse Mamma a occuparsi delle semina e della coltivazione. Lui si dedicò anima e corpo alla ricerca del ginseng. Tornava a casa troppo esausto per battibeccare appresso a noi e di rado vedeva il piccolo sveglio. Dan iniziò a guardarlo di traverso. E quanto alle scarpe, ormai rattoppava le toppe.
(“L’incendio delle acque”, p. 201)

 

Rispetto ai racconti della raccolta precedente, L’incendio delle acque presenta forse un’umanità meno abbrutita e crudele, se pur ugualmente provata dalle difficoltà e qui e là traspare più forte il legame comunitario, per lo meno tra coloro che scelgono di restare, tra illusione e rassegnazione, o per quelli che sanno dare rifugio a vagabondi di passaggio, avventurieri, nuovi vicini di casa.
Quelle che racconta Still sono storie prive di sentimentalismi, per molti versi ben ancorate al proprio tempo – un mondo che non esiste più, rapporti coniugali di tutt’altro stampo rispetto a quanto conosciamo oggi – ma di cui riconosciamo un certo sentire, una mescolanza di istanze e uno sguardo che anche molti autori contemporanei hanno coltivato. Sono luoghi non dissimili da quelli scelti da Offutt nei suoi magistrali racconti – sui romanzi resto invece meno entusiasta – , le vite ordinarie di uomini e donne che lottano per la sopravvivenza, la natura selvaggia e brutale, l’isolamento; storie diverse, caricate da Offutt di una violenza inespugnabile e dalla costante tensione fra andare e restare, il peso delle radici, le possibilità di riscatto, l’alcol. O, forse, ad avvicinarsi più idealmente alle narrazioni di Still sono i romanzi di Ron Rash, di cui in Italia è stato di recente pubblicato da La nuova frontiera il bellissimo Un piede in paradiso, le sue narrazioni dure e commoventi, le piccole contee agricole sugli Appalachi e un quotidiano di fatica e sacrificio.
È nei confronti di Still e degli altri autori della Southern Reinassance che molte narrazioni contemporanee sul genere hanno un forte debito e la sua scrittura limpida e puntuale, sorregge queste storie che anche grazie ad essa superano la prova del tempo. Ecco, la scrittura: se è vero che storia e scrittura sono tanto profondamente legate nel racconto, le short story di Still ne sono un chiaro esempio, l’una imprescindibile dall’altra, misurata, onesta, cesellata. Imprescindibile come quelle stesse montagne, che custodiscono gemme come queste. 

Quaderni dei fari e dei mari

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Di Debora Lambruschini

Nella prefazione alla raccolta Trash da poco pubblicata per minimum fax, Dorothy Allison a un certo punto afferma: “Perché scrivere? Per prendere parte al discorso. La letteratura è un discorso, un vivace appassionante scambio che sfida e amplia costantemente la nostra immaginazione”.
Ho pensato molto a quest’idea, semplice eppure fondamentale, della scrittura come parte di un discorso, di uno scambio continuo. Capita talvolta che si creino inaspettate connessioni fra i libri e che queste portino verso luoghi che non immaginavamo, spunti e riflessioni inaspettati.
Ho letto queste due storie, Quaderno dei fari di Jazmina Barrera ed E tutt’intorno il mare di Dominique Fortier, circondata dal caos agostano della riviera ligure, eppure pagina dopo pagina la scrittura è stata capace di evocare mondi e dissolvere temporaneamente ciò che c’era intorno. Alla folla rumorosa si è sostituito il silenzio e la solitudine: dei fari, protagonisti del saggio letterario-memoir di Barrera, dell’abbazia di Mont-Saint-Michel del racconto di Fortier; la percezione del mare tutto intorno si è fatta più forte, il sale, il vento quasi tangibili. E i due libri, a poco a poco, hanno iniziato a dialogare tra loro, intrecciandosi poi ad altre pagine, altre storie e suggestioni. Per loro natura infatti entrambi i libri suggeriscono ulteriori letture: Quaderno dei fari, uscito questa estate per La nuova frontiera, è profondamente legato al celebre romanzo di Virginia Woolf, Gita al faro, cui Barrera tratteggia nuovi spunti di riflessione su una storia mai esaurita, ma anche attraversato da romanzi, racconti e saggi meno noti, a comporre una polifonia di storie letterarie e umane per tentare di comprendere la fascinazione esercitata dai fari; E tutt’intorno il mare, che uscirà il 23 settembre per AlterEgo edizioni, è invece una storia che ne contiene al suo interno tante quante quelle della “Città dei libri”, la magnifica biblioteca perduta di Mont Saint Michel; soprattutto due racconti distanti nel tempo e nello spazio eppure idealmente intrecciati che guidano il lettore in un gioco metaletterario ben congeniato. Un racconto incompiuto di E.A. Poe, il classico di Woolf, un saggio di Stevenson, Omero e Walter Scott e poi, ancora, il dialogo con forme espressive, l’opera di Hopper, il memoir, il reportage, l’invenzione letteraria, la ricerca storica: Barrera e Fortier scelgono, ognuna a proprio modo, una forma ibrida tra saggio letterario, romanzo e racconto autobiografico, similmente all’opera di Olivia Laing che a partire da una suggestione costruisce un mondo di rimandi, spunti, considerazioni dentro e fuori dal testo letterario.
E l’uno e l’altro dialogano fra loro, si diceva, in uno scambio inaspettato e molto fitto: la solitudine del faro di fronte al mare, il volontario esilio del guardiano per molti versi simile a quello del monaco, del pellegrino o dell’uomo di Fortier che in quel monastero sulle rocce cerca rifugio dal dolore.

Nel confino del faro, il guardiano è come una specie di naufrago. Naufrago per volontà propria. Che sia un uomo in fuga da un passato oscuro, da una delusione amorosa o ideologica, o in cerca di un rifugio nella solitudine fisica da quella che si porta dentro, il guardiano del faro sceglie il proprio esilio.
(Quaderno dei fari, p. 77)

 
Perché queste due storie, dove nasce l’ossessione? In entrambi i casi ha i contorni del sogno, qualcosa che appare ben prima di conoscerla nella realtà tangibile ma che immediatamente viene riconosciuta.

 

A qualcuno piace guardare dentro i pozzi. A me fa venire le vertigini. Ma con i fari smetto di pensare a me stessa. Mi allontano nello spazio e vado in luoghi remoti. Mi allontano anche nel tempo, verso un passato che so di idealizzare, in cui la solitudine era più semplice. Mi discosto anche dai gusti del mio tempo perché oggi i fari sembrano figure romantiche e sublimi, due parole passate di moda. È difficile parlare degli argomenti associati ai fari: la solitudine o la follia.
Noi che ci proviamo, non possiamo che accettare di essere stucchevoli.
(Quaderno dei fari, p. 17)

 

Il faro, per Barrero, apparso in sogno quando era bambina e, in seguito, nella sua vita adulta, significa anche confrontarsi con il fallimento, «accettare il limite dell’incompletezza» di una collezione che non potrà mai essere davvero compiuta.

 

La prima volta che l’ho visto avevo tredici anni, un’età nel limbo fra l’infanzia e l’adolescenza, quando già sappiamo chi siamo ma ignoriamo se mai lo diventeremo. Fu una specie di colpo di fulmine. Non ne ho ricordi molto precisi, solo una certezza, segno di una meraviglia talmente profonda da rasentare lo stupore: ero arrivata in un posto che avevo cercato senza conoscerlo, senza neppure sapere che esistesse.
(E tutt’intorno il mare, p. 7)

 

Cambia l’oggetto ma non poi molto il fascino esercitato, il desiderio anche per Fortier di affondare appieno nella propria ossessione, farne il mezzo per indagare oltre il conoscibile. Riflettere sul mestiere di scrivere è ciò che più profondamente lega questi due libri. Da una parte è lo sguardo della scrittrice che indaga il mondo accogliendone i simboli, è lo straniamento dato dalla creazione letteraria, la fiducia nelle parole, nelle storie da cercare e assorbire; dall’altra la sfida di calarsi nel passato, la materia storica che si intreccia all’invenzione letteraria e, soprattutto, la difficoltà di ritrovare con la maternità il proprio ruolo di scrittrice:

 

Prima il mio tempo mi apparteneva completamente, apparteneva a me e ai libri. Oggi ogni minuto consacrato a leggere o scrivere è un minuto che non trascorro con mia figlia; ormai la scrittura è accompagnata da una fretta e un senso di colpa detestabili. È tempo che le sottraggo, che non ritroverò, che avrei dovuto dedicarle e che non avrò mai passato con lei.

(E tutt’intorno il mare, p. 59)

 

La scrittura, il senso di colpa e di inadeguatezza, eppure l’incanto per le parole che talvolta si confondono – e sbiadiscono, l’inchiostro sciolto dall’acqua, per dare vita forse così alla sola narrazione possibile. I fari inseguiti da Barrera, come l’abbazia evocata da Fortier, raccontano luoghi che sembrano in qualche modo sul punto di scomparire, spogliati della propria funzione originaria, soggetti all’usura del tempo o all’avanzare della tecnologia:

 

[…] restano soltanto una quindicina di monaci. Le loro voci si innalzano, monocordi e tremanti fra i muri. Sembra che sappiano di essere lì lì per scomparire anche loro, di restituire la roccia alla sua solitudine.
Ma c’è comunque nei loro canti una bellezza dolorosa – o forse sono io che non posso più sentire niente di bello senza soffrire all’istante.
(E tutt’intorno il mare, p. 34)

 

Due forme diverse eppure simili di pellegrinaggio quelle di Barrera e Fortier, ognuna spinta dalla propria ossessione, inseguita nella realtà o attraverso le pagine, rievocata nel ricordo e, attraverso la storia dei fari o del Mont Saint Michel, fusa con la propria. Come parole di un unico canto d’amore per i libri, alle storie affidiamo la nostra mortalità di uomini:

 

[…] in realtà non sono le opere ad aver bisogno della protezione dei monaci, sono gli uomini ad aver bisogno dei libri. Noi moriremo, i libri sopravvivranno.
(E tutt’intorno il mare, p. 163)

Jazmina Barrera e Dominique Fortier

Jazmina Barrera e Dominique Fortier

Christa Wolf . Sismologia del linguaggio

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di Anna Lo Piano

«Come accade la vita? È una questione di cui mi sono proccupata presto. La vita è identica al tempo che passa ineluttabilmente e tuttavia misteriosamente? Mentre scrivo questa frase, passa del tempo; contemporaneamente inizia – e passa – un minuscolo pezzo della mia vita. [...] Strano allora che non riusciamo a coglierla. Sfugge all’occhio che osserva, anche alla mano che annota diligente».

C. Wolf, Un Giorno all’anno. 1960-2000, e/o, Roma 2006

 

Come si fa a raccontare la vita? In che rapporto ci poniamo con il tempo, da che prospettiva? E con quale linguaggio possiamo fermare ciò che continuamente ci sfugge? Non c’è uno scritto di Christa Wolf dove queste domande non appaiano, a un certo punto, a interrompere la narrazione, chiedendo conto di ogni singola parola pronunciata, di ogni fatto descritto.

 Sono passati dieci anni da quando Christa Wolf ci ha lasciati e più di trenta da quando, per la prima volta, ho letto Cassandra di una lettura feroce, sentendo che in  quelle pagine, in un modo che non riuscivo a capire completamente, c’era qualcosa che mi riguardava da vicino.
In queste settimane, nel tirare fuori dalla libreria le vecchie edizioni con le copertine pastello, un po’ sbiadite sui margini, ho sentito di compiere quel movimento che sempre si fa quando per istinto ci rivolgiamo ad alcuni scrittori in particolare, perché ci chiariscano le ragioni oscure del presente. Quello stesso movimento spinge Wolf, in un racconto scritto pochi giorni dopo l’11 settembre, a prendere in mano City of God di E. L. Doctorow scorgendovi, tra l’altro, il presagio di ciò che era appena accaduto. “Nessuno scrittore è in grado di restituire la consistenza reale della vita vissuta” scrive Doctorow, e Wolf, dialogando con se stessa dentro la finzione, pensa che forse è un ragionamento banale.  Eppure il rapporto tra la materia vissuta e la sua rappresentazione è il quesito che la ossessiona da sempre, che torna a tormentarla, anche e soprattutto nei suoi racconti, che  in Italia sono stati pubblicati in Italia dalla casa editrice e/o in due raccolte. La prima edizione di Sotto i tigli, con la traduzione di Anita Raja , risale alla fine degli anni ’80, mentre Con uno sguardo diverso del 2008, a cura di più traduttori, è l’ultimo suo libro pubblicato.  Considerati spesso meno degni di attenzione rispetto ai romanzi, in particolare “Cassandra” e “Medea”, i racconti costituiscono tuttavia una produzione importante che accompagna l’autrice lungo tutta la vita come un diario, dal 1960 di un Martedì 27 settembre all’ultimo 27 settembre del 2001. Non molti, e scritti spesso su richiesta, come se i fatti avessero bisogno una sollecitazione esterna per aggregarsi in un disegno di senso, hanno qualcosa di tellurico, come se dietro l’apparente compostezza della lingua si esercitassero forze sotterranee, movimenti che vanno a convergere lungo linee di frattura che si espandono in tutta la sua opera . Ed è lungo queste faglie che ho deciso di procedere, con la dovuta cautela.

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Memoria

 

“Mentre preparo i panini” dice Christa Wolf in Martedì 27 settembre “cerco di ricordarmi come ho trascorso il giorno prima della nascita di Tinka, quattro anni fa”.
Probabilmente faceva più caldo. Un’amica venne a passare la sera da lei. Di che parlarono? Alcune cose sono perdute per sempre, altre rimangono. Ma con quale logica?   Nella cronaca di una giornata del 1960, veniamo avvertiti fin dall’inizio che niente andrà secondo i piani. Meglio dunque arrendersi al movimento casuale di ciò che accade, tra doveri familiari, lagne di bimbe, tentativi di concentrarsi su un articolo, il lavoro alla fabbrica di vagoni come intellettuale di partito. Il racconto nasce per rispondere all’iniziativa del giornale Moscovita Isvestija che invitava gli scrittori di tutto il mondo a «descrivere con la maggiore esattezza possibile una giornata di quell’anno, e precisamente il 27 settembre». Ma la maggiore esattezza possibile fino a che punto si può spingere?

“Seguita a spaventarmi la quantità di cose che dimentichiamo se non si annota tutto” continua Wolf “e la rapidità con cui succede. D’altra parte: fissare tutto è irrealizzabile: bisognerebbe smettere di vivere”.

Scrivere la vita mentre la si vive è una contraddizione irrisolvibile, ma lo è anche riprodurre il passato attraverso la memoria. Che forma dare a qualcosa che sembra sfuggire da ogni parte? Come sappiamo quali sono i volti da salvare, se la vita sembra una serie infinita di punti? Come capire qual è la linea di senso che li congiunge? Wolf sceglierà di salvare questi punti raccontando lungo l’arco di quarant’anni, dal 1960 al 2000, ogni 27 settembre. Forse questa soluzione rende la materia banale narrabile. Ma siamo lontani dall’ottimismo di una trama ben congegnata.

 

Una storia? Qualcosa di solido, di tangibile, come un recipiente
a due manici che si afferra e da cui si beve?

 

In Pomeriggio di giugno (1965) siamo avvertiti fin dall’inizio che ciò che stiamo per leggere non ha una forma in grado di contenere e di essere contenuta. Al contrario, la quotidianità di un pomeriggio trascorso nel giardino di famiglia viene attraversata da correnti che la lacerano in ogni verso.
Un libro che Christa e il marito Gert hanno letto in tempi diversi spalanca l’estate tedesca su una luce mediterranea.  Le parole si invertono e si inventano in combinatorie fantastiche attraverso un gioco che fanno con le figlie, e il tempo delle bambine attraversa quello dei genitori, loro continueranno a vivere anche quando questi non ci saranno più, e in quello che accade adesso si forma la loro memoria del futuro.
Cosa rimarrà di questo giorno? Forse non la foto della madre ma il ricordo di un crimine efferato di cui hanno captato brandelli di informazione. Nel quotidiano entra la storia, l’immaginario dei vicini. Gli aerei che vanno da est a ovest in realtà vanno da ovest a ovest, ma nessuno dei passeggeri sembra accorgersene.
Questione di prospettive.


Prospettive

Bisogna raccontare la liberazione , l’ora della liberazione, e io ho pensato, niente di più facile. In tutti questi anni quell’ora mi è rimasta stampata davanti agli occhi, e se ne sta bell’e pronta nella mia memoria.

Mutamento di prospettiva è un racconto del 1970, comparso per la prima volta in un’antologia in cui vari autori ricordavano come avevano vissuto la caduta del nazismo e la liberazione.  Un compito facile, si dice Wolf. Alcune immagini del passato rimangono in noi così nitide e indelebili che non è neanche necessario fare uno sforzo per rievocarle.  Eppure al momento in cui si accinge a raccontarle esse si allontanano come miraggi. Un dettaglio del vestito della nonna è tutto quel che serve per impigliare la narrazione come un filo fuggito alla trama, e impedirle di andare avanti. Perché:

il ricordo non è un catalogo di Leporello, ed essere liberati non dipende solo da una data e dai movimenti occasionali delle truppe, ma anche da certi movimenti difficili e di lunga durata dentro di noi.

 

Per raccontare la liberazione, bisogna che essa abbia il tempo di agire sull’anima e sul linguaggio che la rappresenta, perché la lingua è sempre l’espressione di una percezione del mondo.
Se cambia il mondo deve cambiare anche il linguaggio.

 

L’esigenza di scrivere in modo nuovo è conseguente, sia pure con distacco, a un modo nuovo di stare nel mondoscrive Wolf in un saggio del 1968 dal titolo “Leggere e scrivere” . 
“A intervalli regolari che sembrano abbreviarsi, il nostro udito, la vista, l’olfatto, il gusto si comportano diversamente da quanto avveniva poco tempo prima.
Nel modo di avvertire il mondo circostante si è verificato un mutamento che giunge a sfiorare l’intangibilità del ricordo
; ancora una volta vediamo il mondo - ma cosa significa il mondo? - sotto una luce diversa.

 

Le fratture della storia incidono sul corpo di chi l’attraversa. Prima o dopo la guerra, prima o dopo il muro, prima o dopo l’11 settembre, la cartina del mondo assume nuovi colori, si sposta la distanza dal confine, mutano i rapporti di forza, il senso del pericolo.
Il giorno della liberazione il mondo appare rovesciato. Vincitori e vinti invertono i loro ruoli. “Ora gli straccioni avrebbero indossato i nostri vestiti” dice Wolf in Mutamento di prospettiva, mettendo in chiaro come questo ribaltamento abbia a che fare con il corpo, con la fame: “avrebbero infilato i piedi insanguinati nelle nostre scarpe, ora gli affamati si sarebbero impadroniti del burro e della farina e del salame che avevamo appena portato.”
Un soldato muore di una morte reale, molto diversa da quella epica ed eroica della narrazione vittoriosa. Francesi e polacchi tra di loro comunicano in una lingua alla quale non è possibile prendere parte.
I vincitori possono dare libero corso ai loro sentimenti, gli altri, I vinti, devono tenerli chiusi dentro di sé.
Lei, bambina, intuisce che tutto questo, anche se doloroso, è giusto. Loro, gli ex vincitori, sono colpevoli, e l’hanno sempre saputo. Ma è un attimo di coscienza, e poi tornano a dimenticarlo, come se una cecità mirata colpisse sempre chi detiene il potere. Bisogna spostare lo sguardo, renderlo marginale, per riuscire a vedere, per riuscire a dire. Si comincia a configurare quell’associazione tra parola e sguardo che troverà la sua espressione più alta nella preveggenza di Cassandra, ma che si ritrova in quasi tutti i testi.
La materia di Mutamento di prospettiva qualche anno dopo andrà a confluire nel romanzo Trama d’infanzia, in cui Wolf elabora la storia della sua famiglia negli anni dell’ascesa e del crollo del Nazismo.
Ma come si fa a raccontare una vita che ha attraversato più di un ribaltamento - l’ascesa del nazismo, la guerra, la sconfitta, la divisione? Scegliere una prospettiva non equivale forse a scegliere un’interpretazione?  
Per uscire dall’impasse Wolf sceglie di frammentare i piani temporali e le voci. Dal suo presente del 1976 l’autrice dialoga con la se stessa del 1971, in quell’estate in cui è ritornata nei luoghi dove è stata bambina, e le fa raccontare gli anni dell’infanzia.
Il rischio dello sguardo unico è scongiurato dall’assunzione di un punto di vista altro.
 In Nuovi punti di vista e considerazioni di un gatto sulla vita (1970), Wolf riprende il personaggio del Gatto Murr di Hoffmann e l’ idea di un animale che scrive di sé usando i margini e gli spazi bianchi di un manoscritto umano. Sempre sui margini, questa volta del verbale di una sperimentazione farmacologica, si muove la scrittura di Autoesperimento del 1972. Una ricercatrice si sottopone al passaggio di sesso da femminile al maschile tramite l’assunzione del farmaco Petersein Masculinum 199, e poi ritorna indietro assumendo una sorta di antidoto, il Petersein minus masculinum. Il linguaggio scientifico della relazione ufficiale non è però sufficiente a dire quello che è successo davvero in questa transizione: il professore “col suo culto superstizioso del risultato misurabile”, le ha reso sospette le parole del suo linguaggio interiore, il solo adeguato a raccontare la complessità di ciò che è accaduto davvero dentro di lei. Il cambiamento di sesso è un mutamento di prospettiva, una trasformazione che esige una lingua diversa, che non somiglia a nessuna di quelle a disposizione, una lingua fluida, che va inventata:

 

Ma non si può rimproverare alla lingua di non disporre di una parola adatta a quel mio trapassare per stadi indistinti dentro cui scivolavo e che si rispecchiava in me come un nuotare sul fondo di un’acqua verde chiara, popolata di piante e animali singolarmente belli.

Solo conquistando questa nuova lingua può raccontare la propria esperienza “felice di poter disporre nuovamente delle parole”.

 

La scrittura appartiene al corpo perché è legata al modo in cui si sperimenta la realtà. In questo senso, in “Premesse a Cassandra”, Wolf si interroga sulla specificità della scrittura femminile :

 

In che senso esiste una scrittura femminile? Nel senso che le donne, per motivi storici e biologici, sperimentano un realtà diversa da quella degli uomini. Nel senso che sperimentano la realtà in modo diverso da quella degli uomini e a ciò danno espressione. Nel senso che le donne da secoli non fanno parte di chi domina ma di chi è dominato, sono cioè oggetti di oggetti, oggetti di secondo grado, oggetti abbastanza spesso di uomini che sono a loro volta oggetti, e dunque, stando alla loro condizione sociale, appartenenti in ogni caso a una cultura di second’ordine.

 

Ma invece di cercare a tutti i costi di integrarsi nell’aberrazione dei sistemi dominanti, prendono la parola e scrivendo e vivendo “puntano all’autonomia”. La presa della parola, la creazione di un linguaggio proprio, costituiscono il movimento fondamentale per la libertà.

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Ferite

Nel 1973 Ingeborg Bachmann muore, a Roma, per le conseguenze delle ustioni riportate nel corso di un incendio nella sua casa di via Giulia. Quando tre anni dopo Wolf pubblica Trama d’infanzia, pone come epigrafe del Capitolo 8 un verso della poetessa che recita: “Con la mia mano bruciata scrivo del fuoco”.
Riferimenti, citazioni, riflessioni su Bachmann percorrono tutti i racconti, i romanzi e i saggi di Wolf, ma questo colpisce particolarmente. Per scrivere del fuoco bisogna ustionarsi. La lingua passa ancora dal corpo e dalle sue ferite. 
In Premesse a Cassandra Wolf si interroga a lungo sul rapporto con il dolore della sua protagonista.
 

La sua contemporaneità consiste nel modo in cui impara a convivere col dolore? Sarebbe allora il dolore – una particolare modalità del dolore: il dolore del farsi soggetto – il punto attraverso il quale mi assimilo a lei?

 

“Faccio la prova del dolore” dice proprio Cassandra nelle prime pagine del romanzo, quando comincia a rievocare ciò che è accaduto “come il medico punge un arto per verificare se è insensibile, così io pungo la memoria”.
E anni dopo Wolf ritorna su quest’immagine. Nel racconto Nella pietra, del 1996, una donna si sottopone ad anestesia locale per un’operazione all’anca. Sceglie questo tipo di anestesia per rimanere vigile, e così seguiamo i suoi pensieri durante tutta l’operazione.
“Mi creda non sentirà nulla come se non fosse il suo corpo” la rassicurano gli infermieri.
La parte inferiore del suo corpo diventa come pietra, un oggetto altro da sé mentre le incidono la carne. Cosa sente davvero? E perché continua ad avere la sensazione di essere rannicchiata sul lettino, come se l’ultima memoria si fosse fissata sul suo corpo?
Seguendo un’intuizione prendo il volume delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Il filosofo austriaco è stato un punto di riferimento importante per Ingeborg Bachmann, la sua poetica nasce anche da quelle riflessioni sul linguaggio, sulla tensione della parola verso la sfera dell’indicibile.  Ed ecco che sfogliando le pagine mi appare, in una vecchia sottolineatura, questo brano: “Divento di pietra e il mio dolore continua. E se mi sbagliassi, e non fosse più dolore? – ma qui non posso certo sbagliarmi; non vuol dire nulla: dubitare se sento dolore!”
Dubitare di tutto, anche del proprio corpo, delle proprie sensazioni. Come parlare infatti di un dolore anestetizzato? Come raccontarlo?
È la domanda che si pone Wolf all’inizio del racconto, che comincia con il risveglio dall’anestesia e che prosegue con una lingua spezzata, frammentata. Le istruzioni del chirurgo e degli infermieri interrompono il suo flusso di pensieri, la punteggiatura svanisce, la testa diventa una “falda detritica per sintagmi lessicali inutilizzabili”. L’eco di favole, parabole evangeliche, riflessioni sul mito di Medusa, la donna pietrificata, si sovrappongono. Questo racconto, come il successivo Associazioni in azzurro, sono quelli in cui Wolf più sperimenta con il linguaggio, in cui la prosa diventa un flusso continuo, fluido, in cui vanno a confluire i pensieri informi di un monologo che è però tutto esteriore, perché si rivolge continuamente a un interlocutore esterno, come un vaticinio. È una riflessione filosofica, culturale, letteraria che però non ha la forma razionale del saggio ma procede in forma intuitiva, poetica. Nella pietra finisce con il sonno dell’anestesia, spezzando il flusso dei pensieri a metà di una frase.
Un richiamo al dolore è anche in epigrafe di Unter den Linden, uno dei racconti più densi e misteriosi di Wolf, che dà il titolo alla sua prima raccolta. Nel solco delle genealogie femminili che la contraddistinguono, questa volta prende in prestito un verso della scrittrice Rahel Varnhagen, animatrice di uno dei salotti del romanticismo tedesco. “Sono convinta che essere feriti là dove siamo più sensibili e dove ci è più insopportabile faccia parte della vita: l’essenziale è come ne usciamo”.
Tutto il racconto è l’attraversamento e l’uscita da questo dolore.
“Mi è sempre piaciuto camminare per Unter den Linden” è l’incipit fulminante di questo racconto. Ma subito dopo la voce narrante ci avverte che anche se ama gli inizi sicuri, questi riescono solo a chi è felice, ed evidentemente arrivarci non è stato facile. La strada reale Unter den Linden, che attraversa Berlino da est a ovest, si trasforma in un doppio onirico. Come succede spesso nei sogni, i piani si confondono, e momenti di lucidità si alternano ad altri di totale spaesamento. C’è una ragione per cui è lì, qualcuno lo ha richiesto, ma non sa molto di più. In ogni caso la protagonista va avanti, sapendo che “Ogni mondo ha le sue regole, bisogna muoversi in quelle regole”. L’unico modo giusto per attraversare il sogno è con l’atteggiamento spensierato del bambino nelle favole. E lei si arrende alla fluidità man mano che i diversi piani si susseguono, che la sua storia si scompone nelle storie di altre donne che le fanno da specchio, che le rivelano parti nascoste di sé, in uno spostamento continuo tra passato e presente, in cui le immagini evanescenti che attingono al fantastico di Hoffman si integrano nella realtà di una Berlino divisa. Solo alla fine del cammino può finalmente parlare, come se nella proliferazione dei livelli di realtà conferiti dall’immaginario onirico avesse maturato le parole necessarie per dire tutto ciò che va detto.
La ferita per rimarginarsi esige una ricomposizione, un attraversamento del dolore.

 

Tutt’a un tratto capii: quella ero io…Ora tutto mi si chiariva di colpo. Dovevo ritrovare me stessa: era il senso della convocazione. Cellula dopo cellula il mio corpo si riempì di nuova gioia. Una quantità di vincoli mi abbandonò per sempre. Non c’era infelicità che avesse impresso il suo sigillo una volta per tutte sulla mia fronte. Come avevo potuto essere così accecata da sottopormi a una sentenza sbagliata?

 

Non sottoporsi a una sentenza esterna, a ciò che ci si aspetta, all’obbligo di un linguaggio imposto. Sempre in Premesse a Cassandra, Wolf ritorna sulla simbologia della pietra, parlando di Elena di Troia, che è la figura opposta a quella di Cassandra, con la quale quest’ultima si confronta di continuo.

 

Alla donna è strappata la memoria viva, le viene attribuita l’immagine che gli altri si sono fatti di lei: il processo atroce della pietrificazione, della reificazione nel corpo vivo. Ora lei fa parte delle cose, della res mancipi.

Cassandra si fa soggetto perché rifiuta l’assimilazione all’idolo, alla pietra. L’emancipazione, al contrario, l’uscita dalla res mancipi, è il sottrarsi alla pietra, il farsi viva anche nel riconoscimento del proprio dolore.


Visioni

Nel racconto del 2001 che chiude la raccolta  Con uno sguardo diverso Christa Wolf aggiunge un 27 settembre ai quaranta che compongono la sua autobiografia Un giorno all’anno. Sono passati pochi giorni dal crollo delle torri dell’11 settembre, e le immagini che passano ripetutamente sui teleschermi di tutto il mondo non sembrano potersi cancellare. Un’esperienza collettiva che passa dallo sguardo. Impossibile non vedere, rendersi ciechi a ciò che sta avvenendo.
Quel giorno si produce uno strappo nel tempo, un mutamento brusco di prospettiva come ce ne sono stati altri nella storia. Wolf enumera i propri: la guerra del ’39, la fuga alla città natale del ‘45, l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia nel 1968.
Per questo chi c’era, quell’11 settembre del 2001, ricorda ancora benissimo, a distanza di anni, dove si trovava, con chi, che cosa ha pensato, il passaggio dall’incredulità alla presa di coscienza. Dice Wolf che “mentre il cervello incredulo cercava ragioni”, il suo corpo “aveva già capito e produceva quella sgradevole sensazione che mi annuncia da sempre che sta accadendo qualcosa di irrevocabile, perlopiù spaventoso”.
La consapevolezza si attua in qualcosa di più profondo ancora dello sguardo, perché si può vedere e non riconoscere. In Trama d’infanzia Nelly, la bambina che funge da terza persona per il racconto autobiografico di Wolf, parla di parole scintillanti che non bisognava pronunciare, che non si scorgevano nel silenzio ma negli occhi degli adulti. Sua madre rischia una condanna per aver detto la verità: “abbiamo perduto la guerra, lo vedrebbe anche un cieco”. Cassandra, guardando i vincitori che si aggirano intorno al carro su cui l’hanno portata a Micene come schiava, ne riconosce l’incapacità di vedere: “Tutto ciò che devono conoscere si svolgerà davanti ai loro occhi, ed essi non vedranno nulla.”
Cassandra invece vede perché è capace di uscire da se stessa, di assumere una posizione marginale, ma libera, di cercare una parola autentica.
Negli ultimi racconti anche Christa Wolf sembra trovare una scrittura che corrisponda meglio alla forma del suo pensiero. Dopo gli esperimenti di Nella pietra e Associazioni in azzurro torna all’autobiografia. La seguiamo nel suo soggiorno negli Stati Uniti, scrive un racconto sul rapporto con il marito che ricalca la struttura di “Io e lui” di Natalia Ginzburg, ci mette a parte delle sue visite, delle notazioni, dei minimi gesti quotidiani. Eppure questo quotidiano non è più lacerato da una materia che non trova il modo di esprimersi, perché l’insieme di riflessioni sul mito, la storia, la cultura si inserisce nel pensiero, in quel monologo esteriore che però ora sentiamo più pacato, più capace di tenere insieme le contraddizioni di un ragionamento che procede sempre per intuizioni. Eppure ha perso il tono del vaticinio, dato che non si tratta di prevedere il futuro quanto di vedere le reali condizioni del presente. Ed è a questa chiaroveggenza che l’individuo torna. È per questa visione che si torna alla densità della sua scrittura per attingervi risposte, anche dal futuro.

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A lezione di peccato contemporaneo con John Cheever

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di Fabrizia Gagliardi

Nel quartiere esclusivo di Sutton Place, Manhattan, tra i fasti architettonici di brownstones e villette a schiera sull’East River, c’è anche il sogno di un uomo in un condominio. Ogni giorno insieme a giacca e cravatta indossa l’aria generica di una frase sul tempo atmosferico pronunciata in ascensore. Mentre i vicini pensano al miglior anestetico per iniziare la giornata lavorativa in città, John Cheever scende nel seminterrato, si spoglia e scrive con l’aiuto di qualche drink. È finita la seconda guerra mondiale, la precarietà economica e la paura di un disastro nucleare l’hanno toccato senza mai scalfire un’instancabile speranza.

In un salto nel futuro, quasi trent’anni dopo, John Cheever bussa alla porta della camera sopra la sua nello studentato dell’Università dell’Iowa. Gli aprirà un giovane Raymond Carver che, prima di conquistarlo col talento, gli serve un bicchiere di scotch per essere sulla stessa lunghezza d’onda. Davanti a lui c’era uno degli scrittori più affermati del tempo – Cheever aveva vinto il National Book Award per il suo primo romanzo, Cronache della famiglia Wapshot, ed era un prestigioso collaboratore del New Yorker – che, proprio come i suoi personaggi, sembrava provare fascino per gli aspetti semplici e casuali della vita rispetto all’analisi letteraria.

Percorrere avanti e indietro la linea temporale di un’intera vita trasmette la pretesa di dare significato ai dettagli che ne determineranno l’esistenza e la sua fine, come a voler mitigare la cecità lungimirante della nostra.

Sembra proprio che, giunto alla metà della mia vita, io non abbia fatto nessun progresso, a meno che non sia da considerarsi un progresso la rassegnazione. C’è il momento erotico del risveglio, che è come nascere. C’è la luce o la pioggia, un simbolo immediato grazie al quale si ritorna al mondo visibile, forse al mondo adulto. C’è l’euforia, la sensazione che la vita non sia niente di più di ciò che appare, luce e acqua e alberi e persone piacevoli che rischiano di andare in mille pezzi per colpa di un collo, di una mano, di un’oscenità scritta sulla porta del gabinetto. C’è sempre, da qualche parte, questo accenno di aberrante carnalità.

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Dai frammenti dei diari di John Cheever (tradotti in Italia da Adelaide Cioni in Una specie di solitudine, Feltrinelli) è facile giocare il ruolo dell’osservatore freudiano e vedere un uomo profondamente diviso tra la morale cattolica, la ribellione alle norme sociali, una bisessualità sempre presente e la dipendenza da alcol ad alleviare le lacune di amanti, frustrazione artistica e disillusione. L’unica colpa di cui si era macchiato John Cheever era la consapevolezza che il peccato originale ha una forma mutevole e attraente, ma è, soprattutto, onnipresente: ognuno se ne può costruire uno con l’unica condizione di non confessarlo per un tacito accordo d’ipocrisia. Probabilmente l’idea di essere un intruso in una classe sociale che non gli apparteneva non faceva che accentuare il senso d’inadeguatezza di un outsider. Quella stessa idea di avere il piede in due scarpe è il lasciapassare per una sperimentazione oltre la norma.

Alla maggior parte delle persone occorre coraggio per gettare la maschera minuziosamente adibita a facciata, perché è la regola che dà ordine al mondo, è l’illusione di una coerenza tanto agognata nelle storie della letteratura. La trasgressione rimane ancorata al sogno invisibile di una notte, per il resto tutto sarà votato all’equilibrio di una bilancia immaginaria tra peccati e opere buone. John Cheever, invece, sceglie di spogliarsi di ogni velo che lo divide dall’apparenza e ogni contatto con la sensibilità gli fa smantellare le impalcature borghesi con più sincerità di chiunque altro.
Per sviluppare uno stile tutto personale bisogna passare per un apprendistato letterario tortuoso e non sempre facile. Anche se, come ha affermato nella raccolta completa dei suoi racconti, «il parto di uno scrittore, diversamente da quello di un pittore, non rivela alcuna interessante affinità con i suoi maestri», il John Cheever degli inizi non nasconde un certo fascino per le opere di Ernest Hemingway. Birra scura e cipolle dolci (traduzione di Leonardo G. Luccone, Racconti Edizioni) raccoglie i tentativi letterari tra il 1931, quando aveva diciannove anni, e il 1942 e chiarisce subito una vicinanza di ricognizione: la semplicità del periodo, la ricerca del lasciar intendere ricordano la facilità dei personaggi di Fiesta di constatare il proprio stato d’animo senza alcun lirismo. Tra le maglie di quello che potrebbe sembrare uno scarno manierismo s’intravedono alcune intrusioni di stile che diventeranno nuclei fondanti.

Avverte i passaggi del giorno e della luce, mattina, pomeriggio, la confusione del crepuscolo, sera. Avverte la primavera e il volgere della stagione. C’è una rapida increspatura di verde tra i due orti, è il grano a modellarla. È un verde terribile, che è gocciolato sul paesaggio come acqua gelida. Il fiume è in piena. Le piogge martelleranno calde e amare sul tetto di lamiera. E lei tutto questo non può fermarlo. Ha mani scarnificate e nervose, che stridono di un’energia strana. Non può alzarle e far sì che il tempo si fermi e resti immutabile, per sempre inverno. Lei tutto questo non può fermarlo con le sue mani, così come non sarebbe in grado di arginare una cataratta o un’onda gigante.

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Nel racconto che intitola la raccolta Amy è la proprietaria di una fattoria che ospita vacanzieri occasionali ed è impensierita dall’avvicinarsi del suo compleanno. In poche pagine l’autore raccoglie scene cruciali fondendo lo scorrere del tempo, il susseguirsi delle stagioni e l’illusione umana d’immutabilità.
Il ritmo delle storie si adatta alle scenografie cittadine e bucoliche che daranno una casa all’autore. Se alla natura appartengono visioni ampie e contemplative sull’inevitabilità e la lentezza del compiersi umano, la città è il movimento nella folla, un disseminare di indizi di una crisi imminente. Ai panorami sconfinati si sostituiscono interni di locali, compartimenti di treni, spazi angusti per segreti in piccole villette di periferia, tutti animati da bozzetti di uomini e donne dalle sorti incomplete. La cameriera Beyonne è ossessionata dall’arrivo di una giovane ragazza; Dorothy professa una fede totale nella disciplina della danza ne La principessa; l’incombente vecchiaia di Beatrice, la spogliarellista dell’omonimo racconto, non la fa arrendere a essere una semplice sostituta. Saranno soprattutto le donne ad allungare la mano verso la luce verde del sogno americano ispirandosi proprio all’umore narrativo di Fitzgerald. Tutta la durezza romantica di Hemingway sfuma in dialoghi dal sapore malinconico e in un sottofondo di innegabile speranza, mentre l’unico intervento del narratore sarà un coinvolgimento sincero senza alcuna interferenza. 

Se i personaggi dei primi racconti erano apparizioni quasi anonime su sfondi mutevoli e ricchi di dettagli, le storie della maturità espandono le conseguenze delle scelte: spesso i protagonisti non sono semplici guizzi dal destino incerto, ma sono personalità ben definite ritratte nel percorso completo di sogno, illusione e disillusione. Il tempo delle vicende si dilata come a voler comunicare, oltre lo sviluppo stilistico, la crescita dolorosa e altrettanto lucida di chi scrive.

In Tutti i racconti (pubblicato da Feltrinelli con la traduzione di Marco Papi, Leonardo Giovanni Luccone, Adelaide Cioni, Franco Lucentini, Laura Grimaldi, Sergio Claudio Perroni) riusciamo a ricostruire le tappe di una consapevolezza crescente. Ne La pentola d’oro le luci di New York brilleranno in un modo inedito perché avvolte dal fascino distaccato che solo speranza, promesse e attese potranno conquistare; come ne Il sovrintendente della casa indovineremo i candidati alla scalata sociale attraverso la loro ascesa architettonica («Dopo un anno o due nel 9E, Chester prevedeva che si sarebbe trasferita in uno degli attici. E da lì sarebbe probabilmente decollata per uno dei più eleganti appartamenti nei quartieri alti nella Quinta Avenue»).

Anche quando il tedio della vita economica si eclissa tutti i protagonisti entrano in una spirale volubile dai contorni materiali e sociali ben definiti: i vialetti ben tosati, le villette dei suburbs disposte una accanto all’altra, le feste e le chiacchiere del vicinato, la prevedibilità della vita famigliare in tutte le sue sfumature, quel senso di profonda conoscenza e intimità che provocano voglia di evasione e insanabile noia nonostante l’infinito amore. La scrittura di John Cheever è in grado di attraversare i cliché più scontati senza offrire soluzioni ma scendendo nei meandri più oscuri della verità. Come il protagonista de Il marito di campagna che, sballottato tra lavoro e ritorno in treno alla vita di provincia, avverte un disagio che gli fa incanalare ogni speranza di cambiamento nelle fantasie con la giovane baby-sitter. O come ne La chimera in cui il pensiero del divorzio dalla moglie è frenato dall’attaccamento all’ordine del vialetto, la quiete solida e materiale di una casa che l’uomo ha riparato con le sue mani. Viene da chiedersi se il vero paradosso non sia l’ironia de Il baco della mela in cui un osservatore esterno non fa che scandagliare la perfetta normalità di una famiglia che sembra non avere nessun segreto.

I Crutchman erano così felici ma così felici, e così moderati in tutte le loro abitudini e così contenti di tutto quello che gli capitava, che si era portati a sospettare che ci fosse un baco in quella mela così rossa.

A leggere storie di matrimoni, innamoramenti, tradimenti, traslochi, figli, ricchezza e miseria si ha quasi l’impressione di essere al cospetto di un compendio della natura umana: tutti vivono nella speranza di un futuro che non c’è mai stato, tutti desiderano il tempo sospeso per vivere il presente allo stesso modo del passato.

“Speriamo che mio padre si sia ricordato di fare benzina”, dice un ragazzo, e una ragazza scoppia a ridere. In mente non hanno altro che lo snodarsi delle sere d’estate. Né tasse né elastici di mutandine – tutte quelle incresciose realtà di vita che minacciano di soffocare Cash – hanno ancora toccato le sagome che sciamano nel giardino dei Rogers. Allora l’invidia lo ghermisce – un’invidia talmente violenta e disperata da farlo star male […].

Si sente come se i ragazzi nel giardino dei Rogers fossero fantasmi di una festa allestita in quel passato che contiene ogni suo desiderio e ogni suo svago, e da cui è stato crudelmente scacciato. Si sente come il fantasma delle sere d’estate. La nostalgia lo soffoca. (dal racconto Oh gioventù e bellezza!)

Lo stile di Cheever riesce a dare importanza a ogni dettaglio del percorso tutto personale dei protagonisti fino a dissezionare ogni sentimento utile a scandire il momento di rottura. Non è detto che per ogni vicenda ci sia una risoluzione, basterà aver illuminato una crepa dell’oscillante natura umana per suggerire uno sviluppo futuro.
Più che leggere storie per estraniarci dalla realtà viene voglia di immaginare il narratore e avremo la tentazione di definirlo onesto, persino autentico perché, con un’eleganza stilistica maniacale, ha confessato una claustrofobia di valori e pratiche che per la maggior parte delle persone costituiscono tappe scontate. Non dimentichiamo però che John Cheever era il primo a rimanere fedele a quella stessa società che criticava, «un adultero che scrisse convincenti elogi della monogamia». Eppure la sua idea di letteratura era contro ogni riferimento alla vita privata perché «la fiction non è criptoautobiografia: il suo splendore sta nel fatto che non è autobiografica. E non è nemmeno biografica. È un ricchissimo complesso di autobiografia e biografia». Nonostante le proteste non possiamo che accostarlo continuamente alle sue storie, ma lo guarderemo sotto la lente di estrema fedeltà a se stesso e di una sottile ribellione, come a voler intraprendere il percorso esistenziale a ritroso dal mondo degli adulti all’innocenza dell’infanzia.

Il tentativo di conservare le apparenze di un uomo immerso nel suo tempo è la speranza di chi è sceso a patti con le parti più contraddittorie della vita. Invece di nasconderle e arrendersi a una normale accettazione, continuerà a raccontarle avvolgendole di speranza come ne I gioielli di Cabot: «I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere o nei sottomarini, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra».

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Raki per incendiare la vendetta moderna. I racconti di Fabio M. Rocchi


di Giordana Restifo


If you prick us, do we not bleed?
If you tickle us, do we not laugh?
If you poison us, do we not die?
and if you wrong us, shall we not revenge?
"
William Shakespeare – The Merchant of Venice (Act III, scene I)

Con una serie di domande retoriche Shakespeare, attraverso il monologo del controverso Shylock, induce il lettore a interrogarsi sulla propria natura di essere umano. Non siamo tutti uguali? Non proveremmo anche noi quell’antico desiderio di vendetta davanti a un torto o a un affronto subito? Vendicarsi, infatti, potrebbe sembrare la conseguenziale reazione a un’offesa o a un sopruso, così come lo è ridere per il troppo solletico o morire a causa di un avvelenamento.
La vendetta è un tema ricorrente e trasversale nella letteratura e nel mondo delle arti. Scrittori, compositori, rapper, rocker, registi e attori, nessuno è immune al suo fascino. Materia misteriosa e ammaliante, ci porta a indagare nelle strozzature dell’animo umano e, quindi, nei nostri stessi anfratti, per provare a scoprire dove e come mai si annida quel desiderio di rivalsa.
Non poteva certo mancare una rappresentazione di tale sentimento nella mitologia classica: profili androgini o femminili, chiome di serpenti, grandi ali, alito mefitico, «e con idre verdissime eran cinte[1]». Dissimili sono le descrizioni e le raffigurazioni (si vedano quelle di Gustave Dorè o di William-Adolphe Bouguereau), delle Erinni (o Furie). Imbracciano forconi, tizzoni ardenti o torce, per punire chi compie delitti di sangue (specialmente quelli contro la famiglia) o trasgredisce alle “leggi naturali”. La personificazione della vendetta che colpisce chi disonora la vita altrui.
C’è un Paese, a poca distanza dall’Italia (poco più di cento chilometri separano le coste pugliesi da quelle di Valona), in cui l’onore e il disonore contano a tal punto da essere stati inseriti nel codice di leggi consuetudinarie (tramandatosi dapprima oralmente), denominato Kanun di Lekë Dukagjini, che per secoli ha disciplinato la vita sociale e culturale dell’Albania. Il matrimonio, il lavoro, la famiglia, l’onore, la vendetta di sangue, ma anche il perdono, ogni aspetto era regolato dal Kanun. L’origine del codice risalirebbe al 1400, epoca durante la quale visse il padre putativo della raccolta di norme, il condottiero Lekë Dukagjini per l’appunto.
A oggi, l’antica legislazione non vige più ufficialmente, anche se alcuni dei suoi dettami sono rimasti profondamente radicati nella cultura del Paese. Uno degli aspetti, tra i più aberranti rimasti in uso (soprattutto nei territori al Nord dell’Albania), è quello della gjakmarrje, la vendetta di sangue. Un qualsiasi conflitto interpersonale può tramutarsi in un insensato spargimento di sangue, che include famiglie e parenti di ogni grado. Un concetto interpretato a proprio uso e consumo che si traduce con quello di giustizia privata. Nei secoli la pratica della vendetta è andata affinandosi, ha camminato di pari passo con la modernità che, avanzando lenta e inesorabile nel Paese delle aquile, ha dovuto fare i conti con i retaggi del passato.

I cittadini albanesi, impreparati ad affrontare un futuro talmente imminente che nei paesi attorno a loro era già presente, hanno provato ad accogliere le trasformazioni della società dopo decenni di occlusione. Negli anni ‘90 le barriere sono cadute. Diversi fattori, come il capitalismo, l’era dei consumi, l’industrializzazione, hanno spinto il paese ad aggiornarsi. Non tutti, però, si sono adattati alla nuova situazione, alcuni non sono riusciti a scrollarsi di dosso vecchi dogmi tramandati da una generazione all’altra. In questo modo vivono e si comportano i personaggi dei racconti di Fabio Rocchi nel suo esordio letterario La disputa sul raki e altre storie di vendetta, edito da Besa Muci e pubblicato lo scorso febbraio. Si muovono in bilico fra tradizione e cambiamento, chi disorientato, chi, invece, ben consapevole delle proprie azioni, in maniera talmente realistica che qualcuno potremmo pure pensare di conoscerlo.

Prima di incontrare i genitori, i figli, gli imprenditori, gli ingegneri, i tassisti infiammati o anestetizzati dal raki, che con la propria storia ci raccontano quella di molti, alcune affinità tra la casa editrice salentina Besa Muci e le narrazioni del professore italiano (insegna all’Università di Tirana) hanno catturato il mio interesse: l’Albania e la Puglia, specchiandosi l’una con l’altra, si sono legate e hanno costruito, negli anni, un rapporto diretto e complesso … può succedere con i dirimpettai; la seconda connessione riguarda una parola che ha insito un significato profondo, difficile da tradurre perché portatrice di un principio cardine della cultura albanese, “besa”. La besa è la parola data, la fede giurata, una promessa fatta e rispettata o da rispettare, la parola d’onore. Come si diceva, attorno all’onore ruotano tutti i dettami del Kanun. La besa è una parola “irrevocabile” con la quale ci si assume un impegno: dal rispetto per il matrimonio e per la famiglia a quello per la casa, dalla sacralità con la quale trattare gli ospiti alla cura che si mette nel lavoro.

I personaggi di Fabio Rocchi agiscono, mossi da una besa silenziosa, per vendicare un oltraggio (che loro reputano tale), subito in prima persona o da chi gli è caro; finendo, in alcuni casi, per autosabotarsi senza rendersene nemmeno conto. Uomini e donne che rinunciano a legami di sangue o ad amicizie storiche, spinti dall’intramontabile sete di denaro (come nei racconti Non si decide a morire o Il vicedirettore è al momento assente), figli che sacrificano la propria vita in nome dell’onore della propria madre (Bulloni). Celata dietro le storie che compongono La disputa sul raki, c’è la volontà di un paese in evoluzione di rimanere ancorato, in modo viscerale, alle proprie usanze, ai propri ragionamenti e atteggiamenti. Da una parte c’è il desiderio di una modernità bramata, la voglia di aprirsi all’Europa, alle sue mode e ai suoi costumi (come in Cleardate dot com o in Rinas-Frankfurt Hahn-Rinas), dall’altra l’ambizione di apparire a ogni costo “uomini tradizionali”, scadendo in quelle forme di patriarcato ben conosciute nel mondo occidentale, che porta un fratello ad arrogarsi il diritto (senza alcuna concessione) di criticare la sorella per il modo di vivere, di comportarsi, di vestirsi (sempre in Rinas-Frankfurt Hahn-Rinas).
Rocchi racconta, tra le righe, di un’Albania che prova a scacciare i fantasmi del regime comunista di Enver Hoxha, culminato nel caos totale con una sanguinosa guerra civile. Leggendo Alessandro Leogrande ci si può fare un’idea di come hanno vissuto gli albanesi (almeno quelli all’interno del perimetro geografico dell’Albania) fino agli anni ’90: «Nessun rapporto con l’esterno, nazionalismo esasperato, controllo totale del Partito, culto del capo al limite della paranoia collettiva, carcerazioni di massa, repressione capillare[2]». Alcuni dei cittadini che popolano La disputa sul raki vedono e vivono la trasformazione del paese in cui abitano, assistono alle speculazioni edilizie e all’ampliamento delle città, sperimentano la rivoluzione democratica che ha aperto alle lingue straniere (come nota Isabella, la protagonista del racconto Il festival internazionale delle letterature, dal driver allo staff del convegno a Tirana al quale partecipa, tutti sono abili nel parlare in inglese e in italiano). La democrazia ha anche accelerato, per forza di cose, la spinta al consumismo e un oggetto come la televisione è entrato nelle case albanesi, portando nuovi idiomi, allegria, informazioni, ma anche sogni e scompiglio in qualche famiglia, come in quella di Aferdita, protagonista del truce racconto L’imbutino (anche lei oppressa da antichi retaggi e usanze da accettare a testa bassa):

I suoi giurano che l’ha rovinata la tv italiana, con i programmi dedicati alla ricerca dell’amore e alle storie di assassini. Con tutti quei sogni sbagliati che coltivano le ragazze di laggiù. Ne sono fermamente convinti nel paese, tant’è vero che le ragazze che si mettono a guardare la De Filippi o la Leosini appena rientra il padre vengono prese a male parole: spegnete subito quel coso. Non vi voglio più vedere a sbavare di curiosità dietro quelle kurve impestate se non volete fare la fine di Aferdita la delinquente.

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Il processo di transizione in Albania è ancora in atto; ciò ha fatto sì che, nonostante gli sforzi, le aperture, la vicinanza, almeno geografica, all’Europa, il paese non sia entrato a pieno titolo a far parte dell’UE (nel 2009 ha presentato la propria richiesta di adesione, nel 2014 gli è stato concesso lo status di “paese candidato” e tuttora si trova in questo limbo). Gli affari sono ancora gestiti con la propria valuta, il lek – al plurale lekë – albanese (al momento un lek vale circa 0,80 centesimi di euro), difatti, i personaggi dei racconti contrattano, scambiano, parlano, prestano e pretendono indietro lekë o “lekë nuovi”, mostrando attinenza all’attualità (nel 2019 la Banca d’Albania ha presentato i nuovi tagli di banconote, alcuni già emessi, altri inizieranno a circolare quest’anno e nel 2022). Non far parte ancora degli stati membri dell’Unione Europea comporta che se dei cittadini albanesi decidessero di andare a vivere in un Paese comunitario avrebbero bisogno di un permesso di soggiorno; parimenti chi decide, come molti italiani, di andare a vivere in Albania deve farne richiesta.

Tornando al rapporto diretto instauratosi tra Albania e Italia, da qualche anno si assiste anche al rapporto inverso: le aziende decidono di delocalizzare i propri processi produttivi in Albania, gli imprenditori vi soggiornano per comprenderne meglio i vantaggi e nel paese ormai abbondano gli expat. In Albania, sosteneva Alexander Langer, «è proprio l’insieme assai precario della situazione che favorisce una larga fioritura di fantasiosi business di ogni genere, dove il genio di improvvisazione e l’arte di arrangiarsi – ben conosciute in tutto lo spazio mediterraneo – celebrano fasti notevoli[3]». A questa tesi sembra essersi ispirato Gianni, il protagonista dell’ultimo racconto, quello che dà il titolo, e il significato più profondo, a tutta la raccolta. Un italiano che si è inventato un estroso business, nel quale ha coinvolto anche un albanese, un turco e un greco, assolutamente consapevole che tale mescolanza di culture ricordi una barzelletta.
È in questo racconto che il protagonista, oltre al giovane italiano, è il raki; ma di cosa si tratta? E cosa rappresenta? Innanzitutto, bisogna dire che è la bevanda alcolica che quasi tutti i paesi balcanici si contendono (proprio come nella disputa tra l’albanese, il turco e il greco di Rocchi). È un liquido incolore talmente forte da annientarti per un attimo tutti i sensi insieme; c’è chi dice che sia simile alla grappa, chi all’ouzo, chi all’acquavite; la verità è che assomiglia solo al gusto che ogni popolo gli attribuisce. Ed è molto più di un distillato, un liquore o un digestivo. Con il raki si prendono decisioni importanti, si scuote il dolore, ci s’infonde coraggio, si stringono patti e si fanno accordi, si festeggia la fine del Ramadan con amici e parenti, che siano questi musulmani, ebrei, ortodossi, cristiani o atei[4]. Se ne ha sempre una scorta in casa pronta per essere offerta. Una cara donna di Elbasan mi ha detto che il raki simboleggia la «maledizione delle mogli e la gioia (rifugio) dei mariti, ma anche la prima sbronza dei bambini che si apprestano a diventare adolescenti». Per chi è cresciuto in Albania, è un sapore che sa di casa, di origini; difficilmente si trova nei ristoranti o nei locali, ma ogni albanese conosce almeno una persona (un parente, un amico, un parente di un amico o un amico di un parente) che prepara bottigliette (rigorosamente riciclate da altre bevande) di raki take away. Così, può capitare che, in una notte italiana, intontiti dal sonno, ci si alzi dal letto per andare a bere un po’ d’acqua, si afferri una bottiglietta dal frigo e in un istante, giusto il tempo di mandare giù, i ricordi ti scuotano riportandoti nella tua terra: echi di risate e di pianti, urla per una nuova vita o per un’altra perdita, un antico canto, un sapore lontano di fërgesë della nonna, anche se a cena hai mangiato pizza.
Non in tutti i racconti della raccolta è menzionato il raki, forse per non renderli ridondanti, come può essere distruttiva la bevanda al terzo bicchiere per uno stomaco debole o non abituato.
Nelle ultime pagine de La disputa sul raki, Gianni, con le sue elucubrazioni alcoliche, ci permette di avvicinarci con meno timore ai personaggi che l’hanno preceduto. Sdraiato su quella terrazza, si sente finalmente parte di un luogo, si trova a suo agio, capisce che le differenze tra lui e i suoi soci (e quindi tra il suo e i loro popoli) non sono poi così marcate, né rilevanti:

Maledetti Balcani, alla lunga ti persuadono con la loro forza. Le differenze non erano così spiccate come avevo pensato all’inizio.

 

In fondo, e forse anche grazie all’effetto del raki, riesce ad assolvere quei tre uomini boriosi, presuntuosi e pieni di sé, perché, e questo è anche un punto fermo nel Kanun, la vendetta si può attuare con spargimenti di sangue ma soprattutto con il perdono generoso.

 

[1] Nel suo viaggio all’Inferno, Dante Alighieri incontra le Erinni che sbucano fuori all’improvviso e con il loro aspetto lo terrorizzano; Virgilio si sofferma a descriverle e prova a tranquillizzare il sommo poeta. Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto IX.

 [2] A. Leogrande, Il paese di fronte, contenuto in Dialogo sull’Albania, a cura di G. Accardo, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano, 2019.

[3] Testo inedito di Alexander Langer del 1994, contenuto in Dialogo sull’Albania, a cura di G. Accardo, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano, 2019. 

 [4] Il richiamo è a uno dei romanzi di Anilda Ibrahimi, Il tuo nome è una promessa, Einaudi, Torino, 2017.

Un boccone di buio Su Tre orfani di Giorgio Vasta

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di Roberto Galofaro

Tre orfani di Giorgio Vasta (Casagrande, 2021, 30 pp.) è tra i migliori racconti che leggerete sull’annus horribilis 2020. Non è un reportage cronachistico, come se ne sono letti molti, non entra nel dramma della malattia o nel caos della cosiddetta prima linea degli ospedali né affronta i temi filosofici dibattuti e contrapposti dell’“andrà tutto bene” e del “niente sarà più come prima”: è un bellissimo racconto, invece, pura fiction, che sa mostrare poeticamente come il confinamento abbia operato nella psiche individuale.
È un testo nato nell’ambito del festival Babel, nell’edizione del 2020 condizionata dalla pandemia (anche nei contenuti, certamente) e intitolata Atlantica, dedicata al rapporto tra le Americhe e l’Europa. E questo spiega perché vi compaiano, surrealmente addomesticati e familiari, i due eroi melvilliani Bartleby e Achab.
Sono l’incarnazione di due solitudini differenti (e forse opposte) che sono anime della terza, quella del narratore.
L’introflesso Bartleby che cancella gli impegni futuri del narratore, depennandoli dall’agenda con gesto da scrivano, che fa sparire dalla memoria del cellulare le fotografie e che annulla anche il passato, quindi, eliminando i contatti dalla rubrica, le conversazioni e le email, sottraendo il protagonista non solo da ogni obbligo ma anche da ogni relazione e da ogni interesse.
Achab, inquieto e maniacale, teso a un obiettivo indicibile e lontano eppure condannato a navigare per inseguirlo, che intaglia una punta d’arpione in un manico di scopa per farne un’arma da scagliare contro l’irraggiungibile capodoglio che è l’umanità circostante, visibile a distanza dal terrazzino di un palazzo di Palermo come dalla tolda di una baleniera che incrocia sull’Atlantico, ma non avvistabile.
Questi personaggi non smettono di essere “sé stessi”, se dire questo ha senso, ovvero protagonisti di finzioni con le loro storie e l’intreccio noto, eppure si prestano al disegno di Vasta, che è quello di un compleanno significativo (mezzo secolo), vissuto in isolamento, in una casa troppo grande e troppo vuota, grande fino al paradosso e paradossalmente abitata dai fantasmi.
La densità di implicazioni, tra fantasia e testimonianza, è evidente dalla frase che apre il racconto:

 

Alle sei del mattino di giovedì 12 marzo 2020 sono entrato nella cucina in penombra della casa palermitana in cui abitavo da due mesi e mezzo e, ognuno seduto su una sedia ai lati del tavolo,
ho trovato Achab e Bartleby.

La data ci dice che siamo in presenza della realtà, concreta e certificabile, ci àncora alla Storia che conosciamo: siamo in Italia, il lockdown è iniziato da poco (il decreto del Presidente del Consiglio che estendeva le limitazioni e le chiusure a tutto il territorio nazionale è del 9 marzo). Allo stesso tempo, sappiamo di essere in un campo surreale, quando leggiamo i nomi dei due personaggi letterari.

Siamo, però, all’interno di una casa: più avanti il narratore la definirà esplicitamente «paradossale», forse perché enorme, piena di stanze vuote, di mobili e letti che nessuno occupa, certo anche perché coincidente con una casa angusta di New York e con un abitacolo disperso tra i marosi dell’Atlantico. Ma il paradosso non starà forse anche nel fatto che una casa abitata da soli due mesi sia la casa in cui trascorrerà l’intera, lunghissima, durata del confinamento?

La scomodità dell’abitare, la difficoltà di radicarsi pacificamente in un luogo è un tema ricorrente in Vasta.
In Spaesamento (Laterza, 2010) – un attraversamento di Palermo, delle sue anime inquiete che fanno sperpero di sé, insabbiate nell’indolenza e ancora pesantemente nell’ombra del berlusconismo, come il Paese tutto – diceva di entrare nella città natale e nella casa dei genitori con un sentimento di «rabbia del ritorno»:

 

A Palermo non vivo più da quindici anni. Ci torno con una frequenza irregolare. Posso non andarci per un anno intero e poi due volte in un mese; stavolta sono via da dieci mesi. Mi sono rimasti tre giorni di ferie e ho deciso di passarli qui. Nessun progetto, nessuna intenzione, soltanto il bisogno di ridurre tutto al minimo.

 

In Absolutely nothing (Humboldt, 2016), raccontando un viaggio nei luoghi abbandonati dell’entroterra statunitense, luoghi in cui scheletri di edifici conservano impronte di abitanti come di fantasmi, aveva scritto (quasi trasformando il reportage in un percorso da un non-luogo verso altri non-luoghi):

 Nello stesso periodo in cui finisco di scrivere questo libro mi ritrovo senza fissa dimora. Per un incrociarsi di circostanze, dopo quasi tre anni di permanenza a Roma non ho più una casa e devo riparare a Palermo, la città dove sono nato e cresciuto e che ho lasciato vent’anni fa. I mobili dell’appartamento dove ho abitato a Roma si trovano adesso in un deposito a Zagarolo […]. L’indisponibilità di ciò che fin qui è stata la mia vita materiale in parte mi disorienta, in parte mi conforta.

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Ancora: in Storia del mio presente (racconto contenuto nell’antologia tematica Risentimento, a cura di Giovanni Accardo, Alphabeta Verlag, 2018), leggiamo:

 

Dopo vent’anni passati altrove, nell’autunno del 2015 sono tornato a vivere a Palermo. Cambiare spazio non vuol dire cambiare tempo, non modifica le abitudini, non rivoluziona lo spirito. E dunque a Palermo il mio risentimento non è venuto meno: al contrario, è diventato ancora più aspro. Perché Palermo è la città canaglia – è sperpero, beffa, oltraggio.

 
In questa scrittura del confinamento (senza che mai Vasta adoperi nel lessico ricchissimo e vario, che spazia dal tecnicismo nautico alle involate poetiche, le parole “lockdown”, “confinamento”, “restrizione”) non ci sono amori, non ci sono presenze determinanti né assenze conclamate che diano forma alla solitudine, che è totale. Non esiste il mondo esterno, non esistono altri personaggi (se non nella distanza dell’evocazione, nell’elencazione delle ragioni per cui i nomi di alcuni – non riportati – compaiono nella rubrica per esserne cancellati), nessun altro è individuato, neanche nelle case circostanti, non esistono passanti. Eppure, siamo nel 2020 che conosciamo: alle 18 in punto la Protezione civile dirama il bollettino con il numero dei positivi, dei ricoverati, dei defunti e dei guariti, quasi fosse un bollettino del mare, un indispensabile ausilio per la navigazione che non può avvenire.
L’arpione scagliato nel buio non tende a un obiettivo concreto. Le lame delle ringhiere lontane sono come fanoni nella bocca delle balene, l’umanità incombe a distanza sui “flutti audaci della vita trascorsa”.
E, nella chiusa, il piatto apparecchiato per la festa dei tre orfani, quello che compie cinquant’anni e gli altri due fantasmi misantropi, è un tortino simbolico di formaggio, zenzero, acqua e fuoco, da mandare giù come un «boccone di buio», condensato del tempo «chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato».
Inevitabilmente tornano in mente i Bocconi del racconto d’esordio di Vasta (pubblicato nel 2006 nell’antologia Voi siete qui, a cura di Mario Desiati, minimumfax), che il bambino protagonista sputava di nascosto e di nascosto infilava nella cavità del piede del tavolo di casa, e che un giorno, rovesciato il tavolo, vengono allo scoperto rivelando il suo trucco. Ancora una volta, tempo che si fa materia e dissoluzione, materia che si fa tempo in un’entropia inevitabile, ma assurdamente, allora, sotto il segno della luce (e non del buio):

 

[…] mi accorsi che ogni boccone o blocco di bocconi sedimentari in quel momento sembrava (sarà stata la luce del mattino o il mio luminoso imbarazzo) un frammento di luce dura, un sasso di luce pietrificato, una luce pesante, consistente, che volendo poteva essere scagliata contro un vetro, e lo avrebbe rotto, una luce-arma contundente, una luce che doveva essere contenuta nel cibo, nei bocconi vivi, e che quindi era destinata a finire nel mio stomaco […].

 

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Per Dorothy Parker, tanto vale vivere

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di Debora Lambruschini

“Scusate la polvere”: la prima cosa che mi viene in mente pensando a Dorothy Parker sono le sue ultime parole, l’epitaffio che scelse per le proprie ceneri; questa frase brevissima e pungente ho sempre pensato riassumesse perfettamente lo spirito di questa scrittrice caustica, brillante e feroce. Ad aggiungere ironia alle parole c’è stata anche la questione pratica delle sue ceneri, per cinquant’anni sballottate da un luogo all’altro, per poi finalmente trovare posto, solo ad agosto del 2020, nel vecchio cimitero del Bronx.

Non è un caso che abbia iniziato da qui a parlare di Dorothy Parker, dalla morte e dall’ironia: della prima Parker ne ha scritto direttamente in pochi racconti, è vero, ma il desiderio dell’oblio, la disperazione, l’assenza che si fa lutto, è qualcosa che percorre moltissime delle short story e degli articoli di costume scritti nel corso degli anni; e l’ironia, aguzza, questo è il tratto caratteristico di una scrittrice talvolta vittima del suo stesso personaggio, ma è grazie a quel modo tutto particolare di scandagliare le persone e la società newyorkese degli anni Trenta e Quaranta che immediatamente riconosciamo Dorothy Parker tra le pagine. La scena intellettuale dell’epoca è stata per Parker fonte pressoché inesauribile di spunti per la sua carriera letteraria e l’ambiente in cui ha modellato la propria voce, erosiva e brillante: poetessa, autrice di racconti e testi umoristici, saggi, sceneggiature, il suo nome e la sua persona erano ben noti in città, forse, moderna Oscar Wilde, ancor più dei suoi testi stessi. Nata in una famiglia modesta – il cognome da nubile, Rothschild, non ha alcun legame con la potente dinastia di banchieri – si distinse fin da ragazzina per quell’ironia che sarebbe poi diventata tratto caratteristico: del genere che fu cacciata da scuola – cattolica – per aver definito l’Immacolata Concezione una «combustione spontanea». Lì è nato lo spirito di Parker e il personaggio che è stato la sua fortuna e la sua condanna insieme. Quella voce, comunque, divenne il mezzo per farsi strada nell’ambiente intellettuale, con collaborazioni prestigiose dal New Yorker – cui ha partecipato fin dal primo numero della rivista – a Vogue e Vanity Fair. Ed è mediante quella stessa voce che ha saputo non solo raccontare le miserie quotidiane di un’umanità dolente e ipocrita, ma dentro e fuori dalla pagina l’ha usata per le cause in cui credeva, a partire dalla lotta per i diritti civili, cui è stata fra le prime aperte sostenitrici. La stessa vicenda privata di Parker meriterebbe di essere raccontata, non tanto per mera curiosità ma per la particolare commistione fra arte e vita che talvolta si è realizzata nei suoi racconti, oltre per la curiosità verso un personaggio, una donna, che non ha mai fatto sconti a nessuno, a partire da se stessa. «La gente si arrabbia con me perché ho troppe opinioni», dice Fran Lebowitz nella recente docuserie che Martin Scorsese le ha dedicato, una frase che non a caso potrebbe essere uscita dalla bocca di Dorothy Parker, le cui forti opinioni in qualche occasione le sono costate il lavoro – da Vogue, appunto – o l’iscrizione sulla lista nera di Hollywood.
Ma è ancora possibile godere della lettura dei racconti di Parker, ambientati in una New York che non esiste più? Basta leggere appena un paio di queste storie per rendersi conto che quel mondo potrebbe benissimo essere contemporanei, che i vizi – molti – e le virtù – quasi assenti – raccontate superano abilmente barriere cronologiche e geografiche. Certo, quell’ambiente da lei descritto non esiste più e alcune dinamiche sono mutate, ma l’animo umano al contrario non è cambiato poi tanto, da una parte all’altra dell’oceano e del secolo. È per questo costante dialogo con la contemporaneità, per l’ironia e l’intelligenza, lo sguardo attento, che leggere Parker è ancora oggi un’esperienza importante.

In Italia la storia editoriale di questa scrittrice è stata altalenante e a periodi di pubblicazione sono seguiti molti anni di oblio e difficoltà a reperirne le opere; due raccolte di racconti, “Eccoci qui” e “Dal diario di una signora di New York” erano apparse qualche anno fa nel catalogo di Astoria ma da tempo risultavano praticamente introvabili, fino a riapparire proprio in questi mesi in una nuova veste, per lo stesso editore. Tanto vale vivere – dal celebre verso finale di una delle poesie più note di Parker, ripresa anche nel film Ragazze interrotte – comprende entrambe le raccolte precedenti in un unico volume, con una breve prefazione a cura di Natalia Aspesi e l’accurata nuova traduzione di Chiara Libero.  Ventuno racconti cui ci auguriamo possa seguire un ulteriore volume con il resto della produzione letteraria e, magari, arricchito di un apparato critico-bibliografico adeguato, che invece manca in questa edizione, come del resto dalla quasi totalità dei testi pubblicati oggi. Ma torniamo a Parker, ai suoi racconti: colpisce, si diceva, la contemporaneità dello sguardo, attento scrutatore delle contraddizioni, delle ipocrisie e del conformismo di una società della quale riconosciamo ancora alcune dinamiche relazionali; le solitudini, la vacuità, le distanze dentro certe relazioni non sono poi così lontane da quanto potremmo talvolta osservare intorno a noi.

 

Si potrebbe pensare che ci si abitua, in sette anni, ci si rende conto che le cose stanno così, e ci si rassegna. Ma non è vero. Una cosa simile ti logora i nervi. Non era uno di quei silenzi intimi, pieni di familiarità, che di tanto in tanto si stabiliscono tra persone vicine. Ti fa sentire come se dovessi fare qualcosa per rimediare, come se non stessi compiendo il tuo dovere.
(Che peccato)

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Se la società è mutata, il classismo e la discriminazione razziale non sono del tutto scomparsi, ma hanno assunto forme differenti, come il «terrore della solitudine» che le donne di Parker combattono vanamente con l’alcol e relazioni di facciata. Con la sua feroce ironia, ha saputo raccontare uomini piccoli e meschini, le illusioni e il dramma di donne fragili, tormentate dall’assenza, le estraneità dentro il matrimonio, il perbenismo e le convenzioni dietro cui celare gli abissi di solitudine e frustrazione. E nel farlo, attraverso racconti quasi sempre brevissimi, ha scelto di immergersi in quegli abissi che lei stessa conosceva molto bene, raccontando la consolazione dell’alcol, il disperato bisogno di essere amati, le conseguenze più terribili cui può portare la solitudine. Il sarcasmo che attraversa la pagina è dosato in modo sapiente ed è l’unico filtro possibile con cui osservare le meschinità del quotidiano e non restarne schiacciati, di cui “Il meraviglioso Vecchio Signore” ne è in questo senso l’esempio più lampante, la spietata freddezza e cinismo con cui le figlie attendono la dipartita del vecchio padre.
Sono molte e differenti le donne tratteggiate da Parker e verso ognuna di queste, dalla più misera alla più crudele, posa uno sguardo carico di pietà – ma che si tiene sempre ben lontano dal pietismo – e di empatia, lo stesso con cui sembra invitare il lettore ad osservare.

 

Frivoli, meschini, che ne sanno della sofferenza? Hanno cuori di pietra che non si possono spezzare. Non sanno, vuoti sciocchi, che non potrei vedere gli amici che vedevamo insieme, che non potrei tornare dove lui e io siamo stati? Perché lui se n’è andato, ed è finita. È finita, è finita. E quando finisce, solo i luoghi dove hai provato dolore non ti causano sofferenza.
Se torni sulla scena della tua felicità, il tuo cuore arderà, agonizzante.
(Sentimento)

 

Nella prefazione cui si accennava, Aspesi per un attimo si interroga su come verrà recepita dalle ragazze di oggi la lettura di questi racconti, lasciando intendere – o almeno è quello che è parso a me – come a tratti potrebbe rivelarsi una ricezione problematica per le dinamiche relazionali rappresentate. Ecco, in questo senso è assolutamente necessario invece a mio avviso tenere bene a mente l’epoca in cui questi racconti sono stati scritti, per non incappare in pericolose recriminazioni. Ma guardando più in profondità, spogliate di certe dinamiche fortunatamente superate, c’è in queste storie ancora molto del cuore umano, come il peso di alcuni tabù – l’aborto – , gli abissi cui può portare la solitudine, la disperazione, la distanza di certi rapporti logori. No, non siamo più le donne descritte da Dorothy Parker, ma forse ne conosciamo qualcuna.

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Il doloroso incanto di Fleur Jaeggy

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di Debora Lambruschini

La felicità feriva come una lama ardente.

(“Senza destino”, La paura del cielo)

 

Di lame è disseminata l’opera intera di Fleur Jaeggy: frasi spietate, parole scelte con precisione chirurgica, la prosa limata e limata ancora fino a ridurla all’essenziale, non un termine o un segno di punteggiatura superflui. Nata in Svizzera e presto trasferitasi in Italia, Fleur Jaeggy è una scrittrice schiva, che rifugge ogni logica editoriale, centellina le parole e strega i suoi lettori con quella prosa scarna, le increspature minime della superficie che lasciano intravedere il mondo sommerso della narrazione. Leggere romanzi e racconti di Jaeggy, tutti editi da Adelphi, è un doloroso incanto: colpiscono per la profonda introspezione dei personaggi, i movimenti interiori svelati da un gesto, una di quelle piccole arricciature che rivelano l’abisso; ma è anche una lettura che scortica, mai consolatoria o salvifica, una discesa negli angoli bui dell’essere umano, tra solitudini, parole taciute, assenze, perdite. Una letteratura che si nutre di ossessioni, della scrittrice rispetto a determinate tematiche e spunti, del lettore catturato dalla «calma violenta» della narrazione.
Mi avvicino a Jaeggy con diffidenza, nel tentativo di svelarne il mistero, il suo nome che non smette di circolare sottovoce tra i lettori, una sorta di passaparola lontano dal caos del mainstream; è un incontro il nostro avvenuto quasi per caso: la prosa di Jaeggy portata come esempio delle capacità della sottrazione, di raccontare i moti dell’animo umano, una narrazione costruita sull’interiorità dei personaggi, in cui trama e forma si compenetrano. Traccio la strada che mi ha condotta a Jaeggy perché lì si è delineato il mio personale modo di leggerla, tentando di interpretarla e farla mia, sbagliando probabilmente e cogliendone solo una parte minima, soggettiva, marginale, come in fondo lo è ogni lettura che facciamo. Ma immergersi totalmente nel mondo di questa scrittrice sfuggente è stato il modo ideale per comprendere la malia esercitata sui lettori, il filo rosso che lega ogni pagina scritta in un gioco perfetto di rimandi, spunti, occorrenze e, ancora, la fiducia nella propria scrittura, mai mutata.
È così, quindi, che ci si accorge anche di come Jaeggy scriva e riscriva – magnificamente – la stessa storia: come Richard Yates, come Shirley Jackson, come Raymond Carver, Jaeggy nutre la propria ossessione e la nostra scrivendo e riscrivendo appunto lo stesso nucleo essenziale, ma ogni volta è un piccolo miracolo di scrittura e profondità. Inseguendo un filo cronologico, si parte da I beati anni del castigo – le primissime opere di Jaeggy sono praticamente introvabili -, il romanzo del 1989 con cui vinse il Premio Bagutta: e non è un caso, iniziare proprio da qui, perché è dentro queste pagine che si trova il nucleo narrativo di Jaeggy, quello che inseguiremo una storia via l’altra, tra richiami talvolta espliciti, altre più sottesi. E qui c’è già tutto il suo mondo letterario: un collegio femminile sulle alpi svizzere, le assenze, la solitudine, l’amicizia che sconfina nell’amore-ossessione, la gioventù mai innocente, la vita indissolubilmente legata alla morte, il contrasto dentro-fuori; la scrittura già perfetta, il gusto per l’ossimoro, i ripetuti cambi di tempo verbale e di soggetto, il profondo lavoro di omissione, i dettagli minimi che rivelano le voragini della narrazione. I beati anni del castigo è il romanzo più celebre di Jaeggy ed è qui che si delineano i tratti delle narrazioni che verranno, i perni intorno a cui l’autrice costruisce il suo mondo letterario, a partire dalle assenze e dal senso di solitudine, un fantasma che migra di storia in storia. È, per esempio, assenza di punti di riferimento famigliari solidi: il rapporto di quasi totale estraneità tra il padre e la figlia protagonista e narratrice principale della storia, la figura sullo sfondo di una madre lontana ma ingombrante che detta legge e decide di ogni aspetto della vita della figlia, pur non palesandosi mai.

 

Lei ordina, io obbedisco, i trimestri sono guidati da lei, è tutto scritto nelle lettere e nei francobolli,
campane senza suono. Dispacci.

(I beati anni del castigo)

 

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Assenza di parole, perché non adeguate a dare voce a sentimenti complessi, all’amicizia tra lei e la nuova arrivata, Frédérique, bella, schiva, misteriosa quel tanto che basta a conquistare il cuore della protagonista e ad aprire una voragine con la sua improvvisa assenza.

 

Avevo perso ciò che avevo di più importante nella mia vita, il cielo era sempre azzurro, dimentico, tutto anelava alla pace e alla felicità, il paesaggio era idilliaco, come l’adolescenza idilliaca e disperata.
(I beati anni del castigo)

 

Di queste voragini, ancora una volta, è intessuta ogni storia di Jaeggy: abissi di solitudini e disperazione che si rivelano da una fotografia, da un segreto serbato per tutta la vita, da un gesto violento e brutale. Jaeggy apre squarci, sulla pagina e dentro il lettore, con una scrittura che rasenta la freddezza tanto è calibrata, scarna.
Mancanze anche quando le distanze si accorciano, almeno geograficamente, ma che non sanno farsi parola, affetto, reale vicinanza: nemmeno tra un padre e una figlia, insieme in crociera (Proleterka, 2001) per quello che sono consapevoli essere l’ultimo viaggio, l’ultima occasione per conoscersi davvero.

 

Per lui è importante quel viaggio. Avevo pensato prima di partire che mi era indifferente la destinazione. Il viaggio in Grecia faceva parte della mia educazione. È il nostro primo viaggio – e sembra l’ultimo. Johannes, la persona a me inverosimilmente ignota. Mio padre. Non una confidenza. Eppure un legame anteriore alle nostre esistenze. Una conoscenza nell’estraneità totale.

(Proleterka)

 

L’incomunicabilità è tale tra i due da renderli quasi estranei, la distanza che si fa vuoto, un’assenza già annunciata, vissuta. Quel viaggio che dovrebbe essere l’occasione di un avvicinamento, diviene invece per la protagonista il tempo della scoperta sessuale, il passaggio brutale dall’infanzia all’età adulta ma, si badi bene, non la perdita dell’innocenza, una condizione estranea ai personaggi e alle narrazioni di Jaeggy. E quella madre lontana, la cui autorità non viene mai meno, nonostante la distanza e la “libertà” conquistata dopo gli anni del collegio, il vuoto che la sua partenza ha lasciato tra loro.

 

Il suono del pianoforte rappresenta tutto ciò che non ho avuto. La sentivo suonare quando ero molto piccola, quando ancora era sposata con Johannes. Poi quel suono è finito. Le stanza tacevano. Ho odiato quel silenzio, senza saperlo. Il silenzio ricevuto da un uomo e una donna che si lasciavano e hanno disposto in modo assoluto della vita di una figlia.

(Proleterka)

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Una madre che muove vite e custodisce segreti terribili, che si rincorrono, come altre micro narrazioni, da un racconto all’altro. Dove, per esempio, ritroviamo Frédérique, irriconoscibile, perduta, colmiamo parte dei vuoti della narrazione, delle assenze, ma rinunciando subito all’idea di ottenere un quadro con tutti i dettagli, possiamo solo cogliere i piccoli indizi che Jaeggy dissemina qui e là, le rivelazioni che ci concede improvvise. Tragica e meravigliosa, Frédérique appare come un fantasma, alimenta l’ossessione mai svanita della protagonista, la intravediamo qualche volta chiaramente altre meno, in un gioco di complicità tra Jaeggy e il lettore. Perduta, la malattia mentale che esplode violenta, i tentativi di salvarla. Ecco, la violenza, tanto brutale quanto inaspettata, è un’altra ricorrenza nelle pagine di Jaeggy che, a tratti, ricorda certe storie di Shirley Jackson, pur con tutte le differenze del caso. Esplode sulla pagina di Jaeggy in forme e moti diversi: è il gesto improvviso di una mente distorta, è la vendetta contro una vita sofferta, ma è anche la complicità dettata dalla compassione e dall’amore, forme molteplici che si sommano quasi tutte ne La paura del cielo, sette racconti di brutale bellezza. Qui le occorrenze sono date dal cielo minaccioso, dal gesto violento appunto, dalla riflessione su solitudine e assenze che come un fil rouge percorrono l’opera tutta di Jaeggy. Ancora, la perdita e il lutto, l’incomunicabilità dentro i rapporti, la morte, il suicidio talvolta, che tornano nelle pagine di Sono il fratello di XX, un altro sguardo ancora sulla protagonista senza nome del primo romanzo, sulle vite intrecciate alla sua, i misteri almeno in parte svelati.
Le «vite sbagliate» cui Jaeggy dà forma sono intrise di mancanze, dolore, un vuoto riflesso come si diceva dalle profondità della narrazione, dalla sottrazione, che trova massima espressione nel racconto breve, brevissimo, ma che in fondo è un modo proprio di guardare e sentire una storia, fotografandone un certo dettaglio, lavorando ossessivamente sulla parola, mostrando le increspature della superficie; un’attitudine che si rivela anche nei romanzi – se possiamo considerarli davvero tali o non più propriamente novelle. Che racconti un frammento o una vita intera – per esempio nelle Vite congetturali di De Quincey, Keats e Schwob – riconosciamo quella particolare lente con cui lo scrittore di racconti osserva il mondo e ne ricrea un dettaglio.
Tra le pagine di Jaeggy non c’è consolazione, ma nutrimento per quel demone della scrittura che tanto ci ossessiona.

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Sotto il segno di Akutagawa, Debora Lambruschini

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di Debora Lambruschini

Che insegnava inglese l’ho già scritto. Ma non era il suo vero lavoro. O almeno non credeva che lo fosse. Nonostante tutto era convinto che l’ambizione della sua vita fosse la scrittura creativa.

(“Lo scritto”, 1924, p. 354)

 

Incanto e sospensione. Sono le impressioni che scaturiscono più immediate dalla lettura dei racconti di Akutagawa Ryūnosuke, il più importante fra gli autori giapponesi moderni e quello maggiormente tradotto e noto anche fuori dai confini nazionali. Incanto, per la parola impeccabile, ricercata, per le atmosfere evocate, la distanza geografica e temporale delle storie che una pagina dopo l’altra pare sfumare in contorni sempre meno definiti. Sospensione, delle istanze realiste e di una certa naturale tendenza a trovare conforto in atmosfere e situazioni ben definiti e riconoscibili, sospensione del giudizio, per calarci completamente nel mondo di Akutagawa.
Per molti di noi è anche subire la fascinazione della cultura nipponica, nel tentativo di svelarne una minima parte del mistero, camminare fra quelle strade, percepirne i colori per mezzo delle immagini efficacemente evocate dall’autore di luoghi e ambienti, immagini in cui si avverte chiaramente l’influenza delle arti figurative, specie delle avanguardie europee di inizio Novecento. Ma è un’illusione e ne siamo consapevoli. La cultura nipponica resta per lo più un mistero attraente, di cui scalfiamo appena la superficie. Leggere Akutagawa è quindi accettare il mistero, riconoscere nelle inquietudini della scrittura un sentire e immaginario comune, che tuttavia assume forme differenti, mescolandosi alla tradizione, impregnandosi di un sentire che è proprio del suo tempo e del suo ambiente.
La bibliografia in traduzione di Akutagawa è ricca e variegata, ma la recente pubblicazione di questo volume nella collana di Letteratura universale Marsilio aggiunge un tassello importante, soprattutto per l’accuratezza del volume in cui è presente un – seppur minimo – apparato critico. Sotto il segno del drago, curato dalla professoressa Luisa Bienati, docente di letteratura giapponese moderna e contemporanea presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, comprende tre raccolte: racconti cristiani e racconti storici, racconti fantastici e le storie di Yasukichimono, arricchite di note, glossario minimo e una puntuale postfazione che sintetizza i punti salienti della scrittura di Akutagawa, inserendo l’autore nel panorama letterario del tempo e fornendo qualche utile spunto critico e biografico.
Il nome di Akutagawa è ben noto anche fuori dai confini nazionali, e pure in Italia sono disponibili numerose opere in traduzione, tra cui vale senza dubbio la pena ricordare il celeberrimo racconto Nel bosco, da cui Akira Kurosawa ha tratto Rashomon (il titolo, in realtà, è preso da un altro racconto di Akutagawa), che gli valse l’Oscar nel 1950 come miglior film straniero.
Il volume è quindi il mezzo ideale per avventurarsi nel mondo letterario di Akutagawa, che al racconto ha dedicato tutta la sua carriera di scrittore (con qualche incursione negli haiku e nella saggistica breve); proprio a lui è dedicato il premio letterario più prestigioso del Giappone che due volte all’anno dal 1935 – con qualche interruzione – viene conferito agli autori di racconti.
Se Akutagawa è stato per lo più fedele alla forma breve, la ricchezza letteraria dello scrittore si declina in storie che esplorano generi differenti, dallo storico al fantastico, passando per l’allegoria e la favola, caratterizzate quindi da una contaminazione di generi e fonti: fine intellettuale, Akutagawa ha saputo rielaborare fonti classiche giapponesi e occidentali, con particolare interesse per il cristianesimo e la cultura greca, ma aprendo anche a influenze più trasversali in cui appare evidente, per esempio, il  richiamo delle arti figurative e delle avanguardie. Lettore vorace fin dalla giovane età, Akutagawa ha nutrito un profondo interesse tanto per la tradizione in cui era immerso quanto per le influenze occidentali, la letteratura inglese e i classici greci soprattutto, che si traducono sulla pagina in una tensione costante fra modernità e tradizione, oriente e occidente. Una commistione di generi e culture che rendono difficile la categorizzazione delle storie che rifuggono ogni etichetta, ma per questo particolarmente vive, interessanti e ricche di spunti. L’incontro fra cultura nipponica e cultura occidentale produce uno straniamento che talvolta si fa inquietudine e malinconia, ma che per Akutagawa è anche il mezzo per esplorare più a fondo la psicologia dei personaggi e costruire racconti capaci di collocarsi fuori dal tempo, spesso attraversati da un dualismo esemplificato nella dicotomia morte-vita, bellezza e grottesco. L’interesse per l’aspetto psicologico è il fil rouge di tutta la carriera letteraria dell’autore, che prende le distanze dalle tendenze realiste e dal naturalismo per concentrare tutta la sua attenzione sull’intimo, sull’io, sulle contraddizioni dell’animo umano, sul mondo interiore. È ai moti minimi dell’animo che si lega soprattutto la scrittura di Akutagawa, alle passioni, alle frustrazioni quotidiane, al desiderio, ancora una volta attraversata da un’inquietudine di fondo che la biografia dell’autore – morto suicida a trentacinque anni – ci porta a considerare in modo particolare, insieme al fantasma della malattia mentale, che lo ossessionerà per tutta la vita.

 

Le risposte non estirpano le radici delle domande come una zappa. Servono solo come cesoie per fare germogliare nuove domande al posto delle vecchie. Ancora trent’anni dopo, ogni volta che otteneva una risposta, scopriva che portava in grembo un’altra domanda.

(“Monelli”, 1924, p. 383)

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E di simili interrogativi e spunti è disseminata tutta la raccolta, nella quale risaltano forse più chiaramente di altri i racconti di Yasukichimono, l’alter ego letterario dello scrittore. Osservatore attento e spesso ironico, ma velato da una malinconia di fondo che difficilmente lo abbandona, Yasukichimono è un aspirante scrittore dalla scarsa fortuna che per guadagnarsi da vivere lavora come insegnante e giornalista, in un chiaro parallelo con la vicenda personale dell’autore. I racconti di Yasukichimono qui contenuti sono forse i più godibili, permeati di atmosfere e ambienti perfettamente evocati e dall’interesse per l’interiorità del personaggio più che per le trame. Anche in questi racconti tornano quindi tematiche e spunti caratteristici della scrittura di Akutagawa, la precisione lucida della parola – per la quale va tributato il dovuto onore alle puntuali traduzioni – , l’incontro di due culture e tradizioni, certe sensazioni minime che danno moto a riflessioni profonde e quella sottile inquietudine che si riversa dalle pagine. È un sentimento che a tratti si confonde con la malinconia, con la solitudine e lo straniamento, nella distanza fra ciò cui si aspira e ciò di cui invece consiste il quotidiano, reso sublime dalle atmosfere evocate da Akutagawa, i viaggi solitari in treno, il paesaggio che si fa testimone di questi vuoti, che accompagna i personaggi dentro le proprie riflessioni. Quando crediamo di avere colto l’essenza di Akutagawa e del suo mondo, di averne svelato il mistero, ecco fluttuare davanti ai nostri occhi un’immagine nuova, un sottile riferimento di cui non comprendiamo davvero fino in fondo tutte le implicazioni. Di quelle stesse fonti cogliamo appena la superficie, le riconosciamo, forse, ma non possiamo davvero pienamente cogliere il senso di ciò che hanno significato nell’incontro con la cultura dentro cui lo scrittore Akutagawa si è forgiato. Forse, alla fine, l’unica cosa possibile è accettare di poter solo intravedere.

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Le contraddizioni comunicative del presente: Cory Doctorow

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di Fabrizia Gagliardi


Per un problema di diritti uno degli e-commerce più famosi al mondo elimina La fattoria degli animali e 1984 dall’ebook reader di migliaia di lettori.

Per pubblicizzare l’uscita della quarta stagione di Black Mirror, un’agenzia ha ideato un evento in cui i partecipanti dovevano avere un determinato numero di follower e like.

Dopo aver subito minacce da parte del governo per il controllo dei dati personali, dei dispositivi e dell’attività online, un ragazzino inventa un software per navigare anonimamente.

Solo uno di questi episodi è un racconto di finzione ma non sapremmo dire quale. In realtà, abbiamo il dubbio che neanche uno degli eventi citati è frutto dell’immaginazione. In Homeland Cory Doctorow raccontava di Marcus, un adolescente ingiustamente trattenuto dal Dipartimento di sicurezza interna e più volte costretto a rinunciare alla propria privacy per il controllo totale dei suoi dati e delle sue attività online. Per opporsi a ogni tipo di abuso da parte del potere Marcus inventerà e distribuirà ParanoidLinux, un sistema operativo che permette di navigare in modo anonimo.
«La tecnologia stava lavorando per me, era al mio servizio, mi proteggeva. Non mi stava spiando. Per questo mi piaceva la tecnologia: se usata nel modo giusto, ti dava potere e privacy», l’ingenuità di Marcus annotava una verità universale, non così non rivoluzionaria. Quello che colpiva di Homeland (e del seguito più maturo intitolato Little Brother) era uno scambio costante tra il mondo interno, prettamente di finzione, e un esterno che iniziava a porsi le stesse domande: alle incursioni nel mondo di adolescenza, sesso, lealtà e libertà si univa una narrazione incalzante fatta di linguaggi di programmazione e logiche di hacking. Le insidie di un regime totalitario in divenire facevano apparire la ribellione e l’attivismo come risposte naturali di chi, dal basso, usava gli stessi strumenti per affermare diritti fondamentali.
L’eco di ogni distopia che fa gridare a 1984 deve vedersela con una prospettiva nuova: la futuribilità del genere sta azzerando le distanze tra le conseguenze e i mutamenti che in realtà accarezzano scenari del presente. Solo che, a differenza della finzione, l’apocalisse ha ritmi pacati, con distorsioni che s’incistano nel sistema e rischiano di rimanere non viste.

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Lo scarto sempre più breve tra ciò che potrebbe essere e ciò che già è avvenuto reclama una certa impellenza in Radicalized, l’ultima raccolta di racconti di Cory Doctorow pubblicata da Mondadori con la traduzione di Dafne Calgaro. I quattro racconti lunghi guardano alle contraddizioni comunicative del presente come la libertà di usare la conoscenza tecnologica che però è ostacolata dalla monetizzazione delle informazioni ai danni delle classi più umili. Ci confronteremo con il caro vecchio mondo dei supereroi in piena crisi d’identità contro un potere che controlla corpi e informazioni, e rivivremo quella che sembra l’oasi anonima e indipendente di Internet, diventata il luogo ideale per esasperare la propria bolla e per distorcere la verità.
Nella scrittura di Cory Doctorow si avverte sempre un graduale passaggio dai panni dell’educatore appassionato e neutrale, con tecnicismi che entrano nei dettagli di reverse engineering e strategie di hackeraggio, a quelli del guardiano che è in grado di scansionare tutte le potenzialità e i pericoli di tale sapere.

In Pane non autorizzato, Salima sta finalmente costruendo una vita e una carriera dopo un passato di emigrazione e miseria. Abita in uno dei grandi edifici popolari che il governo ha riservato agli stranieri, ma si rende conto che il suo tostapane accetta i prodotti di un’unica marca, l’ascensore dà la precedenza agli abitanti più ricchi dell’edificio, altri elettrodomestici funzionano solo con determinati prodotti. Quando scopre che il libero accesso alle informazioni le dà anche il diritto di manipolare il software di base, inizierà a trasmettere la scoperta all’intero edificio. Si può davvero parlare di violazione quando la democratizzazione delle risorse, liberamente disponibili, può aiutare le fasce più deboli? E se all’improvviso le aziende degli stessi elettrodomestici volessero monetizzare la possibilità di hackerare i dispositivi?

Hanno tenuto d’occhio i forum della darknet, la Boulangism ha capito che la gente ha imparato a sbloccare i dispositivi mentre aspettava che noi rimettessimo in piedi l’azienda. In pratica vogliono trasformare quelle persone in clienti: invece di vendere cibo, si farebbero pagare per il permesso di comprare cibo non loro. Per poco Salima non scoppiò a ridere. Se lo faceva lei era un crimine, se lo metteva in vendita un’azienda era un prodotto.

«Che si voglia essere liberi o si voglia schiavizzare, si ha l’esigenza del controllo. E per il controllo è necessaria la conoscenza.» Così Cory Doctorow, in un discorso sul computer universale – il general purpose computer, un’idea di computer in grado di eseguire qualsiasi task –, esaminava il passaggio dall’economia del possesso degli hardware a quello dei software: lo scopo dell’information economy è la compravendita di informazioni. La loro protezione è assicurata da politiche che ne limitano l’uso da parte di utenti che in realtà le possiedono di diritto.
Il mondo descritto da Doctorow trasmette la speranza costante di un’economia della post-scarsità, della condivisione libera del sapere e dell’abbattimento di ogni metodo di controllo dei diritti (il DRM). Una visione che non lo rende un accelerazionista cieco e spensierato, più un commentatore consapevole in una posizione di costante riflessione sull’illusione di una tecnologia anonima politicamente e socialmente. A tratti l’ingenuità dell’autore crea una visione idilliaca che stride con la realtà se pensiamo per esempio a La valle oscura di Anna Wiener (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi). Nel suo resoconto personale dell’esperienza tra le startup della Silicon Valley, l’occhio della Wiener cattura una mentalità estremamente creativa e ribelle che però non tollera nessuna opposizione esterna. Tutta la spinta anarchica e innovativa scopre gradualmente il suo vero volto, che non è molto lontano dal modo con cui il potere utilizza tecnologie e informazioni per esercitare il controllo.

Tornando a Radicalized, nel racconto Minoranza modello un Superman a tutti gli effetti è chiamato a prendere posizione per gli abusi della polizia, lo stesso sistema che ha servito per anni. L’accusa per la scelta acritica dei supereroi proposta da Watchmen di Alan Moore, con Cory Doctorow incontra una risposta stilisticamente meno originale: la decostruzione del supereroe è già avvenuta ed è solo l’orpello di un’opinione pubblica astorica e sensazionalista («Non interessa a nessuno cos’hai fatto un secolo fa, però tutti ricorderanno molto a lungo ciò che hai fatto la settimana scorsa»). L’eroe American Eagle è spogliato di ogni paternalismo e svela tutte le criticità di chi ha il privilegio di trovarsi dalla parte armata della barricata. Le questioni sociali decise da un software di sorveglianza predittiva – in base a calcoli probabilistici su quartieri malfamati – e risolte dagli scontri che ricordano quelli di Black Lives Matter svuotano di senso i suoi superpoteri: usarli significherebbe accettare gli strumenti oppressivi, non muoversi vorrebbe dire sottostare ai ricatti dell’informazione.
Lo stesso dilemma tormenterà il protagonista di Radicalizzati. Dopo che l’assicurazione sanitaria della moglie di Joe si rifiuta di pagarle le terapie, lui comincia a frequentare un forum online che assume toni sempre più violenti con conseguenze disastrose. L’effetto tabula rasa della comunicazione asincrona, la giustificazione linguistica di “squilibrati” e non di uomini bianchi “attentatori”, la sorveglianza che annulla ogni illusione di anonimato sul web vengono metodicamente costruite grazie a un crescendo di ossessioni nate dall’isolamento, dalla disperazione e dal collasso di uno stato sociale mai esistito.
Doctorow è un osservatore che non risparmia nessuno perché è consapevole di suggerire il contrario, un’utopia: ogni tecnologia porta con sé l’idea di mondo di chi l’ha creata, la speranza è suscitarne un uso etico e sostenibile. A rafforzare il bagaglio ideologico che muove le storie dell’autore c’è anche una vita da attivista per la liberalizzazione del copyright e l’opposizione al digital rights management (tanto da scegliere di distribuire alcune sue opere con licenza Creative Commons). Se abbiamo avuto l’impressione che i racconti di Doctorow non fanno che rappresentare l’attualità senza una proposta di soluzione vera e propria è perché la sua idea di fantascienza è di una letteratura riflessiva, non predittiva. Nonostante racconti avvenimenti troppo prematuri o troppo sdoganati per suscitare una risoluzione si avverte tutta la speranza rivolta alla finzione: sfruttando il potere dell’identificazione il lettore fluttua nel mondo del personaggio, incontra e avvicina condizioni in cui riecheggia un clangore contemporaneo. E forse quando arriverà il momento sarà pronto.

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L'opera ossessionata di Patricia Highsmith

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di Debora Lambruschini

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Patricia Highsmith, scrittrice schiva, americana trapiantata in Europa dove i suoi thriller psicologici sono sempre stati accolti con particolare favore, molto spesso trasposti in versione cinematografica. La Nave di Teseo ha iniziato la ripubblicazione di tutte le sue opere in edizioni rinnovate e, in questo lavoro di recupero, trovano quindi spazio anche le prose brevi di Highsmith, scritte fra il 1935 e il ‘68, e riunite nella raccolta Donne pubblicata a fine Gennaio. Sedici racconti noir, così li definisce l’editore, in cui si riconoscono moltissime delle ossessioni intorno a cui Highsmith costruirà la sua carriera letteraria a partire dal romanzo d’esordio, “Sconosciuti in treno”, dal quale verrà tratto il celebre film di Hitchcock per la sceneggiatura di Raymond Chandler; un successo di pubblico – la critica, specie quella statunitense, è sempre stata più tiepida nell’accogliere l’opera di Highsmith – cui seguirà la serie dedicata al suo personaggio più iconico, Tom Ripley, anche questo portato sul grande schermo in varie versioni. Autrice prolifera, personalità riservata e sfuggente, eccentrica e morbosa a tratti, Highsmith aveva trovato a Locarno, in Svizzera, il rifugio ideale per ritirarsi dal mondo e concentrarsi soltanto sulla sua scrittura, dopo che dal Texas era prima giunta a New York e poi in Europa.

 La passione letteraria scoperta presto, durante gli anni dell’università e, soprattutto, la costruzione di una voce, uno sguardo propri: laddove alcuni scrittori sperimentano e cambiano prospettiva a ogni nuovo libro, Highsmith si colloca invece tra coloro che seguono fedelmente le proprie ossessioni, le rielaborano e scandagliano un libro dopo l’altro, costruendo così un universo letterario coeso, abbondante di rimandi, riconoscibile. Un approccio che può diventare limitazione o al contrario, in qualche fortunato caso, la base solidissima su cui ergere i propri edifici narrativi. Penso per esempio a Richard Yates che delle crepe sulla facciata ha fatto il proprio universo letterario con risultati magistrali, scrivendo e riscrivendo, in fondo, sempre la stessa storia ma caricata di volta in volta di abissi umani e narrativi, con una lingua cesellata con cura artigiana. Come lettori noi pure nutriamo le nostre ossessioni, tornando volontariamente o meno a scritture e tematiche che toccano corde particolari e nel constatare dall’altra parte, negli autori, simile abbandono all’ossessione c’è un che di rassicurante, una sorta di riconoscimento e connessione.
Patricia Highsmith ha vivisezionato le proprie ossessioni in ogni scritto, in romanzi e racconti non sempre pienamente riusciti, ma dentro ogni pagina la sua voce è riconoscibile e si inserisce nel suo mondo letterario fatto di continui rimandi, spunti, inquietudini.
In questo contesto, quindi, si inseriscono anche i racconti di “Donne”, pubblicati su rivista e per lo più inediti in Italia, affidati alla traduzione di Hilia Brinis, Lorenzo Matteoli e Sergio Claudio Perroni, in cui le figure femminili del titolo – anche quando non direttamente protagoniste delle storie – rappresentano l’increspatura del quotidiano, la chiave di volta. Ma la parola cardine con cui interpretare queste storie è, prima di tutto, “cambiamento”: i personaggi in scena sono mossi da un desiderio di mutamento, di fuga talvolta, dalla possibilità di ricominciare. Un cambiamento che tuttavia si scontra con la realtà, con i limiti della propria posizione, con l’increspatura, si diceva, che annulla le possibilità. Negli altri, estranei le cui vite brevemente si sfiorano, i personaggi di Highsmith intravedono ciò che anelano per sé stessi ma non riescono mai pienamente a possedere; si rivelano tutte le crepe lungo la facciata, il sogno che contrasta con la realtà, l’immaginato con la vita. Ad attraversare storie e romanzi di Highsmith, quella familiare sensazione di inquietudine, il dubbio, l’ambiguità, il senso di pericolo, di cui anche questi racconti sono intrisi. La scrittura di Highsmith non ha mai temuto di esplorare le zone più buie dell’animo umano, quegli stessi tormenti che qualche volta le sono costati in critiche feroci, sottolineando perciò come «art has nothing to do with morality, convention, or moralizing» (“Plotting and Writing Suspense Fiction”), e continuando in ogni scritto a scandagliare la natura di colpa e innocenza, bene e male, i confini labili di entrambe.

Ecco, quindi, come un quadro all’apparenza ordinario, pacificato, rivela improvvisamente il carico di solitudine, pericolo, lo «scricchiolio della realtà» di un dettaglio che muta completamente il corso del racconto e della nostra stessa percezione.
È la sensazione di profonda solitudine ciò che per prima avvertiamo entrando in certe storie, l’estraneità e il vuoto: di una bambina da poco trasferitasi in città insieme ai genitori che si scontra con l’indifferenza e l’ostilità, di una comunità che giudica, isola e non perdona, di una donna che ha già vissuto molte vite e tenta di liberarsi, di esistenze che si incrociano e sfiorano:

 

C’era, nelle cose semplici che ognuno di loro tre aveva fatto quella mattina, un elemento di dramma iniziale che l’avrebbe fatta ridere se non ci fosse stato anche il senso della loro solitudine. La sensazione di quella domenica sarebbe rimasta con lei per tutta la vita. Questa stanza, indifferente alla loro presenza come tutto il Nord […. ]

(“La campionessa del mondo di rimbalzi sul marciapiede”, p. 13)

 

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Due mondi che si intersecano, il confine tra giusto e sbagliato sempre più evanescente, sono il centro nevralgico di ogni narrazione di Highsmith: Sconosciuti su un treno, Il talento di Mr Ripley, Carol e parte dei racconti contenuti in questa raccolta sono esemplificativi di tale ossessione narrativa, cui ogni volta Highsmith attinge, mostrandoci l’ambiguità del quotidiano, le sue contraddizioni, la natura di colpa e innocenza, la perdita di sé stessi dentro regole e stereotipi.
Ambientati tra New York e sobborghi, i racconti di “Donne” – alcuni scritti agli inizi della sua carriera professionale – rappresentano quindi un punto di osservazione interessante del percorso letterario di Highsmith e, tra questi, ve ne sono alcuni particolarmente riusciti, laddove la scrittura viene pienamente liberata, e svicola da ogni regola e convenzione stereotipata, creando atmosfere di potente ambiguità, efficaci spazi bianchi nella narrazione.

 

D’improvviso, mentre si rannicchiava nel vano della finestra, la cittadina parve stringersi, gelida e ostile, intorno a lui.

(“Mattinate radiose”, p. 55)

 

Qui, nei racconti e nei romanzi dove lo sguardo dell’autrice cala in profondità, la pagina si fa carne e sangue, l’ambiguità di quanto leggiamo provoca squarci, certezze e rassicuranti istante vacillano.

Imperfetta e altalenante negli esiti, l’opera di Patricia Highsmith mostra ancora numerosi spunti di riflessione importanti, spesso messa in ombra dall’interesse per la sua autrice, le bizzarrie, le posizioni personali. Un peccato, perché è tra le pagine, i romanzi e le storie, che esiste tutto ciò che conta di un autore.