La scrittura come disgrazia. Autobiografia con Giochi di spiaggia, Régis Jauffret

di Alice Pisu

 

A pochi giorni dall’uscita di Ferdydurke nel 1937 Witold Gombrowicz scrisse una nota intitolata Per evitare malintesi, per smentire le prevedibili accuse da parte della critica. Nel chiarire i motivi dell’insensatezza dell’individuazione di un’impronta di denuncia sociale nell’opera, l’autore pone l’accento su un aspetto fondamentale: il problema della forma. “Occorre trovare una forma per tutto ciò che nell’uomo è ancora immaturo, non cristallizzato e non sviluppato, come pure un lamento per la mancanza di speranza di questo postulato: questa è l’emozione principale del mio libro. Mi preme dimostrare che la nostra cultura non è né completa né intera, non essendo che una fragile costruzione sopra la ribollente anarchia che poco per volta sta facendo crollare tutto il sistema culturale delle nostre convenzioni. Ecco perché ciascuna delle parti del libro termina con l’irruzione di elementi di nonsense, di anarchia, di anomalia, che si insinuano attraverso le crepe della forma e sommergono i poveri protagonisti, adatti soltanto a un’apparenza di normalità”.
La forma, dunque. Quella che Vladimir Nabokov è contrario a distinguere rispetto al contenuto, quella che Régis Jauffret usa per ispezionare le radici dell’odio e radiografare il presente. Partire dalla forma permette di abbandonare la rassicurante convinzione di etichettare un’opera letteraria sulla base dei temi affrontati, della sua presunta attualità o della sua collocazione sociale e politica. Per muoversi all’interno di un romanzo occorre, come suggerisce Nabokov, concepirne la realtà come attinente esclusivamente al mondo costruito al suo interno. Solo basandosi sull’armonia con cui una figura o un evento si inseriscono nella storia, e non su una supposta coerenza che ne deforma l’esperienza, si può godere di quella “verità artistica”.
Riconoscere al contempo il genio individuale dell’autore e l’architettura dei testi, come insegna Nabokov, si rivela la condizione necessaria per affrontare qualsiasi opera di Régis Jauffret.
Tra le voci letterarie francesi contemporanee di maggior rilievo, arriva ai lettori italiani grazie all’intuizione di Edizioni Clichy di pubblicarne i romanzi e i racconti con un ordine diverso rispetto alla prima uscita francese per tracciare un’evoluzione che da Il banchiere, Dark Paris Blues, e Cannibali arriva a Microfictions. È quest’ultima opera-monstre – due volumi con cinquecento racconti ciascuno, rigorosamente di due pagine –  a sancirne il successo internazionale: racchiude storie inesorabilmente legate alla ferocia e alla violenza con il provocatorio sottotitolo “romanzo” inteso come invito a concepire quell’insieme di tetre istantanee come un’unica grande storia dell’essere umano.

Si torna oggi a due opere uscite originariamente nei primi anni Duemila in Francia pubblicate ora in un unico volume: il romanzo Autobiografia (trad. Tommaso Gurrieri) e i racconti Giochi di spiaggia (trad. Giuseppe Girimonti Greco, Maria Laura Vanorio). Riannodare i fili della sua prima produzione permette di scorgere immagini e motivi che anticiparono la personale e inconfondibile rappresentazione del mondo come groviglio inestricabile. Affine a Gombrowicz nel portare in scena lo scontro tra l’individuo e il suo tempo, vicino a Gustave Flaubert per la capacità di dare forma a un mondo sordido dominato dall’inganno, associato a Louis-Ferdinand Céline per l’effetto di leggerezza con cui sovrasta la tragedia e la commedia, Régis Jauffret si rivela attratto e disgustato dalla finitezza dell’umano, dai tentativi vani di contrastare un inesorabile dissolvimento. Quel terrore del non esistere, “la paura del non essere, l’ansia del non vivere, il timore della non realtà”, affrontato dal più significativo scrittore polacco del Novecento, trova in Jauffret una traduzione farsesca, la raffigurazione di una lugubre canzonatura della miseria umana necessaria per rivelare la natura ridicola dell’individuo, l’inadeguatezza del vivere. Aspetti affrontati in particolar modo in Autobiografia, opera centrale nell’evoluzione letteraria di Jauffret, traduzione parossistica della matrice corrotta dell’umano.
Il protagonista senza nome è un giovane che si affaccia all’età adulta perpetuando efferatezze, opportunismi di ogni genere nel vivere di espedienti per strada o nell’occupare case altrui dopo averne sedotto le proprietarie. Il suo distacco traduce una leggerezza che irride il dramma. Spietato, cinico, privo di morale, perverso, è un antieroe votato alla distruzione. Attorno a quel “burattino dai modi volgari” si susseguono amanti non vedenti sfruttate e abbandonate, bambini rapinatori, minori che si prostituiscono, madri che attendono la morte per inedia.
La cronaca della propria esistenza genera nel protagonista una sottile malia nel ripercorrere le fasi di coscienza dalla prima giovinezza alla senilità, nel tracciare un distorto patrimonio emotivo. Il suo piano di annientamento dell’umano trova nella dimensione sessuale lo strumento primario per dare forma a una deviazione radicata. La serialità con cui l’uomo passerà da una donna all’altra dopo averne distrutto l’esistenza non è riducibile a un piacere perverso, sadico, o al desiderio di rivalsa nei confronti di una società che lo rifiuta. È l’esito di un’assenza di volontà, di un’inerzia che sopprime ogni impulso e che disperde ogni traccia di rimorso o compassione nell’infliggere dolore al prossimo, per risolversi nella constatazione della propria irrisolvibile solitudine, “il più mostruoso degli orgasmi”.

 

Non ero sicuro di aver mai amato un essere vivente, e nemmeno di aver provato affetto per un oggetto. Eppure, al di là del sesso, avevo potuto beneficiare della simpatia di partner di cui avevo dimenticato perfino il colore degli occhi.

L’unico reale moto interiore è generato dalla sotterranea tensione alla morte, dalla brama della fine che solletica un immaginario folle nell’esasperazione del piacere e del dolore. Un’angoscia di vivere nutrita dalle continue mistificazioni del vero, visioni che traducono nell’assurdo un’esasperazione del reale.

 

Avevo provato la beatitudine che procura l’emissione dello sperma, quella di ingoiare il cibo, le bevande, e il piacere di portare a termine la digestione. Mi ero preso la briga di aprire gli occhi ogni mattina, avevo respirato giorno e notte. La morte era lì, la vedevo, raggio di polvere nel fascio luminoso della lampada. Sentivo già i vermi divorare la mia carcassa e riprodursi alla velocità della luce. Sembrava che la mia memoria la precedesse nel suo compito, autodistruggendosi, divorando i ricordi con la noncuranza e la rapidità di una ragazza che mangia popcorn al cinema.

 

Il romanzo dello sradicamento non assegna alcuna collocazione spaziale o temporale agli eventi narrati: il protagonista e le donne che incontrerà sono senza nome, i luoghi che attraverserà sono sconosciuti, le descrizioni dei posti visitati potrebbero essere sovrapponibili a innumerevoli destinazioni. La natura anonima dell’allestimento urbano traduce lo smarrimento dell’individuo, l’estraneità a un mondo ignoto: fa da sfondo alla costellazione di personaggi che si susseguono sulla pagina e che concorrono a costruire un mondo privo di valori e incapace di progettare utopie.
Che si tratti del dettaglio di una violenza o della caratterizzazione di una figura, la prosa acuminata di Jauffret riduce al minimo ogni descrizione fisica. Con un periodare breve e lineare favorito dall’uso dell’imperfetto e del passato remoto per assegnare continuità al tempo del romanzo e scandire ripetizioni pur nelle variazioni di personaggi e spazi, inserisce giochi di parole e sottili contrasti, attriti, dissonanze, per comporre una tetra sinfonia, un elogio della vacuità del vivere.
Memorabili i passaggi dedicati alla visita alla madre, ormai irriconoscibile e ripugnante, descritta a partire dai suoi tentativi vani di morire ingerendo insetticida, tra i ripiani vuoti della dispensa e il frigo spento, con il tetto rotto e il bagno ricoperto di escrementi di piccioni.

 

Dissi a mia madre di non contare su di me per farla fuori, l’avevo persa di vista da troppo tempo. Fece un sorrisetto, come se rimpiangesse che non ci fosse più tra noi l’intimità sufficiente perché io accettassi di ucciderla. Le rimproverai di non essersi ammazzata quando ancora aveva l’energia sufficiente.

 

Nell’osservare l’oscuro campionario umano composto dall’autore, sono riconoscibili figure che incarnano la ferocia della sopravvivenza, condizione che annulla ogni pietà verso il prossimo. Con le finzioni composte in Giochi di spiaggia Jauffret si interroga sugli indifferenti che avanzano nell’esistenza privi di ambizioni e senza correre rischi, definiti “passeggeri clandestini delle famiglie, delle coppie” che “si rintanano nel fondo di sé stessi come in una stiva”.
Forgia figure ai margini, esiliati, fratelli che condividono un’intimità sessuale, coppie che nutrono la routine, uomini indolenti, pagliacci dalle facce disperate. La sua personale visione della realtà sensibile è soggetta a continui rimaneggiamenti: il paradosso, l’assurdo e il caricaturale ammantano esistenze ordinarie, demoliscono la società tradizionale. La scrittura irriverente e blasfema colloca la figura dello scrittore all’apice di un distorto sistema valoriale, raffigurandone la natura beffarda, aspetto su cui tornerà a più riprese nelle Microfictions.

 

Sono uno scrittore. La mia scrittura è mediocre. Eppure sono degno d’ammirazione perché scrivo con l’ostinazione folle del roditore. […] La mia mancanza di talento non ha rappresentato un ostacolo.

 

Definisce la scrittura una disgrazia desiderata con ardore, e la letteratura come un organismo vivo che si deteriora col tempo, e che “dietro di sé non lascia né cadaveri né archivi”.
Il sistema editoriale non è che una delle realtà demolite dall’autore. Un pretesto tra gli altri per popolare di volti le sue storie, redigere cronache di ordinarie distruzioni consumate tra pareti domestiche che esibiscono fallimenti, in un night, in un parco pubblico, in una stanza da letto testimone della fine di un idillio, in uno squallido appartamento con una tenda che divide in parti uguali due spazi e due vite.
Le visioni e i miraggi composti in Autobiografia con Giochi di spiaggia immortalano il nitore agghiacciante del quotidiano. Jauffret porta in scena la miseria dell’individuo attraverso una personificazione del male che allaga ogni cosa, rende sublime del degrado, illumina con slanci lirici improvvisi un dramma esistenziale privo di redenzione.

 

Ricordo con voluttà quell’intervallo di abbandono, di sregolatezza, di libertà. Ho volato, ho planato, mi sono schiantato. Non sono salito molto in alto, ma ho toccato il mio apogeo.

Ora mi trattengo, mi freno. Ho paura di me.