Lejos. Sedici racconti dal Perù

Di Anna Lo Piano

Raccontare l’America Latina attraverso la voce dei suoi cuentistas, questa l’intuizione della Casa editrice Gran Vía, che dopo Cuba, Cile, Bolivia e Colombia, pubblica un volume dedicato al Perù.  All’interno, sedici racconti di scrittori e scrittrici (in una buona percentuale) della generazione nata tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’80. Stupisce la diversità di stili, la sperimentazione, la capacità di giocare con i piani temporali e con i generi, così che pur nella capacità affabulatoria, nella creazione di personaggi irresistibili, si ha la sensazione di essere trascinati su un piano diverso, simbolico, anche quando si parla di avvenimenti quotidiani.
Ciò che accomuna queste narrazioni è espresso dal titolo: Lejos, a cura di Maria Cristina Secci.  Lontani perché emigrati o figli di immigrati, questi autori sono discendenti di famiglie dalle origini multiple, confusi in lingue e paesaggi stranieri.  Questa non è però una letteratura di immigrazione, quanto un modo di raccontare che porta le tracce di un trauma, di una separazione forzata. La lontananza è il risultato di qualcosa di strappato, rimosso, che non è più possibile ricucire. Un esilio sperimentato anche sopravvivendo alle divisioni interne del proprio paese, alla rimozione del passato storico, alla perdita del legame con la natura e la tradizione andina. C’è in ognuno di questi racconti un elemento di violenza.  È il racconto della campagna di sterilizzazione forzata sotto il presidente Fujimori attraverso gli occhi di una ginecologa che opera le donne indie, in La morte aveva le nostre dita di Jennifer Thorndike. È la pervasività della presenza militare, il loro apparire all’improvviso, inaspettati, nelle immagini di un televisore, interrompendo la dimensione domestica. Gli anni del conflitto tra Sendero Luminoso e il governo militare hanno lasciato una traccia profonda nell’immaginario di questi autori, che va al di là dell’elemento di denuncia. Anche il racconto di Thorndike, il più simile a un reportage, si muove in una dimensione allucinata, interiore, tanto da poter apparire, non conoscendo il contesto, come un racconto distopico. E d’altronde non è la distopia un genere che mette in evidenza i livelli più nascosti della realtà?
Ciascun personaggio è in lotta con il mondo, ne subisce l’oppressione, la sottile tortura, la forza fisica. Se Rocky Balboa porta sul collo una cicatrice (Una foto con Rocky Balboa, di Francisco Angeles) la protagonista di Acquario di Susanne Noltenius combatte una guerra quotidiana per restare a galla in un mondo maschile, portando in salvo figli, lavoro e se stessa.
Ma c’è poi una violenza più sottile e subdola, che ha a che fare con la perdita della memoria, o meglio con l’imposizione di una memoria altra sulla propria.

 

L’Alleanza possiede il miglior esercito del mondo perché è capace di aggiustare la mente. Perché un soldato senza memoria è il mioglior soldato che possa esistere. Non c’è niente da rivedere. Lei ha svolto un lavoro straordinario.
(Costellazione nostalgia,
di Juan Manuel Robles)

 

 K, il generale del comando congiunto, tortura il matematico Herford per convincerlo che la sua teoria dei numeri è frutto della sua immaginazione. (Herford, di Gunter Silva Passuni). Ma per Herford i numeri sono tutto. Sono la sua lingua, il codice attraverso il quale concepisce la realtà. Senza quello tutto si sgretola, non c’è più orientamento. In Costellazione nostalgia, un complicato esperimento scientifico mira a rimuovere i ricordi traumatici delle violenze inferte dalla memoria di alcuni ex militari. I ricordi non vengono però tolti del tutto, solo sgretolati, atomizzati. Rimangono tracce, visioni, impossibili da ricollocare in uno schema di senso, che vanno a innestarsi tra le memorie felici come il cordolo di una perenne cesura.
Se in questi racconti la narrazione sconfina quasi nel genere della science-fiction, il trauma della memoria ferita ritorna anche in ambientazioni più quotidiane e realistiche.

 

“Odio quando fa così”, dice la protagonista di Dobsonfly di Gabriela Wiener, parlando della madre che si nasconde. Poi allunga il braccio e si rallegra che il mondo sia ancora lì, che la madre non sia riuscita a farlo scomparire. Perché questo è il potere degli altri, anche di quelli che ci dovrebbero amare: sovrapporre i loro ricordi, la loro visione, alla nostra. Il racconto che apre la raccolta, uno dei più belli, a mio avviso, è giocato tutto sulla scomposizione della linea temporale degli eventi che hanno segnato la protagonista e la sua famiglia.

Mia madre porta sempre qualcosa la domenica. Il passato fa ritorno in veste di episodi. Lei si ostina nell’imprimermi nuovi ricordi, i suoi.

(Tutto quello che ho lo porto con me, di Katia Adaui)

 

Ciò che davvero è accaduto va ricontrattato nella nostra memoria con la versione degli altri, per questo la narrazione non riesce a seguire una trama regolare ma si scompone in frammenti dove il prima e il dopo si susseguono secondo un ordine apparentemente caotico. Per chi è stato separato dalla propria terra, dal proprio passato, l’incubo peggiore è dunque quello della perdita di memoria, che è anche perdita dell’identità.
Essere stranieri vuol dire essere esposti a un’incomprensione continua che costringe a una battaglia senza tregua contro la lingua, contro le piccole abitudini rivelatrici.
Vuol dire anche vivere nel pericolo costante di rimanere in quel limbo da cui non si può né avanzare né tornare indietro, in cui si smette di appartenere a qualcosa e si diventa emarginati.

 

«Quell’uomo lo ha vissuto, mademoiselle, e secondo lui se non torni prima dei cinque anni è finita. Non potrai più tornare. E se lo fai, ti sentirai sempre un estraneo».

«Diventi un emarginato» avevo detto.

«Esatto. Una persona scissa, duale, divisa. Dr Jekyll e Mr Hyde»

(Un viaggio al Great Glen, di Nataly Villena Vega)

 

Per non svanire nell’oblio un peruviano a Phiiladelfia si traveste da Ricky Balboa, sperando che qualche giornalista connazionale possa riportarlo in patria raccontandone la storia.
Un uomo ripensa da adulto all’estate del ‘93, in cui la violenza militare ha spazzato via l’innocenza di un’estate spensierata e della sua giovinezza. Nella nostalgia di un amore spera che il ricordo di Penelope (nome, forse, non scelto a caso) possa ricucire i lembi della sua esistenza.

 

Penso a Penélope e alla vita dopo Penélope, e la malinconia mi secca la bocca e mi
ammutolisce. Scrivo da drogato e da drogato credo di capire che è a partire da qui, da questo presente oscillante, che l’atto di ricordare può diventare ostile e ingannevole.  
(Non ho mai saputo come odiarla,
di Diego Trelles Paz)

 

In questo caso la ricomposizione è interrotta dalla realtà. La donna che ha accanto, che “rompe l’incantesimo” e lo riporta alla realtà del piccolo appartamento di Brooklyn, è “l’altra”: Mercedes.
Se si sfugge alla realtà – ma qual è poi la realtà vera, se questa è messa continuamente in discussione – l’alternativa è seguire l’istinto. Proteggere un uccellino a costo di apparire folle, diversa (Uccellino, Claudia Udoa Donoso), o affidarsi a un essere ancestrale, guardiano della natura, quel Chuyachaqui che assume le sembianze di un essere amico e ti trascina nella selva. (La selva, di Santiago Roncagliolo) Ma d’altronde era lì che il protagonista si era rifugiato per entrare in “connessione con le posizioni più recondite dell’impresa”, nel tentativo di dimenticare la sua fidanzata. Ovvero, come sanno tutti quelli che cercando di dimenticare un dolore, per ricordarla meglio.