I racconti delle case

di Debora Lambruschini

Cos’è una casa?

Una geografia da cui ci siamo discosti, certo, ma che non smette di esistere, fantasma, e quella stretta inconfessabile che ci punge e che continua a farci male quando seguitiamo a immaginarla.

Il mio amore senza casa. L’ombra del mio amore senza casa.

(“Il mio amore senza casa”, p. 22)

 

La casa del prete di campagna e quella al limitare di ogni cosa della misteriosa Zelinda, che porta con sé un segreto e una domanda sospesa lungo tutto l’arco della narrazione, in una crescente tensione; la dimora di famiglia, custode di un passato ormai perduto, che una stanza dopo l’altra estromette i suoi abitanti; le camere abitate di inquietudini, assenze e oggetti da catalogare minuziosamente, una realtà perturbante scossa da un dettaglio, un’increspatura; la stanza, opprimente, quasi una prigione, per sottomettere l’io femminile; l’antica dimora, custode di segreti e colpe, protezione e gabbia dorata in ugual misura, la narrazione claustrofobica di una scrittrice abituata a muoversi fra stanze antiche, ricolme di oggetti, un isolamento più o meno volontario dal mondo fuori; stanze abitate da oscure presenze, forse suggestioni o forse davvero espressioni del sovrannaturale, che si stringono sempre più intorno ai protagonisti, ne rivelano vizi e debolezze, paure profonde; la casa, come rifugio loro malgrado, da un pericolo incombente, eppure proprio fra tali mura potrebbe celarsi il pericolo; la claustrofobia dell’ambiente domestico sempre più disturbante, il senso di minaccia impossibile da identificare chiaramente e, per questo, ancor più inquietante.
Avrete riconosciuto molte delle “citazioni” sopra, brevi cenni a opere letterarie diverse: Casa d’altri di Silvio D’Arzo, Casa occupata di Cortàzar, le Sette case vuote di Samanta Schweblin, la soffitta della moglie pazza di Mr Rochester e la stanza circondata dalla carta da parati gialla di C. P. Gilman, le dimore sfondo e protagonista di molte storie di Shirley Jakcson, l’inafferrabile di Amparo Dàvila. Sono solo alcuni esempi di un filone letterario mai esaurito, che affonda le radici nella tradizione gotica, nel romanticismo, attraversa la stagione vittoriana e le sperimentazioni brevi della short story moderna, malleabile alle suggestioni di ogni autore, arrivando fino al contemporaneo con il proprio carico di urgenze, mondi narrativi, certo rinnovandosi ogni volta ma pur mantenendo saldo il contatto con la tradizione che l’ha preceduto. In tutti gli esempi citati, ognuno con le proprie peculiarità, la casa non è soltanto luogo privilegiato – quando non esclusivo – della narrazione, ma protagonista quanto i personaggi che ne abitano le stanze, partecipe del dramma e custode di simboli, rimandi, significati. Un topos letterario vero e proprio, che come tale ha innumerevoli esempi e sfumature, tanto è vasta e variegata la materia. Stanze che accolgono e proteggono, stanze che alimentano l’incubo e fungono da prigione e tormento. Stanze che, spesso, raccontano moltissimo di chi le abita e attraversa.
Le stanze e questa sorta di specchiamento, sono al centro anche dell’ultima raccolta di racconti di Piera Ventre, pubblicata da Neri Pozza, ulteriore esempio delle infinite possibilità di questo topos letterario. Le stanze del tempo sono luoghi attraverso cui tentare di penetrare il mistero di chi li abita, cercando fra quegli oggetti che le ingombrano o, al contrario, nelle camere spoglie, la natura intima dei loro abitanti; stanze, giardini, dimore perdute o solo sognate, custodi di identità, di vite e di storie che non possiamo conoscere davvero del tutto, ma solo intuire, talvolta sbagliando.

Dice Piera Ventre:

 

È proprio il rapporto che sviluppiamo con quanto ci circonda ad attirarmi. Se ci si pensa, ogni casa è piena di oggetti, mobili, suppellettili coi quali stipuliamo una sorta di patto emotivo, e su di essi spesso riversiamo sentimenti ed emozioni personali. Perfino una casa vuota, spoglia, minimale può fornirci delle informazioni preziose su coloro che la abitano. Eppure esiste anche un correlativo ambiguo con le cose che possono essere conforto, ma talvolta anche zavorra. Così come le stesse case che da rifugio possono trasformarsi in trappole. L’ambiguità è quasi sempre nel limine, l’esigua linea di contatto che fa da tramite tra due opposti.

 

In una narrazione tesa fra racconto e memoir, Ventre costruisce una raccolta di racconti coesa, la voce narrante ben caratterizzata, densa, elegante, che talvolta fa richiama dal passato termini quasi desueti ma che ben si collocano nel narrato; come di fronte a un vecchio album di fotografie, il racconto si intreccia saldamente a narrazioni in cui il tempo e i luoghi hanno contorni sfocati e solo ciò che l’obiettivo inquadra è importante per la storia, la rende riconoscibile e viva, strappandola alla memoria, all’immaginazione. La prima persona, insieme al tema della casa, è il fil rouge che lega tali racconti, una scelta che, come sottolinea Ventre, ha implicazioni diverse:

 

La prima persona, nel lettore, innesca sempre, e inesorabilmente, l’impressione che il narratore sia l’autore. Che tutto quanto si racconti, insomma, sia un vissuto reale. Ho voluto giocare anche con questo, con l’ambiguità dell’autofiction. In verità, da autrice, amo moltissimo la prima persona poiché mi permette un meccanismo identificativo estremamente potente. Per quanto riguarda lo stile sono convinta che una voce, per essere letteraria, debba essere distinguibile, autonoma. Lavoro davvero tanto sul testo, fino a quando mi sembra che quella voce sia proprio la mia, senza compromessi.

 

Ogni narrazione è attraversata da numerose domande, che inizialmente paiono restare senza risposta; ma basta proseguire con la lettura – a volte anche dei racconti successivi – perché queste in un certo senso si svelino e se non possiamo trovare risposta piena (dopotutto non è il compito dell’autore) vi leggiamo i numerosi indizi lasciati dalle storie ed è in tale direzione che si intreccia il dialogo fra autore e lettore in questi racconti che sembrano mirare a un piccolo momento di verità. Ogni racconto lo fa con le sue specificità, eppure tutti insieme paiono concorrere alla delineazione di un motivo che nel mistero dell’identità e della natura dei protagonisti cerca in quelle stanze, in quegli oggetti, una risposta:

 

[…] a me una casa è sempre sembrata un corpo, una sorta di estensione di noi stessi

e, al contempo, un’espansione.

(“Come la rondine”, p. 169)

 

Piccoli squarci sulle vite altre, occorrenze, svolte improvvise dalle conseguenze ora salvifiche ora tragiche, che innestano altre domande, altri spazi della narrazione. Scatole cinesi, storie che contengono altre storie – talvolta espresse sulla pagina, altre sommerse , ma anche molti sentimenti, riflessioni. E dentro quelle stanze sono soprattutto i rapporti umani ad attirare lo sguardo dell’autore e, di conseguenza, del lettore, di cui Ventre tratteggia forme diverse di connessione umana: i rapporti complessi fra vicini di casa, la ritrosia e l’invadenza, il calore che consola per la lontananza dalla famiglia, l’estraneità che nulla scalfisce in taluni rapporti, le crepe di una relazione, il passato e le possibilità del futuro, le lontananze e le attese.
E se le case hanno contorni ben definiti, anche quando vivono solo nel ricordo o nell’immaginazione, il luogo e il tempo assumono, invece, contorni più evanescenti, non hanno nome, solo riferimenti più o meno precisi perché sono appunto le stanze e gli oggetti a raccontare moltissimo dei personaggi che le abitano. E a proposito del tempo all’interno della narrazione, l’autrice mi dice:

 

le narrazioni abbracciano periodi differenti della vita dell’io narrante, una donna di cui poco sappiamo, che si pone domande sulle case, quelle nelle quali ha vissuto e quelle magari soltanto visitate, e dunque sul modo in cui ciascuno vive il suo quotidiano. Mi interessava, insomma, esplorare il concetto dell’abitare in senso ampio: quanta parte di noi finisce nelle stanze e quanta di quella delle stanze finisce in noi.

 
Ecco, quest’ultima considerazione racchiude a mio avviso l’anima de Le stanze del tempo e, in certa misura, buona parte delle narrazioni sulla casa: che cosa e quanto di noi entra in certe stanze e quanto di esse si posa su di noi, mentre le abitiamo o le visitiamo nel ricordo. La casa ingombra di oggetti e collezioni di “Eudora, lascia perdere” è essenza stessa della sua protagonista, custode di storie che è troppo tardi per raccontare e che andranno disperse, perdute, come certe stanze buie e fuori dal tempo dei racconti di Jackson sono custodi di segreti e verità indicibili, riparo ed esclusione dal mondo. Qualcosa di sinistro, talvolta, si aggira anche fra le stanze di Ventre, solo per un attimo, ma basta ad aprire una crepa dentro chi le abita, a mettere in moto una decisione.
Intimità, memoria, nostalgia e lontananza, ritorni e attese, le pieghe del tempo e i simboli della narrazione: ci sono molti mondi dentro questi racconti, molte domande che restano sospese. Molti “indizi”, come li definiva Ventre, disseminati in quelle stanze. Molta vita, soprattutto. Nulla importa se reale o immaginaria.