di Roberto Galofaro
Tre orfani di Giorgio Vasta (Casagrande, 2021, 30 pp.) è tra i migliori racconti che leggerete sull’annus horribilis 2020. Non è un reportage cronachistico, come se ne sono letti molti, non entra nel dramma della malattia o nel caos della cosiddetta prima linea degli ospedali né affronta i temi filosofici dibattuti e contrapposti dell’“andrà tutto bene” e del “niente sarà più come prima”: è un bellissimo racconto, invece, pura fiction, che sa mostrare poeticamente come il confinamento abbia operato nella psiche individuale.
È un testo nato nell’ambito del festival Babel, nell’edizione del 2020 condizionata dalla pandemia (anche nei contenuti, certamente) e intitolata Atlantica, dedicata al rapporto tra le Americhe e l’Europa. E questo spiega perché vi compaiano, surrealmente addomesticati e familiari, i due eroi melvilliani Bartleby e Achab.
Sono l’incarnazione di due solitudini differenti (e forse opposte) che sono anime della terza, quella del narratore.
L’introflesso Bartleby che cancella gli impegni futuri del narratore, depennandoli dall’agenda con gesto da scrivano, che fa sparire dalla memoria del cellulare le fotografie e che annulla anche il passato, quindi, eliminando i contatti dalla rubrica, le conversazioni e le email, sottraendo il protagonista non solo da ogni obbligo ma anche da ogni relazione e da ogni interesse.
Achab, inquieto e maniacale, teso a un obiettivo indicibile e lontano eppure condannato a navigare per inseguirlo, che intaglia una punta d’arpione in un manico di scopa per farne un’arma da scagliare contro l’irraggiungibile capodoglio che è l’umanità circostante, visibile a distanza dal terrazzino di un palazzo di Palermo come dalla tolda di una baleniera che incrocia sull’Atlantico, ma non avvistabile.
Questi personaggi non smettono di essere “sé stessi”, se dire questo ha senso, ovvero protagonisti di finzioni con le loro storie e l’intreccio noto, eppure si prestano al disegno di Vasta, che è quello di un compleanno significativo (mezzo secolo), vissuto in isolamento, in una casa troppo grande e troppo vuota, grande fino al paradosso e paradossalmente abitata dai fantasmi.
La densità di implicazioni, tra fantasia e testimonianza, è evidente dalla frase che apre il racconto:
Alle sei del mattino di giovedì 12 marzo 2020 sono entrato nella cucina in penombra della casa palermitana in cui abitavo da due mesi e mezzo e, ognuno seduto su una sedia ai lati del tavolo,
ho trovato Achab e Bartleby.
La data ci dice che siamo in presenza della realtà, concreta e certificabile, ci àncora alla Storia che conosciamo: siamo in Italia, il lockdown è iniziato da poco (il decreto del Presidente del Consiglio che estendeva le limitazioni e le chiusure a tutto il territorio nazionale è del 9 marzo). Allo stesso tempo, sappiamo di essere in un campo surreale, quando leggiamo i nomi dei due personaggi letterari.
Siamo, però, all’interno di una casa: più avanti il narratore la definirà esplicitamente «paradossale», forse perché enorme, piena di stanze vuote, di mobili e letti che nessuno occupa, certo anche perché coincidente con una casa angusta di New York e con un abitacolo disperso tra i marosi dell’Atlantico. Ma il paradosso non starà forse anche nel fatto che una casa abitata da soli due mesi sia la casa in cui trascorrerà l’intera, lunghissima, durata del confinamento?
La scomodità dell’abitare, la difficoltà di radicarsi pacificamente in un luogo è un tema ricorrente in Vasta.
In Spaesamento (Laterza, 2010) – un attraversamento di Palermo, delle sue anime inquiete che fanno sperpero di sé, insabbiate nell’indolenza e ancora pesantemente nell’ombra del berlusconismo, come il Paese tutto – diceva di entrare nella città natale e nella casa dei genitori con un sentimento di «rabbia del ritorno»:
A Palermo non vivo più da quindici anni. Ci torno con una frequenza irregolare. Posso non andarci per un anno intero e poi due volte in un mese; stavolta sono via da dieci mesi. Mi sono rimasti tre giorni di ferie e ho deciso di passarli qui. Nessun progetto, nessuna intenzione, soltanto il bisogno di ridurre tutto al minimo.
In Absolutely nothing (Humboldt, 2016), raccontando un viaggio nei luoghi abbandonati dell’entroterra statunitense, luoghi in cui scheletri di edifici conservano impronte di abitanti come di fantasmi, aveva scritto (quasi trasformando il reportage in un percorso da un non-luogo verso altri non-luoghi):
Nello stesso periodo in cui finisco di scrivere questo libro mi ritrovo senza fissa dimora. Per un incrociarsi di circostanze, dopo quasi tre anni di permanenza a Roma non ho più una casa e devo riparare a Palermo, la città dove sono nato e cresciuto e che ho lasciato vent’anni fa. I mobili dell’appartamento dove ho abitato a Roma si trovano adesso in un deposito a Zagarolo […]. L’indisponibilità di ciò che fin qui è stata la mia vita materiale in parte mi disorienta, in parte mi conforta.
Ancora: in Storia del mio presente (racconto contenuto nell’antologia tematica Risentimento, a cura di Giovanni Accardo, Alphabeta Verlag, 2018), leggiamo:
Dopo vent’anni passati altrove, nell’autunno del 2015 sono tornato a vivere a Palermo. Cambiare spazio non vuol dire cambiare tempo, non modifica le abitudini, non rivoluziona lo spirito. E dunque a Palermo il mio risentimento non è venuto meno: al contrario, è diventato ancora più aspro. Perché Palermo è la città canaglia – è sperpero, beffa, oltraggio.
In questa scrittura del confinamento (senza che mai Vasta adoperi nel lessico ricchissimo e vario, che spazia dal tecnicismo nautico alle involate poetiche, le parole “lockdown”, “confinamento”, “restrizione”) non ci sono amori, non ci sono presenze determinanti né assenze conclamate che diano forma alla solitudine, che è totale. Non esiste il mondo esterno, non esistono altri personaggi (se non nella distanza dell’evocazione, nell’elencazione delle ragioni per cui i nomi di alcuni – non riportati – compaiono nella rubrica per esserne cancellati), nessun altro è individuato, neanche nelle case circostanti, non esistono passanti. Eppure, siamo nel 2020 che conosciamo: alle 18 in punto la Protezione civile dirama il bollettino con il numero dei positivi, dei ricoverati, dei defunti e dei guariti, quasi fosse un bollettino del mare, un indispensabile ausilio per la navigazione che non può avvenire.
L’arpione scagliato nel buio non tende a un obiettivo concreto. Le lame delle ringhiere lontane sono come fanoni nella bocca delle balene, l’umanità incombe a distanza sui “flutti audaci della vita trascorsa”.
E, nella chiusa, il piatto apparecchiato per la festa dei tre orfani, quello che compie cinquant’anni e gli altri due fantasmi misantropi, è un tortino simbolico di formaggio, zenzero, acqua e fuoco, da mandare giù come un «boccone di buio», condensato del tempo «chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato».
Inevitabilmente tornano in mente i Bocconi del racconto d’esordio di Vasta (pubblicato nel 2006 nell’antologia Voi siete qui, a cura di Mario Desiati, minimumfax), che il bambino protagonista sputava di nascosto e di nascosto infilava nella cavità del piede del tavolo di casa, e che un giorno, rovesciato il tavolo, vengono allo scoperto rivelando il suo trucco. Ancora una volta, tempo che si fa materia e dissoluzione, materia che si fa tempo in un’entropia inevitabile, ma assurdamente, allora, sotto il segno della luce (e non del buio):
[…] mi accorsi che ogni boccone o blocco di bocconi sedimentari in quel momento sembrava (sarà stata la luce del mattino o il mio luminoso imbarazzo) un frammento di luce dura, un sasso di luce pietrificato, una luce pesante, consistente, che volendo poteva essere scagliata contro un vetro, e lo avrebbe rotto, una luce-arma contundente, una luce che doveva essere contenuta nel cibo, nei bocconi vivi, e che quindi era destinata a finire nel mio stomaco […].