Per Dorothy Parker, tanto vale vivere

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di Debora Lambruschini

“Scusate la polvere”: la prima cosa che mi viene in mente pensando a Dorothy Parker sono le sue ultime parole, l’epitaffio che scelse per le proprie ceneri; questa frase brevissima e pungente ho sempre pensato riassumesse perfettamente lo spirito di questa scrittrice caustica, brillante e feroce. Ad aggiungere ironia alle parole c’è stata anche la questione pratica delle sue ceneri, per cinquant’anni sballottate da un luogo all’altro, per poi finalmente trovare posto, solo ad agosto del 2020, nel vecchio cimitero del Bronx.

Non è un caso che abbia iniziato da qui a parlare di Dorothy Parker, dalla morte e dall’ironia: della prima Parker ne ha scritto direttamente in pochi racconti, è vero, ma il desiderio dell’oblio, la disperazione, l’assenza che si fa lutto, è qualcosa che percorre moltissime delle short story e degli articoli di costume scritti nel corso degli anni; e l’ironia, aguzza, questo è il tratto caratteristico di una scrittrice talvolta vittima del suo stesso personaggio, ma è grazie a quel modo tutto particolare di scandagliare le persone e la società newyorkese degli anni Trenta e Quaranta che immediatamente riconosciamo Dorothy Parker tra le pagine. La scena intellettuale dell’epoca è stata per Parker fonte pressoché inesauribile di spunti per la sua carriera letteraria e l’ambiente in cui ha modellato la propria voce, erosiva e brillante: poetessa, autrice di racconti e testi umoristici, saggi, sceneggiature, il suo nome e la sua persona erano ben noti in città, forse, moderna Oscar Wilde, ancor più dei suoi testi stessi. Nata in una famiglia modesta – il cognome da nubile, Rothschild, non ha alcun legame con la potente dinastia di banchieri – si distinse fin da ragazzina per quell’ironia che sarebbe poi diventata tratto caratteristico: del genere che fu cacciata da scuola – cattolica – per aver definito l’Immacolata Concezione una «combustione spontanea». Lì è nato lo spirito di Parker e il personaggio che è stato la sua fortuna e la sua condanna insieme. Quella voce, comunque, divenne il mezzo per farsi strada nell’ambiente intellettuale, con collaborazioni prestigiose dal New Yorker – cui ha partecipato fin dal primo numero della rivista – a Vogue e Vanity Fair. Ed è mediante quella stessa voce che ha saputo non solo raccontare le miserie quotidiane di un’umanità dolente e ipocrita, ma dentro e fuori dalla pagina l’ha usata per le cause in cui credeva, a partire dalla lotta per i diritti civili, cui è stata fra le prime aperte sostenitrici. La stessa vicenda privata di Parker meriterebbe di essere raccontata, non tanto per mera curiosità ma per la particolare commistione fra arte e vita che talvolta si è realizzata nei suoi racconti, oltre per la curiosità verso un personaggio, una donna, che non ha mai fatto sconti a nessuno, a partire da se stessa. «La gente si arrabbia con me perché ho troppe opinioni», dice Fran Lebowitz nella recente docuserie che Martin Scorsese le ha dedicato, una frase che non a caso potrebbe essere uscita dalla bocca di Dorothy Parker, le cui forti opinioni in qualche occasione le sono costate il lavoro – da Vogue, appunto – o l’iscrizione sulla lista nera di Hollywood.
Ma è ancora possibile godere della lettura dei racconti di Parker, ambientati in una New York che non esiste più? Basta leggere appena un paio di queste storie per rendersi conto che quel mondo potrebbe benissimo essere contemporanei, che i vizi – molti – e le virtù – quasi assenti – raccontate superano abilmente barriere cronologiche e geografiche. Certo, quell’ambiente da lei descritto non esiste più e alcune dinamiche sono mutate, ma l’animo umano al contrario non è cambiato poi tanto, da una parte all’altra dell’oceano e del secolo. È per questo costante dialogo con la contemporaneità, per l’ironia e l’intelligenza, lo sguardo attento, che leggere Parker è ancora oggi un’esperienza importante.

In Italia la storia editoriale di questa scrittrice è stata altalenante e a periodi di pubblicazione sono seguiti molti anni di oblio e difficoltà a reperirne le opere; due raccolte di racconti, “Eccoci qui” e “Dal diario di una signora di New York” erano apparse qualche anno fa nel catalogo di Astoria ma da tempo risultavano praticamente introvabili, fino a riapparire proprio in questi mesi in una nuova veste, per lo stesso editore. Tanto vale vivere – dal celebre verso finale di una delle poesie più note di Parker, ripresa anche nel film Ragazze interrotte – comprende entrambe le raccolte precedenti in un unico volume, con una breve prefazione a cura di Natalia Aspesi e l’accurata nuova traduzione di Chiara Libero.  Ventuno racconti cui ci auguriamo possa seguire un ulteriore volume con il resto della produzione letteraria e, magari, arricchito di un apparato critico-bibliografico adeguato, che invece manca in questa edizione, come del resto dalla quasi totalità dei testi pubblicati oggi. Ma torniamo a Parker, ai suoi racconti: colpisce, si diceva, la contemporaneità dello sguardo, attento scrutatore delle contraddizioni, delle ipocrisie e del conformismo di una società della quale riconosciamo ancora alcune dinamiche relazionali; le solitudini, la vacuità, le distanze dentro certe relazioni non sono poi così lontane da quanto potremmo talvolta osservare intorno a noi.

 

Si potrebbe pensare che ci si abitua, in sette anni, ci si rende conto che le cose stanno così, e ci si rassegna. Ma non è vero. Una cosa simile ti logora i nervi. Non era uno di quei silenzi intimi, pieni di familiarità, che di tanto in tanto si stabiliscono tra persone vicine. Ti fa sentire come se dovessi fare qualcosa per rimediare, come se non stessi compiendo il tuo dovere.
(Che peccato)

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Se la società è mutata, il classismo e la discriminazione razziale non sono del tutto scomparsi, ma hanno assunto forme differenti, come il «terrore della solitudine» che le donne di Parker combattono vanamente con l’alcol e relazioni di facciata. Con la sua feroce ironia, ha saputo raccontare uomini piccoli e meschini, le illusioni e il dramma di donne fragili, tormentate dall’assenza, le estraneità dentro il matrimonio, il perbenismo e le convenzioni dietro cui celare gli abissi di solitudine e frustrazione. E nel farlo, attraverso racconti quasi sempre brevissimi, ha scelto di immergersi in quegli abissi che lei stessa conosceva molto bene, raccontando la consolazione dell’alcol, il disperato bisogno di essere amati, le conseguenze più terribili cui può portare la solitudine. Il sarcasmo che attraversa la pagina è dosato in modo sapiente ed è l’unico filtro possibile con cui osservare le meschinità del quotidiano e non restarne schiacciati, di cui “Il meraviglioso Vecchio Signore” ne è in questo senso l’esempio più lampante, la spietata freddezza e cinismo con cui le figlie attendono la dipartita del vecchio padre.
Sono molte e differenti le donne tratteggiate da Parker e verso ognuna di queste, dalla più misera alla più crudele, posa uno sguardo carico di pietà – ma che si tiene sempre ben lontano dal pietismo – e di empatia, lo stesso con cui sembra invitare il lettore ad osservare.

 

Frivoli, meschini, che ne sanno della sofferenza? Hanno cuori di pietra che non si possono spezzare. Non sanno, vuoti sciocchi, che non potrei vedere gli amici che vedevamo insieme, che non potrei tornare dove lui e io siamo stati? Perché lui se n’è andato, ed è finita. È finita, è finita. E quando finisce, solo i luoghi dove hai provato dolore non ti causano sofferenza.
Se torni sulla scena della tua felicità, il tuo cuore arderà, agonizzante.
(Sentimento)

 

Nella prefazione cui si accennava, Aspesi per un attimo si interroga su come verrà recepita dalle ragazze di oggi la lettura di questi racconti, lasciando intendere – o almeno è quello che è parso a me – come a tratti potrebbe rivelarsi una ricezione problematica per le dinamiche relazionali rappresentate. Ecco, in questo senso è assolutamente necessario invece a mio avviso tenere bene a mente l’epoca in cui questi racconti sono stati scritti, per non incappare in pericolose recriminazioni. Ma guardando più in profondità, spogliate di certe dinamiche fortunatamente superate, c’è in queste storie ancora molto del cuore umano, come il peso di alcuni tabù – l’aborto – , gli abissi cui può portare la solitudine, la disperazione, la distanza di certi rapporti logori. No, non siamo più le donne descritte da Dorothy Parker, ma forse ne conosciamo qualcuna.

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