di Anna Lo Piano
«Come accade la vita? È una questione di cui mi sono proccupata presto. La vita è identica al tempo che passa ineluttabilmente e tuttavia misteriosamente? Mentre scrivo questa frase, passa del tempo; contemporaneamente inizia – e passa – un minuscolo pezzo della mia vita. [...] Strano allora che non riusciamo a coglierla. Sfugge all’occhio che osserva, anche alla mano che annota diligente».
C. Wolf, Un Giorno all’anno. 1960-2000, e/o, Roma 2006
Come si fa a raccontare la vita? In che rapporto ci poniamo con il tempo, da che prospettiva? E con quale linguaggio possiamo fermare ciò che continuamente ci sfugge? Non c’è uno scritto di Christa Wolf dove queste domande non appaiano, a un certo punto, a interrompere la narrazione, chiedendo conto di ogni singola parola pronunciata, di ogni fatto descritto.
Sono passati dieci anni da quando Christa Wolf ci ha lasciati e più di trenta da quando, per la prima volta, ho letto Cassandra di una lettura feroce, sentendo che in quelle pagine, in un modo che non riuscivo a capire completamente, c’era qualcosa che mi riguardava da vicino.
In queste settimane, nel tirare fuori dalla libreria le vecchie edizioni con le copertine pastello, un po’ sbiadite sui margini, ho sentito di compiere quel movimento che sempre si fa quando per istinto ci rivolgiamo ad alcuni scrittori in particolare, perché ci chiariscano le ragioni oscure del presente. Quello stesso movimento spinge Wolf, in un racconto scritto pochi giorni dopo l’11 settembre, a prendere in mano City of God di E. L. Doctorow scorgendovi, tra l’altro, il presagio di ciò che era appena accaduto. “Nessuno scrittore è in grado di restituire la consistenza reale della vita vissuta” scrive Doctorow, e Wolf, dialogando con se stessa dentro la finzione, pensa che forse è un ragionamento banale. Eppure il rapporto tra la materia vissuta e la sua rappresentazione è il quesito che la ossessiona da sempre, che torna a tormentarla, anche e soprattutto nei suoi racconti, che in Italia sono stati pubblicati in Italia dalla casa editrice e/o in due raccolte. La prima edizione di Sotto i tigli, con la traduzione di Anita Raja , risale alla fine degli anni ’80, mentre Con uno sguardo diverso del 2008, a cura di più traduttori, è l’ultimo suo libro pubblicato. Considerati spesso meno degni di attenzione rispetto ai romanzi, in particolare “Cassandra” e “Medea”, i racconti costituiscono tuttavia una produzione importante che accompagna l’autrice lungo tutta la vita come un diario, dal 1960 di un Martedì 27 settembre all’ultimo 27 settembre del 2001. Non molti, e scritti spesso su richiesta, come se i fatti avessero bisogno una sollecitazione esterna per aggregarsi in un disegno di senso, hanno qualcosa di tellurico, come se dietro l’apparente compostezza della lingua si esercitassero forze sotterranee, movimenti che vanno a convergere lungo linee di frattura che si espandono in tutta la sua opera . Ed è lungo queste faglie che ho deciso di procedere, con la dovuta cautela.
Memoria
“Mentre preparo i panini” dice Christa Wolf in Martedì 27 settembre “cerco di ricordarmi come ho trascorso il giorno prima della nascita di Tinka, quattro anni fa”.
Probabilmente faceva più caldo. Un’amica venne a passare la sera da lei. Di che parlarono? Alcune cose sono perdute per sempre, altre rimangono. Ma con quale logica? Nella cronaca di una giornata del 1960, veniamo avvertiti fin dall’inizio che niente andrà secondo i piani. Meglio dunque arrendersi al movimento casuale di ciò che accade, tra doveri familiari, lagne di bimbe, tentativi di concentrarsi su un articolo, il lavoro alla fabbrica di vagoni come intellettuale di partito. Il racconto nasce per rispondere all’iniziativa del giornale Moscovita Isvestija che invitava gli scrittori di tutto il mondo a «descrivere con la maggiore esattezza possibile una giornata di quell’anno, e precisamente il 27 settembre». Ma la maggiore esattezza possibile fino a che punto si può spingere?
“Seguita a spaventarmi la quantità di cose che dimentichiamo se non si annota tutto” continua Wolf “e la rapidità con cui succede. D’altra parte: fissare tutto è irrealizzabile: bisognerebbe smettere di vivere”.
Scrivere la vita mentre la si vive è una contraddizione irrisolvibile, ma lo è anche riprodurre il passato attraverso la memoria. Che forma dare a qualcosa che sembra sfuggire da ogni parte? Come sappiamo quali sono i volti da salvare, se la vita sembra una serie infinita di punti? Come capire qual è la linea di senso che li congiunge? Wolf sceglierà di salvare questi punti raccontando lungo l’arco di quarant’anni, dal 1960 al 2000, ogni 27 settembre. Forse questa soluzione rende la materia banale narrabile. Ma siamo lontani dall’ottimismo di una trama ben congegnata.
Una storia? Qualcosa di solido, di tangibile, come un recipiente
a due manici che si afferra e da cui si beve?
In Pomeriggio di giugno (1965) siamo avvertiti fin dall’inizio che ciò che stiamo per leggere non ha una forma in grado di contenere e di essere contenuta. Al contrario, la quotidianità di un pomeriggio trascorso nel giardino di famiglia viene attraversata da correnti che la lacerano in ogni verso.
Un libro che Christa e il marito Gert hanno letto in tempi diversi spalanca l’estate tedesca su una luce mediterranea. Le parole si invertono e si inventano in combinatorie fantastiche attraverso un gioco che fanno con le figlie, e il tempo delle bambine attraversa quello dei genitori, loro continueranno a vivere anche quando questi non ci saranno più, e in quello che accade adesso si forma la loro memoria del futuro.
Cosa rimarrà di questo giorno? Forse non la foto della madre ma il ricordo di un crimine efferato di cui hanno captato brandelli di informazione. Nel quotidiano entra la storia, l’immaginario dei vicini. Gli aerei che vanno da est a ovest in realtà vanno da ovest a ovest, ma nessuno dei passeggeri sembra accorgersene.
Questione di prospettive.
Prospettive
Bisogna raccontare la liberazione , l’ora della liberazione, e io ho pensato, niente di più facile. In tutti questi anni quell’ora mi è rimasta stampata davanti agli occhi, e se ne sta bell’e pronta nella mia memoria.
Mutamento di prospettiva è un racconto del 1970, comparso per la prima volta in un’antologia in cui vari autori ricordavano come avevano vissuto la caduta del nazismo e la liberazione. Un compito facile, si dice Wolf. Alcune immagini del passato rimangono in noi così nitide e indelebili che non è neanche necessario fare uno sforzo per rievocarle. Eppure al momento in cui si accinge a raccontarle esse si allontanano come miraggi. Un dettaglio del vestito della nonna è tutto quel che serve per impigliare la narrazione come un filo fuggito alla trama, e impedirle di andare avanti. Perché:
il ricordo non è un catalogo di Leporello, ed essere liberati non dipende solo da una data e dai movimenti occasionali delle truppe, ma anche da certi movimenti difficili e di lunga durata dentro di noi.
Per raccontare la liberazione, bisogna che essa abbia il tempo di agire sull’anima e sul linguaggio che la rappresenta, perché la lingua è sempre l’espressione di una percezione del mondo.
Se cambia il mondo deve cambiare anche il linguaggio.
L’esigenza di scrivere in modo nuovo è conseguente, sia pure con distacco, a un modo nuovo di stare nel mondo” scrive Wolf in un saggio del 1968 dal titolo “Leggere e scrivere” .
“A intervalli regolari che sembrano abbreviarsi, il nostro udito, la vista, l’olfatto, il gusto si comportano diversamente da quanto avveniva poco tempo prima.
Nel modo di avvertire il mondo circostante si è verificato un mutamento che giunge a sfiorare l’intangibilità del ricordo; ancora una volta vediamo il mondo - ma cosa significa il mondo? - sotto una luce diversa.
Le fratture della storia incidono sul corpo di chi l’attraversa. Prima o dopo la guerra, prima o dopo il muro, prima o dopo l’11 settembre, la cartina del mondo assume nuovi colori, si sposta la distanza dal confine, mutano i rapporti di forza, il senso del pericolo.
Il giorno della liberazione il mondo appare rovesciato. Vincitori e vinti invertono i loro ruoli. “Ora gli straccioni avrebbero indossato i nostri vestiti” dice Wolf in Mutamento di prospettiva, mettendo in chiaro come questo ribaltamento abbia a che fare con il corpo, con la fame: “avrebbero infilato i piedi insanguinati nelle nostre scarpe, ora gli affamati si sarebbero impadroniti del burro e della farina e del salame che avevamo appena portato.”
Un soldato muore di una morte reale, molto diversa da quella epica ed eroica della narrazione vittoriosa. Francesi e polacchi tra di loro comunicano in una lingua alla quale non è possibile prendere parte.
I vincitori possono dare libero corso ai loro sentimenti, gli altri, I vinti, devono tenerli chiusi dentro di sé.
Lei, bambina, intuisce che tutto questo, anche se doloroso, è giusto. Loro, gli ex vincitori, sono colpevoli, e l’hanno sempre saputo. Ma è un attimo di coscienza, e poi tornano a dimenticarlo, come se una cecità mirata colpisse sempre chi detiene il potere. Bisogna spostare lo sguardo, renderlo marginale, per riuscire a vedere, per riuscire a dire. Si comincia a configurare quell’associazione tra parola e sguardo che troverà la sua espressione più alta nella preveggenza di Cassandra, ma che si ritrova in quasi tutti i testi.
La materia di Mutamento di prospettiva qualche anno dopo andrà a confluire nel romanzo Trama d’infanzia, in cui Wolf elabora la storia della sua famiglia negli anni dell’ascesa e del crollo del Nazismo.
Ma come si fa a raccontare una vita che ha attraversato più di un ribaltamento - l’ascesa del nazismo, la guerra, la sconfitta, la divisione? Scegliere una prospettiva non equivale forse a scegliere un’interpretazione?
Per uscire dall’impasse Wolf sceglie di frammentare i piani temporali e le voci. Dal suo presente del 1976 l’autrice dialoga con la se stessa del 1971, in quell’estate in cui è ritornata nei luoghi dove è stata bambina, e le fa raccontare gli anni dell’infanzia.
Il rischio dello sguardo unico è scongiurato dall’assunzione di un punto di vista altro.
In Nuovi punti di vista e considerazioni di un gatto sulla vita (1970), Wolf riprende il personaggio del Gatto Murr di Hoffmann e l’ idea di un animale che scrive di sé usando i margini e gli spazi bianchi di un manoscritto umano. Sempre sui margini, questa volta del verbale di una sperimentazione farmacologica, si muove la scrittura di Autoesperimento del 1972. Una ricercatrice si sottopone al passaggio di sesso da femminile al maschile tramite l’assunzione del farmaco Petersein Masculinum 199, e poi ritorna indietro assumendo una sorta di antidoto, il Petersein minus masculinum. Il linguaggio scientifico della relazione ufficiale non è però sufficiente a dire quello che è successo davvero in questa transizione: il professore “col suo culto superstizioso del risultato misurabile”, le ha reso sospette le parole del suo linguaggio interiore, il solo adeguato a raccontare la complessità di ciò che è accaduto davvero dentro di lei. Il cambiamento di sesso è un mutamento di prospettiva, una trasformazione che esige una lingua diversa, che non somiglia a nessuna di quelle a disposizione, una lingua fluida, che va inventata:
Ma non si può rimproverare alla lingua di non disporre di una parola adatta a quel mio trapassare per stadi indistinti dentro cui scivolavo e che si rispecchiava in me come un nuotare sul fondo di un’acqua verde chiara, popolata di piante e animali singolarmente belli.
Solo conquistando questa nuova lingua può raccontare la propria esperienza “felice di poter disporre nuovamente delle parole”.
La scrittura appartiene al corpo perché è legata al modo in cui si sperimenta la realtà. In questo senso, in “Premesse a Cassandra”, Wolf si interroga sulla specificità della scrittura femminile :
In che senso esiste una scrittura femminile? Nel senso che le donne, per motivi storici e biologici, sperimentano un realtà diversa da quella degli uomini. Nel senso che sperimentano la realtà in modo diverso da quella degli uomini e a ciò danno espressione. Nel senso che le donne da secoli non fanno parte di chi domina ma di chi è dominato, sono cioè oggetti di oggetti, oggetti di secondo grado, oggetti abbastanza spesso di uomini che sono a loro volta oggetti, e dunque, stando alla loro condizione sociale, appartenenti in ogni caso a una cultura di second’ordine.
Ma invece di cercare a tutti i costi di integrarsi nell’aberrazione dei sistemi dominanti, prendono la parola e scrivendo e vivendo “puntano all’autonomia”. La presa della parola, la creazione di un linguaggio proprio, costituiscono il movimento fondamentale per la libertà.
Ferite
Nel 1973 Ingeborg Bachmann muore, a Roma, per le conseguenze delle ustioni riportate nel corso di un incendio nella sua casa di via Giulia. Quando tre anni dopo Wolf pubblica Trama d’infanzia, pone come epigrafe del Capitolo 8 un verso della poetessa che recita: “Con la mia mano bruciata scrivo del fuoco”.
Riferimenti, citazioni, riflessioni su Bachmann percorrono tutti i racconti, i romanzi e i saggi di Wolf, ma questo colpisce particolarmente. Per scrivere del fuoco bisogna ustionarsi. La lingua passa ancora dal corpo e dalle sue ferite.
In Premesse a Cassandra Wolf si interroga a lungo sul rapporto con il dolore della sua protagonista.
La sua contemporaneità consiste nel modo in cui impara a convivere col dolore? Sarebbe allora il dolore – una particolare modalità del dolore: il dolore del farsi soggetto – il punto attraverso il quale mi assimilo a lei?
“Faccio la prova del dolore” dice proprio Cassandra nelle prime pagine del romanzo, quando comincia a rievocare ciò che è accaduto “come il medico punge un arto per verificare se è insensibile, così io pungo la memoria”.
E anni dopo Wolf ritorna su quest’immagine. Nel racconto Nella pietra, del 1996, una donna si sottopone ad anestesia locale per un’operazione all’anca. Sceglie questo tipo di anestesia per rimanere vigile, e così seguiamo i suoi pensieri durante tutta l’operazione.
“Mi creda non sentirà nulla come se non fosse il suo corpo” la rassicurano gli infermieri.
La parte inferiore del suo corpo diventa come pietra, un oggetto altro da sé mentre le incidono la carne. Cosa sente davvero? E perché continua ad avere la sensazione di essere rannicchiata sul lettino, come se l’ultima memoria si fosse fissata sul suo corpo?
Seguendo un’intuizione prendo il volume delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Il filosofo austriaco è stato un punto di riferimento importante per Ingeborg Bachmann, la sua poetica nasce anche da quelle riflessioni sul linguaggio, sulla tensione della parola verso la sfera dell’indicibile. Ed ecco che sfogliando le pagine mi appare, in una vecchia sottolineatura, questo brano: “Divento di pietra e il mio dolore continua. E se mi sbagliassi, e non fosse più dolore? – ma qui non posso certo sbagliarmi; non vuol dire nulla: dubitare se sento dolore!”
Dubitare di tutto, anche del proprio corpo, delle proprie sensazioni. Come parlare infatti di un dolore anestetizzato? Come raccontarlo?
È la domanda che si pone Wolf all’inizio del racconto, che comincia con il risveglio dall’anestesia e che prosegue con una lingua spezzata, frammentata. Le istruzioni del chirurgo e degli infermieri interrompono il suo flusso di pensieri, la punteggiatura svanisce, la testa diventa una “falda detritica per sintagmi lessicali inutilizzabili”. L’eco di favole, parabole evangeliche, riflessioni sul mito di Medusa, la donna pietrificata, si sovrappongono. Questo racconto, come il successivo Associazioni in azzurro, sono quelli in cui Wolf più sperimenta con il linguaggio, in cui la prosa diventa un flusso continuo, fluido, in cui vanno a confluire i pensieri informi di un monologo che è però tutto esteriore, perché si rivolge continuamente a un interlocutore esterno, come un vaticinio. È una riflessione filosofica, culturale, letteraria che però non ha la forma razionale del saggio ma procede in forma intuitiva, poetica. Nella pietra finisce con il sonno dell’anestesia, spezzando il flusso dei pensieri a metà di una frase.
Un richiamo al dolore è anche in epigrafe di Unter den Linden, uno dei racconti più densi e misteriosi di Wolf, che dà il titolo alla sua prima raccolta. Nel solco delle genealogie femminili che la contraddistinguono, questa volta prende in prestito un verso della scrittrice Rahel Varnhagen, animatrice di uno dei salotti del romanticismo tedesco. “Sono convinta che essere feriti là dove siamo più sensibili e dove ci è più insopportabile faccia parte della vita: l’essenziale è come ne usciamo”.
Tutto il racconto è l’attraversamento e l’uscita da questo dolore.
“Mi è sempre piaciuto camminare per Unter den Linden” è l’incipit fulminante di questo racconto. Ma subito dopo la voce narrante ci avverte che anche se ama gli inizi sicuri, questi riescono solo a chi è felice, ed evidentemente arrivarci non è stato facile. La strada reale Unter den Linden, che attraversa Berlino da est a ovest, si trasforma in un doppio onirico. Come succede spesso nei sogni, i piani si confondono, e momenti di lucidità si alternano ad altri di totale spaesamento. C’è una ragione per cui è lì, qualcuno lo ha richiesto, ma non sa molto di più. In ogni caso la protagonista va avanti, sapendo che “Ogni mondo ha le sue regole, bisogna muoversi in quelle regole”. L’unico modo giusto per attraversare il sogno è con l’atteggiamento spensierato del bambino nelle favole. E lei si arrende alla fluidità man mano che i diversi piani si susseguono, che la sua storia si scompone nelle storie di altre donne che le fanno da specchio, che le rivelano parti nascoste di sé, in uno spostamento continuo tra passato e presente, in cui le immagini evanescenti che attingono al fantastico di Hoffman si integrano nella realtà di una Berlino divisa. Solo alla fine del cammino può finalmente parlare, come se nella proliferazione dei livelli di realtà conferiti dall’immaginario onirico avesse maturato le parole necessarie per dire tutto ciò che va detto.
La ferita per rimarginarsi esige una ricomposizione, un attraversamento del dolore.
Tutt’a un tratto capii: quella ero io…Ora tutto mi si chiariva di colpo. Dovevo ritrovare me stessa: era il senso della convocazione. Cellula dopo cellula il mio corpo si riempì di nuova gioia. Una quantità di vincoli mi abbandonò per sempre. Non c’era infelicità che avesse impresso il suo sigillo una volta per tutte sulla mia fronte. Come avevo potuto essere così accecata da sottopormi a una sentenza sbagliata?
Non sottoporsi a una sentenza esterna, a ciò che ci si aspetta, all’obbligo di un linguaggio imposto. Sempre in Premesse a Cassandra, Wolf ritorna sulla simbologia della pietra, parlando di Elena di Troia, che è la figura opposta a quella di Cassandra, con la quale quest’ultima si confronta di continuo.
Alla donna è strappata la memoria viva, le viene attribuita l’immagine che gli altri si sono fatti di lei: il processo atroce della pietrificazione, della reificazione nel corpo vivo. Ora lei fa parte delle cose, della res mancipi.
Cassandra si fa soggetto perché rifiuta l’assimilazione all’idolo, alla pietra. L’emancipazione, al contrario, l’uscita dalla res mancipi, è il sottrarsi alla pietra, il farsi viva anche nel riconoscimento del proprio dolore.
Visioni
Nel racconto del 2001 che chiude la raccolta Con uno sguardo diverso Christa Wolf aggiunge un 27 settembre ai quaranta che compongono la sua autobiografia Un giorno all’anno. Sono passati pochi giorni dal crollo delle torri dell’11 settembre, e le immagini che passano ripetutamente sui teleschermi di tutto il mondo non sembrano potersi cancellare. Un’esperienza collettiva che passa dallo sguardo. Impossibile non vedere, rendersi ciechi a ciò che sta avvenendo.
Quel giorno si produce uno strappo nel tempo, un mutamento brusco di prospettiva come ce ne sono stati altri nella storia. Wolf enumera i propri: la guerra del ’39, la fuga alla città natale del ‘45, l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia nel 1968.
Per questo chi c’era, quell’11 settembre del 2001, ricorda ancora benissimo, a distanza di anni, dove si trovava, con chi, che cosa ha pensato, il passaggio dall’incredulità alla presa di coscienza. Dice Wolf che “mentre il cervello incredulo cercava ragioni”, il suo corpo “aveva già capito e produceva quella sgradevole sensazione che mi annuncia da sempre che sta accadendo qualcosa di irrevocabile, perlopiù spaventoso”.
La consapevolezza si attua in qualcosa di più profondo ancora dello sguardo, perché si può vedere e non riconoscere. In Trama d’infanzia Nelly, la bambina che funge da terza persona per il racconto autobiografico di Wolf, parla di parole scintillanti che non bisognava pronunciare, che non si scorgevano nel silenzio ma negli occhi degli adulti. Sua madre rischia una condanna per aver detto la verità: “abbiamo perduto la guerra, lo vedrebbe anche un cieco”. Cassandra, guardando i vincitori che si aggirano intorno al carro su cui l’hanno portata a Micene come schiava, ne riconosce l’incapacità di vedere: “Tutto ciò che devono conoscere si svolgerà davanti ai loro occhi, ed essi non vedranno nulla.”
Cassandra invece vede perché è capace di uscire da se stessa, di assumere una posizione marginale, ma libera, di cercare una parola autentica.
Negli ultimi racconti anche Christa Wolf sembra trovare una scrittura che corrisponda meglio alla forma del suo pensiero. Dopo gli esperimenti di Nella pietra e Associazioni in azzurro torna all’autobiografia. La seguiamo nel suo soggiorno negli Stati Uniti, scrive un racconto sul rapporto con il marito che ricalca la struttura di “Io e lui” di Natalia Ginzburg, ci mette a parte delle sue visite, delle notazioni, dei minimi gesti quotidiani. Eppure questo quotidiano non è più lacerato da una materia che non trova il modo di esprimersi, perché l’insieme di riflessioni sul mito, la storia, la cultura si inserisce nel pensiero, in quel monologo esteriore che però ora sentiamo più pacato, più capace di tenere insieme le contraddizioni di un ragionamento che procede sempre per intuizioni. Eppure ha perso il tono del vaticinio, dato che non si tratta di prevedere il futuro quanto di vedere le reali condizioni del presente. Ed è a questa chiaroveggenza che l’individuo torna. È per questa visione che si torna alla densità della sua scrittura per attingervi risposte, anche dal futuro.