Di Debora Lambruschini
Nella prefazione alla raccolta Trash da poco pubblicata per minimum fax, Dorothy Allison a un certo punto afferma: “Perché scrivere? Per prendere parte al discorso. La letteratura è un discorso, un vivace appassionante scambio che sfida e amplia costantemente la nostra immaginazione”.
Ho pensato molto a quest’idea, semplice eppure fondamentale, della scrittura come parte di un discorso, di uno scambio continuo. Capita talvolta che si creino inaspettate connessioni fra i libri e che queste portino verso luoghi che non immaginavamo, spunti e riflessioni inaspettati.
Ho letto queste due storie, Quaderno dei fari di Jazmina Barrera ed E tutt’intorno il mare di Dominique Fortier, circondata dal caos agostano della riviera ligure, eppure pagina dopo pagina la scrittura è stata capace di evocare mondi e dissolvere temporaneamente ciò che c’era intorno. Alla folla rumorosa si è sostituito il silenzio e la solitudine: dei fari, protagonisti del saggio letterario-memoir di Barrera, dell’abbazia di Mont-Saint-Michel del racconto di Fortier; la percezione del mare tutto intorno si è fatta più forte, il sale, il vento quasi tangibili. E i due libri, a poco a poco, hanno iniziato a dialogare tra loro, intrecciandosi poi ad altre pagine, altre storie e suggestioni. Per loro natura infatti entrambi i libri suggeriscono ulteriori letture: Quaderno dei fari, uscito questa estate per La nuova frontiera, è profondamente legato al celebre romanzo di Virginia Woolf, Gita al faro, cui Barrera tratteggia nuovi spunti di riflessione su una storia mai esaurita, ma anche attraversato da romanzi, racconti e saggi meno noti, a comporre una polifonia di storie letterarie e umane per tentare di comprendere la fascinazione esercitata dai fari; E tutt’intorno il mare, che uscirà il 23 settembre per AlterEgo edizioni, è invece una storia che ne contiene al suo interno tante quante quelle della “Città dei libri”, la magnifica biblioteca perduta di Mont Saint Michel; soprattutto due racconti distanti nel tempo e nello spazio eppure idealmente intrecciati che guidano il lettore in un gioco metaletterario ben congeniato. Un racconto incompiuto di E.A. Poe, il classico di Woolf, un saggio di Stevenson, Omero e Walter Scott e poi, ancora, il dialogo con forme espressive, l’opera di Hopper, il memoir, il reportage, l’invenzione letteraria, la ricerca storica: Barrera e Fortier scelgono, ognuna a proprio modo, una forma ibrida tra saggio letterario, romanzo e racconto autobiografico, similmente all’opera di Olivia Laing che a partire da una suggestione costruisce un mondo di rimandi, spunti, considerazioni dentro e fuori dal testo letterario.
E l’uno e l’altro dialogano fra loro, si diceva, in uno scambio inaspettato e molto fitto: la solitudine del faro di fronte al mare, il volontario esilio del guardiano per molti versi simile a quello del monaco, del pellegrino o dell’uomo di Fortier che in quel monastero sulle rocce cerca rifugio dal dolore.
Nel confino del faro, il guardiano è come una specie di naufrago. Naufrago per volontà propria. Che sia un uomo in fuga da un passato oscuro, da una delusione amorosa o ideologica, o in cerca di un rifugio nella solitudine fisica da quella che si porta dentro, il guardiano del faro sceglie il proprio esilio.
(Quaderno dei fari, p. 77)
Perché queste due storie, dove nasce l’ossessione? In entrambi i casi ha i contorni del sogno, qualcosa che appare ben prima di conoscerla nella realtà tangibile ma che immediatamente viene riconosciuta.
A qualcuno piace guardare dentro i pozzi. A me fa venire le vertigini. Ma con i fari smetto di pensare a me stessa. Mi allontano nello spazio e vado in luoghi remoti. Mi allontano anche nel tempo, verso un passato che so di idealizzare, in cui la solitudine era più semplice. Mi discosto anche dai gusti del mio tempo perché oggi i fari sembrano figure romantiche e sublimi, due parole passate di moda. È difficile parlare degli argomenti associati ai fari: la solitudine o la follia.
Noi che ci proviamo, non possiamo che accettare di essere stucchevoli.
(Quaderno dei fari, p. 17)
Il faro, per Barrero, apparso in sogno quando era bambina e, in seguito, nella sua vita adulta, significa anche confrontarsi con il fallimento, «accettare il limite dell’incompletezza» di una collezione che non potrà mai essere davvero compiuta.
La prima volta che l’ho visto avevo tredici anni, un’età nel limbo fra l’infanzia e l’adolescenza, quando già sappiamo chi siamo ma ignoriamo se mai lo diventeremo. Fu una specie di colpo di fulmine. Non ne ho ricordi molto precisi, solo una certezza, segno di una meraviglia talmente profonda da rasentare lo stupore: ero arrivata in un posto che avevo cercato senza conoscerlo, senza neppure sapere che esistesse.
(E tutt’intorno il mare, p. 7)
Cambia l’oggetto ma non poi molto il fascino esercitato, il desiderio anche per Fortier di affondare appieno nella propria ossessione, farne il mezzo per indagare oltre il conoscibile. Riflettere sul mestiere di scrivere è ciò che più profondamente lega questi due libri. Da una parte è lo sguardo della scrittrice che indaga il mondo accogliendone i simboli, è lo straniamento dato dalla creazione letteraria, la fiducia nelle parole, nelle storie da cercare e assorbire; dall’altra la sfida di calarsi nel passato, la materia storica che si intreccia all’invenzione letteraria e, soprattutto, la difficoltà di ritrovare con la maternità il proprio ruolo di scrittrice:
Prima il mio tempo mi apparteneva completamente, apparteneva a me e ai libri. Oggi ogni minuto consacrato a leggere o scrivere è un minuto che non trascorro con mia figlia; ormai la scrittura è accompagnata da una fretta e un senso di colpa detestabili. È tempo che le sottraggo, che non ritroverò, che avrei dovuto dedicarle e che non avrò mai passato con lei.
(E tutt’intorno il mare, p. 59)
La scrittura, il senso di colpa e di inadeguatezza, eppure l’incanto per le parole che talvolta si confondono – e sbiadiscono, l’inchiostro sciolto dall’acqua, per dare vita forse così alla sola narrazione possibile. I fari inseguiti da Barrera, come l’abbazia evocata da Fortier, raccontano luoghi che sembrano in qualche modo sul punto di scomparire, spogliati della propria funzione originaria, soggetti all’usura del tempo o all’avanzare della tecnologia:
[…] restano soltanto una quindicina di monaci. Le loro voci si innalzano, monocordi e tremanti fra i muri. Sembra che sappiano di essere lì lì per scomparire anche loro, di restituire la roccia alla sua solitudine.
Ma c’è comunque nei loro canti una bellezza dolorosa – o forse sono io che non posso più sentire niente di bello senza soffrire all’istante.
(E tutt’intorno il mare, p. 34)
Due forme diverse eppure simili di pellegrinaggio quelle di Barrera e Fortier, ognuna spinta dalla propria ossessione, inseguita nella realtà o attraverso le pagine, rievocata nel ricordo e, attraverso la storia dei fari o del Mont Saint Michel, fusa con la propria. Come parole di un unico canto d’amore per i libri, alle storie affidiamo la nostra mortalità di uomini:
[…] in realtà non sono le opere ad aver bisogno della protezione dei monaci, sono gli uomini ad aver bisogno dei libri. Noi moriremo, i libri sopravvivranno.
(E tutt’intorno il mare, p. 163)