Il racconto in Michele Mari, di Marco Mongelli

Il racconto italiano, nella sua ricchezza e varietà, è stato esplorato negli ultimi decenni da scrittori diversi per generazione e formazione. Se non è possibile scrivere una storia lineare della forma breve, si avverte sempre più l’urgenza di ragionare attorno a questa forma e studiarne le innumerevoli declinazioni. Il fascicolo, risultato di una giornata di studi, raccoglie interventi su racconti di autori molto diversi (come Tommaso Landolfi, Anna Maria Ortese, Claudio Magris, Michele Mari, Giulio Mozzi), coprendo mezzo secolo di scritture e abbracciando diverse estensioni (tra cui le raccolte di Walter Spina sulla Libia coloniale e postcoloniale, degli alpinisti che rievocano le loro scalate, fino al fenomeno dell’autoproduzione). 

Estraiamo e pubblichiamo parte del capitolo 'Infanzia e fantasmi, la forma racconto in Michele Mari' di Marco Mongelli.


Michele Mari appare un alieno nella letteratura contemporanea italiana anche se pensiamo ai suoi racconti, così distanti sia dall'esperienza dei Cannibali sia dall'asciutto minimalismo importato dagli americani, ma anche dal nuovo realismo degli anni Zero. Quando si smette di considerare quelle qualità “intrinseche” alla forma-racconto e si approccia un ragionamento più storicistico, il racconto di Mari appare davvero in controtendenza, se non proprio incollocabile. Il racconto degli anni '80 aveva infatti secondo Angelo Guglielmi il fine di distanziarsi da ogni idea di totalità e come caratteristiche peculiari quelle di rappresentare «frammenti di realtà visti per sé e non dentro una ideologia del tutto» in una maniera antiletteraria e che tendeva alla funzionalità della scrittura invece che alla sua espressività. Risulta evidente come la forma breve in Mari abbia caratteristiche del tutto opposte, essendo al massimo grado, e fieramente, letteraria ed espressivista, e soprattutto avendo l'ambizione di dire una totalità assoluta e irrevocabile. Anche se qualcuno ha sostenuto che il racconto sia un genere meno assertivo del romanzo a me sembra vero piuttosto il contrario e che invece rifiuti l'ambiguità, la polivalenza e qualsivoglia sfaccettatura per farsi invece mezzo di una spiegazione assoluta del mondo. Come ha scritto Lodoli, in maniera sorprendentemente calzante all'opera di Mari, il racconto con la sua emblematicità costante si presta a essere scrittura di un destino, alimentato da una «fedeltà ossessiva» dei suoi personaggi.
Nel tracciare l'evoluzione del genere, dagli albori connessi all'oralità, passando per la codificazione della novella e arrivando fino allo sfuggente passaggio al racconto moderno, si tende a definire il racconto novecentesco come qualcosa che si è liberato della tirannia del finale, espressa in drammatizzazioni, costruzioni ascendenti ed effetti di clôture. In Mari, al contrario, notiamo sempre una grande importanza accordata ai finali: anche quando il peso narrativo si sposta più verso il centro, soprattutto nelle prove più lunghe, se non tirannico il finale è comunque sempre decisivo. Uno dei miracoli narrativi dei suoi racconti è proprio la capacità di fondere funzionalità e ricercatezza. Oltre che preciso e concreto il linguaggio non rinuncia a essere ricco e forbito come è nelle pagine dei suoi romanzi e così facendo riesce a essere sempre incisivo. Se «l'esemplarità è l'inconscio letterario del genere racconto» di quale esemplarità sono portatori i racconti di Michele Mari?

Innanzitutto, egli ha sperimentato le possibilità dello scriver breve attraverso i vari generi e le forme del narrare. Ad esempio, nelle giornate del finto diario di Io venìa pien d'angoscia a rimirarti, negli interventi saggistici raccolti ne I demoni e la pasta sfoglia o nelle poesie quasi epigrammatiche di Cento poesie d'amore a Ladyhawke. Nei casi citati il macrotesto che raccoglie queste scritture brevi le inscrive in un progetto generale senza far perdere loro autonomia e consistenza. Alla stessa maniera, dunque, credo dovremmo leggere le raccolte di racconti, che raccolgono e restituiscono le angosce e le febbri del passato infantile. In uno scandaglio progressivo, Mari comincia il suo doloroso movimento all'indietro con un riferimento all'Orfeo che girandosi perde quello che era andato a ritrovare (Euridice aveva un cane); poi addita e apostrofa quel passato (Tu, sanguinosa infanzia), e infine mette a punto una trattazione precisa sulla genesi della scrittura dei fantasmi (Fantasmagonia).
Possiamo ritrovare nella produzione di Mari una molteplicità di lunghezze e di forme: da quella breve o brevissima (apologhi o favole con tutto il peso sul finale – come le poesie “a effetto” diCento poesie), a quelli più lunghi e stratificati, dove c'è una concentrazione narrativa maggiore al centro e dove il finale è sì fondamentale ma non così “improvviso”. Mentre la prima e l'ultima raccolta sono composte da molti racconti di varia lunghezza e natura quella centrale risulta più compatta e per questo estremamente indicativa per capire il valore della forma-racconto nell'opera di Michele Mari. Se il compito di una raccolta è quella di mostrare la logica unitaria che guida ogni racconto, il cui senso si deve dispiegare in modo vario ma coerente, allora appare evidente che in Tu, sanguinosa infanzia ogni pezzo è ben incastrato in un'architettura superiore: si ha cioè quella percezione dell'insieme che auspicava Poe nel suo celebre La filosofia della composizione. Se nella novella ciò che conta è l'effetto centrale, verso il quale debbono tendere tutti i particolari, e il dénouement, che deve spiegare tutto quel che precede, poniamoci ora la domanda: in che modo l'infanzia e le sue presenze fantasmatiche si declinano nei racconti di Mari?

Cercherò di rispondere attraverso riferimenti ai racconti più noti.

Iniziamo dall'infanzia dunque, che è sempre in Mari una fase della vita seria e decisiva per tutto quello che avverrà dopo. L'età adulta è un mero prolungamento temporale in cui ossessioni e compulsioni restano le stesse: «non sarai titolare di un letto se non avrai dormito in un lettino […] non leggerai e non possederai Columella o Malebranche se non avrai letto e posseduto Collodi o Salgari» (“I giornalini”, p. 4). L'infanzia è inoltre l'età della paura, perché popolata da mostri e fantasmi, ma anche perché il sentimento di diversità dalla «disgustosa logica della strada» (“L'orrore dei giardinetti”, p. 39) costringe costantemente il bambino nel terrore. Nell'infanzia si sviluppa già l'atteggiamento fondamentale che ogni protagonista di Mari assume verso la vita, infliggendosi un rigore impensabile, non per motivazioni ascetiche ma per un'estrema fedeltà al proprio mondo mentale. L'irriducibile distanza dagli altri esseri umani e la propria solitudine presa come un destino irrefutabile, sono certezze scolpite dal primo giorno e con cui si deve fare i conti fino alla fine. Questa alterità rispetto ai coetanei e rispetto al mondo è assunta senza piagnistei ma anche senza indulgenza: i giochi e gli amori sono seri e nessuna voce li relativizza mettendoli fra virgolette. Si tratta di esperienze solipsistiche che nel testo ci vengono riferite con una sola voce e un solo sguardo. A volte pare che questa esibita insofferenza abbia qualcosa di stoico, altre di terribile ma che funzioni sempre da esorcismo verso tutte le paure infantili. Così gli oggetti, i giornalini, i puzzle, i fumetti, i palloni, le figurine sono oggetti dal valore assoluto e non negoziabile, marchi di un'appartenenza stabilita una volta per sempre e quindi incancellabile.

Credo che il racconto più bello e rappresentativo della prima raccolta, ancor più di quello omonimo, sia quello iniziale, ovvero “I palloni del signor Kurz”, dove emerge già chiaramente la sublime capacità di Mari di far coincidere il verso alto, eroico, alla materia più comune, senza sfigurare né l'una né l'altra. Un connubio perfetto che nella forma breve rifulge: per la nettezza e la rapidità con cui sono tracciati gli elementi essenziali di un mondo mentale tanto particolare quanto limpido e per la precisione e la secchezza dell'andamento narrativo, che può essere tale solo nella forma breve. Nonostante sia più lungo degli altri racconti della stessa raccolta “I palloni del signor Kurz” presenta il consueto finale netto e sorprendente, che si rivela spesso la conclusione più logica per un racconto di Mari. I bambini di questa raccolta sono iniziati alla vista del sesso femminile (Cicoria matta), impongono ai coetanei un ferreo rigore nei loro giochi (“L'ora di Carrasco”) o vivono una dolorosa e costante alienazione dal mondo circostante (“Euridice aveva un cane”).

Con Tu, sanguinosa infanzia, siamo invece di fronte alla quintessenza della poetica dell'infanzia di Mari. Quei temi e quelle riflessioni prima accennati e ripresi, si presentano qui al massimo grado di precisione e altezza estetica. A partire dal titolo ci accorgiamo di un'altra qualità che ha l'infanzia, quella di essere sanguinosa: una ferita sempre aperta e non rimarginabile. In ogni racconto di questa raccolta l'uomo adulto la fissa e la qualifica, la riconosce e decide di conservarla. Nel primo racconto l'infanzia delle avide letture va salvaguardata da ogni sguardo infedele, persino quello del figlio che sta per nascere. I giornalini sono «monumenti della mia solitudine» (“I giornalini”, p. 6) dice il protagonista, non sono semplici documenti che stanno lì a testimoniare un passato ormai attingibile solo col ricordo, ma la concretizzazione sempre presente di quel passato. In “L'uomo che uccise Liberty Valance” è presente un altro topos di Mari, quello del senso di colpa dell'uomo adulto verso quegli oggetti che mentre cresceva ha fatto scivolare in secondo piano, addirittura perso o scambiato. Tenere tutto ciò che si è amato anche un solo istante non è però un'operazione difensiva che serve ad allontanare il rimpianto, ma la spia di quell'atteggiamento di feticistica conservazione che ogni personaggio di Mari deve avere verso la sua infanzia e le sue manifestazioni tangibili: tutte le copertine di Urania devono essere scrupolosamente archiviate dal lettore e «memoratore», anche a costo di uscirne «sfibrato» (“Le copertine di Urania”, p. 29). Se l'infanzia è il luogo dove tutto è già accaduto – «Non c'è stato molto altro nella vita» «No, è quasi tutto laggiù» (“Laggiù, p. 129) – dopo c'è solo «l'orrenda vita da vivere» (“Le copertine di Urania, p. 31). Solo nella reiterazione sempre più minuziosa di un gioco di emulazione, nella sua descrizione istante per istante «tu bambino angosciato trovavi la pace» (“Mi hanno sparato e sono morto”, p. 35), ci dice Mari. Una parte fondamentale di questa fenomenologia dell'infanzia la ricoprono i libri: in “La freccia nera” il bambino scopre le paradossali epifanie che possono derivare dalla lettura di due edizioni diverse di uno stesso libro; in “Otto scrittori” l'adulto cerca di capire a chi, fra i suoi scrittori preferiti, deve la maggiore devozione. Ma è forse nel racconto intitolato “Certi verdini” che Mari, attraverso lo schermo di un altro oggetto-feticcio, il puzzle, ci dona la più precisa metafisica dell'infanzia. La maniacale, rigorosa iniziazione all'arte della composizione di un puzzle ci dice che per Mari ogni gesto vuol dire principalmente se stesso, perché nella sua gratuità disinteressata c'è tutto il suo valore.
Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non “per passare del tempo” [...] ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. (p. 94)

In Fantasmagonia, che raccoglie racconti scritti lungo il corso di parecchi anni ed è per questo meno coesa delle raccolte precedenti, notiamo un aumento del carattere breve di molti racconti, che spesso sfruttano una trovata brillante per un finale a effetto. In generale la riflessione sull'atto stesso della scrittura come rielaborazione dei propri fantasmi è molto più esplicito e l'infanzia perde la sua centralità in favore della fase adolescenziale, come in “Iride e madreperla” e “L'ultimo buscadero”, fra i racconti più riusciti della raccolta.

L'altro grande tema di Mari, qui assoluto protagonista, è quello orrorifico dei mostri. Innanzitutto va chiarito che per Mari mostro vuol dire, dall'etimo, prodigio. E prodigiosa, ovvero piena di mostri, è la sua infanzia. Con queste presenze il bambino e poi l'adulto instaurano una lotta che è sempre una lotta contro se stessi: se questi fantasmi sono proiezioni del sé tuttavia non perdono mai il loro carattere corporeo, divenendo presenze che perseguitano ma con le quali instaurare un dialogo. Sono nemici ma anche alleati, spesso coincidono con un io dai desideri indicibili e repressi. Nel testo queste ombre assumono quindi una forma peculiare, quella dei nostri lati oscuri. I racconti di Mari ci dicono l'evidenza dei nostri fantasmi e la loro supremazia su qualsiasi altra realtà: ci sconfiggono sempre perché hanno sempre una concretezza materiale, seppur onirica o immaginosa, che procura dolore oltre che spavento. In definitiva, i fantasmi «non esistono perché essi SONO» (“Fantasmagonia”, p. 150).

Gli spiriti abitano edifici (“In virtù della mostruosa intensità”, “La legnaia”), gli oggetti (“Forse perché”) e le persone: «chissà perché in ogni cosa riesco solo a vedere la morte» (“Forse perché”, p. 127) si chiede il bambino nell'ultimo racconto di Euridice aveva un cane. La risposta chiude il cerchio tra infanzia e fantasmi: perché è proprio il bimbo, in quanto portatore di uno sguardo di morte, a essere il mostro. Sguardo di morte anche inteso come assuefazione all'orrore, allo spavento: «E io, quando da grandicello vidi L'esorcistaLa cosaLa casaLo squalo e Alien, non vidi nulla che non mi fosse familiare, molto familiare da sempre» (p. 124) dice una voce in “Laggiù”, ultimo racconto di Tu, sanguinosa infanzia. Ma le presenze ultraterrene che parlano al bambino ormai cresciuto possono anche prendere le sembianze di un padre giudicante (“L'uomo che uccise Liberty Valance”), di scrittori benevoli (“Otto scrittori”) o una proiezione di una coscienza che considera malevoli dei sentimenti che altrove si chiamerebbero semplicemente infantili. Ma ormai sappiamo che non c'è nulla di innocente in quest'infanzia capace di generare dolori e desideri di spaventosa grandezza. In Fantasmagonia il primo e l'ultimo, omonimo, racconto dicono la parola definitiva sul tema: in “Conversazione notturna con il mostro”, il protagonista scopre il legame indissolubile a cui il proprio mostro è in grado di costringerlo; in “Fantasmagonia”, invece, è questione precisamente della nascita dei fantasmi. «Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo» (p. 142): così comincia questo finto racconto, in realtà una breve trattazione per punti, in cui si enumerano le caratteristiche necessarie al soggetto per essere abitato. Dall'immutabilità al riconoscimento, passando ovviamente per la paura e la commozione, sono diciannove i passi di questo cammino. Se la letteratura è «l'unica scienza esatta in materia» (p. 145) di presenze fantasmatiche è a essa che in ogni pagina tende l'ultima silloge di Mari.

È difficile parlare di un'evoluzione nella narrativa di Mari, proprio a causa di quella coerenza di temi e stili che da ormai un trentennio ne fa un autore riconoscibile da poche righe. Eppure io credo che il meglio, l'apice di questa ricerca letteraria e stilistica sia da ricercarsi negli anni che vanno dal 1997 al 1999 in cui con Tu, sanguinosa infanzia e Rondini sul filo Mari mette a fuoco tutte le tematiche a lui care con una concentrazione narrativa ed espressiva inarrivabili.
Proprio la seconda raccolta è forse il vertice assoluto e i racconti ciò che rimarrà più a lungo della sua produzione, ciò che si leggerà sempre con lo stesso entusiasmo, perché posseggono, ciascuno singolarmente e tutti presi nell'insieme, quell'unità d'effetto che è il primo comandamento di ogni buon racconto. Nettezza e compiutezza espressa nei toni più disparati: dall'assertorio al lirico, passando per l'epico e l'elegiaco, l'effetto è sempre quello di una folgorazione, il riconoscimento di qualcosa che vedevi confusamente e a cui non riuscivi a dare un nome.
In conclusione, se l'infanzia come tempo della vita è un'esperienza condivisa da tutti, non credo sia così universale riconoscersi nell'infanzia per come ce la racconta Michele Mari. Per farlo, infatti, ci vuole uno sguardo preciso e direzionato, in qualche modo sperimentato di persona. L'iniziazione a quella sorta di culto, che sono i libri di Mari, passa secondo me in prima istanza da questo. Da quell'oltranzistica, fanatica, ossessiva volontà di mettere ordine nei propri fantasmi privati unita a un umorismo di struggente tenerezza. È ciò che crea quell'originalissima e inimitabile miscela, che chiamerei, con un ossimoro, il massimalismo privato di Michele Mari.
Il paradosso della scrittura di Mari, in definitiva, è che essa eccelle in tutto ciò che è negletto dalla nostra contemporaneità: lo scrivere breve ma non frammentato, la citazione mascherata o rielaborata, uno stile consapevolmente manierato. Eppure, nemmeno il più ostinato dei detrattori potrà negare che l'originalità e l'altezza di questa operazione sta nel sentimento profondo che anima la letterarietà ricercata ma vivacissima di Mari: una tenace fedeltà, incantata senza essere ingenua, un'immaginazione che non distingue fra alto e basso, ma che rifugge la volgarità ed elegge i propri oggetti d'amore.