di Matteo Moca
Quando Katherine Mansfield morì, il marito e critico letterario inglese John Middleton Murry raccolse alcuni racconti risalenti agli anni tra il 1910 e il 1913 per pubblicarli nel volume Qualcosa di infantile. Appartiene a questo libro Come fu rapita Pearl Button, un testo breve, ma sicuramente un epifenomeno decisivo per comprendere la natura dell'opera di Mansfield e la relazione eccezionale tra la sua scrittura e la sua vita (fu d'altronde lei stessa ad annotare nei suoi diari: «Non vivo con altra ragione se non quella di scrivere»). Katherine Mansfield, nata Beauchamp, nacque in Nuova Zelanda nel 1888: nel 1903 andò a Londra per studiare al Queen's College e, dopo vari soggiorni per l'Europa continentale, nel 1906 tornò in Nuova Zelanda. Ma nel suo periodo londinese, segnato da molteplici interessi (la letteratura ovviamente, ma anche lo studio del violoncello e la pittura), la scrittrice è cresciuta e capisce che non può rimanere a Wellington, che deve tornare a Londra o, quantomeno, in Europa. Così farà qualche anno dopo, e non tornerà più in Nuova Zelanda: come ha magistralmente riassunto Nadia Fusini, in questo «andare-tornare è racchiuso il senso delle opere e dei giorni di Katherine Mansfield», in questo rapporto misterioso e ancestrale con la sua terra natale e con l'Europa sta una delle chiavi di accesso più luminose della sua opera, una delle possibilità per provare a cogliere il mistero taciturno e immobile che abita molti suoi racconti. Come fu rapita Pearl Button è un testo che sembra offrire la possibilità di addentrarsi in questa rete, innanzitutto ribaltando qualsiasi sguardo coloniale sull'Altro, in seconda battuta perché la descrizione di luoghi lontani ed esotici offre la possibilità di interpretare il rapporto di Mansfield con i luoghi della sua vita infantile che mai dimenticherà. Il racconto parla di come la bambina Pearl Button venga rapita da due donne maori che la portano nel loro villaggio: il timore della piccola inizia presto a sciogliersi in un'allegria che si nutre del rapporto privilegiato con il paesaggio, dal bosco che occupa lo spazio che le protagoniste percorrono a piedi fino alla magia dell'incontro con lo smalto azzurro del mare, orizzonte sterminato offerto dalle donne a Pearl Button: «un grande, grande pezzo d'acqua blu che strisciava sopra la terra. […] Sopra il blu arrivavano saltellando delle onde con la cima bianca» (la traduzione da cui si citeranno i racconti è quella dei due volumi Tutti i racconti pubblicati da Adelphi). L'idillio si interrompe però bruscamente con l'arrivo di uomini in divisa e armati di fucili che riporteranno a casa la bambina, ma a continuare in maniera perpetua nell'opera di Mansfield è questo irrequieto movimento del pensiero tra l'Europa e i luoghi lontani della famiglia, diaframma che nutrirà alcuni dei suoi racconti più straordinari, come La donna dello spaccio e Millie dove all'ambientazione neozelandese si unisce la scelta di due protagoniste femminili abbandonate e sole nel paesaggio naturale, ma forti e decise nel farsi rispettare. Se in Millie si assiste a un ribaltamento dei ruoli, con il vagabondo aggressore che viene messo in fuga dalla donna, straordinario appare La donna dello spaccio, per il tipo di vicenda che viene costruita da Mansfield e per il legame ancestrale che unisce i luoghi dell'ambientazione con la protagonista del racconto. La donna dello spaccio racconta infatti di come tre viaggiatori, trasposizione letteraria dei colonizzatori, si fermino poco prima di una tempesta in uno spaccio, dove saranno ospitati da una donna bionda dagli occhi azzurri che diventerà l'oggetto del desiderio di tutto il gruppo (in cui è presente, lo si scopre leggendo, anche una donna). Ma la donna, che continua a dire ai tre che il marito è lontano da molto tempo per la tosatura, già da subito assume contorni spettrali, inconoscibile e astuta, misteriosa come un miraggio, tutti elementi che finiranno per dare un senso all'eccezionale finale noir del racconto che unisce omicidio e malattia mentale. Ma in questo racconto c'è anche una descrizione dell'ambiente naturale che sembra rivelare una delle connotazioni predilette della scrittura di Mansfield, ovvero quella zona di penombra dove le donne e gli uomini comuni che abitano i suoi racconti entrano in una zona confusa, un limbo dove tutto assume contorni fumosi e immobili: «Era il tramonto. Le nostre giornate in Nuova Zelanda, non hanno crepuscolo, bensì una mezz'ora strana in cui tutto appare grottesco – fa paura – come se lo spirito selvaggio di questo paese se ne andasse giro a farsi beffe di quello che vede».
Questi racconti e quelli che afferiscono a questa scelta tematica, appartengono a un'ispirazione che rimanda direttamente a un quaderno che Mansfield tenne nel 1907, nel breve periodo che divide i periodi che visse in Europa, che riporta le sue annotazioni su un viaggio che compì nell'entroterra neozelandese, Viaggio in Urewera, tradotto in italiano da Adelphi con la cura di Nadia Fusini. Composti da una registrazione puntuale e per certi versi cinematografica del paesaggio e della sua storia, questi quaderni sono decisivi per la scrittura di Mansfield e diventano un esercizio di scrittura senza il quale non sarebbe possibile afferrare in pieno non solo l'opera giovanile, ma anche quella più matura della scrittrice. Se si pensa per esempio a uno dei suoi racconti più belli, e famosi, Alla baia scritto nel 1921, non sarà difficile riconoscere nella materia pulsante e viva della baia di New Crescent in Nuova Zelanda, nella natura che vive e pare parlare nelle piccole microstorie intessute dentro i paesaggi, la stessa natura osservata con occhi famelici durante il viaggio del 1907 nello scenario naturale di Urewera. Si può prendere a titolo di esempio la poesia Giovinezza, scritta durante il viaggio, dove Mansfield ripensa agli alberi e ai fiori di manuka «sbocciati solo per sfiorire» («O Fiore della Giovinezza! / Vedi stringo in mani / un fiore giallo acceso e oro pallido / e tutti i petali volteggiano ai miei piedi / può esser dolce la Morte? […] Se uno fosse arrivato / in una dolce giornata estiva / trafelato, semisveglio – pieno di giovinezza / se uno fosse arrivato / che succede allora? / Muore con un sospiro / nell'alba rigogliosa di vita / senza mai conoscere il terrore e la lotta / che uccide i fiori d'estate appena si aprono / molto meglio di così / ah! Davvero meglio di così!») per vedere come la stessa immagine torni nelle prime pagine del sesto capitolo del lungo Alla baia. La protagonista Linda Burnell siede in giardino «sotto un manuka che cresceva in mezzo al praticello davanti casa» con i fiori che le cadono addosso: «se tenevi uno di quei fiori nel palmo della mano e lo guardavi da vicino era proprio un piccolo capolavoro. Ognuno dei petali, di un giallo pallido, splendeva come se fosse stato la diligente opera di una mano amorosa. La minuscola linguetta nel centro gli dava la forma di una campana». Anche in questo racconto però il fiore si fa portatore di un'aura effimera, della stessa fugace materia di cui è fatta la vita, perché «appena fioriti, quelli cadevano e si sparpagliavano dappertutto», una bellezza destinata a non durare che apre a una domanda esistenziale: «Ma allora perché fiorire? Chi si prende la pena – o la gioia – di creare tutte queste cose sprecate, sprecate…». Attorno a questa domanda, che rimanda direttamente ai più inaggirabili quesiti che abitano l'animo umano e ai territori ignoti che costeggia l'introspezione più radicale si dipana una parte importante dell'opera di Mansfield: si tratta di un paesaggio sfocato e impervio, che offre pochi appigli e al quale la scrittrice sembra poter rimandare solo per allusioni e per accenni, ed è per questo, come ha scritto Franca Cavagnoli sulla sua Nota alle traduzioni dei racconti della scrittrici, che Mansfield è «volutamente vaga – uno degli aggettivi prediletti dalla scrittrice neozelandese – perché preferisce che il significato rimanga sospeso, per così dire, aleggi impalpabile sulle cose».
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La natura della prosa di Mansfield, viva, all'apparenza incurante di ciò che racconta e piuttosto concentrata sulla sua forma eterea, sfiora continuamente i limiti del linguaggio e così improvvisamente sfuma in un vapore poetico leggerissimo come le sue storie dove, all'apparenza, in piena tradizione modernista, non accade nulla. La poetessa argentina Alejandra Pozarnik nelle pagine del suo diario non a caso si chiede su Mansfield: «Come riusciva a sentire la quotidianità con tale intensità?». Questa è infatti una delle caratteristiche dei racconti di Mansfield, soprattutto di quelli europei, l'attenzione verso i particolari, del paesaggio o degli ambienti chiusi, spesso piccoli oggetti inanimati che diventano protagonisti assoluti dei racconti proprio per la capacità della sua scrittura di rendere pieno di vitalità e ritmo ogni particolare che si impone, alla fine, come elemento rivelatore: «ciò che interessa Katherine Mansfield – ha scritto Cristina Campo – è creare un’atmosfera che sia rappresentazione plastica di uno stato d’animo o di uno stato di cose, evitando costantemente l’introspezione psicologica. Nulla di simbolico in ciò; ma piuttosto il naturale predominio di queste notazioni sul fatto in sé, come se la realtà circostante, fusa nell’emozione a ciò che l’ha determinata, fosse la più importante verità, la sola giustificazione». Si tratta di ciò che accade per esempio con i mobili antichi del racconto incompleto Il nido delle colombe, portatori di un alito di morte che la giovane donna protagonista avverte osservandoli, oppure con la scatolina da ventotto ghinee in Una tazza di tè, oggetto che con la sua funzione nel racconto sembra incarnare l'essenza stessa della ricca donna protagonista, con la casa delle bambole dello struggente e duro racconto omonimo; o, ancora, con l'organetto di Questo fiore («Quel che devo dire è tutto qui»), elemento decisivo di ciò che accade a una coppia in visita da un medico. L'impressione è che ognuno di questi oggetti si faccia catalizzatore dei sentimenti e delle sensazioni che altrimenti non troverebbero modo di uscire (Mansfield ha d'altronde scritto: «La gente non mi interessa»), veri e propri testimoni di ciò che accade alle donne e agli uomini che abitano i racconti, «indizi metafisici del dramma al quale hanno partecipato per caso» ma che, grazie a questo evento fortuito, acquisiscono la possibilità di essere detti e raccontati. Introducendo una silloge di racconti di Mansfield da lei tradotti, Cristina Campo, anima affine a quella della scrittrice neozelandese, nata nell'anno della sua morte in un simbolico passaggio spirituale, scrive riferendosi alla sua tecnica narrativa, che «lo scrittore non deve esistere se non come scrittura». È questo uno dei miracoli più sorprendenti dell'opera di Mansfield, come avviene nella storia narrata in Ole Underwood (che ancora si apre con l'immagine dei manuka) dove l'indicibile che ha segnato la vita del protagonista, navigatore, marinaio e per molto tempo prigioniero si stempera in una vita vissuta nel ricordo, nel distacco dal mondo fenomenico, unica possibilità per comprendere, davvero, chi si è, attraverso la salvezza offerta dal mare e dall'orizzonte azzurro, che già segnava le pagine di Come fu rapita Pearl Button, che apre a un ignoto abitabile. Ma anche i suoi racconti più folgoranti e compiuti, capolavori assoluti come Preludio e il già citato Alla baia, vivono di uno stesso andamento, ruotano attorno a particolari minimi delle vite della famiglia Burnell, piccoli indizi che però si rivelano in grado di aprire a una comprensione generale. In un suo appunto Mansfield ha scritto «la trama mi lascia fredda» e questo ci fa capire bene quindi come nei suoi racconti il montaggio delle scene, staccate come se la scrittrice utilizzasse una tecnica cinematografica, non rende la successione lineare degli eventi, ma obbedisce piuttosto al desiderio di disegnare l'ambiente attraverso piccoli elementi all'apparenza insignificanti, ma in realtà decisivi. Non c'è in Mansfield il desiderio di raccontare per intero la storia di un personaggio, segnando in questo una cesura importante rispetto al canone tradizionale, piuttosto regnano l'allusione, il suggerimento e un occultamento che solo in poche occasioni mostra tutto in piena luce. A dissimulare la presenza della scrittrice è prima di tutto il narratore perché la parola passa direttamente ai personaggi o agli oggetti: in Lezioni di canto per esempio, il ritratto della protagonista Mrs. Meadows si compone attraverso un puzzle composto da tessere differenti, frammenti di lettere o conversazioni, la lezione di canto o eventi del passato che si ripresentano alla sua mente. Come accade nel racconto alle studentesse che, davanti allo stato d'animo triste della loro insegnante, sembrano esserne contagiate, così accade al lettore che entra nell'universo psichico della protagonista per induzione, seguendo il suo monologo interiore, che si intreccia in maniera formidabile con il punto di vista del narratore esterno, una catena che non asseconda la successione temporale e crea invece una divergenza tra ordine e fatti che è chiave, complessa, per l'accesso al significato.
La tubercolosi accompagnò Mansfield per gran parte della sua vita tanto che la scrittrice passò gli ultimi mesi in continuo movimento e il suo diario del periodo è una fosca riflessione sulla morte che le appare ogni attimo sempre più vicina, come annota nel 1922 da Parigi: «Posso fare qualcosa colle mie mani e col mio corpo? Assolutamente nulla. Sono una malata che dipende in tutto dagli altri. Cosa è dunque la mia vita? É l'esistenza di una parassita... Il mio spirito è quasi morto. La fonte della mia vita è così impoverita, che si è quasi disseccata». Trascorse gli ultimi mesi della sua vita a Fontainebleu, presso l'Istituto di Gurdjieff, ultima carta rimasta per la guarigione, su cui però non era molto fiduciosa neanche lei, dove morì la sera del 9 gennaio 1923 per essere seppellita nel cimitero della vicina Avon. Gli ultimi giorni della sua vita, come scrive Pietro Citati nel suo insuperato ritratto critico e biografico Vita breve di Katherine Mansfield facendo riferimento alle sue lettere del periodo e alle testimonianze di chi la incontrò in quel frangente, sono segnati da «inesprimibile bellezza», come se la nube di angoscia e disperazione dei mesi precedenti si fosse rischiarata improvvisamente. L'ultimo miracolo prima della morte che la colse quando il marito andò a trovarla all'istituto: «Quella creatura – ha scritto Citati – così leggera e delicata, così dura e avida, appassionata e implacabile, quella farfalla maldestra, che aveva provato le sue ali nel vento, quella remota figurina cinese dipinta sul fondo della tazzina, era scomparsa». Ma, possiamo aggiungere a cento anni da quella morte, le fragili farfalle e i disegni dai contorni incerti dei suoi racconti restano ancora come testimonianza di un'opera straordinaria dai colori tenui, quieta, ma capace di offrire al lettore un ritratto dove non esiste discrimine tra arte e vita. E proprio quest'ultima, per la creatura senza tempo che è stata Katherine Mansfield, si stempera attraverso la letteratura: il pochissimo che da lei viene detto affonda nell'indicibile mentre «da ogni parte si intendono misteriosi fruscii, si intravedono aloni, si ascoltano echi» e «la perfetta chiusura della narrazione è solo apparente». «L’esistenza – ha riassunto in maniera straordinaria Citati – comincia e continua prima e dopo l’inizio e la fine di ogni storia».