Fino all'ultima donnola, di Hiroko Oyamada

Neri Pozza porta in libreria Donnole in soffitta, di Hiroko Oyamada, tradotto dal giapponese da Gianluca Coci.
Con affilata perspicacia emotiva e ironia grottesca, l’autrice si dedica a una riflessione sorprendente su fertilità, maternità e paternità, mascolinità e vita coniugale nel Giappone contemporaneo. Accompagnandosi ad autrici come Sayaka Murata e Mieko Kawakami, Oyamada porta avanti, con la sua lingua «surreale e ipnotica» (The New York Times), l’indagine sull’animo umano astraendosi dalla realtà palpabile. E la verità diventa una vasca piena di pesci tropicali, che inghiottono dubbi, emozioni, certezze.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti contenuti nel libro, per gentile concessione dell’editore.

Fino all’ultima donnola
di Hiroko Oyamada

Quest’anno non abbiamo trascorso le festività di Capodanno dai genitori di mia moglie. «Non ti preoccupare, va bene così» mi aveva detto lei facendo spallucce. «Ci andrò da sola non appena ne avrò il tempo. Dopotutto non è così lontano». È abituata di tanto in tanto a far visita ai suoi senza di me. E io, da parte mia, non vedo la necessità di incontrare a tutti i costi i miei suoceri e la famiglia di mia cognata. «Ricorderò a mia madre di regalare qualche soldino ai ragazzi anche da parte nostra, come ogni anno» aveva aggiunto. «Sì, certo» le avevo risposto io. Dopo le feste, quando ero già rientrato al lavoro, ho ricevuto una cartolina di auguri dal mio amico Saiki, con l’immagine dell’animale del segno zodiacale cinese di quest’anno stampata sul davanti. Conteneva un breve messaggio, scritto a penna con grafia approssimativa:

Ho traslocato e cambiato indirizzo. Questi ultimi giorni sono stati a dir poco frenetici. A proposito, mi sono sposato… Lei ha trentadue anni.

Era nello stile di Saiki menzionare un dettaglio come l’età. Trentadue: significava che la moglie aveva una decina d’anni meno di lui. A guardare l’indirizzo, si era trasferito a circa un’ora di auto dalla città, ai piedi delle alture del Chūgoku, in un’area rurale dove molti si dedicavano almeno in parte all’agricoltura e all’allevamento. Per lui, sposarsi e andare a stare in un luogo del genere deve essere stato un cambiamento epocale.
Mi è venuto subito spontaneo pensare che meritasse una telefonata.
«Ehi, come va? Che piacere sentirti!» ha risposto quasi urlando, non appena ha riconosciuto la mia voce. «Mi è arrivata da poco la tua cartolina e ho pensato di chiamarti… Congratulazioni, sei un uomo sposato adesso!»
«Sì, è incredibile, ora è tutto diverso. E qui, la casa… non ti dico che casino, abbiamo dovuto fare una ristrutturazione completa, aveva più di cinquant’anni».
Saiki si esprimeva in modo strano, sembrava un po’ alticcio. «Scusa se non mi sono fatto sentire per un bel pezzo e ti ho scritto la notizia in due parole, su quella cartolina. Ti giuro che ero presissimo, non ho avuto un attimo… Ai colleghi di lavoro sono riuscito a dirlo, ma non ho avuto modo di farlo sapere né a te né agli altri amici più stretti… Scusa, scusa». Saiki svolgeva una professione che lo teneva impegnato soprattutto in casa. Parlava come se avesse la lingua impastata, e alle sue spalle si sentiva un gran baccano.
«Ehi, c’è per caso una festa da quelle parti?»
«No, no, è solo che qui siamo in campagna…
La gente ama riunirsi, scambiare due chiacchiere in allegria… Per chi è nato e cresciuto in città è tutto molto strano, io non ci ho ancora fatto l’abitudine. I vicini si fanno vivi quasi tutte le sere e ti invitano a bere insieme… Sembra che non abbiano nient’altro da fare, come se avessero tutti una marea di tempo libero a disposizione. È incredibile, non ci capisco più niente, mi sento perso».
Non ci capisco più niente, mi sento perso… Eppure Saiki pareva decisamente su di giri. Doveva aver bevuto un bel po’.
«Eh, però adesso sei un uomo sposato, tutti vorranno festeggiarti… Sei contento, no? Il matrimonio è un evento lieto».
«Be’, sì. Sposarsi per la prima volta, dopo i quaranta… Non lo so, mi sento anche un po’ strano. In modo positivo, per carità. È tutto così nuovo e diverso… E tu, come te la passi? Tua moglie sta bene?»
«Sì, tutto bene, grazie». In realtà, mia moglie non stava passando un bel periodo: il lavoro era stancante e, soprattutto, si sentiva depressa per via della gravidanza che tardava ad arrivare. «Comunque, festa o non festa, non ti trattengo oltre. Volevo solo salutarti e farti le mie congratulazioni. Ciao, un abbraccio».
Alcune settimane prima, di ritorno a casa dal lavoro, mia moglie mi era venuta incontro sull’uscio quasi di corsa, portando con sé una dolce fragranza di riso appena cotto.
«Ehi, ciao!»
«Ciao…» mi aveva salutato lei, con uno sguardo stranamente serio.
«Tutto bene?» Di riflesso avevo corrugato le sopracciglia, non avendo idea di cosa fosse successo. «Uhm…»
Che aveva? Di solito mia moglie non ama tergiversare, va subito dritta al sodo. Indossava ancora il tailleur da lavoro, perciò doveva essere rientrata anche lei da poco. A ben vedere, stringeva in mano un oggetto tondeggiante, un piccolo recipiente in plastica bianca semitrasparente, forse di quattro o cinque centimetri di diametro. Sembrava uno di quei contenitori muniti di coperchio per creme o unguenti dermatologici.
«Senti, tu… ultimamente… lo stai facendo da solo?»
«Lo sto facendo da solo? Ma di che parli?» avevo ribattuto, fissando mia moglie perplesso.
«Come dire? Quella cosa…» aveva risposto lei senza chiarire nulla, abbassando lo sguardo verso il contenitore di plastica che aveva in mano. Dopodiché aveva disteso le labbra in un vago sorriso e aggiunto: «Insomma… tu ogni tanto, con la mano…» Ero scioccato, mi fissava con un’espressione assurda.
«Con la mano? Ah… mi stai chiedendo se mi tocco da solo?»
«Sì…» aveva annuito lei, finalmente meno tesa.
Ero confuso, non sapevo cosa rispondere. Di colpo avevo sentito le guance avvampare, dovevano essere diventate paonazze.
«No… Da quando ci siamo sposati non l’ho mai fatto».
Era la pura verità. Non sono mica un teenager o un ventenne… A quarant’anni e passa, con una moglie coetanea che tiene sotto stretto controllo calendari, temperatura basale e periodo di ovulazione, masturbarmi è l’ultimo dei miei pensieri. A questa età, credo che neanche Saiki lo faccia più, e parliamo di uno che ha avuto coraggio ed energia sufficienti per sposare una donna di circa dieci anni più giovane. «Ma perché me lo stai chiedendo?»
«No, scusa, non fraintendermi, non ti sto accusando di niente…»
Tutt’a un tratto dal suo volto era svanita ogni traccia di sorriso. Aveva la fronte unta, ma le guance erano ancora bene incipriate. Poi avevo diretto lo sguardo in basso e mi ero accorto che aveva una gamba nuda e l’altra ancora infilata nei collant. Doveva essere davvero impaziente di parlarmi.
«Si può sapere che sta succedendo?»
«Scusa se te lo chiedo, ma…» Ora si esprimeva con maggiore scioltezza, come se avesse messo da parte la timidezza. «Vorrei che tu eiaculassi qui dentro». Intanto aveva sollevato il contenitore di plastica, mostrandomelo.
«Dici sul serio?» avevo replicato, restando a bocca aperta. «Vuoi che faccia un test? Per vedere se…»
«Uhm» aveva risposto mia moglie annuendo, un nuovo accenno di sorriso sulle labbra. «Se riesco a portare il campione alla ginecologa entro le prossime ventiquattr’ore, faranno subito il test. Ci sono passata tornando dall’ufficio…»
Avevo preso in consegna il contenitore, intiepidito dal calore della sua mano, e avevo chiesto: «Vuoi che lo faccia stasera stessa?»
«No, forse è meglio domani mattina, così gli spermatozoi saranno più freschi… Ma se preferisci farlo adesso, va bene».
Ecco perché era così in fervente attesa del mio ritorno. Conservo una discreta virilità, ma non sono più giovane come una volta e non mi si drizza a comando. Forse mia moglie desiderava accertarsi che fossi efficiente e ben disposto. Non potevo darle torto, visto che avevamo sprecato diversi giorni di piena fertilità a causa di mie evidenti défaillance, con somma delusione per entrambi.
«So che ti sto chiedendo molto… Stanotte dormirò di là, va bene? Così per te sarà meno complicato». «Guarda che per me fa lo stesso, non c’è niente di così complicato… Ah-ah-ah!»
Ero scoppiato a ridere da un momento all’altro, con assoluta naturalezza. Non avevo potuto farne a meno, si trattava di una risata vera, genuina. La situazione appariva decisamente bizzarra, e difatti anche mia moglie si era messa a ridere a più non posso. Era passato un secolo dall’ultima volta che avevamo riso così, insieme. Quella sera, prima di rientrare a casa, non avrei mai immaginato che potessimo lasciarci prendere da una tale ilarità.
Poi avevamo cenato e fatto il bagno. E quando mia moglie era pronta per andare a letto, mi aveva detto con un sorriso complice: «Mi raccomando, assicurati di centrare bene il contenitore…» Aveva atteso che annuissi e aveva aggiunto: «Fino all’ultima goccia!»
«Certo, non ti deluderò» avevo risposto scattando sull’attenti.

© 2024 Neri Pozza Editore, Vicenza

Novelle per un anno, di Dario De Marco

Wojtek porta in libreria Novelle per un anno, di Dario De Marco. Novelle per un anno è l'ambizioso progetto che Pirandello non riuscì a portare a termine: scrivere un racconto per ogni giorno dell'anno. Dove il maestro della short story italiana ha fallito, De Marco con faccia tosta pari solo alla superbia tenta l'impresa: un libro di 365 racconti (più uno per i bisestili). 9Lx1(365,25), appunto. Solo che da Pirandello è passato un secolo, in cui è successo di tutto: neoavanguardie e postmodernismo, serie TV e social network. Perciò le novelle sono diventate 9L: in una società liquida sono diventate gassose, si sono polverizzate, si sono rimpicciolite a livello subatomico, si sono disperse in mille forme, sono esplose nel nonsense.

Cattedrale vi propone alcuni dei testi contenuti nel libro con i commenti a margine dell’autore, per gentile concessione dell’editore.

Novelle per una settimana. Una breve antologia.
Con i commenti dell’autore
Dario De Marco

 Dario De Marco: I debiti principali con le figure pioniere del microracconto vengono pagati subito, e in maniera esplicita. Con il sudamericano Augusto Monterroso, autore del notissimo racconto del dinosauro («Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí») addirittura fin dalla quarta di copertina:

9 giugno. Il racconto più breve del mondo - remix

 Quando si addormentò, il dinosauro se n’era già andato.

 

(Anche se poi, con un ulteriore remix, il racconto che davvero compare il 9 giugno ha un finale leggermente diverso). Lydia Davis, meno famosa ma strabiliante scrittrice americana, i suoi libri sono composti quasi esclusivamente da racconti di poche righe, è omaggiata esplicitamente in una dedica; ma soprattutto a più riprese viene usato lo stilema del racconto che dialoga col titolo, che ne costituisce la prosecuzione o la risposta.

31 gennaio. La punta dell’iceberg

 prima o poi si stuferà, di essere trattata come cosa di poca importanza.

 (Aristide Maselli, da Afuorismi, inedito)

 

La sfida, la ‘contrainte’ dei 365 racconti brevi subisce varie parziali deroghe. Innanzitutto non sempre di racconti in senso stretto si tratta, perché a volte compaiono anche quelli che potrebbero essere definiti micro-saggi, o short nonfiction. Nella maggior parte dei casi sono riflessioni letterarie, o meta letterarie, attribuite a tal Aristide Maselli, scrittore immaginario (o forse no?) di opere bizzarre. Lo stesso Maselli è poi protagonista di una serie di episodi, ora misteriosi ora surreali.

 

26 marzo. Metafora

 

Una sera si fece offrire – o meglio lasciò che gli offrissimo – rectius evitò di opporsi quando provammo a pagare – il bere. Cosa insolita per lui, prodigo com'era, non meno che squattrinato. Non dicemmo niente, ma non ci sembrava vero. Ci guardavamo increduli, di sottecchi, tacitamente d'accordo nel non rompere la magia.

Un'oretta dopo, ci chiese di soprassalto: Cogliete la metafora? Afferrate il sottotesto? Intuite il valore intrinsecamente letterario del gesto? Non era distrazione, dunque. Noi rispondemmo che no, no; anche volendo (la generosità di dare spazio alla generosità altrui?, il maestro che si fa superare dagli allievi?, chi preferisce che abbiano ragione gli altri1?), non avremmo potuto fare altrimenti.

Non disse niente, continuò a camminare con un sorriso. Maselli odiava la metafora sopra ogni cosa.

 

Questa è un’altra caratteristica del libro. Che non è, per niente, un cosiddetto romanzo-di-racconti, né una raccolta di storie che hanno tutte lo stesso protagonista (Olive Kitteridge di Elizabeth Strout), o tutte la stessa ambientazione (Kalpa Imperial di Angelica Gorodischer). E però, ci sono situazioni, sfondi e personaggi che ritornano, come tirati da fili invisibili di storie parallele, di romanzi mancati che ogni tanto si riaffacciano in superficie. È più come se fossero delle rubriche, e qui viene evidentemente in rilievo la natura dell’autore, che faceva il giornalista. La più evidente tra queste “rubriche”, un appuntamento mensile nel calendario, addirittura numerata, è quella delle Facebook Stories: questo era il titolo che avevano in origine, il libro è stato scritto nel corso del 2016 (un racconto al giorno), quando il più anziano dei social network ancora poteva essere citato in maniera non ironica. Pubblicate nel 2024, hanno cambiato titolo.

 

26 novembre. C’era una volta Facebook / 16

 

Stanotte ho sognato che la polizia postale i chiudeva l’account, perché non avevo espresso la mia opinione sul referendum costituzionale e sullo scandaloso Nobel per la letteratura, sull’ultima controversia alimentare e sul santo Natale.

          Carina questa modalità che ha lei, di riportare tutto a una dimensione onirica, come se fosse dall’analista. Cmq non si preoccupi, era solo la realtà.

 

Il brano precedente è esemplificativo anche di un’altra forma ricorrente, quella del dialogo. Sono dialoghi senza virgolette né nomi, le voci sono differenziate solo con i diversi rientri, nella maggior parte dei casi non si capisce bene chi è che parla, a volte non lo capiscono neanche loro.

 

25 ottobre – Santa Daria

 

Infatti, i momenti in cui sono stato più male, non erano quelli in cui soffrivo di più, ma quelli in cui soffrivo di meno; in cui avevo quasi dimenticato. Ti senti quasi bene; ti senti quasi leggero; ti senti, quasi. Perché no? Poi ti torna in mente, riaffiora alla coscienza la mancanza, quel peso sullo stomaco che ti affonda; quel velo davanti agli occhi che non ti impedisce nulla, ma ti rende inutile tutto. E allora arriva la mazzata, il senso di colpa ti torce, finché esplodi in un pianto liberatorio: no, non sei un mostro, non l'hai dimenticata, puoi continuare a soffrire.

          Capisco. Quindi tu non volevi dimenticarla.

Per carità! Vede, il dolore... quel dolore, era tutto ciò che mi restava di lei, di mamma.

          Okay. E poi? Cos'è successo?

E poi, niente, è tornata a casa, come tutte le sere, mi ha dato il latte e io mi sono addormentato.

 

Qui emerge quella che è una delle caratteristiche principali della forma breve, una delle più cercate, almeno in questo libro: il colpo di scena finale. Diceva il famoso boxeur belga Julio Cortázar che il romanzo può permettersi di vincere ai punti, il racconto deve vincere per kappaò. E quale migliore modo di sferrare il gancio stordente, che il coup de theatre, il plot twist, il rovesciamento di prospettiva finale? Naturalmente, la forma breve si presta particolarmente bene a questo gioco, perché in poche pagine o righe non si può, non si deve spiegare molto, e quindi il lettore dà per scontati una serie di elementi: ad es., che il protagonista sia un essere umano, e invece alla fine si scopre che è un alieno, un animale, una macchina, Dio - o tutte queste cose insieme.

Altra caratteristica delle 9L, rispetto alle Novelle, sono i racconti a tema. Diversamente da Pirandello, il quale praticava l’indifferenza al calendario, rivendicava di non aver scritto manco un “racconto d’occasione”, qui i giorni contano, e le storie vengono influenzate dalle date; che siano festività, ricorrenze e altri momenti particolari dell’anno.

 

27 gennaio. Il giorno della memoria (Appunti per un film noioso)

 

- autunno 1941. Non siamo ad Auschwitz ma a Ferramonti, Calabria. Il campo di internamento è per professionisti e intellettuali ebrei; tra questi il berlinese Ernst Bernhard, junghiano eterodosso (costui si era improvvidamente rifugiato in Italia anni prima, dopo che l'Inghilterra gli aveva rifiutato il visto perché alla voce “professione” aveva scritto: “chirologo e astrologo”)

- Più che un lager sembra un kibbutz, scrive Bernhard alla moglie Dora: il comandante del campo è un militare colto e illuminato, poco incline alle idee e ai metodi del fascismo. (Fin qui la storia con la maiuscola, quella documentata, quella “tra virgolette” reale.)

- tra un torneo di scacchi, un orto sperimentale e un gruppo di lettura su psicanalisi e Euripide, Bernhard conquista il comandante e altri prigionieri all'arte divinatoria dell'I-Ching, il libro cinese dei mutamenti.

- mentre molti internati vanno via, verso i campi di sterminio della mitteleuropa, tra i nuovi arrivi c'è un poeta, Giovanni Fiorenza, molto giovane e quasi sconosciuto. Brillante e carismatico, costui organizza una serie di attività ancora più audaci (orchestrina klezmer, laboratorio teatrale), entrando nelle grazie di tutti, diventando amico e confidente di Bernhard. Solo il comandante del campo non gli dimostra l'usuale benevolenza, anzi inizia ad avere un atteggiamento ambiguo; fino a rimangiarsi delle promesse, fino a togliere ai prigionieri libertà ormai date per scontate.

- una memorabile notte infine, Fiorenza è selvaggiamente picchiato dalle guardie del campo. Si viene a sapere che il poeta era una spia, mandata dal regime a verificare, se non a provocare, il lassismo del comandante. Lo scopo: accusare il militare – sgradito al Duce – di favorire il dissenso, per poterlo rimuovere e punire. Ma il comandante aveva intuito tutto – grazie a un informatore personale, o alla predizione dell'I-Ching? – e aveva stretto la morsa della repressione, facendo finta di niente. Con lo stesso atto violento, infine, aveva smentito i sospetti di debolezza, e si era tolto la soddisfazione di punire l'infame – in quanto ebreo, non in quanto spia, e garantendosi perciò una posizione inattaccabile, anzi encomiabile.

- nell'ultima scena, Bernhard e il comandante giocano a scacchi; tutti e due fingono: stanno provando a far vincere l'avversario, ma senza fare errori evidenti, dando l'impressione di impegnarsi al meglio; e ridono.

- nell'ultima scena Bernhard, ormai anziano, sfogliando una vecchia copia dell'I-Ching trova una lettera con il timbro dell'Ovra e la data 27 gennaio 1941. Prima che possiamo leggerne il contenuto, la camera vira verso la finestra, che incornicia i tetti di Roma, e il Cupolone.

 - (così però è noioso. Inserire un altro elemento – una storia d'amore? Che noia)

 

Come si vede, appare qui un artificio formale, un artificio ricorrente, mutuato da Borges: quello della finta recensione, o in modo più largo del racconto di secondo livello. Nel libro compaiono descrizioni di opere d’arte, riassunti di documentari, soggetti di drammaturgie, schede libro, sinossi promozionali.

Infine - anche perché Novelle per una settimana deve constare di sette racconti - tocca dare conto di un’ultima peculiarità, dell’ennesima scappatoia: tra questi racconti brevi non tutti sono racconti, come si è detto, e non tutti sono brevi.

Chiudiamo con questo, che è una sorta di rovesciamento (sin dal titolo) di un leggendario pezzo di Kafka, e prende ispirazione da certe atmosfere di George Saunders (il fantastico e la fantascienza sono uno dei leitmotiv del libro, ma non si può mica dire tutto, oh).

 

 

14 maggio. Nella colonia civile

 

È a un certo punto del Luna Parco, tra la Galleria del Troppo Amore e il Tirassegno al Presepe Vivente, che ti trovi davanti alla Gamblet Machine, popolarmente detta il 'risica-rosica'. Forse è per noia, o forse è per dimostrare che non hai paura, non lo sai neanche tu, fatto sta che entri e ti siedi sulla sedia di legno.

Lo sai come funziona: inserisci l'indice in un buco, e a quel punto la macchina, in maniera assolutamente casuale, emette una piccola somma di denaro, oppure ti fa un po' male. Non è richiesta alcuna abilità specifica per questo gioco; il responso è del tutto random – sembra più un esperimento su topi da laboratorio, e forse lo è, pensi ridacchiando fra te e te.

D'altra parte la posta in palio è veramente nulla di che: i soldi che puoi vincere non sono certo quelli che ti svoltano la vita, e neanche la giornata; il danno che puoi ricevere consiste in una piccola puntura di spillo sul polpastrello, o in una lieve scossa elettrica, questo non te lo ricordi bene, o forse cambia di volta in volta.

A destra della sedia c'è un asse, sempre di legno scuro, stretto e lungo con due scanalature ai bordi; serve per poggiarci il braccio, e tu lo poggi. Tutta la macchina dà un'impressione complessiva di negozio d'antiquariato, o di bottega del sarto: legno, legno e qualche parte metallica, tipo la scatoletta quadrata che somiglia a una serratura, e che al centro ha il foro circolare per il dito. Appena lo introduci, accorgendoti che non entra per più di metà, qualcosa all'interno del buco gli si serra leggermente attorno. Non tanto da farti male, ma abbastanza da immobilizzarti l'indice (e di conseguenza bloccarti la mano sull'asse, e tutto il corpo sulla sedia). È giusto, pensi tu: se il pizzicotto, o quello che è, deve arrivarti nella parte morbida del dito, la macchina è fatta in modo da non fartelo girare liberamente, per non nuocerti più di quel che deve; è normale.

Poi, per qualche minuto, non succede proprio niente. I soldi sono un'eventualità che neppure prendi in considerazione; sei solo lì ad aspettare la scarica, insomma non doveva durare tanto, ti sembra di ricordare; c'è gente dietro di te in coda.

Il movimento della macchina parte come uno sferragliare nella parte posteriore, quella che non puoi vedere. Poi finalmente dei piccoli pannelli di legno, come delle mensolette, mosse da bracci in ferro battuto, avanzano dai lati e dal di sopra della serratura, fino a circondarti il braccio da tre lati (il quarto, quello inferiore, sta sempre poggiato sull'assicella con le scanalature ai lati, come delle fughe per far scorrere un liquido). Resta comunque un po' di spazio, puoi ancora vederti il braccio nudo. È giusto, pensi di nuovo tu, è normale: la parte in cui può arrivare la puntura è un po' più ampia, la macchinetta sta giocando con un banale effetto di suspense, senza dirti il dove, né il quando. Così il dolore, che è piccolo, si sa, s'ingigantisce un poco nell'attesa, nel dubbio. Solo, non capisci da che parte e in che modo può arrivarti l'offesa, dato che non ci sono punte o altri strumenti in vista.

Scattano rapidamente altri pannelli, più grossi, come schiene di librerie antiche; scorrono ai lati della sedia, sono intorno a te; sei come dentro uno sgabuzzino di legno, chiuso. È giusto, pensi ancora, è normale: così sai che il colpo può venirti inferto in qualsiasi punto; un po' ti scoccia, si era parlato di dito, ma dove se n'era parlato, questo è quello che sai, o meglio che ricordi, ma tu non sei mai stato famoso per la buona memoria. Un po' ti scoccia, un altro po' ti tranquillizza, che ti sia concessa questa forma di preavviso. Continui ad aspettare, la botta può arrivare da un momento all'altro, le monete non sono uscite, d'altra parte non hai notato alcuna fessura da cui potessero uscire, l'importante è che il dolore sia breve, questo almeno è assicurato.

Sennonché, cigolando e sferragliando in maniera sorda e pigra come quando sono spuntati fuori, i congegni si ritirano: prima le grosse dorsali esterne; poi le mensole attorno al braccio. Infine, quasi impercettibilmente, si allenta la presa sul dito. Puoi alzarti, quindi ti alzi. Ma, rifletti un attimo, denaro non ne vedi da nessuna parte, quindi non hai vinto, hai perso. È giusto, pensi sempre, è normale: come in quegli indovinelli col trucco, tipo quello della vasca e della goccia di sangue, dove la prima risposta che ti viene in mente, la più intuitiva, è quella sbagliata; anche qui, è apparecchiato tutto il teatrino della macchina, del dito e del braccio, così tu pensi che sia finito, che non succeda più niente, e la mazzata ti coglie quando meno te lo aspetti, mentre sei in piedi, mentre sei quasi uscito. Solo che, proprio come in uno di quegli indovinelli, anche se lo hai sentito decine di volte, quando te lo rifanno per l'ennesima, il trucco ti è passato di mente, e quindi devi cercare di fare il ragionamento da capo; così ora non hai idea, ti sembra vagamente di ricordare qualcosa, mentre avanzi lento sulla pedana di macadam, ma non sapresti dire se è qualcosa che è successo a te, o che ti hanno raccontato, e così cammini con prudenza, quasi barcollando, mentre aspetti di essere folgorato dalla sofferenza,
mentre continui a pensare è giusto, è normale.

Fine d'Agosto, di cesare Pavese

Il racconto è tratto da ‘Feria d’Agosto’, composto da tre parti: ‘Il mare’, ‘La città’, ‘La vigna’.
Fine d’Agosto fa parte della prima sessione della raccolta, in cui i racconti, pur essendo autonomi, in qualche modo compongono dei capitoli che si intersecano tra loro.

Fine d’Agosto
di Cesare Pavese

Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m'impresse su guance e labbra un'ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai. Clara attese, semivoltata, che riprendessi a cammina re. Quando alla svolta c'investí un'altra folata, Clara fece per soffermarsi, senza levare gli occhi, un'altra volta in attesa. Davanti al portone, mi chiese se volevo far luce o passeggiare ancora. Restai un poco fermo sul marciapiede – ascoltai il fruscío d'una foglia secca trascinata sull'asfalto – e dissi a Clara che salisse, l'avrei subito seguita.
Quando, dopo un quarto d'ora, giunsi di sopra, mi sedetti a fumare alla finestra fiutando il vento, e Clara mi chiese attraverso la porta della stanza se mi ero calmato. Le dissi che l'aspettavo e, un istante dopo, mi fu accanto nella stanza buia, si appoggiò contro la mia sedia e si godeva il tepore del vento senza parlare. In quell'estate eravamo quasi felici, non ricordo che avessimo mai litigato e passavamo lunghe ore accanto prima di addormentarci. Clara capisce tutto, e a quei tempi mi voleva bene; io ne volevo a lei e non c'era bisogno di dircelo. Eppure so adesso che le nostre disgrazie cominciarono quella notte.
Se Clara si fosse almeno irritata per la mia agitazione, e non mi avesse atteso con tanta docilità. Poteva chiedermi che cosa mi fosse preso, poteva tentare lei stessa d'indovinarlo, tanto piú che l'aveva intuito – ma non tacere, come fece, piena di comprensione. Io detesto la gente sicura di sé, e per la prima volta detestai Clara.
Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall'infanzia. La spiaggia dove sono nato si popolava nell'estate di bagnanti e cuoceva sotto il sole. Erano tre, quattro mesi di una vita sempre inaspettata e diversa, agitata, scabrosa, come un viaggio o un trasloco. Le casette e le viuzze formicolavano di ragazzi, di famiglie, di donne seminude al punto che non mi parevano donne e si chiamavano le bagnanti. I ragazzi in vece avevano dei nomi come il mio. Facevo amicizia e li portavo in barca, o scappavo con loro nelle vigne. I ragazzi delle bagnanti volevano stare alla marina dal mattino alla sera: faticavo per condurli a giocare dietro i muriccioli, sui poggi, su per la montagna. Tra la montagna e il paese c'erano molte ville e giardini, e nei temporali di fine stagione le burrasche s'impregnavano di sentori vegetali e torridi che sapevano di fiori spiaccicati sui sassi.
Ora, Clara lo sa che le folate notturne mi ricordano quei giorni. E mi ammira – o mi ammirava – tanto, che sorride e tace quando vede questo ricordo sorprender mi. Se gliene parlo e faccio parte, quasi mi salta al collo. È per questo che non sa che quella notte mi accorsi di detestarla.
C'è qualcosa nei miei ricordi d'infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna – sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l'incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento non quello marino consueto, ma un'improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere, carezza re, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto i lampioni dei caffè davanti al mare. L'uomo e il ragazzo s'ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di piú, perché anche lei ha le sue malizie. Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero, a intuire che ciascuno è per l'altro un estraneo, e cosí sfuggire alla monotonia. Ma ormai io non potevo piú perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne.

Indubbiamente, ferocemente, orribilmente, di Alberto Laiseca

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Wojtek Editore l’irriverente racconto ‘Indubbiamente, ferocemente, orribilmente’ di Alberto Laiseca, tratto dalla raccolta Grazie Chanchúbelo del 2022 tradotta da Loris Tassi.

Buone letture!


Indubbiamente, ferocemente, orribilmente
di Alberto Laiseca


Essendo venuto a sapere dell’arrogante commento di un
tale, che ha detto del libro di un amico (Violentando Girls
Scouts nella foresta): «Cosa ci possiamo aspettare da uno che
inizia il titolo della sua opera con un gerundio?», e volendo di
conseguenza dedicare, per puro dispotismo, questo mio rac-
conto ai nemici di sempre, ecco a voi non solo, inutile dirlo,
gerundi, ma anche avverbi, frasi germanizzate, virgole prima
del verbo, rime, iati e dissonanze nel più puro e classico stile
roman atonale, aggettivazione eccessiva, ecc. Aggettivando
eccessivamente.

L’autore


Essendo Parruccone iv Benefattore di Bavonia e, giungendo questa alla fine della sua quinta dinastia, decise despota lui di, dar una festicciola da urlo per, rendere omaggio agli ultimi fedeli del suo vacillante regno. Cominciando dalla posizione geografica e politica, un’opera classica molto, questa, essendo. Vivevano sulla cima di una cima. Mi spiego: c’eramente in quelle regioni un’enorme montagna formatasi durante l’Era Azoica, con una crepa sul cocuzzolo. Non era la suddetta, prodotto di attività vulcanica né di altra roba simile. Insomma, una cosa completamente insolita. Ma torniamo al Benefattore Parruccone iv, Padre della Patria Nuova e despota. Nel suo glorioso passato si atteggiava a armigero (aaa) affidandosi per la difesa e l’attacco a uno sparuto manipolo di macchine di ferro arrugginito. E allora furono 3-1-26-26- 91 amari, perché gli altri erano moltissimimente. Dopo aver perso 42 guerre mentesuccessive, spinto alla periferia dell’orgasmo e tuttavia ancora con l’21-3-3-5-12-12-15 4-18-9-20-20-15, il re Ancor di Tuttavia (o di Bavonia) decise di ignorare le, batoste orrisonanti e, proseguire per la sua strada, anche se più povero. Il nemico, vedendolo rimpicciolito una volta e pe’ sempre, decise di concedergli il certificato di cittadinanza dei definitivamente sconfitti: lo perdonarono, insomma, e non lo infastidirono più (loglilolo, naronodirono). In fede mia avean ragione: ormai solo potendo egli muovere animaletti corazzati di carta; ormai solamente spazzini lunghi e secchi obbedendogli incondizionatamente. «Non ammazzando!», andavano dicendo quegli atroci e altri satanassi. «Perché altrimenti giardino zoologico, finendo».
Dunque, Parruccone, iv Benefattore della quinta dinastia e la sua gente, cacciati a calci nel 3-21-12-15 da tutte le parti, trinceraronsi sulla cima della cima della montagna Senza Nome che dopo essere stata consacrata si trasformò in una specie di Lhasa Monte Fuji. Trassero profitto dalla loro disgrazia approfittando dell’incidente naturale del vulcano apocrifo, scavando, scolpendo i suoi pendii di porfido, aprendo sentieri, ecc. C’erano torri di sorveglianza fatte con casse di vino; barbacani di fango; un dongione addobbato con lattine; scale false, di cartone, belle da vedere, ma tali che se uno distratto ci metteva sopra un piede rischiava di sprofondarci dentro fino all’9-14-7-21-9-14-5; arazzi confezionati con giornali vecchi, ecc. Eccetera. Per non parlare dei buchi scavati sulla cresta stessa del monticello che servivano da feritoie; dei cammini di ronda per i quali nessuno circolava, neppure il Benefattore, poiché erano fatti con listelli di legno e pezzi di corteccia di pino; e altro. La porta del recinto, invece, pesava tre tonnellate ed era di bronzo, fusa in un solo pezzo; era una cosa completamente inutile, dal momento che non esisteva una palizzata perché la scorta di legname era finita; al punto che anche un nano avrebbe potuto abbatterla con una spinta; e non era nemmeno necessario, si poteva semplicemente passare di lato. Gli schiavi nubiani del faraone Cheope non sfacchinarono così tanto, per trasportare l’ultima pietra della Grande Piramide, come quelli che avevano trasportato fin lassù quell’oggetto impossibile. Avevano sofferto orribilmente.
Da quando stabiliti si erano, le esigue truppe dell’accerchiato monarca di Bavonia, sfilavano durante le Feste Patrie (ce n’erano 465 all’anno e 466 in quelli bisestili, essendo questi ultimi gli unici che annoveravano 24 ore di buona sorte; in altre parole: vivevano una giornata fausta per ogni tetrarcanno) con i loro portastendardi in prima linea, impugnando asciugacapelli e stracci per pulire per terra sui quali si posavano tanti stravaganti parrocchetti delle tane, appositamente forniti dal dittatore. Poi glieli restituivano. Servivano a rimpiazzare i falconi egiziani e gli altri uccelli araldici; e utilizzando altresì, come gagliardetti e pennoni, cartoni della pizza usati (con molta salsa di pomodoro) e peperoncini e spighe di grano incollati con puntine a pali di scopa. Un bisanziano gotico espressionismo ottenevano così. Parruccone iv, Benefattore della quinta (sinfonia di Beethoven, avrebbe detto un mio amico; non avrebbe mai sciupato un’occasione del genere). Nemici tantissimi, erano quelli che la sua morte indubbiamente desideravano. Caparbiamente ciò, nonostante lì, resisteva circondato da macchine ciarliere, donne, lacchè e soldati coperti con squamose armature di ferro, complete, poderose. Romotose, le chiamavano. Queste truppe dormivano in certi gusci di bronzo, ognuna nel rispettivo suo. Romotose: con questo nome, erano temute un dì; presentemente facevano pena. «Attaccando, Resistendo, Uccidendo». Questo il motto che leggevasi sui loro stendardi in rovina. «In formazione, mie Romotose!», andava ruggendo il gerarca supremo. «Cotone il gonfalone di, ma innalzate sulla pietra miliare. Romotose: creatura bellica mia!».
Superati i prolegomeni passiamo alla festa. Ingiungendo ai suoi sbirri che quel che (chequelche) era buono per lui era buono per tutti, ordinò di distillare nei suoi alambicchi filosofali i seguenti miasmi da servire durante il banchetto: succo di ragno giallo (alloragnogi ottenne e, fu squisito); linfa di occhio di chiocciola rossa (occchhiioocciola); rima omofonica di procellaria cacoomofonica (cacoo) e altri. Chiocciava il pollaio di gerundi cacofonici (attenzione! Ce n’erano anche di commestibili). Essendo questo il risultato.
Nella sala ventosa e a cratere aperto dove si svolgevano i festini c’era un cartello su cui era scritto:

il gerundio libera


Un altro diceva:

qui si impara a aggettivavverbigerundiare lo stato (qui si impara aa).

Prima dell’arrivo delle vivande, e come era costume tra le orde della Bestia Castana (Parruccone iv), una macchina da musica cantò (musicaca)ntò o fece qualcosa di diverso. Non ricordando più ormai che cantòo o che fece. Cantòoo? Eh… cantoodoo. Dopo l’antipasto (lo avrebbe invidiato perfino Filippo, Granduca di Borgogna), un’altra macchina pallosa, cameriera (o serva) muta, uscì dai vapori mefitici della cucina, portando un piatto di quasi tre iarde quadrate in una delle sue manacce metalliche. Che cosa non era, essendo quel che era: vivande di fumo gustose; ciambelle cinesi (ciamcin) cosparse di burro e miele; ebanisteria di tenere canne di bambù del Bengala (e-ban bámbu-ben: pronunciare alla vietnamita); cosce di uccelli tuffatori del Tigri; grasse trote e perche preparate alla giavanese, su fornelli Krakatoa (ogni tanto, nel culinario processo, andavano a 6-1-18-19-9 6-15-20- 20-5-18-5 le emisferiche storte). Oltre a tutto quello che già è stato elencato. Ricchissimo lo trovaronomente.
Per non ripetere la parola “tutto” che ho già messo qui sopra, userò la parola “brutto”. Brutti, uomini e macchine, banchettarono come sposi della morte e come se quello fosse il loro ultimo giorno. Soprattutto quella gran bestia del Benefattore. Inappetente il rimpinzato dopo essersi abbuffato. Soddisfatto e satollo (pieno) dopo quella scorpacciata. Senza più fame conseguentemente sua vorace polifagia. Nessun desiderio. Nessuna voglia. Nessun piacere. Nessun piacendo. Tale degenerazione del normale desinare causogli atonia, per non dire debolezza e intontimento. La sua spaventosa pancia, era come un pulcino figliastro. Un figlio, nel lessico comune (el-le, lettera bifronte), è una “persona o animale considerata dal punto di vista dei genitori”. Tal primoge sul punto fu di, essere il beniamino e l’unigenito (tutto in uno) poiché per poco non morì sul colpo. Ci andò assai vicino data la quantità inconcepibile che, mangiò il molto affamato. Fatto sta che tutti saporitissimo giudicarono tutto.
Ogni volta che il iv Benefattore della quinta dinastia alzava il calice per ingollare un paio di pinte, scoppiava nella sala un terribile baccano; così i musicisti dell’orchestra, coperta di stracci, svolgevano il proprio compito; suonando rumorosamente e orribilmente ogni volta che l’altro levava alta la coppa (per non ripetere la parola calice). Interpretavano inni bellici assolutamente collerici, e intorno tutti si inchinavano, e tale bizzarra manifestazione durava finché il succitato non abbassava il cristallino oggetto. E ognuno alzcopingollabbassava. Credo di dover usare “andova”, per evitare la rima. Per i giorni in cui il sovrano andova in autentica collera, riservavano l’Ingoma: il canto di guerra degli Zulù. E ora meglio fermarsi qui perché altrimenti il caos esploscoppia.
Come dessert, o meglio sostituendolo, la pornocrazia illuminata in pieno sfociò nella buona vecchia telemachia fornicatrice. Fine fecero venire a tal macchine odalische della Yap isola. E corruppero le di Yap macchine. Le ma ultime riserve, erano. E se nell’intrallazzo disgraziatamente si rompevano, la loro vita non valeva un 3-1-26-26-15, poiché non c’era nemmeno un pezzo di ricambio. Tre “zo”. Essendo una specie di saturnale fraternizzavano la carne (subordinata e superiore) e la robotica.
Dopo cena, gli occhi socchiusi per l’intensa gravità (quasi fossero due stelle di neutroni) del cibo e dell’alcol (dideldell), per non parlare del centro gravitazionale più importante di tutti, il Benefattore si rivolse a un insieme di armi complete che da lì vicino formavano un sistema: «Ma che ti succede, armatura parlante e dissonante? Totalmente muta, ti si vede. O vedetisi. L’unico dodecafonismo che da te sento da un po’ di tempo a questa parte, è quello del silenzio. Guarda che qui l’oblio, viene da raffiche in settime e ottave alternate. Ha un costo altissimo. Per parlare, c’è tutto il tempo. Un vortice, un mulinello gigantesco di acqua, vento o tempo ed Eureka! Il turbine ti travolge e ti tracanna una volta e pe’ sempre. Turtitratitra». Strappata alle sue terribili elucubrazioni, si apprestò a replicare quella armatura (aa) parlante e dissonante del signore del paese-castello. Anteparladisson, dunque, si avvicinò e proferse:
«Coff, coff. Mio signore: sapere deve che obbligata sono alla pudicizia del ferro, ché se mi avessero congegnato in un’altra guisa i miei forgiatori, allora mi vedreste rifocillandomi nelle vostre festicciole più di tutti. Vedendo come vi divertite e non potendo farlo io, sono precipitata in uno stato d’animo funereo».
Benefattore importanza questione alla come togliendo: «Non si dica che qui, nel mio castello, qualcuno patisce tali infauste privazioni. Trascorrerà mezza clessidra e i miei nibelunghi nanizzati, ti offriranno ciocche, no, ciò che ti manca. D’argento diamantifero il superno intrepido; d’oro puro le ellissoidali basi». «Piacemi», rispose istantanea Anteparladisson, la ninfa arrugginita e proteiforme, molto contentissimamente Ma covando stava il dramma, ma bussando e ribussando lugubremente le semicrome di Wagner: “Così bussa il Destino wagneriano alla tua porta”, Nietzsche dixit, probabilmente. Orribilmente spaventoso e polimefitico, non c’è dubbio. E perché, perché mai, vado dicendo tutto questo? Be’ perché essendoci lì una straordinaria macchina parolista, icosaedrista (adoratrice di un solo Icosaedro con venti Unici Dei, la cui totalità si distribuiva in ventesimi sulle diverse facce), che, si era assunta il compito di lanciare le sue perle profetiche a quella accozzaglia (aacco) di maiali consumista (e sono tre ista; ma con questo, quattro); essendo lì, dico, la macchina si infuriò moltissimo e spaventosamente quando vide che, con cinque colpi di martello ed eccellente metallurgia, i picari gnomi aggiunsero ciò che mancava ad Anteparladisson. Rimase menteinfinita sconcertata. Ma il dramma finale del quale dicevamo si spiega con il fatto che, sconfitti e perdonati dal nemico dopo innumerevoli guerre – e ridotti alla rocca –, anche così i Figli delle Nebbie del Dittatore (orchi di vento forte e ciarpame), sono ugualmente vittime delle congiure palatine e dei tradimenti architettati dalla macchina icosaedrista con i suoi sinistri piani, manovre sotterranee e altri atti di alta negromanzia. La suddetta ha intenzione di approfittare della stanchezza del Benefattore e Padre della Patria Nuova; di sfruttare a tal fine la sua pericolosa mania per i gerundi (lui intende imporli per decreto, tanto nell’idioma scritto quanto nel parlato) e divorarlo servendosi dei suoi campi gravitateologici menzogneri. Ma il Benefattore, che non è nato ieri, la scopre e quella fa irrimediabilmente una fine di 13-5-18-4-1. Anticipo l’azione per non svelare la trama. Non è uno scherzo anche se lo può sembrare. Ma poi, come se non bastasse la sfiducia istintiva e silvestre del nostro zar slavo e despota, poi c’è anche accanto a lui mein herr Doktor und Professor Johannes Dravrinsky, eminenza castana del regno, a dargli buoni consigli; avverte il dittatore dei piani maligni della macchina icosaedrista: «Non confidi in quella 16-21-20-20-1-14-1. La conosco bene: dai tempi della schule senza campanella».
Istericamente, la icosa diabolica, interpellò la povera e indifesa armatura gettandole tutta la sua schifosa 13-5-18-4-1.«Che grave peccato commesso hai. In fede mia non prospereranno le tue profanazioni (prospprof) e aberranti lussurie. E poi non venire a cercare in me, da brava piagnona aiuto (naa), appoggio (naaa) o difesa. Puttana come Patricia Naaa. Proprio così: d’ora in avanti tu (titu) non sarai più l’armatura parlante e dissonante Eleonora, adesso (eeaa) sarai la disonestà in persona con la tua impudicizia. Anteparladisson Patricia. E se per caso dovessi lamentarti perché ti fustigo con i miei anatemi, pensa, nella tua misera capoccia laccata, che avrei potuto chiamarti benissimo Cecilia, che era la più puttana di tutte, una di quelle che si accoppiano nei granai con il primo che capita, una di quelle fornicatrici prostitutizie che…».
Ma non poté, proseguire poiché proprio in quel momento la intercettò il benefattore della Patria Nuova assolutamente esasperato (vaaee).
«Chi si azzarda a attaccare Cecilia? Chi si azzarda aaa?
Ogni donna che si chiami Cecilia ha almeno una possibilità con me. Allora in campanuccia e non lanciare strali contro Cecilia, macchina frocia, altrimenti ti metto un catalizzatore e poi vedi dove ti faccio volare…». Terrorizzandola, il despota. La storia del catalizzatore non piacendole, la macchina impallidì e non tornò a aprire (ornòaa) la boccaccia fino a quando l’orologio gnomone, non ebbe allungato di un metro la sua traccia sul suolo. «Polverizzandomi», tal cosa pensò la maligna icosa.
Buffone iv, il Magnifico, di cui finora non abbiamo parlato, chiese la parola solo per dare fastidio e proferse: «Mi viene in mente una cosa assolutamente straordinaria». Benefattore: «Gerundiando, per favore».
Buffone iv, lo Splendido, persona alla quale non abbiamo fatto riferimento se non in un’occasione:
«Venendomi in mente una cosa assolutamente straordinaria: se prendendo due parole: “barbarie” e “scorie”, per esempio, ed estraendo da queste il salvabile, ottenendo: “barbasco”. Eh… e ci evitiamo due omofonie».
Ma qui grugnisce il dittatore:
«A me le omofonie non mi disturbano. Al contrario: voglio che ce ne siano di più. Ordinerò che emmediatamente encidiate un long play con le mie dissonanze di protesta. E dico “emmediatamente” ed “encidiate” per avere uno iato quadruplo: eeee. Altrimenti non ci sarei riuscito. Licenza poetica. Pertanto, carissimo Buffone iv, ti suggerisco di cambiare rotta all’istante». Dopo una pausa, senza motivo, il despotocratico continuò, mettendo insieme parole immotivatamente: «Uccidendo altri superbi bacchettoni, ho detto i. Ben osservando che l’adesso muta icosa pretendeva da Anteparladisson un’abissale, folle abiura. Che la povera armatura era sofferente, in un angolo, vedendo gli altri 19-3-15-16-1-18-5 e lei non potendo e inalberandosi, in altre parole, ho detto ii. E ci metto i numeri romani perché perfino le mie frasi sono dinastiche».
Ma il nostro benavventurato maiale regnante, era quanto mai mutevole. Almeno, in apparenza. Non avendo penuria di unità tematica: semplificando il “non” con la “penuria”, resta, sì, che aveva unità tematica. Aveva unità, in effetti, solo che invisibile (avevasoloche). Socchiuse sognantemente gli occhi e con accanto il dizionario diede la seguente definizione:
«Gerundio: “Verbo in astratto e come esprimendosi al presente”. Adesso io dico però: “Verbó in ástratto comé esprimendósi al presenté”, obbedendo alla francogermanizzazione che impongo. Pertanto correggete questo dizionario subito senza perdere altro tempo. Abbiamo bisogno di manuali che corrispondano all’ontologia dello Stato e alla mia sapienza».
Nella sala scoppiò un 7-18-1-14 3-1-19-9-14-15. Le frasi tradizionali: «E quello che è?», gemerono le frasi. Ma subito ricevettero la replica aggressiva delle progovernamentali, con la baionetta calata, l’elmo d’acciaio e l’uniforme d’inverno: «E cos’è questo quello che è? Questo, èquelloche e va tutto attaccato: e lo diciamo così per evitare confusioni».
Buffone iv, il Bello, di cui abbiamo già parlato:
«Ma Mio Signore: pensa forse di motorizzare religioni dissolventi e anticlassiche? Non dico le rune; perfino il cigno di Tuonela fuggirebbe impaurito».
Il Benefattore diventò più ragionevole:
«Negando. In fede mia le castigliane leggi esistono per qualche motivo. Lo giuro per i denti di Dio, come diceva Giovanni Senza Terra: chissà a quale Dio si riferiva, quel grande blasfemo. Per qualche motivo furono fatte le castigliane norme, lo ripeto. Opponendomi, al contrario, alla loro applicazione imbecille e a qualsiasi prezzo. Ricordatevi cosa hanno detto di Violentando Girls Scouts nella foresta, la facetissima opera del professor Eusebio Filigranati, il mio scrittore preferito. Letterati che non sembrano tali – poiché ignorano dell’eccezione i principi – e così pedanti, quelli che curano l’idioma con estrema attenzione per jacksquartarlo meglio. Questi tali i quali non hanno ancora compreso che il delirio realista è la costituzione delle parole, e nessun regolamento può essere superiore alla legge, così come questa non può signoreggiare su quella. Fuck off, you little dolt. Così vi impongo di scrivere di nuovo tutti i dizionari. Per puro dispotismo, brutti 3-1-26-26-15-14- 9. Vi ho parlato già dei miei gerundi avverbiati? Sono una scoperta: venendomente, andandomente, formandomente. Dicono le cattive enciclopedie che l’avverbio è privo di mutamenti grammaticali che, è invariabile. Questa qui è una cosa falsissima. I miei astrologhi e geometri arabi mi, hanno assicurato che ieri, do un esempio, si coniuga almeno nelle seguenti maniere: iari, iori, iuri e iiri. Ce ne sono altre: oiri, uiri, ecc. Cosicché che (cosicchéche) mi venite a insultare a fare con queste idiozie. Cosicchéche. Potrei fare lo stesso con mai, di fretta, qualcosa, poco, forse e lontanuccio. “Ignorantissimi in quelle che considerano le cose più sicure”, come dice Huxley. Di tal maniera se il gerundio è il verbo in astratto, quando gli attacchiamo un pezzettino di avver, che cosa succede? Succede che l’astrazione invece di-dissiparsi aumenta, proprio come si espande il deserto in Libia: un chilometro cubo all’anno. Sorprendente. Ha acquisito una nuova dimensione, senza per questo rinunciare al mistero. In altre parole: con il mio sistema sapremo tanto quanto prima ma la nostra ignoranza sarà più clamorosa. Il gerundio, deduco io nella mia infinita sapienza, è il verbo della geometria non euclidea, un campo vettoriale di forze che si compensano, una tensione elettromagneti…».
«Certo che ne dice di stronzate, Sire», interruppe Buffone iv, il Prudente, personaggio al quale abbiamo fatto riferimento tante di quelle volte che il suo ingresso non risulterà forzato e improvviso.
Lo zotico e incolto anche se illuminato despota, iv Benefattore della quinta dinastia di Bavonia: «Silenziomente. Mi piace molto l’astrazione concreta, dettagliata e che si espande. Adoro il concreto ma indeterminato e impreciso». Buffone iv:
«Sire, da ventotto anni ho un’enorme fortuna: son suo suddito (sonsuosu); credo di avere il grado gerarchico sufficiente per sapere che non crede a una parola di tutto quello che espone (llochee)».
Il Benefattore si scrollò di spalle:
«E altrimenti che razza di despota sarei? Cherazdides. Sono un sostenitore dell’autodeterminazione dei dittatori. Ma hai ragione: in fondo odio le desertiche immaterie e cerco di trasformarle per portarle nel mondo terreno. Sto preparando un intruglio di gerundi con crema e fragole. Vuoi assaggiarlo? Vieni, prendilo: ingurgitati un puledrino di queste uberrime». E il monarca assoluto allungò al simpaticone la fumante sbobba.
Ci fu una spaventosa e orribile pausa.
Il dittatore, accigliandosi, con una faccia da indio timbù che ha pochi amici, ordinò soavemente.
«Gerundio piacendo al dittatore. Bevendo».
Nonostante la pressione sociale, Buffone iv continuava a guardare la sbobba con sfiducia. La annusò pensando a Hop-Frog, il nano del racconto di Poe; comprendendo che ogni forma di resistenza sarebbe stata inutile procedette a laingoiarse dopo siesser tappato il naso.
Ma cos’era quella roba, Dio mi è testimone: era la Fossa Nera di Calcutta in un solo bicchiere. Di sicuro il balsamo di Fierabrás che bevve Don Chisciotte, sarebbe stato al confronto come la panna montata per un felino. Buffone iv, accecato, vedeva unicamente una rossa foschia. Dopo un istante di tensione dinamica, alla Charles Atlas, buttò fuori una cascata: un’autostrada di acque procellose, come lo tsunami dei giapponesi; una tromba marina di cavallette liquide, come quelle che distruggono il raccolto degli agricoltori. Solo la schiuma, produsse un’eclissi precoce. Inondò la sala del trono e quasi affogò il Benefattore. Quando le acque si ritirarono, Anteparladisson (armatura parlante e dissonante), senza pensarci due volte iniziò a oliarsi le articolazioni e, prima di tutto, quelle della parte nuova la quale, pur essendo d’argento, aveva molle e giroscopi ossidabili.
«Sono lieto che ti sia piaciuto al contrario, Buffone iv», mormorò l’Onto Autoreferente approvando il pastrocchio.
A quel punto commentò il iv Buffone della quinta dinastia, più che altro per dire qualcosa:
«Eccellenza: il suo vino spumante è un po’ brut, per il mio palato. Però non posso fare a meno di riconoscere che è incorreggibile, immigliorabile, meritevolissimo, degnissimo, perfetto. Forse non è molto caritatevole, ma in ogni caso, quale forza della natura lo è? Non possiamo chiedere ai tifoni o agli uragani di sistemare candele sui tavoli, o di comportarsi in modo civile all’ora del tè».
A questo punto la macchina icosaedrista – rafforzata dal disordine – non potendone più delle sue felicità teologali, scese in campo, gozzovigliatrice, impugnando un bastone cristallino, prisma esaedrico, e con quello minacciandomente tutti:
«Mi piace questa cosa del mentegerundiale. Alla macchina icosaedrista piacendo. Sono favorevole al deserto che si espande. Non contraddicendo Icosaedro, Unico Santo. Di armatura Anteparladisson mano falloscopica, buttando acido nitrico sulla. Benefattore il viva viva!».
Ma, stranamente, l’inaspettato appoggio non gradì il despota. Irritatissimo capendomente che lo usavano (capendomenteche) per fini contorti e teologie dubbie, che non capiva del tutto, verbò in particolare: «Mettete un catalizzatore a questa macchina di 13-5-18- 4-1 che gioca a fare la patriota! Deve uscirle solforoso fuoco dalle 12-21-18-9-4-5 3-8-9-1-16-16-5 in questo preciso istante. E che vadano a fare in 3-21-12-15 lei e la madre (13-5-18-4-1) che l’ha partorita».
Sconvolta l’icosaedrista:
«Noooo! Pietà Benefattore! Io sono una sua sostenitrice, non mi grofff!».
Non rimase neanche una rotella. 19-3-8-9-1-20-20-15 e basta.
Il despota, terribile, guardandosi intorno:
«D’ora in poi, chiunque desideri offrirmi il suo appoggio dovrà farne richiesta per iscritto. Capirete che anche se ho il cervello di una gallina cretina perfino paragonato all’ultima delle SS, sicuramente un 3-15-7-12-9-15-14-5 non sono. Né testadicà né testadidodo. Molto diverso da un dodo, voglio dire. Sapete cos’è un dodo, no? O meglio cos’era. Erano uccelli e si sono estinti perché erano 20-5- 19-20-5 4-9 3-1-26-26-15. Li uccidevano colpendoli con dei pali e loro non muovevano un’ala per difendersi». Il finale non deve essere mai violento, immotivato, exabrupto. E così concludo questo, il mio racconto, dicendo che dopo aver riunito nella Dieta il consiglio monodeliberante – con alla testa il Benefattore, essendo lui stesso anche i piedi e il moderato centro – alla fine decisero di tornare al classicismo e inaugurare una Nuova Era. Inaugurando. Paralelepipedinsky – il musicista preferito del regno – contraddicendo in parte i propositi della suddetta Dieta, decise di offrire una grande Cantata Funebre con contrappunto di Cicale. Queste erano dei contrabbassi enormi, alti mille metri, azionati da un telecomando; per ragioni economiche di solo 50 centimetri cad., usando. Titangermanizzazione delle frasi (titanfrancogermanizzando). Sarebbemente male terminando questa mini saga ultima frase una senza: i falsi amici sono autentici figli di immense 2-1-7-1-19-3-5. Ma cambiando non più; calderone pieno è. Prima del verbo perfida virgola, è.


1. In questo racconto il lettore troverà spesso delle sequenze di numeri. Per decifrarle dovrà far ricorso alle 26 lettere dell’alfabeto internazionale. [NdT]

Pastore, di Joy Williams

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Black Coffee il racconto ‘Pastore’ di Joy Williams, tratto dalla raccolta L’ospite d’onore del 2017 tradotta da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.

Buone letture!



PASTORE
di Joy Williams


Il pastore tedesco era morto da tre settimane. Annegato. E la ragazza non riusciva a farsene una ragione. Sedeva in veranda, nella casa sulla spiaggia del fidanzato, e guardava l’acqua.
Non era la stessa acqua. La casa si affacciava sul Golfo del Messico, mentre il pastore era affogato nella baia.
Il fidanzato della ragazza aveva acquistato quella casa da appena una settimana, completa di piatti e bicchieri che non c’entravano nulla fra loro, numerosi e massicci letti di quercia, e un assortimento di mobili di bambù.
La ragazza possedeva a sua volta una casa vicino all’argine della baia, una casa con grandi finestre che davano su ispidi cespugli di buganvillea. La struttura non era rinforzata e tremava tutta quando il cane correva. Il fidanzato della ragazza di cognome faceva Chester, e lo chiamavano tutti così. Portava occhiali da sole color bottiglia di champagne. Chester aveva spalle larghe e mani enormi, e veniva da un matrimonio fallito, che però non gli era costato un centesimo.
«Hai beccato la gallina dalle uova d’oro» le dicevano le sue amiche.
Tre giorni prima che il pastore annegasse, Chester le aveva chiesto di sposarlo. Si conoscevano da quasi un anno. «Sposiamoci» aveva detto. Si erano calati un metaqualone ed erano andati a letto. Era successo da tre settimane e tre giorni, e ora mancavano quattro giorni al matrimonio. Il tempo passa in un soffio, pensò la ragazza.
Il pastore era marrone e nero con un bellissimo muso affusolato. Era famoso per un giochetto che faceva: quando la ragazza gli diceva, «Mi vuoi bene?», lui le saltava tra le braccia. Ed era leggero, leggerissimo, teneva tutto il peso racchiuso dentro di sé, come se sognasse soltanto di pesare. La ragazza l’aveva preso che aveva due mesi. L’aveva comprato da un allevatore di Miami, un tale che in passato era stato prete. Il pastore della ragazza faceva parte di una cucciolata di cinque cagnolini, tutti con un eccellente pedigree. La madre era aggraziata e amichevole, il padre più serio e sempre allerta. L’allevatore ex prete aveva permesso alla ragazza di restare qualche minuto da sola con ciascun cucciolo e le aveva rivolto un gran numero di domande personali. Lei si era resa conto di non aver mai riflettuto molto su se stessa. Alla fine, quando aveva scelto il cucciolo, era andata a bere una Pepsi nella cucina dell’allevatore. Il cagnolino le girava intorno ai piedi, inciampando e mordicchiandole i lacci delle scarpe. L’allevatore fumava e le faceva discorsi rassicuranti.
La ragazza era rimasta in silenzio, in adorazione.
Le aveva detto: «Tutti noi dormiamo e sogniamo, sai? Se davvero capissimo in che situazione ci troviamo, non riusciremmo a sopportarlo. Cercheremmo una via d’uscita».
La ragazza aveva annuito. Era in imbarazzo. A volte le parlavano in quel modo confidenziale e un po’ inquietante, come se fosse una persona comprensiva, coscienziosa o acculturata. Il cucciolo aveva un profumo fantastico. L’aveva preso e stretto tra le braccia.
«Ci prendiamo in giro. Non facciamo che sognare. Bei sogni, brutti sogni…»
«La nostra vita non è altro che il modo in cui gli altri ci vedono» aveva detto la ragazza.
«Esatto!» aveva esclamato l’allevatore.

La ragazza oscillava pigramente sulla sedia a dondolo in veranda.
Si immaginò in piedi, sorridente, più giovane e molto più carina, con il pastore che le balzava in braccio. Sentiva la testa ronzare e crepitare. Il bourbon si muoveva piano nel vistoso bicchiere, intorno a un bastoncino da cocktail a forma di fenicottero con la testa china. Sentire tra le braccia il peso del pastore annegato era stata una cosa orribile. Orribile. Lei e Chester erano vestiti di tutto punto perché erano appena tornati da una cena con una coppia di amici, un agente di cambio e la sua ragazza, che faceva la commerciante d’arte ed era magrissima e biondissima. Sul viso aveva minuscoli peli biondi. Il ristorantino dove erano andati a mangiare sembrava molto più grande di quanto non fosse perché le pareti erano coperte di specchi. La ragazza aveva osservato il loro gruppo riflesso mangiare e bere. L’agente di cambio parlava di soldi, di come poteva usarli per fare favori agli amici. «Amo il mio lavoro» diceva.
«L’arte di cui mi occupo» aveva detto la sua fidanzata «è concepita come stimolo alla discussione. Non deve essere mai considerata un prodotto estetico».
La ragazza le aveva chiesto di lasciarle i controfiletti di manzo. Non li avevano toccati e il cameriere glieli aveva avvolti nella carta stagnola a cui aveva dato la forma di un cigno. La ragazza ricordava perfettamente il momento in cui era entrata in casa con la carne per il pastore e aveva trovato la zanzariera dilaniata. Ricordava di aver percepito con chiarezza l’immobilità della casa mentre le invadeva gli occhi, come un fiume.

La ragazza guardava il golfo. Era una giornata splendida, nessuno surfava. La spiaggia era deserta. I patiti dell’abbronzatura erano chiusi nei solarium ad arrostirsi uniformemente sotto le lampade, per guadagnare tempo.
La ragazza avrebbe tanto voluto che quel momento arrivasse di nuovo, aspettare lì con le braccia spalancate, dicendo «Mi vuoi bene?». I cani percepiscono suoni che noi non percepiamo, pensò.
I cani sentono i richiami.
Chester aveva scavato una profonda buca quadrata sotto la buganvillea più grande, e la ragazza vi aveva deposto il cane. I suoi abiti chiari si erano sporcati a contatto col pelo bagnato. Dopo li aveva gettati. Chester aveva portato il suo completo in lavanderia.
A Chester il cane piaceva, ma era il cane della ragazza. Un cane può appartenere a una sola persona. Quando Chester e la ragazza facevano l’amore in casa di lei, o quando lei usciva la sera, teneva il pastore dentro, chiuso in una verandina con alte portefinestre a zanzariera. Il cane aveva preso l’abitudine di saltare fuori dal suo recinto, uno spiazzo costellato di vecchi pneumatici. Doveva essere il suo parco giochi, un luogo in cui potesse mantenersi in esercizio e dimenticare la noia e la solitudine quando lei non c’era. Ma evadeva in continuazione, così la ragazza aveva cominciato a chiuderlo nella verandina. Non l’aveva mai visto uscire, né da lì né dal recinto, ma se lo immaginava mentre spiccava il balzo: si preparava rannicchiandosi tutto e si slanciava verso l’alto. Faceva dei balzi altissimi. In lui c’era un’indicibile leggerezza, una fede incrollabile nell’atto stesso di saltare.
Sulla spiaggia, a casa di Chester, le onde scintillavano a tal punto che la ragazza non riusciva a guardarle. Finì il bourbon, portò in cucina il bicchiere vuoto e lo posò nel lavello.
Al principio della loro vita insieme, il pastore e la ragazza abitavano nella zona del Mile 47, sulle Florida Keys. La ragazza lavorava in un piccolo centro oceanografico. La sua vita apparteneva solo a lei, e al cane. Era un’esistenza placida e gioiosa, e nel ricordare quel periodo la ragazza aveva sempre la sensazione di essere stata sul punto di assistere a qualcosa di straordinario. Ricordava l’esuberanza del pastore, la sua energia, la sua dignità. Ricordava questo e di essere stata una brava persona, consapevole della propria felicità.
La ragazza si passò le dita fra i capelli. Si sentiva come se il golfo le si appiccicasse in gola.
A quei tempi molte cose le sembravano sacre. Il mondo era un luogo promettente. Poi, però, le cose sacre erano scomparse.
Un amico di Chester le aveva consigliato di provare l’ipnosi. Ne parlava con grande entusiasmo. Dopo qualche seduta con un suo amico ipnotista si sarebbe dimenticata del cane. No, non proprio dimenticata. Avrebbe più che altro smesso di fare determinati collegamenti. Non avrebbe più associato il cane a un contesto di sofferenza. L’ipnotista vantava numerosi successi con i fumatori.
Quella sera avrebbero cenato con quel tale e sua moglie. Al solo pensiero la ragazza si sentiva mancare. Avrebbero parlato e parlato… di case, di ipnotismo, di cocaina. Sarebbero andati in un ristorante che di recente si era fatto una reputazione poco invidiabile: a quanto pareva una signora aveva ordinato delle Ciliegie Giubileo e mentre gliele servivano il suo vestito aveva preso fuoco. La donna era morta a causa delle ustioni riportate. L’avrebbero ordinato tutti, quel dessert flambè. E poi sarebbero andati a ballare.
Gli animali sono più vicini a Dio di noi, pensò la ragazza, ma Lui non se ne cura. Sentiva le braccia pesanti. Il sole era immenso, si trascinava a fatica verso l’orizzonte. Sulla spiaggia si era radunato un gruppetto di persone per ammirarlo. Ascoltavano la radio. Quando il sole toccò la linea dell’orizzonte, impiegò tre minuti a scomparire. Un animale è in grado di sopravvivere tre minuti senz’aria. Il suo pastore aveva impiegato tre minuti a morire dopo la nuotata che si era fatto nelle acque profonde oltre l’argine. La ragazza si ricordò di quando era entrata in casa con la carne avvolta nella stagnola a forma di cigno e aveva visto la zanzariera rotta. La casa era piena di zanzare. Chester aveva riempito un bicchiere di ghiaccio semidisciolto e si era versato un goccetto. Sembrava sempre fuori posto, lì a casa della ragazza. L’abitazione in sé non valeva molto, era il terreno a essere prezioso. La ragazza era uscita a chiamare il cane, oltrepassando il recinto vuoto, sempre chiamando, giù fino alla baia, dove vedeva le luci delle case più costose costruite lungo l’argine. Un vicino aveva chiamato l’ufficio dello sceriffo e i fari dell’auto del vice avevano illuminato il cane scuro, a terra.
Suonò un cicalino nella casa sulla spiaggia. Chester aveva fatto cablare ogni stanza. Nella settimana in cui vi aveva abitato da solo aveva fatto installare l’aria condizionata, i vetri unidirezionali alle finestre e un elaborato sistema d’allarme a raggi infrarossi. Il cicalino, però, era soltanto un segnale, e adesso taceva. Indicava l’apertura della porta quando Chester rientrava. Chester attivava l’allarme generale solo quando erano fuori, o quando dormivano. La ragazza pensò a quelle frequenze invisibili che tenevano sotto controllo l’aria impassibile. Trovava umiliante l’idea che delle microonde potessero risparmiarle dolore, umiliazione o perdita. Per un attimo valutò la possibilità di accontentare Chester e far installare un sistema di sicurezza domestico completo. In casa non c’era nulla che valesse la pena rubare. Chester voleva soltanto proteggere il suo spazio. E, per un istante, la ragazza trovò offensivo il tocco della mano di Chester sui suoi capelli.
«Perché non sei vestita?» chiese.
La ragazza lo guardò, poi abbassò lo sguardo su di sé, sulla maglietta sottile e i fiori di ibisco dei suoi pantaloncini. Sono troppo vecchia per mettermi questa robaccia, pensò la ragazza. Col tramonto la veranda si era rinfrescata in fretta. Rabbrividì e si strofinò le braccia.
«Perché?» disse la ragazza.
Chester sospirò. «Non dobbiamo uscire a cena con i Tynan?»
«Non voglio andare a cena con i Tynan» disse la ragazza.
Chester infilò le mani in tasca. «Devi farla finita con questa storia» disse.
«Sto volando» disse la ragazza. «Ho volato». Pensò ai balzi del pastore, alla sua leggerezza. Era fuggito via. Lei invece non era andata da nessuna parte.
Chester disse: «Ti ho consolato meglio che potevo».
«Non puoi consolarmi» disse la ragazza. «Non mi riprenderò mai. Non c’è un lieto fine».
«Siamo noi il lieto fine» disse Chester.
«Abbi pietà».
Il cielo era rosso, l’acqua di un argento opaco. «Non ce la faccio a rivedere i Tynan» disse la ragazza.
«Non ce la faccio a entrare nell’ennesimo ristorante e vedere un altro vetro anti-starnuto a protezione del buffet».
«Non urlare, amore. La roba che prendi non ti calma neanche un po’? Guarda che io non sono mica un cane, non puoi gridarmi contro».
«Come?» disse la ragazza.
Chester si sedette sull’altalena. Le mise una mano sul ginocchio.
«Sei una persona fantastica, ma non ti farebbe male un briciolo di autoconsapevolezza, di realismo. Tu a quel cane gli urlavi, amore».
La ragazza guardò la mano con cui le carezzava il ginocchio. Le sembrò inverosimilmente grande e rossa. «Non è vero» disse. Il cane sapeva fare un giochetto.
La ragazza gli diceva, «Mi vuoi bene?», e lui le saltava tra le braccia. Restavano tutti affascinati.
«La sera che è successo, mentre guardavi la zanzariera, hai detto che quando fosse tornato l’avresti ammazzato».
La ragazza guardò la mano che le accarezzava e strofinava il ginocchio. Non sentiva nulla, era insensibile. «Non ho mai detto niente del genere».
«Era un fastidio comprensibile, amore. L’avrai riparata una mezza dozzina di volte, quella zanzariera. Stava diventando un problema di disciplina. Gli ospiti si sentivano a disagio».
«A disagio?» fece la ragazza. Si alzò. La mano le cadde dal ginocchio.
«Non possiamo cambiare le cose» disse Chester. «Se potessi farlo, lo farei. Farei qualsiasi cosa per te». «Non sei rimasto con me quella sera, non sei venuto a letto con me!» La ragazza camminava qua e là per la stanza, descrivendo piccoli cerchi nervosi.
«Sono rimasto per ore, amore. Ma su quel letto è impossibile dormire. Le lenzuola sono sempre coperte di sabbia e di peli di cane. È per questo che ho comprato un’altra casa. Per i letti». Chester sorrise e fece per abbracciarla. Lei si voltò e attraversò il soggiorno, aprì la porta e scaraventò a terra il cicalino. «Oh, falla finita!» esclamò Chester.
Quando raggiunse casa sua, la ragazza andò in camera da letto e si sdraiò. Intorno a lei il silenzio sembrava quasi sbadigliare, un buco nero che la circondava. Il silenzio è stato dato in dono agli animali, pensò la ragazza. Le parole dell’uomo causano disgrazie, ma spesso è il silenzio degli animali a risanare tutto.
Si girò su un fianco, poi sulla schiena. Pensò alla buganvillea, alle foglie che diventavano fiori sopra la tomba del pastore. Pensò al pastore accanto al letto, che dormiva sereno contro il muro, pieno di fiducia in lei.
Udì uno schiocco nella testa, una piccola esplosione che la svegliò. Si tirò su a fatica, annaspando, destandosi da un sogno in cui il pastore era morto. E per un attimo rimase sospesa tra due sogni, ingannata due volte. Si vide spiccare un balzo e poi ricadere giù. La luce della luna inondava il recinto.
«Ti volevo bene, vero?» disse la ragazza. Si vide spiccare il balzo all’infinito, e all’infinito ricadere giù. «E tu me ne volevi?».

Guardare gialli con mia madre, di Ben Marcus

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Black Coffee il racconto ‘Guardare gialli con mia madre’ di Ben Marcus, tratto dalla raccolta del 2019 Via dal mare e tradotta da Sara Reggiani.

Buone letture!

GUARDARE GIALLI CON MIA MADRE
di Ben Marcus

Non credo che mia madre morirà oggi. È già tarda sera. Dovrebbe morire entro quarantacinque minuti, e non mi sembra probabile. L’ho appena vista a cena. Abbiamo ordinato da asporto e guardato un giallo sulla pbs. Mi ha dato il bacio della buonanotte e ho chiamato un taxi per tornare a casa. Perché muoia, la situazione dovrebbe subire una brusca svolta.
Mia madre ha la sua bella dose di problemi di salute. Vive da sola, e questo aumenta le probabilità di morte. Potrei essere svegliato da una telefonata e scoprire che è deceduta poco dopo che l’ho salutata. Siccome la giornata è ormai finita, vorrei poter dire che le probabilità che muoia oggi sono basse. Deve soltanto sopravvivere, a casa, nel suo letto, per un’altra oretta scarsa, e avrà superato l’ostacolo dimostrando che avevo ragione. Ma non ne so abbastanza, di probabilità. Mi sembra di intuire che una caratteristica insita alla morte – la morte di una donna anziana sola nel proprio appartamento – sia la totale estraneità a concetti umani quali appunto la prevedibilità. Non è insolito sentir dire di qualcuno che ha disatteso le previsioni. Ma allora forse, chiunque fosse questo qualcuno – si presume una persona intelligente – avrebbe dovuto tenere conto sin dall’inizio dell’eventualità di disattenderle e modificarle di conseguenza. Chi è abituato a fare previsioni non può ignorare che spesso vengono disattese. La cosa deve procurargli non poche seccature. E poi le modificherebbe, le sue previsioni, per renderle più accurate? Non so. Le previsioni dovrebbero essere previsioni, e per giunta non dovrebbero mai essere disattese. Perché altrimenti non sarebbero corrette, e andrebbero cambiate.
Se mia madre sapesse che – per non morire oggi – le basterebbe sopravvivere per meno di un’ora, le probabilità che resti viva aumenterebbero? Se ora le telefonassi e la tenessi in linea per non farla morire oggi, le probabilità cambierebbero? In altre parole, le nostre probabilità di sopravvivere aumentano nella misura in cui ci impegniamo attivamente a vivere? Mi sembra improbabile, così come il fatto che mia madre risponda al telefono a quest’ora. Sarà stanca. Era stanca già a cena. Si è addormentata mentre guardavamo il giallo. Degli anziani solitamente si dice che si appisolano. Mia madre si è appisolata. Le ho fatto la cortesia di fingere di non accorgermene, invece l’ho guardata dormire sotto la coperta sulla sua sedia reclinabile preferita. Ho notato che non le si muovono più i capelli, a prescindere dalla posizione in cui si trova. A un certo punto durante l’episodio si è svegliata e sembrava aver afferrato la trama più di me. È possibile che l’avesse già visto. Quelli che lavorano nelle cucine dei castelli inglesi, almeno negli sceneggiati che guardiamo io e mia madre, sono molto più scaltri dei loro datori di lavoro. Le cucine sono vasti antri di pietra con meravigliose pentole che pendono dai ganci. A volte il divario tra l’intelligenza del padrone e del servitore è abissale, fatto su cui mia madre si basa per proporre soluzioni al mistero.
Lo so che sono storie inventate, ovviamente, ma so anche che chi se le inventa è irrimediabilmente ispirato da ciò che ha visto e sentito. Per quanto sogni di uscirsene con una trovata originale, di creare dal nulla un mondo vittoriano nuovo di zecca, un teatro di futili crimini domestici, non ci riesce. È legato, volente o nolente, a ciò che è già successo, a ciò che è già stato fatto e pensato. Nel nostro caso, alla premessa che la classe operaia consista di geni assoluti se messi a confronto con gli individui ottusi, avari e pingui che li comandano. Il successo del programma dipende da questo. Io dipendo da questo. Mia madre dipende da questo. Anche se le capita di addormentarsi mentre lo guarda nel suo soggiorno.
La gente è riluttante ad ammettere di essersi addormentata, in particolare, se non esclusivamente, se questo è accaduto in presenza di testimoni. Anche quando negare non ha senso, loro negano. È una questione di orgoglio, forse. Per questo non ho mai messo mia madre di fronte al fatto di aver dormito per tutto il secondo atto, nonostante l’abbia guardata dormire più di quanto non abbia guardato lo sceneggiato. Perché molestarla con la verità? Ci provo a non guardarla mentre è appisolata, faccio del mio meglio. Mi sembra poco educato. Ma a volte non resisto. Quando è sveglia non ce la faccio a guardarla con altrettanta attenzione, e per un periodo così prolungato di tempo. Se è da maleducati fissare qualcuno mentre dorme, lo è ancor di più farlo quando è sveglio e consapevole di essere oggetto di scrutinio. Fissare a lungo una persona sveglia non è solo da maleducati, ma addirittura impossibile. C’è un codice di comportamento che lo impedisce. Non mi sognerei mai di seguire mia madre guardandola fisso. In generale sono consapevole di cosa non stia bene fare.
Il crimine però resta lo stesso: fissare un’altra persona. Che dorma o sia sveglia non dovrebbe importare, ma è evidente che farlo quando è sveglia costituisca un’aggravante. Se nella stanza, oltre a mia madre che dorme e io che la guardo, ci fosse una terza persona – no, non mio padre, per carità – e questa terza persona vedesse che guardo la mamma addormentata, la mia trasgressione sarebbe doppiamente grave?
Non so.
Quando penso che a volte mia madre si scorda di prendere le medicine, di mangiare qualcosa che non sia solo una fetta di torta di riso, di bere acqua, mi viene spontaneo chiedermi quanti anni ancora potrebbe vivere se solo s’impegnasse. I servitori di cucina, soprattutto gli sciroccati che nel primo atto sembrano solo degli idioti, finiscono sempre per rivelarsi i più subdoli. Alla larga dagli stupidi!, esclama la mamma ogni volta che guardiamo un sceneggiato del genere, e sorride agitandomi un dito davanti.
Provo a invogliarla a bere dell’acqua, ma risponde che ha un saporaccio. Anche se mi vede prenderla dal rubinetto, dice che le sembra di bere la risciacquatura dei denti di qualcuno. Sa della bocca di uno sconosciuto, urla, come se al contrario bere acqua che sa della bocca di qualcuno che conosce fosse accettabile. La volontà personale non può – può? – influire su quando si morirà, a meno che non si decida di morire, il che è tutto un altro paio di maniche. Se la volontà avesse un ruolo fondamentale, se cioè si potesse vivere più a lungo per scelta, la morte subirebbe una mutazione strutturale, e la gente inizierebbe a esercitare questo potere in maniera distruttiva, vivrebbe così a lungo da creare disagio alla famiglia. Non oso immaginare un mondo in cui le persone hanno il potere di posticipare la propria morte.
D’altro canto esiste un’intera schiera di persone che nel corso della storia hanno lottato per la propria vita senza muovere un muscolo. Di un infermo allettato e tenuto in vita da sacche e tubicini in una stanza d’ospedale, si dice che è un guerriero. A occhio nudo però non si rileva alcuna attività. In situazioni simili si parla di volontà di vivere. I famigliari, riuniti al capezzale dell’infermo, la avvertono e, quando l’infermo muore, si dice che ha lottato con tutte le sue forze. Che era un guerriero. Che alla malattia ha dato del filo da torcere. Situazioni come queste mi hanno sempre dato da pensare, non solo stasera mentre sto qui a interrogarmi sulla volontà di mia madre di vivere almeno fino a domani – a prescindere dal fatto che, come già discusso, questa volontà giochi un qualche ruolo nella faccenda.
Se fossi io il paziente allettato e qualcuno, perfino un estraneo, mi esortasse a lottare per la mia vita, saprei come farlo? Semplicemente non è chiaro, non lo è mai stato, come per l’esattezza si possa lottare per la propria vita non disponendo di strumenti, né di armi, né di una preparazione, né di qualsivoglia nozione.
Nemmeno i medici che se ne stanno lì a guardarmi morire mi dicono niente su cosa fare ora, in questo momento, per prolungare la mia vita e non soccombere a ciò che la minaccia. Perché mi tengono all’oscuro? Un estraneo potrebbe farmi coraggio, spronarmi a trovare dentro di me l’energia necessaria e combattere – e dico estraneo perché non sono sposato, e mio fratello e mia sorella sono morti. Avrei necessariamente un estraneo al mio capezzale. O nessuno. Più probabile nessuno. Perché un estraneo dovrebbe indugiare davanti alla mia stanza, avvicinarsi al letto ed esortarmi a vivere? Che razza di estraneo farebbe una cosa del genere? E se anche la risposta fosse un bravo estraneo, allora dovrei chiedermi se sia mio dovere, non stasera, stasera ho da fare, ma prima o poi, entrare in un ospedale di notte e individuare un paziente solo nella sua stanza, preferibilmente un moribondo, e incoraggiarlo a combattere, e con tutte le forze per giunta? Dovrei impegnarmi per essere un bravo estraneo, ho capito bene?
Se potesse, mia madre starebbe al mio capezzale, e con ogni probabilità mi istigherebbe a lottare per la vita, nonostante trovi difficile immaginarla impartire un simile comando senza scoppiare a ridere. È sua dichiarata convinzione che molto di ciò che sappiamo, diciamo e proviamo sia ridicolo. Tendo a pensare che quando verrò incoraggiato a lottare per la vita su un letto d’ospedale, lei sarà morta. Avrà già lottato per la sua, di vita, e avrà perso. Ora però che è lei quella in punto di morte, anche se non oggi, non credo, no, ho paura che anche mia madre brancolerebbe nel buio. Posto che sia stata una calamità a condurla in ospedale, se le chiedessi di lottare per la vita è probabile che acconsentirebbe con educazione, potendo parlare, ma dentro di sé sarebbe costretta ad ammettere di non essere in grado di imbarcarsi in una tale impresa. Non è un tipo pratico. Lo stesso vale per il resto della famiglia. Nessuno di noi possiede la capacità di lottare per la propria vita. Cadiamo come mosche, uno dopo l’altro. Se l’intera popolazione mondiale venisse classificata in base alla capacità di lottare per la propria vita, la mia famiglia non sarebbe in una buona posizione.
Tenendole la mano, chiederò a mia madre di resistere. Lei vorrà accontentarmi, lo fa da sempre, e accetterà di lottare per farmi felice, ma quando si tratterà di scendere in campo non saprà che pesci pigliare. Ha vissuto una vita intera senza avere alcun controllo su ciò che avveniva dentro il suo corpo, il sangue, le cellule, le ossa, per non parlare degli organi, dei nervi. Per ottantasei anni di illustre indifferenza ha permesso alle proprie interiora di farsi i fatti propri, e all’improvviso le viene chiesto di dedicare cura e attenzione al corpo affinché questo non perisca. Come si può pretendere tanto da una donna così vecchia e fragile?
Nei documentari sulla natura la questione è chiara. Quando sentono che la loro vita è in pericolo, gli animali reagiscono infilandosi fra l’erba più veloci del vento, a volte cagandosi sotto dalla paura, oppure si voltano preparandosi ad affrontare la minaccia. Quando lottano per la vita si vede a occhio nudo, mentre agli uomini è richiesto di farlo da fermi, senza mostrare il minimo sforzo. È una lotta che si conduce esclusivamente all’interno e che nemmeno i macchinari dell’ospedale riescono a rilevare.
La domestica del retrocucina spesso ha un confidente. Questo confidente può essere un bellissimo giovane omosessuale con qualche trucchetto cui fare ricorso, qualcuno che ha accesso ai segreti della danarosa famiglia per cui lavora ma che allo stesso tempo le è troppo fedele per tradirla.
Temo di sbagliarmi terribilmente a pensare che mia madre non morirà oggi.
Uno che avrebbe senz’altro qualcosa da dire sulla questione delle probabilità è mio padre. Di mestiere faceva lo statistico. Probabilista, è il termine ufficiale. Il calcolo delle probabilità che mia madre muoia oggi sarebbe una passeggiata per lui e i suoi colleghi, in gran parte provenienti dall’India, un Paese fertile per i matematici, come mi è più volte capitato di sentir dire a mio padre. O magari solo per i probabilisti. Mio padre è mancato, perciò non ha più modo di affrontare l’argomento, e non posso fare riferimento alle sue pubblicazioni, alcune delle quali ho proprio qui con me, perché non vertono su circostanze elementari come questa.
Le probabilità che mia madre muoia aumentano di attimo in attimo. Mai come adesso che se ne sta lì, sdraiata nel suo letto, ha corso un pericolo maggiore. Perciò mi dico che dopotutto non posso essere tanto sicuro che oggi non muoia. Non che sia più particolarmente sicuro di niente ormai, non fosse altro perché le probabilità che muoia in questo momento non sono mai state così alte. E questa affermazione, ogni volta che la pronuncerò, sarà valida per il resto della sua vita. Anzi varrà anche se non la pronuncerò. Anche se non lo formulerò, questo pensiero – che il pericolo che sta affrontando è più grande che mai – varrà, il che mi induce a sospettare che esistano molti altri pensieri che non ho avuto, alcuni dei quali erano veri. Molti, davvero. Contarli sarebbe impossibile. Sono sicuro che alcuni di questi pensieri che non ho mai concepito abbiano il loro peso sulla questione della vita e della morte di mia madre. Di quei molti pensieri che non ho pensato, e tra loro in particolare quelli che sono anche veri, quali, se solo potessi pensarli ora, mi rivelerebbero di più su mia madre e sulle sue probabilità di sopravvivere a oggi?
E se non posso più nemmeno permettermi di pensare che mia madre non morirà oggi, farei meglio a tornare subito da lei così da poter godere degli ultimi istanti in sua compagnia.
Vedete, il mio obiettivo è fare la cosa giusta nel rispetto di mia madre e dei suoi ultimi istanti di vita.
Devo riflettere più attentamente, però. In base a questo ragionamento non sarò più capace di separarmi da lei, perché ogni volta lo farei nel momento di maggiore bisogno, quando cioè è più probabile che mai che venga a mancare. Ammesso che mia madre superi la notte, la cosa varrà ogni volta che la rivedrò. Le augurerò la buonanotte, le dirò di stare in gamba, e poi la lascerò sapendo che le sue probabilità di morire crescono a ogni mio passo mentre abbandono l’edificio, saluto il portinaio con un cenno del capo e attraverso il silenzio del vicolo laterale per uscire nel viale trafficato in cui si fermano i taxi. Sarà dura in frangenti simili non domandarsi che razza di figlio abbandona la madre quando è più in pericolo di morire. Chi lo farebbe mai? Chi avrebbe il coraggio di salutare con un bacio la madre, la propria madre, sulla soglia di casa pur sapendo che per tutto il tempo non ha mai corso un pericolo maggiore?
Io, a quanto pare. L’ho fatto ogni volta che l’ho lasciata. E se dovesse superare la notte lo rifarei, me ne andrei di nuovo pur essendo consapevole che, se ieri il pericolo che morisse era alto, oggi lo è ancor di più. E aumenta via via che ne parliamo, e ciononostante dovrei salutarla come se non m’importasse di saperla in crescente pericolo di vita.
Lo facevo anche da bambino. La salutavo e me ne andavo a scuola. La salutavo e me ne andavo in campeggio. La salutavo il sabato mattina per tornare chissà quando. Tutte le volte la lasciavo agonizzante. Sulla porta, in cucina, in soggiorno, in giardino. Ogni tanto anche quando era a letto ammalata, la salutavo da in fondo alle scale proprio mentre le sue probabilità di sopravvivenza erano al minimo storico. L’ho salutata e sono andato al college quando era più probabile che morisse. E quando tornavo, non passava mai troppo tempo prima che ripartissi, lasciandola lì, a morire. Perfino stasera, dopo aver guardato il giallo sulla pbs, le ho augurato la buonanotte e l’ho lasciata nella sua casa in punto di morte.
Si dice «avere un piede nella fossa», ma non si fa mai parola di metterci anche l’altro piede, poi tutte e due le gambe, poi il busto intero, le braccia, la testa, in questa fossa, nella bara, che poi qualcuno ricoprirà di terra sulla quale pianterà una piccola lastra di pietra.
Il castello è sempre il medesimo. Cambia l’intrigo, cambiano l’esecuzione, gli attori, l’epoca storica, ma il castello è sempre lo stesso. Dev’essere stato comprato a quello scopo e messo a disposizione di chiunque volesse girare un film giallo in stile britannico. Un tempo era abitato da persone vere con vite vere, proprio come noi che, vivendo nelle nostre case, ci consideriamo persone vere con vite vere. E se pensassimo che un giorno le nostre case, come quel castello, saranno usate per girare sceneggiati televisivi su persone molto simili a noi, allora potremmo intravedere il destino cui le nostre case vanno incontro, un destino popolato di persone assunte per interpretare noi che vanno in giro recitandosi battute a vicenda, mentre fuori dall’inquadratura donne e uomini contemporanei, con punti di vista aggiornati sulla vita, divorano varietà inimmaginabili di snack e ridono di quei miopi sempliciotti del passato, che poi saremmo noi.
Non è fuori luogo credere che in un simile contesto, a molti anni da ora, un’anziana signora e il suo unico figlio si siederanno a guardare questo sceneggiato televisivo, o qualunque cosa sarà diventato, mentre si godono la cena senza dirsi un granché, e che in seguito lei si addormenterà e lui continuerà a guardare, in attesa che la madre si svegli e pronunci una dichiarazione illuminante.
Sono tentato di dire che ben mi starebbe, se mia madre morisse oggi. Perché da quando ho iniziato a muovere i primi passi l’ho cronicamente abbandonata, e ogni volta nel momento di massimo pericolo. Me lo meriterei. Che morisse oggi sarebbe appropriato. Un giusto castigo. In ogni caso, quando ci rifletto e capisco che se mia madre morisse oggi me lo meriterei, mi balena in testa il pensiero che allora la sua morte diventerebbe contingente al modo in cui mi sono o non mi sono comportato. La sua morte sarebbe una forma di riscatto per il mio comportamento. La mamma non potrebbe morire a meno che io non me lo meriti completamente, anche se, considerato che me lo merito da un pezzo, pressappoco da subito dopo la mia nascita, mia madre ha avuto a disposizione tanto tempo per morire e io per dimostrarmi meritevole di questo.
A questo punto non posso non chiedermi se al mondo esista qualcuno che si meriterebbe che morissi io. Se, per esempio, la morte di una persona fosse una misura punitiva nei confronti di un’altra, cosa che di certo penserei della morte di mia madre, qualora accadesse oggi, su chi ricadrebbe il giusto castigo quando morirò io? Esiste forse per ognuno di noi un capro espiatorio che pagherà il prezzo della nostra morte?
Be’, è ovvio che non tutte le morti fungano da punizione, sebbene si tratti di una teoria affascinante. Tante di quelle cose si spiegherebbero all’improvviso. Ciononostante alcune morti – la mia, per esempio – potrebbero essere indipendenti dalle circostanze, non concepite come castighi o ammonimenti per qualcun altro su questa Terra. Decessi che non hanno lo scopo di innescare il senso di colpa in nessuno. Decessi che forse non hanno lo scopo di suscitare alcun sentimento. Eventi autoconclusivi e senza impatto. L’ecologia della morte in questo senso dovrebbe certamente tenere conto del principio della varietà. Che poi con che diritto dico certamente, non ho alcuna autorità in materia. Ed esiste la vaga possibilità che la persona per cui il mio decesso, quando sarà, rappresenterà un giusto castigo, non venga mai a sapere che sono morto, così come potrebbe non sapere mai che le sta bene o che se l’è meritato. Questa persona potrebbe trovarsi all’altro capo del mondo, senza accesso ai mezzi di informazione che potrebbero avvertirla della mia dipartita, sempre ammesso che se ne parli. Potrebbe arrivare alla fine dei suoi giorni senza avere la più pallida idea che sono morto, evitando così per l’eternità il giusto castigo.
Dopo essere stato dipinto per decenni come l’incarnazione della malvagità, il maggiordomo è diventato un tipo mite. Adesso è sempre, incondizionatamente, gentile, con chiunque. «È stato il maggiordomo» recita l’adagio, ed è questo, forse, a garantire che qui, negli sceneggiati della pbs che guardiamo io e mia madre, il colpevole non sia mai lui. È troppo buono per essere lui. D’altro canto, tale assoluta innocenza recentemente accordata al maggiordomo in produzioni come questa suggerisce che, non ora ma presto, il cattivo tornerà a essere lui. Mia madre una volta mi ha spiegato che la chiave di questi misteri, per come appaiono all’inizio, consiste nell’individuare il capro espiatorio più improbabile. Spesso quella persona si rivela il cattivo. Ha osservato che di tutte le scoperte che ha fatto nella vita, quella era fra le più tristi, perché da allora non si è più goduta niente. Arrivare a comprendere qualcosa, ha detto, è una tristezza. Tu non conoscevi bene tuo padre, ha detto, ma non era un uomo difficile da capire. E il problema era proprio quello. Una volta capito qualcuno, poi che cosa te ne fai?
Mio padre e i suoi colleghi indiani dovevano essere considerati, in quanto probabilisti, dei maestri delle statistiche, i più affidabili fra i calcolatori di probabilità. Non fossero morti sottoporrei le mie domande all’uno o all’altro, ma siccome sono morti, cosa possono saperne ormai di probabilità? Saranno morti anche i probabilisti indiani, oltre a mio padre? Ad ogni modo, vivi o morti che siano, avranno per forza dei successori. Qualsiasi campo di ricerca genera successori che profanano e in seguito sviluppano il lavoro iniziato dai loro mentori, ed entro breve i mentori muoiono. A prescindere da quanto sia autorevole il mentore nel suo campo, c’è sempre un successore che attende in anticamera. Ci saranno altri probabilisti indiani, probabilmente ne arriveranno di nuovi ogni anno, un flusso di eredi che voleranno fin qui dall’India. Perfino mio padre avrà avuto un suo successore, una volta morto. Qualcuno è succeduto a mio padre, il Signore delle Probabilità, della cui arte non ho mai avuto modo di essere testimone. Mio padre deve averla tramandata all’erede, che ora la detiene. Se anche io e mia madre non conosciamo il nome di questa persona o dove si trovi, possiamo a buon diritto credere che in questo momento, da qualche parte nel mondo, si aggiri il successore di mio padre, qualcuno che custodisce ciò che prima custodiva lui. E quando mia madre morirà, non oggi, e quando anch’io alla fine morirò, questo successore di mio padre che non conosciamo sarà considerato un superstite della nostra famiglia? Il pensiero offre un barlume di conforto.
I medici che firmano le autopsie, bollando come sconosciuta la causa della morte, attribuiscono la loro temporanea ignoranza a lacune della scienza che un giorno verranno colmate. Presto o tardi tutte le cause di morte saranno note. Il problema è che noi viviamo tempi curiosi, in cui non si sa niente delle cose finché non accadono. Si suppone che da qui a qualche anno questo dover aspettare che qualcosa accada – come la morte di una madre per dire di averla conosciuta – sarà considerato un toccante limite del nostro attuale stile di vita. Nessuno riuscirà a immaginarsi così paziente ed educato come siamo noi ora, ansiosi di stabilire una distinzione fra le antiquate nozioni di prima e dopo. La gente si affezionerà a queste creature miti, che aspettavano la morte delle loro madri ed erano tutte vittime del tempo, ma si sentirà anche superiore, e alcuni azzarderanno la valida ipotesi che nella nostra ignoranza non fossimo poi così diversi dagli animali. Meritevoli di grande rispetto, ma pur sempre animali.
Se mia madre è morta oggi, non si saprà fino a domani, di questo sono quasi certo. Come minimo, domani. Perché si sappia oggi, qualcuno che non sia suo figlio dovrebbe di punto in bianco pensare, nel cuore della notte, di andare a suonare alla sua porta, e non vedendosi aprire, sentirsi in dovere di chiamare il padrone di casa e guadagnare l’accesso al suo appartamento. Tralasciando l’improbabilità della cosa, che mi sembra alta, ci vorrebbe del tempo. Il mattino potrebbe sorprendere questa persona prima che sia riuscita a mettersi in contatto con il padrone di casa, il quale potrebbe avere il telefono staccato. E se anche fosse raggiungibile, dubito che si presenterebbe di corsa, chiavi in mano, facendo sì che mia madre venga trovata oggi.
È sconcertante pensare che, mentre questi misteriosi intrighi vengono filmati, fuori dall’inquadratura uomini e donne si muovano con indosso abiti del loro tempo, ciascuno col proprio contemporaneo punto di vista sulla sessualità e sull’etica, e si portino la mano alla bocca per nascondere un sorriso di fronte a quel pietoso spettacolo di animali erranti.
Anche se il padrone di casa rispondesse al primo squillo. Potrebbero esserci benissimo altre spiegazioni sul perché nessuno abbia aperto la porta, e il padrone dovrebbe tenerne conto. Spesso si scopre che una giovane donna appartenente alla facoltosa famiglia, e dotata di una bellezza quasi insostenibile, è in combutta con i servitori.
È notte fonda, tutti dormono. I vecchi si coricano presto. Se mia madre è andata a letto, cosa che mi auguro, e si è addormentata, cosa che mi auguro altrettanto, non può sentire il campanello.
La giovane è l’unica in grado di stimolare in chi guarda una sorta di empatia per le classi abbienti, a suggerire cioè che non tutti i ricchi di una volta erano malvagi.
Il padrone di casa insisterebbe sempre sullo stesso punto, sarebbe recalcitrante a servirsi della chiave per entrare nell’appartamento di mia madre. Vorrebbe prima avere le prove che qualcosa, di fatto, è successo. La preoccupazione di un vicino non costituisce una prova. Del sangue che esce da sotto la porta sarebbe una prova. Ma se anche mia madre fosse morta, è improbabile che si vedrebbe del sangue. Trovare delle prove non sarebbe semplice.
A un certo punto arriva sempre un agente di polizia, ma non è mai l’agente di polizia a risolvere il caso. Niente corpo, niente reato!, urla a volte mia madre dalla sua poltrona.
Il padrone di casa avrebbe motivo di interrogarsi sul perché un vicino abbia deciso, nel cuore della notte, di andare a suonare il campanello di una donna anziana pretendendo di entrare in casa. I vicini non fanno così.
Esiste una gerarchia fra gli addetti all’apertura della porta, un compito che solitamente viene lasciato al valletto. Il padrone di casa insisterebbe per aspettare fino al mattino, facendo in modo, quindi, che nonostante mia madre sia morta oggi, il corpo non venga trovato prima di domani.
Se d’altro canto il decesso di mia madre producesse rumore, se morendo facesse baccano e i vicini lo sentissero, è probabile che la raggiungerebbero in tempo, non necessariamente per salvarla, ma almeno per scoprire che è morta oggi. Trovarla oggi lascerebbe ben poche sorprese al domani. Ci sarebbe la mia, di sorpresa, nel momento in cui dovessi ricevere la fatidica telefonata che m’informa dell’infausto evento di cui la casa di mia madre è stata teatro. Molti avrebbero saputo della morte di mia madre prima di me, e questo pensiero non mi va giù. Vorrei essere io il primo a saperlo, che poi è la spiegazione che forniscono sempre gli assassini: vogliono essere i primi testimoni di un evento importante, e l’unico modo per mettersi in quella posizione è diventare loro stessi la causa che ha provocato tale evento, così uccidono una persona e, di conseguenza, apprendono la notizia prima di chiunque altro. Rispetto a questo, però, il mio movente è tutt’altro. Per alcune di queste persone la morte di mia madre sarebbe ormai storia vecchia quando finalmente ne venissi a conoscenza anch’io. Nel frattempo potrebbero essere morti altri abitanti della zona, che rimpiazzerebbero mia madre nei pensieri altrui. Nel grande spettacolo del mondo molte migliaia di persone potrebbero morire dopo mia madre, ma ben prima che io abbia appreso la notizia. Se cadendo dalle scale avesse urlato. Se fosse crollata a causa di un’improvvisa insufficienza del sistema circolatorio. Forse, piuttosto che urlare, avrebbe avuto la forza di comporre un numero al telefono. Forse non aveva l’energia per urlare abbastanza forte da essere udita. Urlare implica uno sforzo muscolare non indifferente. Mi spaventa il pensiero che un giorno avrò più che mai bisogno di urlare e sarò troppo debole per farlo. Mi limiterò a produrre dei gemiti, a stento percettibili perfino da me stesso. Mettiamo che mia madre, strisciando sui gomiti, resa invalida dalla crisi del sistema circolatorio, raggiunga il telefono e componga un numero. Forse riuscirebbe a spiegarsi con calma, informando la persona in linea delle circostanze in cui si trova. I soccorsi verrebbero allertati, i soccorsi arriverebbero.
La questione della scoperta a questo punto si complica. Se, per esempio, mia madre riuscisse a illustrare la propria condizione clinica alla persona in linea per poi morire l’istante dopo, quell’informazione costituirebbe un valido indizio al fine di determinare a posteriori che la morte di mia madre è avvenuta oggi? Non credo. Credo semmai che la persona in linea si renderebbe conto che l’emergenza è scattata oggi, spingendo quindi mia madre a fare quella telefonata, ma a meno che la mamma non muoia mentre parlano, prima di mezzanotte, sarebbe impossibile stabilire, sulla base della suddetta informazione, l’ora esatta del decesso. E se anche morendo mia madre facesse cadere il telefono, la persona in linea, non potendo vederla, non avrebbe la prova definitiva che sia venuta a mancare all’improvviso durante la loro conversazione. Anzi, potrebbe benissimo dedurne che non poteva più parlare o fare rumori, o muoversi, dato che non sentirebbe proprio nulla se mia madre, contro ogni previsione, morisse oggi. Sentirebbe solo silenzio. Ma il silenzio non basta.
Se voglio che mia madre sopravviva, come continuo a ribadire, in modo tale che non venga trovata morta nel suo appartamento, non dovrei fornirle una compagnia? Se, in base alle statistiche, le persone che non abitano da sole vivono più a lungo e io non ho salvato mia madre da una vita di solitudine, l’ho forse spinta a morire prima, invece che dopo? Questo è un fattore su cui potrei avere il controllo. Sarei io a lottare per la sua vita, dato che, come è stato stabilito, lei non può farlo, e non può nessun altro della nostra famiglia, di cui noi due siamo gli unici superstiti. E se un compagno di vita aumenta le probabilità di sopravvivenza di entrambe le parti, due compagni di vita non regalerebbero a mia madre ancora più tempo per vivere? D’altro canto potrebbero verificarsi dei rendimenti decrescenti. Ma i rendimenti sono rendimenti, per quanto decrescenti, ed è ragionevole pensare che più persone abitano con mia madre, più a lungo lei vivrà. Da questo momento in poi il ragionamento s’incarta. Qual è il limite? Fino a che punto posso continuare a fornire dei compagni a mia madre, estendendo la sua vita oltre il normale corso delle cose tramite l’aggiunta di un individuo nuovo al giorno affinché non muoia mai? Il limite è dettato da questioni di logistica.
Una folla di accompagnatori andrebbe stipendiata e nutrita, bisognerebbe fornire a tutti un alloggio e in determinate occasioni, quando per esempio ci sono io a cena o a guardare la televisione, questa folla a un mio segnale dovrebbe dileguarsi, per permettermi di restare solo con mia madre e di godere della sua compagnia. Insieme passeremmo in rassegna i menù dei ristoranti da asporto, fingendo di essere indecisi fra gli antipasti di quello afgano e i deliziosi contorni del turco, per poi ricadere come sempre sull’italiano, che entrambi adoriamo, e ordinare la solita pasta, con qualche fettina di pane in più, e magari un’insalata da condividere. Se fossimo in vena di birichinate, potremmo trascinare degli sgabelli vicino alle poltrone, per mangiare guardando la tv, e così sentirci veramente birichini. Ma se, congedando la folla, restassi io come sua unica compagnia, la starei forse mettendo in pericolo attraverso un improvviso distacco dalle persone che le stanno salvando la vita? In pratica non sarebbe un altro modo di ucciderla, dove io sarei l’assassino? Prosperava grazie a un nutrito entourage di compagni estendi-vita, finché quell’egoista del figlio non li ha cacciati tutti, condannandola a morte in cambio di un momento privato – per lo più passato in silenzio – come tanti di cui ha avuto modo di usufruire. È suo figlio e la reclama per sé da una vita, anche quando il fratello e la sorella c’erano ancora, e c’era ancora il padre maestro di statistiche, che gareggiava con loro per aggiudicarsi un’attenzione che, come un cono di luce dorata, sua madre ha sempre tenuto puntata innanzitutto su suo figlio, sebbene quello non facesse altro che dirle addio, giorno dopo giorno. Immaginate tutti quei compagni che attendono fuori – bloccando il traffico, perché ha speso fino all’ultimo centesimo per assumerli e ora sono migliaia – e, radunati intorno alla finestra, spiano madre e figlio che mangiano davanti alla televisione, e nel mentre si domandano quale figlio lascerebbe così sola una madre. Che razza di figlio farebbe una cosa simile?
Si ha sempre un passato, e il passato ritorna sempre, rovinosamente. Il passato, nella mente della persona che l’ha avuto, è terribile e vergognoso, ma agli occhi di chi guarda la televisione il terribile passato che la persona ha avuto ispira soltanto tenerezza. Quella del figlio illegittimo è una delle figure più comuni negli sceneggiati trasmessi dalla pbs. Mia madre non gradisce l’argomento. Non le interessa. Una volta ha detto che tutti i figli sono illegittimi e io ho riso, ma lei mi ha fulminato con lo sguardo. I figli illegittimi diventano adulti illegittimi che poi muoiono e diventano cadaveri illegittimi, sepolti illegittimamente. A un certo punto si è addormentata e io ho appreso che la figlia illegittima, l’ereditiera, veniva relegata nel retrocucina della reggia della sua stessa ignara famiglia. Mia madre si è svegliata e ha dichiarato, con rabbia ingiustificata, che la ragazza era dunque la principale sospettata dell’episodio, e che sarebbe stata umiliata, abusata e di nuovo umiliata, ma che alla fine si sarebbe scoperto che non era stata lei. C’è sempre un primo sospettato, in seguito perdonato rapidamente. Oggigiorno sono molti i sospettati che si rivelano innocenti. È questo che devi mirare a essere, mi ha ammonito mia madre puntandomi un dito addosso. Il primo sospettato. Il primo sospettato non è mai il colpevole.
Se mia madre morisse oggi, morirebbe mentre scrivo. Fra una manciata d’anni qualcuno potrebbe chiedermi che cosa stessi facendo quando mia madre è morta, e io dovrei rispondere che mi trovavo a casa, scrivevo. Questo scenario prevede che un giorno incontrerò qualcuno che diventerà mio confidente, perché al momento nessuno nella mia vita si sognerebbe mai di farmi una simile domanda. Potrebbe farmela uno sconosciuto mosso da buone intenzioni? Dovrei incontrare una persona che, in fretta o lentamente – mi vanno bene entrambe – acquisisca una tale confidenza con me da pormi una domanda tanto personale. Magari questa persona, uomo o donna, sarà qualcuno con cui stabilirò un legame forte, anche se a quel punto sarò già vecchio e avrò ben poco da offrire in ambito sentimentale. Ci porremo domande a vicenda, seduti su divani, poltrone, panchine del parco, letti, sedili di auto, di autobus, o passeggiando nei campi, o almeno così me lo immagino, impazienti di superare le difese dell’altro, animati dalla speranza che quelle domande personali, e le loro risposte, lascino il posto col passare del tempo all’intimità, ma chiedendoci talvolta se è così che funziona davvero, se tutta quella fatica fatta per indurre qualcuno ad amarci non sia eccessiva.
Ad ogni modo, pare che non usi fare domande del genere quando muoiono dei cittadini qualunque. Solitamente si chiede cosa stessero facendo solo ai familiari di personalità celebri. Quindi forse posso contare sulla probabilità che – anche se in futuro dovessi trovarmi una compagna di vita, ipotesi che auspico – non mi venga domandato che cosa stavo facendo quando mia madre è morta. Nessuno dovrà saperlo, a meno che non sia io a dirglielo spontaneamente – probabile –, o che nel mio elogio funebre, che dovrò comunque sbrigarmi a scrivere, dichiarassi dove mi trovavo quando la mamma è mancata. Spesso è alla giovane scarmigliata, alla sempliciotta dall’accento marcato, che tocca la sorte più infame. Assiste il cuoco e il cuoco la maltratta. Tutti la maltrattano. Il suo stesso impiego è frutto di un atto di carità. È sottovalutata. Ma non da mia madre. All’inizio, alla comparsa dei titoli di testa, agitando l’indice ha detto, Occhio a quella!
Ciò che dirò, senza mentire, sarà che quando mia madre è morta io ero a casa che pensavo a lei, perché per scrivere di lei devo pensare a lei, quindi si può dire che lei è nei miei pensieri. Per aumentare le probabilità che questo resti vero, presumo che dovrei continuare a scrivere di lei, o se non altro a pensare a lei, senza sosta, per non rischiare di pensare ad altro e provocare così il suo improvviso decesso.
Se per esempio adesso mi alzassi dalla poltrona e mi distraessi andando al frigorifero, e decidessi che mi va un po’ di yogurt fresco, smettendo così di pensare a mia madre, correrei il rischio di farla morire, sola e abbandonata da tutti anche col pensiero, mentre il suo unico figlio pescava qualcosa da un vasetto aperto, con lo sguardo fisso nel nulla e la mente, per un attimo, vuota.
Non posso lasciare che accada.
Episodio dopo episodio, guardando lo sceneggiato con mia madre, cerco con gli occhi la sempliciotta scarmigliata. La osservo, aspettando che passi all’azione, ma i suoi obiettivi non sono subito chiari, la strategia è a malapena intuibile, tanto che quando iniziano a scorrere i titoli di coda la sempliciotta ancora non ha spiccato il balzo. Spesso torna al punto di partenza, a lavorare in cucina, a mani vuote. Non ha dove andare, nessuno le vuole bene e lei stessa, questa sempliciotta scarmigliata dai denti marci e ingrigiti, sembra incapace di provare amore per qualcuno. Mia madre annuisce e dice, Ride bene chi ride ultimo.
I titoli di coda sono passati, il programma è finito. Uno a uno i nostri contemporanei fuori inquadratura, con la loro visione aggiornata del mondo, se ne vanno a casa. L’attrice che impersona la sempliciotta scarmigliata riassume il suo normale accento da persona ben istruita, si strappa via dalla testa la parrucca con i capelli ritti, torna alla roulotte per farsi una doccia e indossare uno dei suoi tanti bei vestiti.
Mentre guarda scorrere i titoli di coda con un sorriso sulle labbra, però, mia madre mi lancia un’occhiata tagliente.
Aspetta e vedrai, dice come se fosse una promessa. Quella non ha mica finito di lottare, ha energia da vendere. È una guerriera, quella. La prossima volta glielo farà vedere lei.

Collateral Beauty, di Maria Ospina Pizano

Con Edicola, parte la nuova rassegna estiva Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Come primo titolo vi proponiamo un racconto tratto dalla raccolta Gli azzardi del corpo di Maria Ospina Pizano, tradotta da Amaranta Sbardella e pubblicata nel 2020.
Sullo sfondo di una Bogotá caotica e attraversata da forti diseguaglianze sociali, la scrittrice colombiana - tradotta per la prima volta in Italia - sceglie nell’universo delle relazioni femminili quelle più asimmetriche e inusuali per raccontare sei storie di donne che cercano di salvarsi le une con le altre, il più delle volte fallendo. Una raffinata geografia degli affetti, autentica e spietata, dove la cura e il senso di protezione si alternano all’ossessione e al tradimento, e dove il corpo femminile rivendica, e trova, nuove forme e nuove circostanze per essere raccontato.

So I’m left to pick up
The hints, the little symbols
of your devotion.

Antony Hegarty, Fistful of Love


“Aspettati eccitanti novità, che arriveranno in modo imprevisto.” Questo aveva pronosticato l’oroscopo a Estefanía mentre aspettava nell’ospedale vuoto, in un sabato di agosto. Sulla rivista dove lo aveva letto compariva anche una notizia dal titolo “L’universo sta lentamente morendo”. Ciò nonostante, poiché le era parsa angosciante e ovvia, si era rifiutata di leggerla. Seduta dietro al bancone, Estefanía si perforava un lembo di pelle sollevatasi da una vescica al piede con un grosso ago che aveva trovato nella cassetta dei bisturi e degli strumenti di sutura, e nel frattempo si chiedeva se la notizia, quella delle sorprendenti novità, si riferisse al viaggio a New York. Forse sì, sebbene lei non avesse mai voluto credere all’oroscopo pur di fare la bastian contraria con la madre, che era sempre stata una fanatica dell’astrologia da rotocalco. Nel momento in cui si rimise le scarpe, si rimproverò per essersi fatta trascinare dall’entusiasmo passeggero di quella mattina serena e non aver indossa to le calze. Una volta conclusa l’operazione, passò uno straccio sul bancone di vetro sotto il quale riposavano scarpette, cappelli e accessori da bambola, nonché diversi animali di peluche appena operati, che nelle buste di plastica attendevano i legittimi proprietari. Proprietarie, anzi: erano quasi sempre loro a entrare nell’ospedale, anche se ormai con una frequenza via via minore.
Prese le sei vecchie bambole dalle buste e le adagiò in fila in attesa dell’elegante signora che le aveva fatte ricoverare all’inizio della settimana e che aveva richiesto per loro svariati interventi chirurgici. Ancora nude, irradiavano una dignità scolpita dai decenni. Pur senza i vestitini inamidati di faille, lamé e trine, pur senza le scarpette in velluto e lino con cui erano arrivate, esibivano le loro cuciture e i loro punti di sutura con discreta vitalità e soddisfacente orgoglio.
“Ho invitato alcune amiche a un tè speciale, al quale dovranno portare le loro bambole di infanzia. Le hanno ancora quasi tutte, ben custodite. Visto che siamo così vecchiette, sarà proprio una bel la mostra di cimeli.” Così le aveva detto la signora sciogliendo i fiocchi alla scatola piena di bambole ferite.
Estefanía si immaginò un grande banchetto di anziane dai profumi costosi e dalle pettinature ordinate, che in un ampio salone rimpinguavano le morbide carni con succulenti dessert, mentre i corpicini rigidi delle bambine perenni, adagiati su minuscole sedie, evita vano i loro sguardi. Forse ogni signora avrebbe raccontato la storia di ciascuna bambola, come le era arrivata e fino a quando si era protratta la sua fiducia in lei, fino a quando era stata convinta che possedeva un’anima. Forse nel parlare delle bambole avrebbero modulato il timbro e la cadenza delle parole, e la vivacità delle voci infantili avrebbe interrotto per qualche tempo l’aridità di quelle gole vecchie. E le bambole lì, a scansare senza indulgenza ogni attimo di contemplazione.
“Lei ha un vero tesoro, signora. Ne capisco io di bambole, mi creda, perché sono cresciuta in questo ospedale e ho visto di tutto.”
Nel voluminoso Registro dei ricoveri, dove venivano conservate le diagnosi e le operazioni avvenute negli ultimi quindici anni, Estefanía annotò i sintomi che la signora le descriveva. Accanto all’impeccabile grafia del nonno e della madre, gli addetti al registro prima di lei, le sue lettere sembravano goffe e profane.
“A Leonor, che era la bambola di mia cugina Leonor, andrebbe sistemata la faccina, perché si sono sbiaditi i colori degli occhi e del le labbra. Sebbene le tenga al sicuro e riposte perché non me le tocchi nessuno. Sotto il mio letto e avvolte nella carta velina. Beatricita, questa con i capelli corvini, ha un braccio rovinato. Bisognerà cambiarle il lattice, immagino. Ingrid non è così antica, ma era la bambola dell’amica tedesca di mia figlia, e ho commesso l’errore di lasciarla qualche volta alle mie nipotine. Guardi i suoi capelli, così irregolari, le bambine glieli hanno tagliati, guardi che scempio. Che disastro. Ha bisogno di un innesto di capelli. Per favore, di un materiale di qualità.”
“Non si preoccupi, ho i capelli che fanno al caso suo. Ne abbiamo alcuni francesi di importazione che mio nonno si era procurato tempo fa, quando ancora li fabbricavano. E sono proprio così, della stessa tonalità chiara.”
“Perfetto. Glieli lasci lunghi, fino alle spalle. Non importa quanto mi verrà a costare, basta che siano a tono con la pelle. María Inés, guardi questa meraviglia di bambola, è inglese, di inizio secolo, e guardi bene, vede? Ha un gancetto qui sulla schiena, se uno lo muove, dice sì o no. Guardi, guardi come dice no, no, no.”
Estefanía imitò la risata della donna. Da tanto non si poteva ridere così, sulle cose prosaiche di cui la gente rideva con gusto, come se racchiudessero una battuta indimenticabile.
“Bene, che ha questa meraviglia? Ecco bisognerebbe sistemarle il dito scheggiato. E ridisegnarle le unghie. E guardi Shirley Temple.
Me la regalò mio padre quando vivevamo in Inghilterra, e Shirley Temple era appena arrivata al cinema con un film, uno dei primi che fece da bambina. Be’, ma lei non saprà chi era Shirley Temple. Una enfant prodige, famosissima negli anni trenta. Divina, con certi boccoli dorati, proprio come questa. All’epoca in cui diventò famosa, uscirono alcune sue bambole che fecero furore. Non dimenticherò mai quando aprii la scatolina bianca, e dentro c’era lei. Per poco non mi venne un colpo dall’emozione. Questa sì che è da veri intenditori. Bisogna rimetterle a posto la gamba, è ruotata dall’altra parte. Di sicuro sono state le bambine, l’avranno presa dalla scatola senza chiedermi il permesso.”
La vecchia afferrò la gamba con una certa violenza e la spinse verso il centro.
“E la bambola araba, o meglio, non so di preciso se è gitana o araba. Questa è proprio un gioiellino, guardi che rifinitura. È francese. Era della mia amica Lucía, che per un periodo aveva vissuto a Vienna. Doveva avere un nome strano ma quando Lucía me la diede poco prima di morire non se lo ricordava più, e allora l’ho battezzata Lucy. Quella volta mi raccontò che, al suo ritorno lungo il fiume Magdalena, se ne stava sul parapetto della nave e le mostrava la rotta. Allora il Magdalena sì che era un signor fiume, una meraviglia. Non era ancora la fogna di adesso. L’avrà capito, Lucy ha visto di tutto, dalle cupole della Senna alle scimmiette e i cervi del Magdalena. Un gioiello tra i gioielli. Dovrebbe fare qualcosa per le dita dei piedi, che sono danneggiate. E le rimetta a posto quest’occhio, vede che si sposta da un lato?”
Estefanía le aveva promesso di restituirgliele sistemate per il sabato, prima di mezzogiorno, in modo che potessero partecipare al tè del lunedì successivo. “È un sollievo che sia riuscita a venire. Passo qui davanti da più di un anno, e ogni volta penso che dovrei entrare, ma ci sono riuscita solo oggi. Finalmente ho potuto trovare del tempo da dedicare alle mie amiche. È così che le chiamo, le mie amiche, per via di tutto il tempo che abbiamo passato insieme. Ne ho salvate diverse dalle amiche in carne e ossa, che non sapevano più che farsene. Le avrebbero lasciate alle donne delle pulizie, si figuri.”

Mentre aspettava la proprietaria delle bambole più raffinate mai accolte alla Clínica de Muñecos Reyes da quando la Barbie e altri esemplari cinesi avevano invaso il mercato della capitale, Estefanía pensò a come sarebbe stato lavorare da colf al servizio di una donna della levatura di doña Cecilia. Avrebbe dovuto indossare un’uniforme azzurro pastello con un grembiule inamidato e for se si sarebbe vergognata di uscire in strada con quella indosso. In cucina, avrebbe osservato di nascosto i pasti della signora dalla finestrella. Avrebbe sbocconcellato gli avanzi del tè quando fossero tornati semidistrutti, e avrebbe finito di rovinarli. Probabilmente si sarebbe ingozzata di qualche dolcetto, prima e dopo il suo viaggio per la grande tavolata. Cercò, senza però riuscirci, di immaginare come sarebbe stato lavorare da colf al servizio di una donna della levatura di doña Cecilia, ma a New York. Lì quel tipo di signore avevano più soldi e chissà quali abitudini. Forse le stesse. Al lora ricordò l’oroscopo della rivista. Magari le pronosticava davvero l’imminenza del viaggio a New York. Magari prevedeva che dal nulla si sarebbe materializzato un buon acquirente per l’ospedale. Che le avrebbero concesso un visto. Si impose di credere che le fioche lettere di un oroscopo avessero un tale potere.

Estefanía aveva promesso alla cugina Shirley che avrebbero festeggiato insieme a New York l’Halloween seguente. Non glielo aveva detto perché ne fosse convinta, bensì perché lo desiderava. Sarebbe stato il primo Halloween insieme da quando Shirley se ne era andata a vivere là, due anni prima, appena aveva finalmente ottenuto i documenti della residenza che il padre aveva chiesto per lei dieci anni prima. Estefanía aveva riferito a Shirley di aver già pensato a un travestimento per la festa. Si sarebbe mascherata da cane randagio. Avrebbe lasciato i capelli sporchi e avrebbe provato a farsi dei nodi nella chioma crespa perché sembrassero simili alle ciocche degli afroamericani.
“Mi metterò un cartello al collo con scritto Ciao, sono un cane randagio.”
Shirley le aveva detto che a New York non c’erano cani randagi. Che nessuno avrebbe capito il suo travestimento. Che avrebbe per so un sacco di tempo a spiegarlo e la gente avrebbe pensato che era matta. Che non fosse così deprimente.

“Ciao, zia, sono al lavoro. Vado di fretta perché sta per venire una signora a riprendersi un ordine. Mi ero dimenticata di dirtelo: una collezione di bambole antiche, una cosa stranissima. Queste bambole sono straordinarie, un incanto. A vederle restaurate così, nonno sarebbe morto per la commozione. Sì, oggi chiudo a mezzogiorno. Bene, sono felice se mi vieni a prendere, e ti accompagno, certo. Non vedo l’ora di vedere il tuo nuovo look.”
Zia Martica, la mamma di Shirley, aveva promesso di passare a prendere Estefanía al ritorno dal carcere, dove era andata a trovare la sua cliente più viziata, un’imprenditrice arrestata per aver dato in prestito il proprio magazzino a chi ci aveva stipato le materie prime necessarie a produrre cocaina. Grazie al duro lavoro di anni, Martica era divenuta la manicure e la massaggiatrice di una lunga lista di clienti. Si occupava di unghie, mani, massaggi tonificanti e dimagranti, secrezioni e segreti. Di massaggio in massaggio, e dopo anni passati ad allenare le braccia robuste e il corpo farcito al fine di accogliere piedi e mani altrui, Martica era riuscita a risalire i gradini della trionfante classe media. Gli affari andavano talmente bene che si era potuta permettere di pagare la retta scolastica di Estefanía, dopo che sua madre era morta, e, poiché la nipote si era appena diplomata, le aveva promesso che avrebbe contribuito al viaggio per studiare inglese a New York. Shirley si trovava già lì e, grazie all’offerta di Martica, Estefanía coltivava l’illusione di andarsene, almeno per qualche tempo.
Quel pomeriggio Martica avrebbe svelato a Estefanía il suo nuovo volto. Il ritorno a una certa gioventù. Da un paio di settimane, in occasione del compleanno, la chirurga plastica che consigliava al le sue clienti per la liposuzione le aveva regalato una nuova faccia. Al posto del lifting gratuito che la dottoressa le aveva proposto all’inizio, mentre dormiva beata nella pace dell’anestesia, Martica aveva ricevuto un regalo ancor più grande. La chirurga le aveva scolpito un viso più scarno, con il nasino all’insù, gli zigomi più affilati e la mandibola meno squadrata. Un viso gradito, anche se non richiesto. Dopo due settimane di recupero Martica aveva ancora un paio di bendaggi alla testa, ma si era quasi sgonfiata. Non appena fosse stata pronta a mostrarsi di nuovo al mondo, voleva che una delle prime a vederla fosse Estefanía.

Una volta finita la rivista degli oroscopi, Estefanía aprì il Don Chi sciotte del nonno che aveva sempre occupato lo scaffale vicino ai libri della contabilità. Aveva deciso di leggerlo la settimana dopo il diploma, ma in modo superficiale, scegliendo a caso i capitoli. Da bambina, quando trascorreva il sabato all’ospedale, il nonno le raccontava cosa succedeva nel capitolo che stava leggendo. Spalancò il libro al capitolo intitolato “Di ciò che avvenne a Don Chisciotte entrando a Barcellona” e si convinse che era un altro segnale del suo futuro viaggio in luoghi a lei ignoti. Suonò ancora il telefono, e pensò che si trattasse della signora delle bambole, che la avvertiva di un impedimento. Stava per chiudere, in effetti. Tuttavia, sentì la voce grave e compassata di un uomo dallo strano accento. Chiedeva del la Clínica de Muñecos Reyes. Spiegò che chiamava dagli Stati Uniti. Che lavorava per la chiesa Saint Ignatius of Antioch di New York, e che aveva trovato i dati dell’ospedale su internet dopo la segnala zione di un’amica colombiana.
“Sto cercando di comprare parti di manichini e bambole antiche per il nostro altare.”
Estefanía provò ad adattare la voce al suo tono più formale. Spiegò che lì si limitavano a riparare peluche e bambole per bambini. Lo poteva aiutare a mettersi in contatto con alcuni antiquari del quartiere, però. “Be’, in realtà io cercavo santi coloniali, ma non mi interessa soltanto questo. Cerco anche bambole antiche di ogni tipo, e pure parti o pezzi sfusi. Forse lei può aiutarci.” Promise una buona remunerazione.
Estefanía disse all’uomo che forse aveva qualcosa di suo gradi mento. Doveva prima fare un controllo. Annotò l’indirizzo e-mail per scrivergli una lista e mandargli le relative foto. Antonio Pesoa tradiva un accento argentino e una voce davate ascetico che sembrava riemergere da ere trascorse ai confini di una piccola grotta.

Prima di chiedersi se la telefonata fosse uno scherzo, Estefanía pensò ai dollari che l’affare prometteva. Alla possibilità di liberarsi finalmente da quell’eredità di arti, occhi e capelli che il nonno aveva lasciato alla madre, e la madre a lei e al fratello. Avevano già avvertito Juvenal della prossima chiusura dell’ospedale e Martica gli stava cercando lavoro da un’altra parte. Prima o poi il laboratorio sarebbe stato venduto. Se le avessero concesso il visto, finalmente lei sarebbe andata a New York. Avrebbe visto Shirley, avrebbe iniziato il buon corso di inglese che questa le aveva trovato nel Queens. Avrebbe imparato la lingua. Sarebbe rimasta a vivere lì e avrebbe atteso con ansia le visite di Martica due volte all’anno. Avrebbe cominciato a credere negli oroscopi. Nel retro del negozio un orso di peluche, una bambola con il naso corroso e una Barbie dai capelli rossi senza una gamba attende vano l’intervento di Juvenal. Estefanía spinse la porta con forza, e per la prima volta dalla morte della madre entrò nel piccolo deposito alla fine della sala. Sopra la cassapanca sulla sinistra le targhette dei cassetti, annotate con la grafia elegante del nonno, recitavano: “antichità”, “parti porcellana”, “vestiti”, “volto”, “religiosi”, “scarpe”. Dall’altra parte della stanza c’era un vecchio bancone con una pila di braccia, gambe, torsi, e borse con diverse teste bionde, teste di orsi e cani di peluche, mani, bacini in plastica di differenti tonalità color “pelle”, eufemismo per indicare la pelle bianca con cui erano dipinte le bambole che circolavano tra le mani dei bambini bogote si. In un angolo, alcuni rotoli di stoffa e uno di materiale per peluche sprigionavano odore di naftalina.
“È proprio vero che non ha mai buttato niente.”
Quando Estefanía alzò il primo braccio della pila di resti amputati, un grande occhio cadde rotolando sulle mattonelle rosse fino all’altra estremità della stanza. Si chinò a prenderlo e notò l’iride dalle screziature verdi e nere. Il vetro si era graffiato legger mente, ma solo nella parte posteriore, così da non rivelare il difetto una volta all’interno della testa di una bambola. Estefanía riconobbe l’antica tecnica di pittura su vetro. Quegli occhi erano ormai in trovabili. Quelli di adesso non erano più tridimensionali, né estrai bili, bensì banali disegni su plastica che privavano le bambole della libertà di uno sguardo laterale, che proibivano alle loro pupille di muoversi nervosamente per incontrare o schivare quelle del la piccola proprietaria. “Gli occhi di adesso viziano i bambini,” pensò. Promettevano loro la certezza di uno sguardo sempre pronto ad aspettarli. Infondevano loro la speranza di essere sempre speciali. Per questo lei non avrebbe avuto bambini. A New York quell’occhio di tempi ormai andati le avrebbe potuto fruttare qualche dollaro. Lo ripose nella tasca mentre andava verso i cassetti della cassapanca per controllare cosa contenessero.

Nella scatola con scritto “antichità” trovò tre bambole avvolte nel la carta velina, che prese con estrema cautela. Ne venne fuori una bambolina in gesso grande quanto il suo avambraccio, con i capelli neri, il viso rotondo e una bocca a forma di ‘o’, le gote rosa e la pelle immacolata. La copriva uno scialle dalle fattezze antiche, abbinato al vestitino. Sembrava un’energica ambulante della piazza del mercato di un villaggio andino, eppure sull’etichetta che le scendeva dalla mano Estefanía lesse “Germania, 1870”. Quindi scartò una bambola nuda, con le parti pubiche in olona e le parti pubbliche della porcellana più raffinata. Dal torso soffice pendevano le gambe, prossime a scucirsi, che diventavano di porcellana dalle ginocchia sino ai tacchi neri. Le braccia erano in buono stato, a eccezione della crepa sul palmo di una mano e di un dito rotto a metà. Le labbra si arricciavano in una smorfia e lasciavano intravedere i denti. Aveva occhi celesti e lunghe ciglia, capelli scuri dipinti sulla testa all’altezza delle orecchie, alla maniera della sua epoca. “Francia, 1918”. Malgrado le membra nude e l’anonimato di decenni trascorsi dentro un oscuro cassetto, non svelava niente di sinistro. Sembrava diligente, e anche ben educata. Infine Estefanía tirò fuori un bimbetto androgino avvolto in un involucro di trine che lo copriva sino alla testa, formando una sorta di magnifica corona. L’unica parte visibile del corpo era il capo. “Gesso bisque” riportava la targhetta scritta dal nonno. Campeggiavano il volto circondato dal merletto due brillanti occhi grigi, spalancati e lambiti da lunghe ciglia che preannunciavano un futuro di intense sofferenze. “Vienna, 1901”. Il bambolotto implorava di uscire a passeggio con una bambinaia di una città di un’altra epoca. Sotto Natale avrebbe sicuramente potuto impersonare il Bambin Gesù in una chiesa di Manhattan.

Nella lista che Estefanía mandò all’argentino bizzarro figuravano anche altri articoli antichi collezionati dal nonno.

* Corpo infantile senza testa, Bisque, taglio su una gamba e piccolo buco su un tallone. Gomme intatte. Di razza nera. Grassottello. Etichetta dice “Francia, 1926”.
* Pezzi sfusi: 1 paio di occhi dipinti su superficie di legno, iride celeste e pupilla di vetro. Quattro paia di occhi di vetro, di versi colori. Un occhio sfuso leggermente graffiato nella parte posteriore. 1 paio di braccia di ceramica con estremità di pezza. 1 paio di piedi in legno, media lunghezza. 1 paio di piedi in gesso (5 cm di lunghezza).
* Varie: flaconcino profumo di vetro azzurro, calzini di filo ricamato per bambola di grandi dimensioni, ventaglio in miniatura pieghevole di avorio con disegni floreali, guanti in pelle bianca con ricami neri, specchietto di metallo, album di ricordi per bambola con fodera in pelle del quale si possono aprire le pagine, corsetto di cotone e merletto con nastri azzurri per bambola di media grandezza, cagnolino di compagnia in porcellana con filati di peli color marrone, bocca spalancata e lingua dipinta che si vede dentro la bocca.

“Vieni e guardami, piccola mia, così mi dici cosa ne te ne pare.”
Estefanía sentì la voce di Martica dal magazzino e le andò incontro.
“Che bella!” “A volte mi viene da pensare che questa faccia da matrona contra sti con il mio corpo.”
“Stai molto bene, zia.”
“Manca ancora un po’ perché si sgonfi del tutto, e ti sembrerò una di quelle bambole eleganti che ti hanno portato.”
Quando si sedette nella macchina di Martica, Estefanía sentì che la tasca del pantalone le incideva la gamba. Era l’occhio di vetro che non aveva avuto il tempo di lasciare nella pila di bambole antiche per poter correre incontro all’altra bambola della sua vita.

Estefanía aspettò per tutta la settimana che la signora venisse a riprendersi le bambole. All’ospedale giunsero alcuni lavori che lei di resse con grande efficienza e che mantennero occupato Juvenal: un orso di peluche alto un metro che vomitava gommapiuma da uno squarcio nella spalla, tre bambole pusillanimi che si erano recate in un salone di bellezza infantile ma alle quali non si addiceva la cresta punk, una bambola che faceva pipì e aveva bisogno di un nuovo tronco perché la proprietaria le aveva distrutto l’originale versando acido disgorgante nel canale interno, dalla bocca al pube. Tuttavia, le bambole eleganti rimasero sul bancone senza aver preso parte al tè della signora. Poiché era incline ai pensieri tragici, Estefanía si immaginò la donna dentro una bara, immobile in un rigor mortis di nostalgia. Il venerdì decise di chiamare al numero di telefono che aveva annotato sulla ricevuta. Le rispose la donna delle pulizie, la quale le spiegò che la signora aveva lasciato la città per un tempo indefinito. Estefanía chiese cosa dovesse farne delle bambole, e le disse che presto, e per sempre, avrebbero chiuso l’ospedale. “Doña Cecilia è in una casa di riposo dal weekend scorso. Il figlio è venuto dall’estero a portarcela. Mi ha dato l’ordine di dire che starà fuori per un po’. Che ora non riceve telefonate. Chiedo io per le bambole. Chiami la settimana prossima e le dirò qualcosa.” Estefanía vide attraverso il vetro del bancone le faccine delle bambole nelle buste di plastica e capì che doveva salvarle: non meritavano di starsene nella vetrina scheggiata per altro tempo.

Estefanía,
ricevere la sua risposta ci ha dato un’immensa allegria. Siamo interessati a comprare tutto quello che ci propone. Anche se alcuni degli oggetti che menziona non hanno tema religioso, ne abbiamo lo stesso bisogno. Possiamo offrirle 300 dollari per tutto l’inventario. Nel caso in cui fosse interessata, dobbiamo soltanto accordarci sulle modalità di spedizione fino a New York. Questa settimana controllerò le differenti possibilità e le farò sapere. Mi piacerebbe venire a prendere tutto di persona, a Bogotá, ma sarebbe un’utopia. Rimango in attesa di una sua risposta.


Antonio Pesoa

Cara Estefanía,
nella e-mail precedente ho dimenticato di chiederle se, tra gli oggetti in vendita, ha pure delle bambole da ventriloquo. Mi dica di sì! La prego di avvisarmi appena possibile.

Dopo aver chiamato per due settimane al numero di doña Cecilia senza ricevere risposta, Estefanía concluse che doveva trovare una nuova casa alle bambole in esilio. Aveva cercato l’indirizzo della signora per portargliele di persona, eppure il suo nome non compariva nell’elenco telefonico. Forse la vecchia era stata così esplicita riguardo alla storia di ogni bambola perché gliele stava lasciando in eredità. Chissà se le sarebbero tornate in mente nello stupore narcotizzato dei tramonti della casa di riposo e se tutti avrebbero pensato che i nomi da lei evocati invano non fossero altro che un ulteriore sintomo del suo malessere.

Dopo altre due settimane di attesa e di telefonate senza risposta, Estefanía accettò le bambole come un’eredità indiscutibile. Quella notte le sognò, tutte e sei, vestite da sante, che decoravano la pala di un altare coloniale bagnato nell’oro. In ognuno degli scomparti del retablo c’era una bambola con la sua tunica inamidata da santa, il mantello e il rosario tra le piccole dita appena riparate da Juvenal. Arrivava Antonio, integralmente vestito di nero e con un copricapo di lana sulla testa calva. Incedeva fluttuando, come tirato da una cordicella leggera legata all’addome. Si inginocchiava sulla prima panca. Estefanía entrava nella chiesa e provava ad avvicinarsi alla pala d’altare, ma un prete furibondo la scacciava in malo modo in un inglese incomprensibile. Antonio non diceva niente, si limitava a guardarla, commosso, ed Estefanía piange va vicino al signore lebbroso che chiedeva l’elemosina sulla porta appestata di pipì, e solo allora capiva di trovarsi nella chiesa di San Francisco, nel centro di Bogotá, dove il nonno la portava da bambina.

Cara Estefanía,
è perfetto se riesce a farci avere il materiale la settimana prossima, tramite sua zia. Dovrebbe essere ben imballato perché non si rompano i pezzi, sono talmente delicati. Gli occhi sfusi! Certo che li vogliamo. E la vicenda delle sei bambole ci lascia senza parole. Se le va bene, gliele potremmo pagare 400 dollari. Saranno sicuramente dei capolavori rarissimi, perché così rare sono le cose di cui fare tesoro. Gioielli al di sopra di qualsiasi classificazione.
Che risplenda quanto deve risplendere.
Mi piace l’idea di queste bambole frivole su un altare.
Morirei per tenere tra le mani una bambola coloniale da ventriloquo. Sono molto difficili da trovare. Ho intenzione di proporre ai preti una sorta di performance religioso-didattica tra il ventriloquo (mascherato da santo, o da vergine) e la sua bambola (che potrebbe farsi passare per angelo, un’anima, o qualcosa del genere).
Posso venire a prendermi il pacco e darei i soldi a sua zia, come mi suggerisce. Le lascio il mio numero di telefono, perché mi contatti al suo arrivo a New York: (212) 945–3850.
La prego di scrivermi e di tenermi al corrente. Un enorme abbraccio.

P.S.: Grazie per avermi raccontato il suo sogno. Se dovessi sognare qual cosa di così brillante, nella mia versione io assalterei il prete, lo legherei dietro una colonna, lo costringerei all’harakiri e porterei lei a vedere le bambole ormai santarelle e il ventriloquo che recita la parte dell’anima. Non mi prenda sul serio, però. Non dormo da giorni.

Una pioggerella sottile imperlava la città, nella mattina di settembre in cui Estefanía prese dal bancone le bambole di doña Cecilia, sciolse i nodi delle buste e le portò su uno dei lunghi tavoli della sala operatoria. Juvenal lavorava sull’altro tavolo, intento a cucire un nuovo paio di orecchie a un gigantesco San Bernardo. Una dopo l’altra, le bambole si lasciarono coricare. I corpi nudi ne tradivano la nuova precarietà. Estefanía andò nel magazzino, aprì il cassetto con la scritta “vestiti” e tirò fuori un fagotto di panni avvolti nella carta velina. A Leonor cadeva a pennello il vestito di raso azzurro con la crinolina. La tunica di trina era per Beatricita. L’abitino a pieghe con le maniche corte sembrava perfetto per Ingrid. E sopra, il cappottino di panno bianco. Recuperò qualcosa per ognuna di loro, in modo da mandarle ben coperte, perché non fossero soltanto meravigliose dentro. Ci avrebbe poi pensato Antonio a trovare per loro dei vestiti adeguati all’altare. Dalla scatola degli oggetti religiosi prese dei minuscoli rosari in legno di rosa e di arancio, e ne mise uno al braccio di ciascuna. Le avvolse separatamente nel pluriball e le adagiò nelle scatoline che si era procurata per il viaggio. Quindi spolverò e impacchettò le altre bambole del magazzino e le parti sfuse che aveva promesso ad Antonio, sistemandole tra carta e gommapiuma.

Estefanía accompagnò Martica all’aeroporto quando a Bogotá aveva appena cominciato ad albeggiare. Martica andava a New York nei due periodi di saldi dei grandi magazzini. Partiva leggera e tornava con due valigie piene dei vestiti che le avevano ordinato le sue clienti bogotesi e che lei rivendeva in cambio di una percentuale, con cui rientrava delle spese del viaggio e ingrossava il libretto di risparmio. Prima dormiva dalla sorella, quella che assemblava i minuscoli pezzi di motori di aereo in una fabbrica nel New Jersey, ma da quando Shirley si era trasferita a New York alloggiava nel nuovo appartamento della figlia.
Mentre Martica avanzava nella lunga fila del check-in, i due pacchi nei quali viaggiavano le bambole e gli altri articoli per Antonio vennero selezionati per un controllo della polizia antidroga. Un poliziotto avvicinò loro un giovane cane che dimenava forte la coda alla ricerca della polverina costosa. Le guardie lo aizzavano a trovare la cocaina, ma il cane non mostrò alcun interesse. Per fugare ogni dubbio uno dei poliziotti prese la bambola araba dalla scatola, la spacchettò, si leccò l’indice, lo sfregò contro la gamba della bambola e se lo rimise in bocca. Poiché non sentì il sapore dell’alcaloide che credeva diluito nella pelle delle bambole, diede l’ordine di richiudere tutto. Un paio di giorni dopo Martica chiamò Estefanía per confermarle che aveva consegnato le scatole ad Antonio e che aveva il denaro. “Mi ha detto solo Grazie, signora, e ha aggiunto che avevo una nipote dolcissima. Che ti voleva conoscere, tesoro mio.”

Incoronata, vittoriosa,
(è l’etimologia del suo nome, lo sapeva?). Malgrado gli ostacoli, ho ricevuto le meraviglie che mi ha mandato. Se fossi stato un poliziotto aero portuale le avrei sequestrate tutte, senza il pretesto di un cane, e mi sarei dato alla macchia. Può stare serena, i tesori di suo nonno riceveranno i giusti onori. La bambola che muove la testa sì-e-no è arrivata con una mano ferita. È stata lei a essere annusata dal cane? Chissà come avrà turbato il suo olfatto.
Ieri ho pensato a lei, Estefanía, e alle questioni della carne, perché per poco in palestra non amputo il dito a una vecchietta. Stavo facendo i pesi e la vecchietta ci ha infilato la mano: le ho rotto il dito. Abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza. Le era diventato una poltiglia. L’ha messo proprio nell’ingranaggio. È schizzato sangue per tutta la palestra, e non è stato poi troppo male perché la gente impegnata a guardarsi allo specchio ha dovuto fare una pausa per guardare in faccia la realtà. L’ambulanza è arrivata dopo quaranta minuti e non scendeva nessuno. Vado a vedere e la ragazza che guidava era tutta presa a passarsi il lucidalabbra. Insomma, inconvenienti della vita atletica, mio Dio. Per fortuna la vecchina è stata piuttosto stoica. Ma perché mai una persona dovrebbe ficcare la mano in un meccanismo che sale e che scende? Le ho detto “I’m sorry” una volta e non ci rimetterò più piede. E pensare che mi trascinavo in palestra da un paio di settimane. Tutto per colpa di uno dei tizi che vendono macchinari da ginnastica alla televisione. Il tizio ha una massa amorfa di resina schifosa, secondo lui è puro grasso, e la chiama “signor grasso”, e ti ripete allo sfinimento che ce l’hai pure tu, dentro di te. Lo ha visto? Mi ha fatto talmente schifo che ho pagato un anno di palestra. Dopo l’incidente con la vecchietta, però, non posso tornarci. Meglio stare qui in incognito, ad aggiustare la ferita alla mia bambola.
Sua zia mi ha detto che forse verrà presto a New York. La devo portare a prendere il tè, e ci mangeremo dei buonissimi dolcetti con il ripieno di pesca che vengono da una lontana isola dell’arcipelago nipponico. E parleremo di qualsiasi cosa. Presto le manderò le foto delle bambine ascetiche nella loro nuova casa. Mi scriva. Mi racconti qualsiasi cosa, mi fa piacere tutto. In questi giorni passo le notti in bianco, a tenere a freno i pensieri che mi rintronano di latrati come cani in fuga.
Grazie, regina.
Abbracci,

Estefanía rilesse l’e-mail. Si dispiacque che non fosse scritta a mano. La zia le aveva raccontato che Antonio era un uomo timidissimo, uno di quegli uomini che con il silenzio rivelano di sapere più di tutti gli altri. Lei pensò a un cavallo selvaggio delle steppe asiatiche, a un pino vecchio di quattromila anni, uno di quei pini che vivono ancora sulle colline del Medio Oriente. Doveva essere all’incirca così, Antonio.

La liquidazione finale della Clínica de Muñecos Reyes durò quattro settimane. La vendita del locale fu rapida e redditizia. Un’impresa edile stava comprando l’intero isolato per costruirvi condomini di appartamenti eleganti, come gli altri già eretti in tutto il Chapi nero. Mentre aspettava che gli arrivasse un lavoro da qualche cliente di Martica, Juvenal decise di mettersi alla guida del taxi di un parente. Estefanía tenne per sé gli oggetti che voleva conservare – al cune bambole, un paio di quadri con bambole europee sedute sulle panchine di parchi primaverili che la madre aveva appeso nella sala operatoria, la collezione di cappelli per bambole in mostra sul bancone, la targa del negozio e i registri della contabilità, nonché il Don Chisciotte. I mobili e gli articoli in eccedenza vennero donati a una fondazione scolastica per ciechi che distava un paio di isolati. Il resto se lo portarono via un rottamista e i riciclatori. Quando Estefanía chiuse l’ospedale per l’ultima volta, il giorno dopo averlo consegnato agli acquirenti, pensò che, qualora fosse tornata da New York e passata di lì, non avrebbe riconosciuto quell’angolo di strada sporco e in rovina della sua infanzia e ne avrebbe avvertito il vuoto.

Sull’aereo per gli Stati Uniti, mentre sfogliava le pagine bianche di un’agenda che Martica le aveva regalato perché vi annotasse i contatti e le amicizie della sua nuova vita, Estefanía tornò a farsi domande sul silenzio di Antonio. Non aveva ricevuto risposta al la e-mail che gli aveva mandato con i dettagli del viaggio, in cui gli scriveva che in un paio di settimane sarebbero potuti andare assieme a bere il tè giapponese, promettendogli inoltre di portargli un mango dolce perché per la prima volta provasse cosa significava aspirare la polpa succosa del frutto da una fessura nella buccia. Non aveva ricevuto risposta nemmeno alla seconda, nella qua le aveva copiato la precedente e gli chiedeva se l’avesse letta. E neppure all’ultima, scritta pochi giorni prima di arrivare nell’appartamento del Queens dove viveva la cugina Shirley. Forse Antonio si era scandalizzato per l’immagine della bocca che succhiava il mango dolce? Chissà, probabilmente lo aveva turbato nella sua rigida vita da celibe. Si era ricreduto sulle bambole borghesi, che Estefanía intuiva poco degne di un altare? O forse aveva avuto un incidente. Nella sua ultima e-mail Antonio aveva accennato a un dolore al petto, a una grande spossatezza e alla difficoltà nel respirare. Per questo gli stava portando un mango. Martica diceva sempre che non c’è niente di meglio del mango dolce per mantenere in forma il cuore.
Pian piano il frutto marcì nel frigo dell’appartamento di Shirley.
Qualche giorno dopo averlo gettato nell’immondizia, Estefanía si recò all’indirizzo che Antonio le aveva fornito in una delle prime e-mail. Prese la metro per Manhattan indicatale da Shirley e scese all’incrocio tra 23rd Street e Park Avenue. Percorse tutta la 23rd, e alla 2nd Avenue girò verso la 25th Street. Sorpassò una lavanderia, un pub irlandese, scale di palazzi, un negozio che declamava Christian Science Library, ma in tutto l’isolato non vide neppure una chiesa. Il civico 228 corrispondeva a un palazzo rosato con diversi piani di appartamenti. Estefanía continuò a camminare alla ricerca della chiesa più vicina, ma l’unica che scorse a un paio di caseggiati recava l’insegna For Sale. Ready for immediate occupancy.
Trascorse i successivi tre weekend a recarsi nelle chiese di Manhattan. Entrava quando le messe stavano per finire, esaminava l’altare e chiedeva a ogni prete se conoscesse Antonio Pesoa. Le prime chiese si trovavano vicino all’indirizzo che lui le aveva dato. Tuttavia, nelle sue indagini si allontanò sempre più dal quartiere e capì che avrebbe trascorso il resto dell’inverno a cercarlo chiesa dopo chiesa. E a cercare le bambole. La notte di Halloween, in occasione di una festa a cui andò con la cugina Shirley, si mascherò da cane randagio. Dei ragazzi del posto le chiesero di spiegare il suo travestimento, e lei indicò il cartellino che le pendeva al collo e che diceva: Hello. I am a street dog (woman), scritto nel suo nuovo e splendente inglese.

L’investigazione ecclesiastica venne improvvisamente interrotta a gennaio quando, durante una delle telefonate quotidiane, Martica le disse che era giunto un pacchetto da New York. Dentro c’erano una scatola avvolta nella carta da regalo, con disegni di mostri e caratteri in giapponese, e una lettera che le lesse per telefono.

Cara Estefanía,
le scrivo per avvisarla che Antonio Pesoa è venuto a mancare alla fine di settembre. Poiché sono l’amica incaricata di distribuire gli oggetti da lui lasciati, la informo che nel suo appartamento ho trovato questa scatola, pronta per essere spedita, e a lei diretta (all’indirizzo a cui la sto mandando, spero sia ancora il suo). Mi aveva parlato di lei il giorno in cui mi aveva mostrato le bambole antiche appena acquistate. (Ed ero stata io a dargli il contatto dell’ospedale di bambole perché da piccola ho vissuto da quelle parti per molti anni. Mia madre ci aveva portato tante mie bambole. È un peccato che non sia mai entrata, anche se avrei sempre voluto farlo). Antonio passava ore e ore con le bambole, rinchiuso nel suo appartamento. Negli ultimi mesi di vita è uscito di rado. Non ci voleva vedere perché si sentiva molto a disagio per la sua malattia, e perciò loro erano diventate la sua unica compagnia. Lavorava a una serie di foto di svariate persone sedute tra i pezzi sfusi e le bambole che gli aveva spedito. Tempo fa mi aveva detto che stava scrivendo un romanzo epistolare su un fuggitivo che si nascondeva in uno dei seminari del West Side e cercava articoli per i manichini della chiesa vicina. Nel romanzo compariva una ragazza che glieli mandava da lontano. Tra le sue cose non ho trovato il manoscritto ma, se comparirà, glielo farò avere. Mi preme farle avere questo, che le ha lasciato prima che il suo cuore si ribellasse.
Un abbraccio dall’amica di un amico,

Claudia Galindo


“Apri, zia, apri la scatola.”
“È un libro, piccola mia. Un libro antico in un’altra lingua che non so nemmeno che è.”
L’antico messale rilegato in pelle si poteva aprire solo in un punto, nel centro, perché le restanti pagine erano incollate. E lì, in un foro scavato tra le pagine, riposava tra i fiori secchi, al riparo di un vetro, la testa di una vecchia bambola. Una testa bruna, riposta in un libro delicato, cinta da caratteri sconosciuti e incomprensibili. Non appena il libro veniva aperto per metterla a nudo, i suoi occhi roteanti si muovevano nervosi da un lato all’altro.
Nella foto del regalo che le aveva poi inoltrato la zia, Estefanía riconobbe la testa di Lucy, la bambola araba portata all’ospedale dalla signora, la stessa bambola che aveva solcato la Senna e poi il Magdalena tra le braccia di una bambina elegante, fino alla rozza Bogotá degli anni trenta. La stessa che si era rifiutata di corrompersi nel transito per i caldi torridi di Honda, la stessa che era montata a dorso di mula sulle montagne e che per settant’anni aveva tollerato le attenzioni borghesi di due proprietarie. Fino a quando Estefanía e Antonio erano giunti a stravolgere i suoi giorni di pace e naftalina.
Che fine avevano fatto le altre bambole, i monconi di braccia, gli occhi sfusi che non avrebbero presieduto nessun altare? Dal giorno in cui aveva sepolto la madre, Estefanía aveva capito che i vivi non riescono mai a occuparsi degli oggetti che lasciano i loro morti. Stavano forse sugli scaffali degli amici di Antonio? Dietro le vetrine di un negozio di antiquariato? Finì per immaginarle addirittura in una discarica nei dintorni di New York, con le braccine tese che emergevano da una montagna di plastica, vecchie scarpe, buste di rifiuti, bucce di frutta, faldoni da ufficio e obsoleti schermi di computer. Estefanía pensò alle loro pupille che osservavano sprechi di silicone per impianti, siringhe, confezioni di yogurt, tupperware per la colazione. Gli occhi di vetro antico convertiti nel contenuto inerte della discarica in un Paese produttore di grandi rifiuti. Testimoni della di sintegrazione di tante ossa di ali di pollo che si rammollivano prima di loro. Degli occhi senza pubblico per riflettere la decomposizione.
La rasserenò pensare che la testolina della bambola bruna rimaneva al sicuro nella rilegatura in pelle verde di un antico libro venuto fino a lei a Bogotá.
“Zia, portamelo ora che vieni.”

Le sette Claudia Galindo che Estefanía aveva trovato su Internet – una giocatrice bogotese di beach volley, una cake designer messicana, un’avvocatessa del Canada, una professoressa di sociologia in Bolivia, un’attrice che viveva a Miami e altre di cui non era riuscita a capire la professione – non risposero mai alle sue e-mail.
A eccezione di due weekend in febbraio, durante i quali le tempeste di neve avevano paralizzato la città, Estefanía passò tutti gli altri sabati e domeniche invernali e primaverili a controllare i negozi di antiquariato che a Manhattan vendevano bambole. Quando le scadde il visto da studentessa, agli inizi dell’estate, dovette tornare a Bogotá, e ormai le mancavano soltanto nove negozi della lunga lista che aveva redatto. Dal suo altare pagano, Lucy rimase a sorvegliare i giorni nell’appartamento di Shirley. Estefanía promise a entrambe che non sarebbe stata via a lungo e ripose nel libro la lista di antiquari a cui non aveva ancora fatto visita. Per continuare a cercare le altre, non appena fosse tornata.

Guardare il sole, di Antonio Vangone

Declic edizioni, porta in libreria Bosco, di Antonio Vangone. Una raccolta in cui si racconta il margine della vita umana, il confine oltre il quale l’urbano sfuma nelle forme più inattese. Ma il bosco è anche vivere comune, orizzonte in cui singolo e plurimo si mescolano fino all’indistinguibile.
qui si aggirano ragazzi dorati, suore mattonaie e duellanti con le spade di gomma, pesci coi piedi, piccioni e draghi, robot poetanti e mezzi spiriti: fantasmi venuti dal bosco per narrare la crudele fragilità del reale.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


GUARDARE IL SOLE
di Antonio Vangone

In un mondo vecchio come il nostro, la notizia che nella fontana ci fossero dei pesci coi piedi fece presto il giro. La fontana è lì da sempre, bassa e obliqua, vuota o piena a seconda di chi dovrebbe ricordarsene, grigia, stesa all’angolo di una piazza altrettanto grigia popolata da cani senza guinzaglio e lettori di quotidiani, eclissata dalla brutta statua del limite ignoto e dalla strana sfera che dovrebbe rappresentare la Pace, circondata di manifesti gualciti, necrologi avvisi pubblici nuove aperture.
Non si capì chi mise i pesci nella fontana e perché avessero i piedi, da dove vennero e se arrivarono con i loro stessi piedi. Nessuno si domandò perché i pesci avessero scelto di restare nella fontana e questo credo fu un grosso errore. Li sottovalutammo, credo, perché parlavamo e non ci ascoltavano, li guardavamo ma loro non ci guardavano: preferivano guardare il sole. Quando il sole non c’era serravano gli occhi e nulla poteva scuoterli: non bastava immergere le dita in acqua e nemmeno lanciare loro monetine, piselli surgelati o pezzi di pane; tantomeno picchiarli, prendendoli a bastonate in testa o sui piedi, e neppure ucciderli con lance improvvisate o fucili subacquei. L’unico modo per ottenere la loro attenzione, si scoprì durante la sagra del caciocavallo podolico, era mostrando loro il fuoco. Le prime notti usavamo grandi falò, poi ripiegammo su semplici fiaccole. Dopo settimane di fiaccolate ci accorgemmo che, se la luna era piccola e si spegnevano i lampioni, i pesci si accontentavano persino della brace di una sigaretta – condannando diversi ragazzini al vizio del fumo, attirati dal brivido di sentirsi i loro occhi addosso.
La teoria di Don Michele, che l’inferno si fosse fatto improvvisamente più piccolo e i dannati stessero tornando così sulla terra – tiepidamente, muti e stupidi come bestie, umiliati dalla grazia del Padre e ansiosi di non perderla – trovava fondamento proprio in questa riverenza per le fiamme, che il parroco volle imputare all’impressione dei supplizi patiti nel Tartaro. Più apprezzata perché meno moralista era la teoria di Gaetano il ferramenta, che voleva i pesci coi piedi essere un’allucinazione collettiva d’ispirazione folcloristica: era certissimo di aver sentito un racconto su di loro, da bambino.
I più ritenevano comunque che si trattasse di mutanti nati negli scoli della discarica: l’allarmismo fu tale che venne un professore famoso a raccogliere un paio di esemplari, ma non se ne seppe più nulla. Si seppe tutto invece di quelli che pensarono di pescarne quattro o cinque e mangiarseli all’acqua pazza: tre settimane al San Leonardo.
Visto il rischio per la pubblica salute, in inverno si decise di soffocare la fontana con una colata di cemento: i corpi pietrificati dei pesci vennero distribuiti in omaggio con settecento euro di spesa da Lella la mobiliera, fino a esaurimento scorte. Esaurite le scorte, i comignoli iniziarono a diventare corvi.

Meteore, di Camila Fabbri

Polidoro porta in libreria Sani e salvi, di Camila Fabbri, tradotto da Carlo Alberto Montalto.
Un marcato disincanto erode l’animo dei protagonisti di Sani e salvi: solitari e instabili, sopraffatti da una profonda depressione, così ci vengono presentati, o così li percepiamo, e così si muovono, senza convinzione né entusiasmo, come testimoni silenziosi di una tragedia sociale o familiare che li precede e che inesorabilmente precipita loro addosso.

Una prosa che sembra venuta dallo spazio. Leila Guerriero

Cattedrale vi propone l’estratto del racconto Meteore contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

METEORE
di Camila Fabbri

Viaggiarono per una ventina di minuti su un’autostrada quasi deserta di una notte di piena estate. C’era odore di vomito. Luis guardava Elisa dallo specchietto e sorrideva. L’odore non sembrava infastidirlo. Elisa cercava di fare respiri profondi ed era così strano: il paesaggio la calmava, eppure non riusciva a ignorare di essere stata portata via, senza poterlo impedire, da un pelato con quattro capelli lunghi che puzzava di sigarette e che di certo le avrebbe fatto qualcosa di brutto. Ma cosa?
Il suo telefono si era spento due caselli prima e il sole iniziava a splendere all’orizzonte. «Eccolo là, il signor Febo» esclamò Luis. Elisa non avrebbe risposto più niente. Avrebbe lasciato parlare lui. Aveva le braccia interamente graffiate e il cuore le batteva come a un atleta fuori forma che corre a una maratona. «Hai ripreso colore» le disse Luis sorridendo con una sigaretta all’angolo della bocca. «Mi fa molto piacere».
Elisa chiuse gli occhi, non avrebbe saputo dire per quanto tempo. Quando li riaprì, era pieno giorno e ai lati della strada c’era campagna, campagna e ancora campagna. Vide in lontananza alcune mucche e dei cartelli che pubblicizzavano mate per dimagrire o assicurazioni auto dagli sconti notevoli. Sul sedile, accanto a lei, c’era una bottiglia di acqua fresca. Elisa bevve un lungo sorso domandandosi se Luis si fosse fermato per comprare qualcosa o per fare chissà cos’altro. Continuava a guidare con lo stesso slancio di sempre, come se cercasse la destinazione della sua passeggera. Sembrava proprio che stesse svolgendo il suo lavoro.
Quando il sole iniziò a picchiare forte, l’auto svoltò su un sentiero sterrato. «Non siamo lontani dalla capitale» disse Luis. «Non avere paura».
La strada adesso era parecchio stretta, ai lati c’era erba secca e alta, case con persiane chiuse e bambini seduti su delle panche, svegli da poco, che bevevano acqua da bottiglie di plastica o latte da tazze con disegni di supereroi. Elisa vide cani magri e gatti grassi. Sentì anche dei grilli o qualche altro insetto incollato al vetro del taxi. Non vide adulti nella zona.
Luis frenò davanti a una di quelle case. Elisa aveva ancora la nausea. Le parve di essere rimasta seduta o immobile per ore e che in quell’auto tutto fosse un’altalena infinita. Faceva un gran caldo, lo stesso che Elisa aveva cercato di evitare la sera prima decidendo di cenare in un ristorante con l’aria condizionata e obbligando la sorella a sceglierne uno che ce l’avesse. Luis scese dall’auto. Era difficile capire la statura di un tassista, ora Elisa ne aveva modo. L’uomo fece mezzo giro intorno al veicolo e aprì lo sportello alla sua passeggera. La invitò a scendere. Lei era ancora stordita. Il cuore adesso le batteva lentamente, la pressione sanguigna era scesa di parecchio. Aveva bisogno di zuccheri. «Hai perso colore di nuovo» le disse Luis. Elisa ripensò a un viaggio in macchina fatto qualche anno prima, ci pensava spesso, soprattutto quando aveva la febbre. Era seduta sul sedile posteriore e sua madre guidava fumando una sigaretta dopo l’altra. Ascoltavano la radio, un brano conosciuto, di quelli che diventano un tormentone, e di colpo, lo scontro avvenne davanti ai loro occhi: un’auto incastrata in un’altra, come se si fossero attratte, come se fossero fatte per stare insieme. Fuoriusciva una gran quantità di fumo e una ruota espulsa da uno dei veicoli girava da sola, perché è questo che fanno le ruote, girano, devono girare. Elisa e sua madre non hanno mai saputo chi ci fosse lì dentro. Accelerarono e proseguirono sulla stessa strada per altri dieci chilometri. Non si dissero niente. Lasciarono che fossero quelle immagini a parlare.
Luis aiutò Elisa a camminare. Entrarono in una casa piccola ma graziosa, con aria fresca nelle stanze e acqua gassata in frigorifero. Luis aiutò Elisa a sedersi su una sedia di legno, poi andò a prendere un bicchiere di vetro. Elisa si riempì gli occhi: il tavolo della cucina era invaso da riviste sportive, su una sedia formavano addirittura una montagna, simile a una presenza fatta di carta. Un orologio da parete era fermo alle cinque del pomeriggio o del mattino. Dalla finestra sopra il forno entrava una luce color seppia, come nelle case dei nonni o nei salotti delle prozie con problemi cardiaci. Era una casa silenziosissima, disturbata talvolta dal ronzio di un tagliaerba o di una mosca esageratamente verde. Mentre Elisa beveva l’acqua offerta da Luis, i dotti lacrimali le si riempirono di liquido. La porta di casa era rimasta aperta. «Serve una presa?» domandò Luis indicandogliene una ed Elisa vi mise in carica il suo cellulare. Sentì dalla cucina rumori di oggetti spostati da una parte all’altra, era Luis che preparava una robusta colazione. Elisa lo osservò mentre si dava da fare, prestando attenzione al tatuaggio che aveva sul braccio, ora ben visibile: il simbolo dell’infinito. Come un viaggio che non finisce mai, pensò.
Ci fu un istante di silenzio in cui si udì soltanto lo sportello del frigo aprirsi e chiudersi, il tonfo di qualche pentola, le forbici che aprivano il cartone del latte, una caffettiera, il clic di un tostapane. Più in là, attaccato con del nastro adesivo, il viso di un calciatore famoso, con lo sguardo rivolto verso Elisa, decorava la parete sopra il letto. In casa c’è qualcun altro, pensò lei.
«Mi fai fare una telefonata?». Luis rispose di sì e le prestò il suo telefono. Elisa compose il numero della madre. Seguirono tre squilli e poi, dall’altra parte della linea, provenne una voce rauca e insieme acuta che sembrava di questo mondo, ma anche di un altro: Chi è? Elisa sentiva il suo respiro. Guardò Luis che serviva tre fette di pane tostato in un piatto fondo e delle uova strapazzate in una ciotola di vetro. Elisa, sei tu? Elisa riattaccò. Non sapeva cosa dire né cosa fare. Adesso il futuro era un po’ più sfocato.

Le stelle nere, di Giulia Oglialoro

Industria&Letteratura porta in libreria un nuovo Invisibile, la sofisticata collana di narrativa breve curata da Martino Baldi, con il testo di Giulia Oglialoro Le stelle nere, vincitore del Premio Ceppo Under 35, opera prima. Il libro è pubblicato col sostegno del Premio e della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Un esordio di rara potenza narrativa e immaginifica che sin da subito rivela le stimmate di una scrittrice dalla voce inconfondibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del libro, per gentile concessione dell’editore.



Le stelle nere
di Giulia Oglialoro


Le braccia tese in alto, verso il soffitto di legni intrecciati, attraverso cui risplendono le stelle. La testa di poco reclinata indietro, il collo nudo avvolto dal vento che spira alle sue spalle. La schiena dritta di pietra levigata, le gambe inscalfibili, una davanti all’altra, restano i piedi a contenere lo slancio, a chiudere come sigilli un corpo che può diventare qualsiasi cosa. Il piede destro, davanti, rivolto a est, quello sinistro rivolto a ovest, due aperture, due direzioni possibili per un tronco teso che sembra non aver mai conosciuto separazione. Gli spettatori stanno per arrivare, non può vederli ma i loro bisbigli riempiono il buio – dove siederanno? Forse proprio qui, accanto a lei, lungo il palco che si estende ovunque, senza direzione. Agnes. Ecco un primo accordo, lascia un’eco di cristallo. Il braccio destro inizia a scendere, lentamente. Come se non fosse davvero la gravità a richiamarlo, ma fluttuasse nel vento, in questo vento che spira alle sue spalle. Agnes. Il velluto che la ricopre per intero prende a scintillare; la sua pelle è lunare, il vento è sempre più freddo. Il braccio discende ancora, inizia a disfarsi. Inizia dalla punta delle dita, e poi via via i palmi, i polsi, e non c’è altro che questa carne lucente che scompare, si disperde in polvere.
«Agnes».
Apre gli occhi. Nell’oscurità riconosce la voce di Ester.
«L’uomo è qui».
Si rialza dal giaciglio in cui si è accasciata, scavato fra due rocce. Le gambe stanchissime, ancora contratte dalla fatica. Ester la prende per mano; impugnando le torce si fanno spazio tra i cumuli di pietre, nel vento che spira in ogni direzione. Ogni cosa a quest’altezza sembra essersi ritirata, il mondo potrebbe non aver mai avuto inizio. Nessuna luce in lontananza ad annunciare una città oltre la valle, soltanto il cielo buio richiuso come una palpebra sul mondo, e rocce altissime, ovunque guardi, orlate a tratti da scintille di neve. Un odore umido e minerale le riempie i polmoni, come se risalire la montagna fosse stato anche precipitare dentro la terra.
«Wo ist er?»
L’uomo si rivolge a Ester con un accento affilato che Agnes non ha mai sentito prima. «Lei parla solo polacco». Agnes ha una mano sulla spalla della ragazza ora. «Non può capirti».
Avverte il calore della lanterna avvicinarsi al viso. Nella luce fioca e instabile intuisce la pelle bianca dell’uomo, gli occhi privi di ogni colore.
«Dov’è il soldato che guidava il furgone?»
«Ci ha lasciate alla fine del bosco». Parlano così vicini che ad Agnes sembra di poter percepire il tabacco nel suo fiato.
«Ha detto che da quel punto in poi avremmo dovuto proseguire sole. E poi di aspettarti in cima».
L’uomo affila lo sguardo. «Avete incontrato le guardie di frontiera?»
Del viaggio Agnes ricorda solo dettagli scombinati – l’impressione del suo corpo stretto insieme a quello di Ester, lo stridore ghiacciato dei rami contro i finestrini, la luce corpuscolare che trapassava dal telo steso sopra le loro teste. Quando il convoglio aveva smesso di sobbalzare, lo spazio si era riempito di voci straniere: allora si era resa conto del silenzio che possono produrre due corpi assieme quando smettono di respirare. Per un attimo, aveva ripensato alle scene a cui aveva assistito molte volte, in una vita e in una terra lontanissime: il volto dell’animale premuto sul tavolo, la tenue peluria bianca che scintillava sotto il sole, mentre le mani grandi di sua madre assestavano l’ultimo colpo. Si era chiesta se era questo che percepivano gli agnelli della fattoria negli ultimi istanti di vita – il mondo ridotto a presenze striscianti, ombre liquide alla periferia degli occhi.
«Il furgone si è fermato una sola volta prima di lasciarci. Si sono avvicinati degli uomini, ma non ho sentito cosa dicessero».
L’uomo sibila imprecazioni che Agnes non coglie per intero; parole rovinate e appuntite come schegge. Adesso non lo guarda più: tiene gli occhi fissi sui bottoni della sua giacca, tutti diversi e graffiati, minuscoli astri in ottone che scintillano con la luce della lanterna.
«Gli accordi erano che avrei ricevuto l’altra metà del pagamento in cima, e poi vi avrei accompagnate». L’uomo scuote la testa; alcuni fiocchi di neve volteggiano nel vento. «Aprite gli zaini».
Agnes lascia cadere per prima la sacca che si porta sulle spalle: del rovistare dell’uomo non coglie altro che piccoli clangori, lo sfiorarsi dei vetri delle conserve preparate nelle settimane precedenti; avanzi sottratti agli sguardi ubriachi delle guardie del campo, quando si offriva di ripulire e sparecchiare le lunghe tavolate. Lodavano la sua energica disponibilità in una lingua che Agnes comprendeva solo a tratti. «Thank you, sir», rispondeva senza sorridere, raccogliendo le pile di piatti tra le braccia; talvolta si defilava con un passo di lato, sfuggendo alle mani che si aggrappavano ai suoi fianchi, e alle dichiarazioni biascicate che promettevano di portarla via dall’Austria. Nei giorni precedenti alla partenza, tutta la rabbia covata nei mesi si era trasformata in diligente organizzazione: provava persino un certo gusto nel disossare i polli avanzati dai soldati, pelare i pomodori lasciati intoccati dopo un solo morso, cuocere le bucce di patate che avrebbero buttato. Ora le scorte preparate con attenzione lasciano solo smorfie di disgusto nel volto dell’uomo: affonda gli scarponi nella neve, fruga nelle loro sacche, scuotendo la testa, i vetri appaiono e scompaiono nella luce sfarfallante. E poi Agnes avverte le mani di lui scivolare lungo i sottili pantaloni di tela, inumiditi dalla neve; nervose come animali, affondano nelle tasche per estrarne solo polvere e fazzoletti consunti. E quando schiudono i bottoni della giacca, Agnes smette di respirare.
«Non troverai nulla». La voce di Ester risuona ferma e gelida come il vento. «Quello che avevamo, l’abbiamo venduto per pagare il viaggio».
Guarda l’uomo per un tempo che ad Agnes sembra infinito, come se fosse certa che lui, questa volta, potesse capirla. La neve non smette di cadere.
«Spegnete le luci. D’ora in poi proseguiremo al buio».

Ciclopi, di Manuela Piemonte

Nutrimenti porta in libreria Le ciclopi, di Manuela Piemonte. Una raccolta di racconti sul mondo di oggi, sulle donne che lo abitano e che devono barcamenarsi tra lavori precari, sconfitte emotive, cambiamenti imprevedibili e molte incertezze.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

CICLOPI
di Manuela Piemonte


Era il primo inverno del lavoro in discoteca, le notti del venerdì e del sabato in piedi fino alle sette del mattino. Lei trascorreva ore nel guardaroba a tenere d’occhio giacche e borse, tre giri di sciarpa al collo, in esilio al piano di sopra in un edificio occupato, dal basso l’eco della musica e delle risate, delle chiacchiere e delle grida.
In attesa dei clienti vagava tra gli uffici trasformati in cucine con sei fuochi e pentole da rancio, tra i muri scrostati con una tappezzeria di volantini contro la guerra. Gli slogan alle pareti la rassicuravano rispetto all’imprevisto che l’aveva portata lì: il bisogno di soldi non era una condizione perenne ma una fase. Una fase e nient’altro, improvvisa come la telefonata con cui le avevano detto che non avrebbero potuto mandarle la quota, insolita quanto la domanda di borsa di studio respinta per un cavillo.
Era bastato chiedere alla barista a cui di solito ordinava il gin tonic, presentarsi il giorno di prova, superare la notte, intascare la banconota e tracciare i confini: da un lato la voglia di costruire il futuro, dall’altro la voglia di vivere il presente. In mezzo il cancello da attraversare, un cancello di notti a occhi aperti e ritmi al contrario, negli angoli dell’esistenza che lei aveva sempre immaginato e a trovarseli davanti non avevano niente di speciale, come le persone di cui si sente parlare a lungo e si rivelano una delusione fin dalla stretta di mano.
Quando i clienti ritiravano l’ultimo cappotto c’erano i bagni da pulire, con la segatura e la candeggina. Una volta che ogni venerdì e sabato lavi via le impronte sporche di piscio di mille sconosciuti, non esistono più fatica né livello di insoddisfazione, da lì sarà soltanto una salita in alto fino alla luna.
Dopo toccava alla pista da ballo, assi di legno da cui staccare le macchie con il sapone, l’acqua e la cera, come se la gente in un locale con la musica al massimo volume e le luci soffuse si mettesse davvero a esaminare il grado di brillantezza dei pavimenti.
Il martedì usciva all’ora in cui nel fine settimana era andata a dormire e con tre spiccioli in tasca e i piedi dritti fino al mercato si ripeteva “una frutta e una verdura, una frutta e una verdura” e comprava solo roba in offerta, sul punto di marcire, talvolta quasi regalata, finché aveva scoperto che prima dell’apertura un trasportatore consegnava le cassette dell’orto all’alimentari sotto casa, dove non c’erano telecamere. Lei e le sue compagne d’appartamento prendevano un paio di mele, tre zucchine, una busta d’insalata. L’accortezza di non scegliere primizie e nel portare via quattro vegetali tra i più comuni sentirsi ladre, sì, ma solo al cinquanta per cento. Non avrebbe mai rubato alla luce del giorno, tra le corsie di un supermercato. In questo, almeno, la notte non riusciva a cambiarla. Perché lei contava le monete e dava il resto preciso al centesimo, in discoteca, e parlava con i clienti e augurava buona serata, buon divertimento, a più tardi, anche quando avrebbe voluto scendere in pista e urlare. Invece raccoglieva cappotti, giacconi, caschi per la moto, e dopo la nottata si svegliava quando l’orologio segnava le cinque, con nove o dieci ore di sonno alle spalle e i muscoli tesi dentro le braccia per lo sforzo di passare il sapone, l’acqua e il lucidante.
Un pomeriggio di domenica, dopo due mesi di lavoro-sonno-fame, lei aprì gli occhi e nell’oscurità della stanza capì di aver appena messo a fuoco, fin troppo a fuoco, la serranda socchiusa da cui filtrava la luce. Se riusciva a vederla bene significava che era andata a dormire senza togliere le lenti a contatto. Corse in bagno e le staccò a fatica, le immerse nel piccolo contenitore, inforcò gli occhiali, preparò un caffè e restò a chiacchierare con una coinquilina, e intanto a mano a mano che l’orologio girava, giravano le lacrime, inarrestabili, contro la sua volontà, una fontana dall’occhio sinistro. Lei però non poteva curarsene. Aveva un esame da preparare, una stanza da riordinare, anche se in testa la inseguivano le voci dei clienti che per due notti di fila l’avevano tempestata di richieste di sconti, i flash della luce stroboscopica mentre setacciava tavoli a caccia di bicchieri vuoti, i polpastrelli come mollica di pane mentre sciacquava e risciacquava… tutto doveva scivolare via, lontano da lei, fino a diventare uno spettro senza case da infestare. Ormai era domenica pomeriggio, il corpo voleva ficcare la vita sotto il tappeto, ma l’occhio lacrimava e domandava come ci fosse finita in quell’esistenza, lei che a tredici anni sognava di andarsene di casa e avere una stanza tutta per sé, ma non aveva saputo vedere fino al presente, scovare i rischi e i tranelli, e in fondo aveva sempre osservato la vita con un occhio solo.
Alle nove di sera la coinquilina la costrinse a vestirsi, scendere in strada, attraversare i vicoli e salire scalinate fino al pronto soccorso.
Come mai siete venute qui e non all’oftalmico?, domandò l’infermiera all’accettazione, poi lei si ritrovò seduta davanti a un medico: Signorina, ha un graffio alla cornea, un danno serio, da tenere controllato, dovrà stare per settimane con una benda, le prescrivo una crema che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, se avrà molta fortuna, riparare la lesione.
Da quel giorno lei indossava gli occhiali ovunque andasse, dopo aver tanto lottato per non portarli, e invece eccola con una montatura d’alta moda, pagata grazie ai turni in un call center di un’estate fa. Anche in quel caso credere al lavoro come una transizione, una sbornia di poche settimane per un computer e altri risparmi da investire in vacanze ‘mordi e fuggì. Invece adesso non c’erano vacanze all’orizzonte di un occhio bendato, né dell’altro coperto da un miscuglio di azzurro e blu, a ricreare il colore del mare incontaminato. Con l’ombretto e il bendaggio era costretta a uscire in un mondo appiattito alla vista, entrare in università e a lezione, tre volte al giorno applicare il disinfettante, stendere la pomata, riporre la garza e il lungo cerotto per tenerla salda, e ripensare, a ogni gesto, al costo incredibile di quei farmaci, per lei che allo Stato risultava a carico dei genitori da cui era scappata, ai quali non poteva chiedere né raccontare nulla, e così andava con un occhio solo, di nuovo nel fine settimana, nel guardaroba gelido, a ritirare cappotti e borse, di fronte a ragazze con il trucco da diva, e lei con la vista al cinquanta per cento, il corpo freddo al cinquanta per cento, la pancia vuota al cinquanta per cento.
L’unico lusso che poteva permettersi era lasciar scorrere. Le settimane e le notti in discoteca. Le lezioni e gli esami col massimo dei voti. Accantonare le speranze, i baci rubati e respirati, mentre l’occhio si curava e l’inverno si spegneva, e lei e le sue coinquiline portavano a casa una frutta e una verdura, un cesto di fragole, una marea di risate.
Un sabato notte al ritorno dalla discoteca girarono tre quarti d’ora in cerca di un posto per la sua auto degli anni Sessanta con il fondo marcio di pioggia, in cui il cric affondava come coltello nel burro se si tentava di cambiare una ruota.
Erano le sette del mattino, si fermarono in seconda fila e lei spense il motore, disse alle altre di andare, sarebbe rimasta in attesa di una possibilità, ma loro non volevano. Chiusero gli occhi a una a una. Un clacson le svegliò mezz’ora dopo, si poteva parcheggiare, tornare, riposare.
Erano trascorsi due mesi dalla domenica delle lacrime, una settimana dalla visita medica.
Lei ci vede bene, benissimo, aveva detto il dottore, a parte questo lieve difetto di miopia, la cornea è guarita.
Le aveva raccomandato di prenotare subito la visita di controllo e le aveva dato in omaggio un collirio di ultima generazione. Se l’era versato ogni mezz’ora per tutta la notte in discoteca, al guardaroba, mentre raccoglieva bicchieri, li sciacquava, li asciugava, li ordinava sulle mensole di legno, sorrideva ai clienti, salutava, e adesso il mattino entrava fresco dalla finestra socchiusa, la città invadeva la stanza confondendo i confini – di qua la voglia di futuro, di là la voglia di presente, di qua una fase passeggera, di là una condizione perenne –, e lei si struccava, apriva una confezione di lenti a contatto ancora sigillata, si infilava le scarpe da ginnastica, usciva a passo svelto per raggiungere l’edicola e cercava il giornale degli annunci di lavoro.

Al buio brillante, di Liliana Colanzi

Gran vía Edizioni porta in libreria Al buio brillante, di Liliana Colanzi, tradotta da Olga Alessandra Barbato.
 I racconti di Liliana Colanzi, premiati da uno dei più importanti riconoscimenti internazionali dedicati alla forma breve, risplendono da quel centro andino che è la Bolivia, meticciato di culture e tradizioni, per trasportarci in un tempo che si dilata e si contrae, unendo fantascienza, distopia e realismo, per porre infine il lettore di fronte al dolore e all’inquietudine della vita, esplorati tuttavia come spazio di resistenza, come luce che si irradia nell’oscurità.

Cattedrale vi propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Al buio brillate
di Liliana Colanzi

Traduzione di Olga Alessandra Barbato

Ci misero tutti quanti nello Stadio olimpico. Il quartiere si svuotò, le porte delle case aperte, il cibo pronto e ancora caldo sulla tavola, i cani a ululare per i loro padroni nei cortili. Ci tennero lì per diverse ore senza dirci nulla. Avevo molta paura di stare in mezzo a così tanta gente, Dio mi perdoni, ma anche i bambini mi spaventavano, li volevo lontani da me, lontano da me quelle manine sporche, innocenti e forse mortali. Nessuno sapeva dove, in quale parte del corpo o dei vestiti si fosse depositato il veleno. Siamo stati divisi in file ed è iniziato il controllo.
Ispezionavano soprattutto i piedi: se il rivelatore emetteva un suono, ti mandavano a lavarti più e più volte con sapone di cocco e aceto, finché la pelle non diventava rossa come l’achiote per lo sfregamento. Su di me non trovarono niente, e nemmeno su mia madre, mia sorella Ana Lúcia, lo zio Silas, e neanche su mia cugina Gislene, che entrava e usciva sempre dai bar e si strusciava con gli uomini, ma su mio padre sì. Il mio povero padre, così stupido, era andato a bere nello stesso bar dove c’erano i cercatori di rottami, di nascosto da mia madre e da tutti noi, con la scusa di andare a comprare il jogo do bicho. Qualche volta mia madre gli aveva detto che quella bettola sarebbe stata la sua rovina. E per colpa della mezz’ora in cui era stato in quel bar e per essersi seduto a chiacchierare con quegli sfasciacarrozze e per essere stato contaminato da quella cosa, quella cosa più piccola di un granello di sabbia e fatta di fuoco, ci evacuarono tutti e demolirono la nostra casa: non ci lasciarono portare con noi nemmeno una foto, un ricordo, un capo d’abbigliamento. Mio padre era appena andato in pensione dal suo lavoro di maschera al Teatro Goiânia per potersi godere la casa e il giardino. E da un giorno all’altro non era rimasto un solo mattone di quella casa. Niente di niente.
Una volta, il proprietario della panetteria, don Atílio, incontrò papà sull’autobus e cominciò a dire a voce altissima, in modo che tutti sentissero, che mio padre era uno dei malati, che quello era un affronto, che così metteva tutti in pericolo. I passeggeri iniziarono subito a gridare, guardando papà con facce di disgusto e terrore come se avessero visto una vipera attorcigliata, un ragno peloso, un ratto pieno di vermi, finché l’autista non si fermò e costrinse papà a scendere per aver fatto confusione su un mezzo pubblico. Il governo ci diede una casa in un’altra zona della città, dove non ci conosceva nessuno, ma mio padre non riuscì mai a riprendersi dalla pena che gli provocò l’incidente sull’autobus. Morì nel giro di due mesi, apparentemente per un’insufficienza renale causata dall’alcol, ma io credo che fu il granello di fuoco. Diversi conoscenti cominciarono a morire di malattie rare e fulminanti.
A quel tempo lavoravo come receptionist al Castro’s Park Hotel, quello con quindici piani e due piscine piastrellate. Mi piaceva quel lavoro. Al momento dell’incidente, le squadre internazionali del Gran Premio, che si svolgeva per la prima volta in città, alloggiavano nell’hotel. Uno dei piloti mi disse che girava voce che a Goiânia stesse accadendo qualcosa di grave e che la gara poteva essere annullata da un momento all’altro. Era un uomo molto bello, con i capelli impomatati all’indietro e una catenina con una croce d’oro al collo. Prima di andarsene mi chiese il numero di telefono e mi regalò un pacchetto di sigarette al mentolo che mia cugina mi rubò dal comodino, perché io non fumo.
Non seppi mai se mi chiamò: giorni dopo ero senza casa e vivevo con la mia famiglia in una tenda. La verità è che, quando la voce si sparse, il panico si diffuse e l’hotel si svuotò da un giorno all’altro. Nessuno voleva venire in città qualunque fosse il motivo, il telefono squillava soltanto per cancellare le prenotazioni e l’hotel era diventato un posto triste. Un giorno il direttore mi chiamò nel suo ufficio per licenziarmi. Era la fine del 1987, avevo appena compiuto diciannove anni e mio padre era già sottoterra. Così sono partita per São Paulo con un’amica, senza conoscere nessuno.
Appena arrivate avevamo quasi trovato lavoro in una gioielleria di rua Barão de Paranapiacaba. Mancavano pochi giorni al Natale e la strada tremolava di lucine e ghirlande. Ma non appena la proprietaria scoprì che eravamo di Goiânia si inventò delle scuse e non ci volle assumere. Quando stavamo per uscire ci chiamò. Pensammo per un secondo che avesse cambiato idea. La donna aveva una curiosità, una domanda che le usciva dalla gola.
Al buio brillate?

 

*** IL POSTO DEI ROTTAMI ***

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I raccoglitori di rottami arrivarono con la carriola traboccante di ferraglia: gli dissero che proveniva dalla clinica abbandonata che operava all’incrocio tra le avenidas Paranaíba e Tocantins, ai margini del Setor Aeroporto di Goiânia. Devair si ricordava dell’ospedale perché anni prima aveva visto i medici che entravano e uscivano e la gente in fila per farsi curare il cancro. L’edificio era da tempo in rovina. Un’ala era stata demolita. La parte ancora in piedi non aveva tetto o finestre, e per questo motivo gli sfasciacarrozze non si sognavano nemmeno di trovare i mobili e l’apparecchiatura medica ancora al loro posto. Che tipo di persone poteva permettersi il lusso di abbandonare un ospedale con l’apparecchiatura dentro?, dissero.
A Devair non importava da dove provenisse la ferraglia: gli portavano pezzi di auto antiche, vecchi televisori, pentole usate, manubri di biciclette, merce rubata. La ferraglia pesava circa quattrocento chili. Gli uomini accettarono senza contrattare i millecinquecento cruceiros che offrì loro: sarebbero andati dritti al bar per curarsi il mal di testa con qualche bicchiere. Notò la strana abbronzatura degli uomini – una intensa tonalità zucca –, ma non disse niente, nel quartiere da sempre si vedevano cose ben più strane.
La luce lo sorprese quella notte mentre fumava in cortile, accanto al tetto di zinco del capannone. Sgorgava dalla ferraglia che aveva appena acquistato e si disfaceva in un velo lattiginoso, iridescente, dalle molteplici sfumature, una luminescenza blu come di stella o di fondo del mare. Si spaventò. Pensò ai morti, al diavolo, agli extraterrestri.
Scostò i pezzi e scoprì che il bagliore proveniva da un cilindro delle dimensioni di un ditale: un tesoro in mezzo ai rottami. Girandolo scoprì che la luce raggiungeva l’esterno solo quando coincideva con una minuscola finestra: ora sì, ora no, come un trucco di magia.
Si sedette nell’angolo in cui sventrava gli elettrodomestici, sotto il getto di luce della lampada, con tutti gli strumenti intorno – la chiave inglese grande e quella piccola, il martello, il set di cacciaviti, la chiave a cricchetto, il trapano, la pinza, le tenaglie, la sega con la lama arrugginita e rotta – e batté più volte sullo spioncino con la punta di un cacciavite. La finestrella emise un piccolo crac quando si ruppe. Frugò nell’occhio della capsula con la punta del cacciavite fino a estrarne dei granelli: sotto la luce diretta non erano altro che sali comuni. Potevano essere quei granelli l’origine del bagliore?
Spense la luce: proprio come sospettava, al buio i sali diventarono neve incandescente. Strofinò quella sostanza e il fulgore si estese al palmo della sua mano. Osservò, commosso e perplesso, la combustione celeste. Lì, tra il bagliore blu e le ombre della ferraglia, l’idea emerse nel suo cervello come un fungo che fa capolino dopo la pioggia: avrebbe fatto a sua moglie l’anello più bello, più brillante, più insolito. Sorrise.

* * *

Ero a Goiânia per un progetto del governo quando ho ricevuto la chiamata. Era il direttore dell’ospedale per dirmi che negli ultimi giorni erano arrivati vari pazienti affetti da una malattia sconosciuta: arrivavano con vomito, vertigini, diarrea, bruciature. Le persone davano la colpa a un tubo metallico, un pezzo di ferro del demonio portato dalla moglie dello sfasciacarrozze. E dov’è?, gli chiesi. In uno degli uffici, disse il direttore dell’ospedale. La donna?, specificai. No, il tubo di metallo, mi disse. La moglie non so dov’è. E aggiunse: Lei pensa che sia possibile…?
Il direttore sembrava a disagio, preoccupato di apparire ridicolo. Sa com’è, le persone ignoranti si inventano di tutto, disse. Si aspettava che lo tranquillizzassi, che gli dicessi: Non si preoccupi, non è niente di grave. Chiamai un’agenzia di prospezione dell’uranio con cui avevo lavorato vicino al vulcano di Amorinópolis un anno prima e chiesi in prestito un rivelatore. La segretaria si ricordava di me con simpatia; non mi chiese nemmeno la firma.
Quando sono arrivato all’ospedale ho trovato due pompieri seduti sul marciapiede, che fumavano e scherzavano accanto all’autopompa. Un’infermiera mi ha indicato l’ufficio dove era stato messo il rottame. Il corridoio che portava a quell’ufficio era affollato di pazienti: donne incinte, neonati in braccio, vecchi storpi. A circa ottanta metri dall’ufficio il rivelatore ha cominciato a comportarsi in modo molto strano: l’ago si muoveva così tanto che ho pensato fosse difettoso. Sono tornato all’ospedale con un nuovo rivelatore. Ancora una volta, a ottanta metri da quella stanza, il rivelatore ha cominciato a saturarsi. Poteva significare soltanto due cose. O che entrambi i contatori erano difettosi o che l’ospedale era una bomba radioattiva.
In quel momento uno dei pompieri è entrato nell’ufficio e ne è uscito con una borsa: mi ha sorriso come se avesse un panino con la mortadella in mano. Era la borsa di nylon in cui era conservato il rottame. Non aveva nemmeno i guanti: solo allora mi sono reso conto che il pompiere era poco più che un bambino. Gli ho chiesto cosa stesse facendo. Vado a buttarlo nel fiume, mi ha detto. La segretaria dell’ospedale aveva una radio a pile: mi guardava con occhi sognanti mentre con le unghie smaltate sintonizzava una canzone di Cazuza. Mi sono sentito gridare PER L’AMOR DI DIO! con una voce che era uno stridio, un fischio, il gracchiare di un uccello spaventato e ridicolo.
Abbiamo evacuato immediatamente il pronto soccorso.

* * *

Devair non sapeva a cosa serviva la polvere che aveva trovato dentro il cilindro e che aveva brillato tutta la notte ai piedi del letto. Gabriela, sua moglie, si lamentava che il bagliore le causava mal di testa e sogni stranissimi; lo irritò la sua mancanza di entusiasmo, ma pensò che la situazione sarebbe cambiata una volta regalatole l’anello luminoso. Aveva bisogno di estrarre più sostanza e per farlo doveva rompere la copertura protettiva della capsula.
I suoi dipendenti del deposito di rottami, Israel e Admilson, si organizzarono in turni per fare a pezzi quell’affare, prima con il martello e poi con la mazza, fino a spaccare la copertura protettiva; erano giovani e forti e non ci misero troppo tempo. (Il mese successivo entrambi i ragazzi saranno morti e verranno sepolti in bare di piombo ricoperte di cemento; Admilson trascorrerà la sua agonia gridando il nome di sua madre nell’Ospedale navale di Río de Janeiro, dove verrà trasportato in elicottero, contro la sua volontà.)
Mandò a chiamare amici, parenti e vicini, e distribuì tra tutti il miracolo dei sali fluorescenti. Il suo amico Marcio se ne mise una manciata in tasca e più tardi lo gettò nel recinto degli animali, tra lo schiamazzo di polli e maiali. Don Ernesto regalò i granelli a sua moglie, che si arrabbiò vedendolo arrivare ubriaco e gettò la polvere giù per il water senza guardarla. A Claudio venne in mente che si potesse trattare di un tipo di polvere da sparo progettata dai militari e cercò di dargli fuoco con l’accendino, ma i sali non bruciarono e non si sciolsero. Ivo, suo fratello, si portò alcune pietrine per dipingere di luce il corpo della piccola Leide das Neves, che restò incantata dalla polvere magica; la bambina si sedette a mangiare con le mani coperte di particelle brillanti.
Solo Gabriela si tenne alla larga dai festeggiamenti. Era sospettosa, impaziente, non si fidava di tutta quella allegria. Come un cane che fiuta la tempesta nell’aria, come un uccello che sente lo sparo dall’altra parte del bosco, tutto il suo corpo rispondeva all’avvertimento di pericolo.

Bestiario del sogno, di Franco Santucci

Wojtek porta in libreria Bestiario del sogno, di Franco Santucci. Una raccolta di sedici storie in cerca di illuminazione. Animismo e riflessione storica, il dominio della macchina e l’ineffabilità dei legami amorosi: con un misto di ponderazione e spregiudicatezza, Santucci usa i mezzi e i temi della letteratura fantastica per forzare una via verso l’inconscio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Serpente bianco
di
Franco Santucci

Dissi a mio figlio di non togliersi le ciabatte perché potevano esserci dei pezzi di vetro. Alle spalle ci lasciavamo il molo e una luce giallo tenue che né il bianco della banchina né i riverberi sull’acqua del canale erano riusciti a scaldare. Di fronte, una dozzina di persone ammiravano delle ossa di dinosauro: uno scheletro era eretto con la naturalezza statica di un’impalcatura da museo; l’altro, una femmina, parzialmente sommerso, eccetto che per l’enormità di costole che lottavano con la sabbia e il tempo.
Era una specie di tirannosauro, ma volli affrettarmi per evi tare che il bambino vi sostasse troppo. La nostra meta era la f ine del lido privato dove gli spazi si sarebbero allargati e gli ombrelloni divenuti meno frequenti, nello stesso luogo in cui andavo con i miei fratelli e i miei genitori, ognuno armato di zaini o sedie.
Superato quel punto trovammo due uomini e una donna intenti a guardare sulla sabbia un serpente bianco sdraiato sul dorso, la lingua protrattile in un movimento continuo e ripetitivo. La grandezza era quella di un grosso biacco, ma la posizione riversa e la sua immobilità non mi permettevano di capire di quale specie fosse, anche se dalle squame ventrali, biancastre, si intuiva che il lato nascosto era dello stesso colore. Lo oltrepassai temendo che mio figlio potesse essere morso e che quella catalessi fosse una tecnica dell’animale, una specie di tanatosi malriuscita; il piedino fu ai limiti del capo rovesciato del rettile e sembrò che la sua lingua mobile lo toccasse impercettibile proprio nell’attimo del passaggio.
Chiesi alla donna in costume se fosse una specie velenosa e quale nome avesse e lei, amareggiata e affranta per il serpente, e sorpresa dalla mia richiesta, pronunciò una parola che iniziava con la O seguita da un molteplicità irriproducibile di consonanti che avrebbe dovuto essere un nome ma era un proposito. Piangendo afferrò l’ofide che, nel momento della presa, aveva non una ma due teste, capovolte entrambe e con la lingua in sincrono, e lo lanciò in mare.
Vidi l’animale volare via e affondare nelle onde vicino alla riva, in un palmo d’acqua limpida nella luce pomeridiana. Biasimai la donna per tutta quella foga, al serpente non sarebbe servito a molto, era venuto per morire sulla spiaggia, attendere e conoscere mio figlio, sfiorargli la pelle come in un bacio e sibilare la nostra distanza, allora guardai il mare e ne sentii la voce, anche mia: «Ci siamo detti addio senza salutarci».

Statue viventi, di Günter Grass

La Nave di Teseo porta in libreria Statue viventi di Günter Grass, tradotto da Nicoletta Giacon e con i disegni originali dell’autore.
Un racconto lungo inedito del Premio Nobel per la Letteratura, con i disegni originali dell’autore. Inizialmente concepito come un capitolo della sua autobiografia, questo testo inedito è stato scoperto solo recentemente negli archivi dell’autore dalla sua storica collaboratrice, Hilke Ohsoling. Statue viventi è una storia conturbante di come un’opera d’arte può lavorare nella mente di uno scrittore, ossessionarlo, fino a prendere vita in modo imprevedibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Oggi, i resti non sono che pezzi da museo duri come il cemento armato. Quando il Muro, alla cui presenza ci si era ormai abituati, esisteva ancora, nonostante le potenze da entrambi i lati della sua ombra continuassero – se pure in toni moderati – ad abbaiarsi addosso, ricevetti per posta un invito che accettai senza farmi troppe illusioni. I nomi di antiche città – Magdeburgo, Halle an der Saale, Jena ed Erfurt – lasciavano presagire un viaggio che avevo già fatto molti anni addietro. Mi si chiedeva di pazientare, le domande di ingresso erano già state spedite per posta. Mentre aspettavamo l’autorizzazione ad attraversare il confine con il prestigioso Stato degli operai e dei contadini, iniziai a passare in rassegna, con una certa esita zione, i miei ricordi sul medioevo, immaginando tavolate con commensali sempre diversi, piatti di carne fortemente speziati, salumi di ogni tipo che accompagnavano la zuppa di grano saraceno e di miglio addolcito con il miele. Quando, dopo i soliti ritardi – l’autorizzazione era stata rifiutata due volte – i documenti arrivarono con tanto di timbro, l’itinerario era rigorosamente stabilito, ma offriva la possibilità di una breve visita a Quedlinburg e a Naumburg, luoghi il cui passato giaceva sepolto nei libri di scuola della mia giovinezza.
Mi era già capitato di invitare a tavola dei personaggi storici. Una volta mi ero trovato in compagnia di un boia e della sua “clientela” a mangiare la trippa, e prima ancora a un lungo tavolo con dei commendatori. Dorothea von Montau portò in tavola l’aringa della Scania, un piatto del venerdì. Dopo il pasto a base di aringhe, Dorothea, che era un personaggio alquanto stravagante, recitò dei versi in alto-tedesco medio che noi, profondi conoscitori di letteratura, scoprimmo essere influenzati, pur mantenendo la loro peculiarità, dalla poesia del Minnesänger Wizlaw von Rügen. L’aringa della Scania ha dato il titolo al capitolo di un mio romanzo.
La nostra prima tappa fu Magdeburgo. Dopo una lunga e paziente corrispondenza, scritta e orale, con i vari uffici ecclesiastici e non, un pastore luterano di nome Tschiche, i cui figli – avendo rifiutato il servizio militare nell’Armata popolare nazionale – dovevano prestare servizio civile come soldati edili, aveva finalmente ottenuto una risposta positiva: avevamo il permesso di entrare nella Repubblica Democratica Tedesca, dove avrei potuto leggere, nelle chiese e nei centri parrocchiali, alcuni passaggi dal mio ultimo libro, che parlava di uomini e ratti. Mi è sempre piaciuto leggere ad alta voce. Se necessario, in luoghi sacri, la cui acustica è collaudata da tempo. Il medioevo – continuavo a ripetermi – è per noi più lontano di quanto non lo sia l’impero romano. A est dello Harz, per esempio a Quedlinburg, c’è molto di più da scoprire che nelle catacombe paleocristiane sulla via Appia. Trovammo alloggio in case parrocchiali che avrebbero avuto urgente bisogno di ristrutturazioni, e nelle quali i pasti erano preceduti d una breve preghiera. Le assi del pavimento scricchiolanti. La muffa nelle fondamenta. Le energiche mogli dei parroci. Durante il nostro viaggio, la sorveglianza da parte dello Stato rimase, tutto sommato, contenuta, persino la volta in cui fummo costretti ad abbandonare la sala parrocchiale di Halle, perché troppo affollata, e riparare in una vicina chiesa cattolica, dotata di un sistema di altoparlanti, che si riempì spontaneamente fino all’ultimo posto. Pagina dopo pagina, descrivevo nei minimi dettagli come i ratti sopravvissuti si esercitavano a camminare in posizione eretta. Ogni volta leggevo per un’ora buona. Dopodiché il pubblico, seduto stretto sui banchi della chiesa, faceva delle domande, in un primo momento esitanti, poi sempre più esplicite: “Dobbiamo restare? Dobbiamo fare domanda di espatrio?” E io rispondevo: “Anche dall’altra parte è solo un’altra parte.” Ma quelli che ponevano le domande non lo avevano ancora sperimentato.
Il passaggio da un secolo all’altro non era poi così grande. A Erfurt, dove Lutero – ai tempi in cui era monaco agostiniano – aveva imparato a conoscere il dubbio, il mio incontro con il pubblico si tenne in mezzo ad antiche mura. All’inizio, un gruppo di punk dell’Est fece di tutto per interrompere la lettura, ma poi iniziò ad appassionarsi alla mia storia sui ratti. Si svolgeva al tempo dei flagellanti, quando gli ebrei – a quanto si diceva – avevano subdolamente portato nel paese la peste. Al momento, lo Stato e i suoi organismi sembravano indeboliti. Il pastore di Jena, la moglie e i figli avevano un cavallo che, come nelle favole, si affacciava dalla porta della stalla. Eretici perseguitati da tempo immemorabile. E poi le guerre, datate e archiviate. Si diceva che in Turingia ci fossero dei valdesi fuggiti dalla Boemia. La canonica si ergeva, sbilenca, in una zona invasa dalla vegetazione, vicino agli storici campi di battaglia di Jena e Auerstedt. Un cartello indicava la strada. Ovunque, il medioevo gotico e tardo gotico si stava sgretolando. E anche il presente, nonostante la sua pretesa di stabilità politica e sociale, cominciava – iniziando dai margini della società – a diventare superato.
Ma chi avrei dovuto invitare a tavola?

© Steidl Verlag, Göttingen 2022
© Günter und Ute Grass Stiftung, Lübeck
Published by arrangement with Berla & Griffini Rights Agency
© 2024 La nave di Teseo editore, Milano

Il rapporto di Ogata Ryōsai, di Ryūnosuke Akutagawa

Il rapporto di Ogata Ryōsai
di Ryūnosuke Akutagawa

Di recente, nel mio villaggio, i seguaci del cristianesimo stanno confondendo le menti delle persone con la loro dottrina dannosa e malvagia. Ecco perché ho deciso di denunciare quanto ho visto e sentito, con la speranza che le autorità possano presto adottare i provvedimenti del caso.
Allora, il VII giorno del III mese di quest’anno Shino, la vedova di un contadino di nome Yosaku, è venuta da me supplicandomi di visitare sua figlia Sato, una bambina di nove anni gravemente malata. Shino, la terzogenita del contadino Sōbei, si è sposata dieci anni fa, rimanendo vedova poco dopo la nascita della figlia. In seguito alla morte del marito non ha voluto legarsi a nessun altro, riuscendo comunque a sopravvivere tessendo e facendo altri piccoli lavori che poteva svolgere in casa. Sennonché, abbagliata chissà da cosa, dopo il trapasso del marito si è convertita al cristianesimo e ha iniziato a frequentare con assiduità un certo padre Rodrigo, un prete che abita nel villaggio accanto al nostro. Per questo è incorsa nel biasimo generale, e qualcuno ha cominciato a denigrarla lasciando intendere che fosse diventata l’amante del prete. Suo padre, Sōbei, e i suoi fratelli hanno cercato in tutti i modi di farla rinsavire ma lei, sostenendo che nessuno è più degno di venerazione del dio cristiano, si è rifiutata di ascoltarli e, dimenticando perfino di visitare la tomba del suo defunto marito, ha continuato insieme alla figlia ad adorare mattina e sera un amuleto a forma di piccola croce che lei chiama «crocefisso». Ecco perché i suoi familiari hanno smesso di frequentarla, e perché in paese si è iniziato a vagliare la possibilità di bandirla.
Trattandosi di una persona del genere, quando è venuta da me per chiedermi di visitare la figlia, io le ho risposto che non potevo assolutamente farlo. Quel giorno lei se ne è andata in lacrime, ma il giorno seguente è tornata a trovarmi per dirmi che se avessi acconsentito a visitare la figlia, lei mi sarebbe stata riconoscente per tutta la vita. Io ho continuato a rifiutare, e allora lei, non accettando la mia decisione, si è prostrata in lacrime nell’ingresso della mia abitazione e, con una voce carica di rancore, mi si è così rivolta: «Le condizioni di mia figlia sono gravi. Perché non volete visitarla? Non capisco. Non è forse compito di un medico curare chi è malato?».
«Ciò che dite è vero, − ho risposto. − Tuttavia la mia decisione di non aiutarvi non è infondata. Se posso essere sincero, non mi piacciono i vostri modi, soprattutto quando accusate me e gli altri abitanti del villaggio di essere posseduti dal demonio solo perché veneriamo kami e buddha. Se la vostra fede è quella giusta e voi siete così pura, perché chiedete a un uomo succube del diavolo come me di curare vostra figlia? Non dovreste forse rivolgervi alla divinità in cui adesso credete? Se davvero desiderate che io visiti vostra figlia, prima dovete rinunciare alla fede cristiana. In caso contrario, continuerò a negarvi la mia assistenza, anche perché, per quanto la mia professione mi imponga di essere compassionevole, anch’io temo la punizione che le mie divinità potrebbero infliggermi»
Shino è rimasta ad ascoltarmi in silenzio dopodiché, incapace di ribattere, è tornata a casa triste e sfiduciata.
All’alba del giorno seguente, il IX del III mese, è iniziato a piovere con una tale intensità che per le strade del villaggio non si vedeva anima viva. Verso l’ora del coniglio Shino si è presentata di nuovo alla mia porta per rivolgermi la medesima supplica del giorno precedente. Non avendo l’ombrello, era bagnata come un pulcino.
«Anche se sono un semplice medico, sono un uomo di parola −, ho ribadito. − È una decisione difficile, lo so, ma dovete scegliere: o rinunciate al vostro dio o alla vita di vostra figlia!».
Udendo quelle parole Shino ha iniziato a sragionare e, prostratasi più volte davanti a me a mani giunte, con la voce rotta dal pianto mi ha implorato: «Avete perfettamente ragione, ma se abbandono la fede cristiana, il mio corpo e la mia anima saranno dannati per l’eternità. Vi prego, abbiate pietà di me. Acconsentite, almeno per questa volta, a visitare mia figlia».
Nonostante pratichi una confessione eretica, il suo amore per la figlia era così sincero che ho provato pietà per lei. Non potevo però permettere ai sentimenti di ottenebrare il buon senso, quindi ho ribadito con assoluta fermezza che non avrei visitato la figlia fino a quando lei non avesse abiurato. Shino mi ha fissato per alcuni attimi con un’espressione indescrivibile, dopodiché è scoppiata in lacrime e si è gettata ai miei piedi a mani giunte, per supplicarmi. A quel punto con un filo di voce ha pronunciato qualcosa che, a causa del rumore della pioggia, non sono stato in grado di comprendere. Per tre volte l’ho pregata di ripetere quanto aveva detto, e alla fine ho capito che, pur a malincuore, avrebbe acconsentito ad abiurare. Quando poi le ho detto che avevo bisogno di una prova che lo dimostrasse, lei, senza dire una parola, ha estratto dallo scollo del kimono la croce, l’ha posata sulle assi di legno che rivestono l’ingresso e in silenzio l’ha calpestata tre volte. Non sembrava particolarmente turbata, e aveva anche smesso di piangere; ciononostante fissava la croce che aveva sotto i piedi con lo sguardo di chi ha la febbre molto alta, la qual cosa ha fatto rabbrividire sia me sia il mio aiutante.
A quel punto, essendo riuscito a farle accettare le mie condizioni, il mio aiutante si è messo in spalla la cassetta dei medicinali e tutti insieme ci siamo incamminati sotto una pioggia torrenziale verso la casa di Shino. Sato era coricata in una stanzetta molto angusta, con il cuscino rivolto verso sud. Era sola, e delirava a causa della febbre alta. Con le sue piccole e graziose manine non faceva che tracciare in aria il segno della croce, ripetendo senza sosta la parola «Alleluia»: sembrava farneticare, ma era felice e radiosa. Shino, seduta in lacrime accanto al giaciglio della figlia, mi ha spiegato che «Alleluia» è un’invocazione simile al nenbutsu che i cristiani usano per rendere omaggio al compassionevole amore del loro dio. Ho visitato immediatamente la bambina, e non mi ci è voluto molto per capire che era affetta da una forma molto grave di febbre tifoide. La malattia era in uno stadio così avanzato da indurmi a pensare che la bambina non sarebbe arrivata al giorno seguente. Quando l’ho detto alla madre, questa ha perso il lume della ragione e, prostrandosi a mani giunte ai miei piedi e a quelli del mio aiutante, ha ripetuto più volte:
«Se ho abiurato è stato solo perché ero certa che in questo modo avrei salvato la vita di mia figlia. Ma se morirà sarà stato tutto inutile. Se riuscite a capire la sofferenza che mi dilania per aver voltato le spalle a Dio, fate in modo di salvarla!».
Quello che mi chiedeva travalicava le mie capacità. Per fortuna aveva smesso di piovere; così, dopo averla rassicurata che aveva preso la decisione giusta, le ho dato tre bustine di decotto. Mentre stavo per tornare a casa, Shino si è aggrappata a una manica della mia veste per impedirmi di andarmene. Le sue labbra si muovevano come se cercasse di dire qualcosa, ma senza riuscirci. Pochi istanti dopo è impallidita e ha perso i sensi. Trasecolato, con l’aiuto del mio aiutante ho provato a farla rinvenire. E difatti poco dopo si è ripresa, ma era troppo debole per alzarsi e, in un mare di lacrime, ha detto:
«A causa della mia superficialità, ho perso mia figlia e il mio dio!». Ho cercato in tutti i modi di consolarla, ma visto che le mie parole non sortivano l’effetto sperato e che non avrei potuto fare nulla per salvare la figlia, accompagnato dal mio aiutante mi sono incamminato verso casa. Quello stesso giorno, poco dopo l’ora del montone , sono andato a visitare la madre del capo villaggio Tsukagoshi Yazaemon, da cui ho appreso che la bambina era morta e che la madre, per il dolore, era uscita di senno. Secondo le parole del capo villaggio, sembra che Sato fosse deceduta un’ora dopo che l’avevo visitata e che Shino, già verso il primo quarto dell’ora del serpente , andasse in giro come una pazza stringendo tra le braccia il corpo senza vita della figlia salmodiando a voce alta una incomprensibile preghiera occidentale. Tutto era avvenuto sotto gli occhi di Yazaemon e di tre contadini del posto, Kaemon, Tōgo e Jihei, per cui i fatti dovevano essersi realmente svolti nel modo in cui mi erano stati riportati.
Dalle prime ore del giorno successivo, il X del III mese, ha iniziato a cadere una leggera pioggia, ma nella seconda parte dell’ora del drago i tuoni della primavera hanno lasciato spazio al bel tempo. Yanase Kinjūrō, un samurai del villaggio, mi ha inviato un cavallo affinché lo potessi raggiungere nella sua abitazione per un consulto medico. Io sono salito subito in groppa, ma quando sono giunto davanti alla casa di Shino sono stato costretto a fermarmi perché un gran numero di persone bloccava la strada e inveiva contro preti e cristiani. Senza smontare da cavallo ho guardato allora verso l’abitazione della donna vedendo, di fronte alla porta d’ingresso spalancata, un occidentale e tre giapponesi. Indossavano tutti una tonaca nera e, mentre stringevano in una mano il crocifisso e nell’altra un oggetto che sembrava un incensiere, acclamavano il loro dio intonando all’unisono la parola «Alleluia». Ma non solo: Shino era riversa in terra, come svenuta, davanti ai piedi dell’occidentale: aveva i capelli in disordine e tra le braccia stringeva la figlia. La cosa che più mi ha colpito è stato vedere che Sato, le mani strette attorno al collo della madre, intonava con la sua voce infantile una volta il nome della madre e l’altra l’esclamazione «Alleluia». Non posso affermarlo con certezza, visto che mi trovavo a una certa distanza, ma ho avuto l’impressione che Sato avesse un bel colorito e che ogni tanto staccasse le mani dal collo della madre per cercare di afferrare il fumo che fuoriusciva da quella specie di incensieri.
Sono smontato da cavallo e ho chiesto alle persone lì presenti di raccontarmi i particolari della sua resurrezione. Sono venuto così a sapere che quella mattina padre Rodrigo, insieme a tre diaconi, aveva lasciato il proprio villaggio per presentarsi a casa di Shino. Dopo aver ascoltato la confessione della donna, hanno iniziato a pregare, hanno acceso uno strano incenso e hanno spruzzato su madre e bambina dell’acqua consacrata. Poco dopo la donna si è tranquillizzata e Sato è tornata in vita, mi hanno riferito tutti con evidente sgomento.
Nel corso della storia, non sono state poche le persone tornate in vita dopo la morte. Nella maggior parte dei casi, però, si è trattato di morti causate da malattie febbrili e da etilismo. Non è mai accaduto che una persona malata di tifo, come Sato, sia tornata in vita. Ormai è chiaro che il cristianesimo è una dottrina diabolica, e credo che i tuoni primaverili che hanno iniziato a rimbombare quando padre Rodrigo è arrivato nel villaggio possano essere interpretati come un segnale di quanto il Cielo disdegni questo prete.
Quel giorno Shino e sua figlia hanno abbandonato il villaggio per trasferirsi in quello di padre Rodrigo. Subito dopo, Nikkan, l’abate del tempio Jigen, ha ordinato che la loro casa fosse data alle fiamme. Ma di questo vi avrà di certo informato il capovillaggio Tsukagoshi Yazaemon, per cui non mi dilungherò oltre. Se in futuro dovessi rammentare particolari che ora mi sono sfuggiti, sarà mia premura comunicarveli con un secondo rapporto. Non ho altro da aggiungere.

Il XXVI giorno del III mese dell’anno della scimmia
Villaggio di Uwa della provincia di Iyo
Il medico locale: Ogata Ryōsai

Anna ha le ali, di Stefano Serri

Ortica editore porta in libreria Bradipismi, di Stefano Serri. Dieci racconti, manifesti di una rivoluzione lenta, in cui si evincono inviti e occasioni: inviti a ripensare il nostro agire e le nostre relazioni, occasioni per decidere, adesso, che ritmo dare alla nostra esistenza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Anna ha le ali
di Stefano Serri

Un giorno Anna prese le ali.
Prima, il corpo le si gonfiava e sgonfiava più regolare delle maree, per colpa del suo appetito anomalo, di quello stomaco dotato di anima. I capelli si fecero lisci; gli occhiali sparivano a intermittenza; infine comparve quello di cui parlo: le ali. Non erano come pensate, là dietro, sulla schiena, bianche e piumate, appuntite e veloci. Le ali erano nel petto, due rosee e morbide ali gonfie di latte e serene da lotte: perché le ali migliori sono nascoste, le ali migliori sono nelle costole.

Forse è perché suo padre è un animale, ma Anna, fin dall’inizio, ha voluto volare. Una cosa che suo padre aveva detto quando era bambina, due parole appena, una frasetta che l’aveva toccata troppo, uscita come una mano dalla bocca, lui col viso pesante e i pugni sul mento: Sono triste, aveva detto. E lei non aveva mai pianto.
Nel suo cappotto di velluto e spettinata, nonostante tutti e tutto, ha continuato la scuola; s’è dovuta fermare, un anno, perché non riusciva a studiare, ma poi è ripartita e si è laureata. È diventata infermiera. Perché ha scelto proprio questo lavoro, questo starsene sempre tra sangue e lamenti? Forse è perché, un brutto giorno, ha dovuto portare suo padre al macello, come un bue marezzato di angoscia; forse per quello capisce i malati, che si ritrovano di colpo in discarica senza poterne uscire da soli. Ma lo stesso, vuole volare, e impara, Anna, impara che le ali non sono tutta la libertà. E che non servono ali agli umani, perché per volare camminano in verticale.

Anna un giorno incontrò l’uomo suo, che era suo perché un po’ diverso dagli altri: un elettricista, si chiamava Giulio, anche lui con il viso un po’ triste.
A volte deve vivere lei per tutti e due; deve arrampicarsi, ma non come in Romeo e Giulietta: ha da scalare molto più di un balcone, scala il gran monte della depressione, anzi, non lo scavalca, e attende con pazienza che Giulio si affacci. In quel momento, lo acciuffa, rimette le ali e porta via tutti e due.
Senza inseguire castelli e principesse, senza Capuleti e Montecchi, con Giulio torna a credere che le case, anche la sua, sono scatole di felicità, forse un po’ bucate, e le porte, ereditate dai genitori, enormi per le nostre piccole chiavi.

Non l’ho ancora detto? Il tuo migliore amico, Anna, è un barattolo di vetro, vuoto, con l’etichetta infeltrita; un barattolo di cioccolata tenuto nell’armadio, dietro i vestiti: le vestaglie l’accarezzano, una sciarpa gli fa le fusa, riposa lì, ben custodito. Un barattolo vuoto dove infili quel che non va e poi lo conservi (chiamalo: vomito, o chiamalo: no!), e vedi come diventa quello che dentro era brutto, o se cambia colore al contatto con l’aria. Duro, tirare fuori il cibo dell’ora prima; esistono trucchi perché lo stomaco si redima, esistono dita violente e respiri in ostaggio, esistono in commercio estintori per l’ansia, ma anche pompe per decomprimere l’anima che, in un angolo, avanza. Oltre l’orlo di ceramica del cesso dove vomiti, ecco il tuo barattolo, il tuo abisso portatile. Alcune, da ragazze, credono che basti vomitare per non diventare madre. Il tuo barattolo di vetro, il tuo trofeo di anoressica, lo conservi, anche oggi che sei guarita, tra le scarpe, come monito: come il vetro, la verità che ti faceva male scivola e, se passa troppo tempo, fa la ruggine e non si svita più.

Questo, però, è un racconto, e i racconti non finiscono come un romanzo: non sono un lungo spettacolo di fuochi d’artificio, un racconto è un unico razzo sparato a suon di spinte e sputi d’esistenza, più su che riusciamo con la nostra speranza. E, se vuoi essere razzo fino in fondo, devi scoppiare. Serve fiducia per schiantarsi nel cielo: devi credere che i tuoi pezzi, passando davanti agli occhi della gente a naso in su, lascino tracce. Forse ti scorderanno, ma almeno con quel botto avrai sollevato su da terra la loro faccia.
La nostra storia, Anna, finisce così: in una metamorfosi, con la marea del tuo fisico instabile che non so più dipingere, pelle bianca, ali, letto. Finisce che sei incinta: sparisci un bel giorno, scivolata in una fessura, scomparsa in ostetricia. Esci con una figlia e le racconti che aveva un padre, un animale triste, poi le mostri le ali, le tue, le sue: le ali, non ingrassano né dimagriscono, ma mangiano il tempo, te l’assicuro, mangiano vita, di continuo la vita.

Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa

Nella collana L’Invisibile di Industra&Letteratura troviamo, tra gli altri, Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa. Una novella di irresistibile affabulazione intrisa di humor nero e gustosissima letterarietà.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Madre nel cassetto
di Sergio La chiusa

Mamma tentava di suicidarsi tutte le settimane. Le domeniche, di preferenza. Forse perché papà era a casa e poteva intervenire, per evitare il peggio. «Te ne pentirai», ammoniva lungimirante tagliandosi le unghie davanti al televisore mentre mamma rovistava tra i coltelli minacciando di tagliarsi le vene. «Mi rimpiangerai, non lo troverai un altro che sopporti le tue scenate», ribadiva papà, immaginando che la matta confidasse in qualche martire con cui sistemarsi nell’altro mondo. Dopo di che, riposto in tasca il tagliaunghie, si schiodava sospirando dal divano e si sfilava solennemente la cintura. Poi andava in cucina e la batteva per bene. Fino a che mamma smetteva di gridare e dibattersi sotto i colpi rieducativi di papà e si placava, definitivamente domata.
Non che mamma tentasse sul serio di suicidarsi, in verità. Faceva la scena, la protagonista. Almeno una volta la settimana voleva uscire dalle ombre della cucina in cui l’aveva confinata papà, sottrarsi al suo ergastolo di padelle, teglie e tegami e salire sul palcoscenico, sentirsi importante, darsi arie da diva tragica sotto le luci della ribalta domestica. Io li spiavo disgustato dal basso dei miei sette anni, nascosto sotto il tavolo, e mi dicevo mai, mai sarò come lui. Adesso che ho la stessa età di mio padre, e anzi l’ho addirittura superato, posso vantarmi d’aver tenuto fede ai miei propositi d’allora. Non ho preso nulla del suo temperamento. Non porto pesi sulla coscienza, io… Arianna, per esempio, non ha mai minacciato il suicidio. Nemmeno nei periodi più bui della nostra convivenza. E nemmeno dopo la separazione, che io sappia, sebbene fosse stata proprio lei a lasciarmi, e il rimorso avrebbe potuto ragionevolmente scombussolarle il cervello e spingerla verso l’irreparabile. E invece nulla, mai una scenata, mai che scrutasse meditabonda la strada dall’alto del nostro sesto piano per studiare il punto d’impatto, la soluzione di tutti i conflitti. Anche se negli ultimi tempi avevo a volte l’impressione che certe ombre scure, vagamente sinistre, le passassero sugli occhi e Arianna pareva perdersi in fantasticherie equivoche mentre fissava le forbici insanguinate con cui aveva appena sventrato la spigola. La spigola. Aveva preso anche lei la riprovevole abitudine di preparare tutte le domeniche il pesce, e in particolare la spigola, che io detestavo; esattamente come mamma, che aveva una specie di venerazione per il pesce, che faceva bene al cervello, diceva, benché fosse lecito dubitarne viste le condizioni di perenne squilibrio in cui versavano lei e papà; e così Arianna, che però s’era fissata con le virtù degli omega-3 solo dopo la morte di mamma, e soprattutto durante gli ultimi mesi di convivenza, tanto che inclino a credere che la sua più che una vera convinzione scientifica fosse una forma di ritorsione subliminale, dato che sapeva che il pesce era stato al centro di aspri dibattiti tra me e mamma, e in particolare la spigola, che io vedevo con sospetto, e non senza ragioni, credo, altrimenti perché in certe regioni la chiamerebbero lupo? e in altre, più illuminate, ragno, tessitore di trappole? A ogni modo, la vedevo eviscerare con una rabbia primitiva e meticolosa, da rito vudù, che mi nauseava e mi dava da pensare. «Perché non li prendi già puliti», suggerivo, ma lei niente, pareva provarci gusto a trafficare con le interiora. A volte pensavo che con quelle sue unghie minuziose volesse stuzzicarmi l’anima, e perfino estirparla, e che l’anima mia – e l’anima di tutti – fosse viscida e sanguinolenta, come i visceri dei pesci, e che in definitiva un corpo spinato e svuotato d’anima fosse un corpo più pulito, più commestibile, più adatto alla compravendita.
Ma non divaghiamo. Non è di anime che intendo parlare. E nemmeno di compravendite. E tantomeno di Arianna. La parassita. Figuriamoci. Le passavo la maggior parte dello stipendio eppure si lamentava, le pareva poco, m’infilava perfino le mani in tasca per controllare se mi trattenessi qualcosa. Le mani. Le stesse con cui trafficava nei ventri dei pesci e che poi ricopriva di profumi costosi perché evidentemente non sopportava l’odore del vizio. Profumi comprati con il mio stipendio, che svaporava in essenze promiscue, e massaggi, trattamenti estetici, ristoranti con le amiche. D’altronde le spese erano tante, per la manutenzione del corpo e dello spirito, e io invece le proponevo una vita da lombrichi. A saperlo, si sarebbe messa con Nardi, s’era lasciata sfuggire una volta... Nardi! Attilio Nardi! Vi rendete conto? L’imbecille che la corteggiava fin dai tempi della scuola, e con cui in effetti si è messa dopo la separazione… «Una pausa di riflessione», aveva detto, in verità. Perché aveva bisogno di stare un po’ da sola. Perciò aveva lasciato passare una settimana prima di traslocare nell’appartamento di Nardi, in centro.
D’altra parte Attilio possedeva una casa al mare e una in montagna, e una appunto in centro, arredata in stile moderno, proprio come piaceva a lei, e una decapottabile sportiva con cui spostarsi rapidamente di casa in casa, mentre io possedevo solo questo trilocale al sesto piano d’un palazzo senza ascensore, trilocale che peraltro era stipato di mobili antiquati che gli davano un’aria da casa di riposo, senza contare che le pareti, su cui comparivano misteriose muffe, erano rivestite d’una carta da parati a fiorami del secolo scorso e decorate da vecchie stampe in bianco e nero ereditate dai nonni, simili a quelle che si trovavano negli scompartimenti dei treni di seconda classe. Roba da vergognarsi. Inoltre Attilio le faceva sempre dei regali, perfino una borsetta Louis Vuitton in vera pelle di vacca una volta, e non per calcolo, perché lei non gli aveva mai dato speranze, mai… E mentre mi presentava l’immagine del corteggiatore perfetto, pieno d’iniziative filantropiche e proprietà immobiliari, non ricordava più la faccia da ritardato con cui nella realtà Attilio le investigava le tette ai tempi della scuola, gli occhiali da masturbatore imbranato e volenteroso che gli davano un’aria da scorfano in agonia, dagli occhi lessi, stolidamente dilatati dalle lenti, la bocca sempre socchiusa per via della sinusite e d’un ritardo congenito di comprendonio, la pelle deturpata dalla foruncolosi dell’adolescenza, che non aveva mai davvero superato, nemmeno dopo la laurea in giurisprudenza e la tesi in diritto fallimentare, il tirocinio nello studio del padre, l’apertura di uno studio tutto suo in centro, nei pressi del Tribunale, dove riceveva in effetti clienti altolocati, nonostante i foruncoli.

Come il capitano celebrò il Natale, di Thomas Nelson Page

Mattioli porta in libreria ‘Natale nella vecchia Virginia’ di Thomas Nelson Page, tradotto da Livio Crescenzi e Ursula Miotto. Thomas Nelson Page – autore finora inedito in Italia – era convinto che i vittoriosi Nordisti avessero dato una rappresentazione distorta della storia e della gente del Sud, e con la sua opera mira a restituire dignità e verosimiglianza storica alla cultura del Vecchio Sud. Questa l’ispirazione per alcuni dei suoi racconti natalizi, in cui si parla dell’importanza dei propri luoghi d’origine. Atmosfere e scene della ‘Ole Virginia’ (la Vecchia Virginia), intrise di un’intensa nostalgia.

Cattedrale vi propone l’estratto del primo racconto del libro, per gentile concessione dell’editore.

Come il capitano celebrò il Natale
di Thomas Nelson Page

Mancavano solo pochi giorni a Natale e, com’era naturale, intorno al grande caminetto del circolo gli uomini avevano iniziato a parlarne. Erano tutti uomini nel fiore degli anni, e tutti, o quasi, provenivano da altre parti del paese: uomini giunti nella grande città per farsi strada nella vita e che, tutto sommato, in un modo o nell’altro ce l’avevano fatta, riuscendo in diversi campi in modo così brillante da poter essere definiti uomini di successo. Tuttavia, man mano che procedeva, la conversazione aveva assunto un tono rievocativo. Quando era iniziata, avevano partecipato solo in tre, due dei quali, McPheeters e Lesponts, stavano seduti in poltrona, con i piedi protesi verso il caminetto, mentre il terzo, Newton, dava le spalle al grande focolare, con le falde della redingote ben aperte. Gli altri uomini erano sparpagliati per la sala, un paio intenti a scrivere ai tavoli, tre o quattro che leggevano i giornali della sera, e i restanti che chiacchieravano sorseggiando whisky e acqua; tra questi, alcuni chiacchieravano e basta, mentre altri si limitavano a sorseggiare i loro whisky e acqua. Tuttavia, man mano che la conversazione procedeva attorno al camino, uno dopo l’altro gli uomini si unirono al gruppo, finché la cerchia non incluse tutti i presenti nella sala.
Era stato Lesponts a iniziare. Dopo aver fissato per qualche istante Newton in piedi davanti al fuoco con le gambe ben divaricate e gli occhi fissi sul tappeto, aveva rotto il silenzio chiedendo all’improvviso:
“Vai a casa?”
“Non lo so” rispose Newton, con aria dubbiosa, richiamato da qualche parte nel mondo dei sogni, ma così lentamente che parte dei suoi pensieri era rimasta ancora lì.
“Non ho ancora deciso… non sono sicuro di poter andare fino in Virginia, e ho un invito in un luogo delizioso, un ricevimento in una casa qui vicino.”
“Newton, chiunque capirebbe che sei della Virginia” disse McPheeters, “dal modo in cui stai davanti a quel camino.” Newton disse:
“Già.”
E poi, mentre svaniva il mezzo sorriso suscitato da quella battuta, aggiunse, lentamente:
“Stavo solo pensando a quanto mi sentivo bene, ed ero tornato a casa e mi trovavo nel vecchio salotto, la prima volta che notai mio padre fermo in quella posizione; ricordo di essermi alzato e di essermi messo in piedi accanto a lui, un ragazzino nemmeno alto così, cercando di mettermi proprio come faceva lui, e sentivo il calore del fuoco, e anche adesso lo sento, proprio come quella sera.
È stato… trentatré anni fa” disse Newton, lentamente, come se stesse calcolando gli anni a memoria. “Newton, tuo padre è vivo?” chiese Lesponts.
“No, ma mia madre sì, e vive ancora nella vecchia casa di campagna.”
Da qui il discorso era proseguito, e quasi tutti avevano partecipato, anche i più reticenti, coinvolti dalla cordialità generale suscitata dall’argomento. La grande città, con tutti i suoi molteplici interessi, fu dimenticata, e gli uomini di successo tornarono alla loro infanzia e ai primi anni di vita in piccoli villaggi o in vecchie piantagioni, e raccontarono episodi del tempo in cui il mondo al di là del loro orizzonte gli era sconosciuto, e ogni cosa aveva quelle grandi e strane proporzioni create dalla mente durante l’infanzia. Vennero ricordati i vecchi tempi e furono raccontate senza sosta le esperienze natalizie di una volta, e quel periodo fu considerato, senza alcuna voce di dissenso, come assai migliore del Natale per com’era ormai diventato. Dopo un poco, uno di loro disse:
“Qualcuno di voi ha mai trascorso un Natale in treno? Se non l’avete fatto, ringraziate il Cielo e pregate d’esserne risparmiati d’ora in poi, perché a me è capitato, e vi assicuro che è quasi come stare in purgatorio. Una volta ne ho passato uno bloccato in un cumulo di neve, o quasi bloccato, perché eravamo in ritardo di dieci ore e perdemmo tutte le coincidenze, e il Natale che m’aspettavo di trascorrere con gli amici, lo passai in una carrozza lercia con un burbero capotreno, uno sfacciato facchino mulatto e un sacco di idioti, che avrebbero potuto uccidersi a vicenda, per non parlare poi di un neonato che piangeva, ammazzare il quale forse sarebbe stata l’unica cosa a cui tutti avrebbero partecipato volentieri.”
L’asprezza di queste parole dimostrava che l’argomento era quasi esaurito, e un tale, entrato giusto in tempo per udire colui che aveva parlato per ultimo, aveva appena azzardato l’osservazione – imitando debolmente l’accento inglese – che i sottufficiali in questo paese erano una massa di gente burbera e maleducata in ogni caso, e sempre scortese quanto ardiva essere, quando Lesponts, che aveva guardato pigramente chi aveva parlato, disse:
“Sì, a me è capitato di trascorrere un Natale in un vagone letto e, strano a dirsi, ne conservo un bellissimo ricordo.”
Cosa alquanto sorprendente, tanto da incuriosire tutti, ma il ricordo di quell’episodio era evidentemente così forte da far superare a Lesponts ogni ostacolo, per cui proseguì.
“Qualcuno di voi ha mai preso il treno notturno che va da qui a Sud attraverso le valli di Cumberland e Shenandoah, o si è mai recato a Washington per prendere quel treno?”
A quanto pare a nessuno era capitato, per cui continuò: “Beh, fatelo, e potete farlo persino a Natale, se trovate il capotreno giusto. Vale la pena farlo alla prima occasione che vi capita, perché quello che si attraversa è quasi il territorio più bello del mondo; non ho mai visto niente di più incantevole delle valli del Cumberland e dello Shenandoah, e la New River Valley è altrettanto magnifica – lo sfondo blu oltre quelle dolci colline, e tutto il resto – hai presente, McPheeters?”
McPheeters annuì e Lesponts continuò…

Vita, di Anna Voltaggio

Neri Pozza porta in libreria La nostalgia che avremo di noi di Anna Voltaggio. Una commedia umana, un libro di racconti polifonico, un sasso che, lanciato in acqua, espande in cerchi concentrici la sostanza misteriosa del desiderio.

Cattedrale pubblica uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

VITA
di Anna Voltaggio

Sente ridere forte, Vita, mentre costeggia la stazione trascinandosi dietro il trolley. È un pomeriggio buio, le luci rosse degli stop si parlano con quelle piccole e colorate appese alla meno peggio sui balconi delle palazzine, sotto il portico ci sono i barboni, uno accanto all’altro e mal riparati, buttati a terra in modo scomposto su pezzi di cartone e coperte marcite. Vita cammina sul marciapiede cercando di tenersi a distanza da loro e non vorrebbe guardarli. Tiene lo sguardo dritto davanti a sé come se fosse tutto normale: le luci che oscillano, la puzza, le persone sfinite a terra.
Va avanti e il trolley la segue con il suo rumore, continua a ignorarli ma non le riesce del tutto e allora li spia, con la coda dell’occhio li passa in rassegna, qualcuno si rigira nei pensieri acidi, una donna ha un braccio monco, dal gomito in giú non c’è piú niente, indossa un abito lungo e logoro ma sotto il grigio scuro della polvere addensata e dell’asfalto si vedono i fiori piccoli e rossi. Sono corpi in disordine, esistenze storte con la pelle del viso indurita, sembra corteccia quella pelle, fanno paura, pensa Vita, le persone che non hanno niente da difendere.
L’odore che attraversa è nauseante perché trabocca di verità e la fa sentire a disagio, Vita lo sa bene e vorrebbe sempre evitarla, la verità. La linea dei taxi bianchi intanto scintilla e aspetta quelli che arrivano a festeggiare. Il Natale, pensa infine, mette troppa pressione.
Vita è in orario e comunque, come ogni giorno, cammina veloce. Cammina come chi ha qualcosa di urgente da fare, come chi ha accumulato ritardo su una tabella di marcia, come chi ha un problema da gestire.
Non ce ne sarebbe ragione ma Vita sente di avere poco tempo e cammina veloce. Ha rimandato molte volte questo viaggio verso Trieste, non le piace viaggiare ed è brava a trovare scuse che sembrano ragioni. Certe volte le pare di conoscere il futuro e tenta di ingannarlo, ha cambiato il biglietto, ha posticipato due volte la data e tre volte l’orario come se, ad avere piú tempo, un evento imprevisto potesse riservare una sorpresa e il futuro diventare un nuovo futuro di cui Vita non conosce niente.
Il trolley ha una ruota storta che sfrigola e trita le pietruzze che incontra sul tragitto. Vita non vorrebbe neanche averlo un trolley.
Non le piace partire, a dicembre poi, in mezzo alle famiglie che si vogliono riunire per festeggiare in quella forma di nevrosi che investe tutto: gli oggetti, le strade, l’aria stessa. Studenti fuorisede con il cibo accatastato dentro le buste plastificate, gli anziani confusi, i bambini stanchi, i militari ancora in divisa. Sono tutti piú aggressivi a Natale.
Sarebbe rimasta volentieri a Roma tra le sue cose da risolvere, questioni private, faccende emotive. Cammina e l’aria umida le appiccica la mano alla valigia. I ragazzi sulla panchina hanno le giacche tirate fino al mento, fumano e non si parlano, gli passa davanti pensando che probabilmente si tratta di spacciatori a cui chiederebbe roba da fumare, da sniffare, roba qualsiasi con il potere di farla sentire piú a suo agio nel mondo. Se li lascia alle spalle e fissa il lampione in lontananza, con la lampadina che si accende a intermittenza come il flash di una macchina fotografica che punta su di lei.
Pochi minuti fa ha parlato al telefono con Sarah.
Alla fine della telefonata si è sentita stanca e irrisolta.
Si erano ripetute le stesse cose, con lo stesso tono grave delle ultime volte, con le lunghe pause e i respiri pesanti delle ultime volte, con i giri di parole che iniziavano comprensivi e finivano accusatori. Queste discussioni sono diventate castelli di carte, pensa Vita.
«Non parliamo piú di fatti, Sarah. I nostri problemi non hanno piú una consistenza reale, continuiamo ad architettare teorie. Il problema siamo noi».
«Abbiamo tutto, come fai a non vedere che abbiamo tutto?»
Vita è rimasta zitta. Sarah le ha chiuso il telefono in faccia.
La sua carrozza è lontana, l’ultima.
Quando la raggiunge appoggia il trolley sul primo gradino e si ferma un momento per alzarsi i capelli e liberare il collo. Il freddo dell’inverno soffia sulla nuca e per un momento Vita sente sollievo.
«Vuoi aiuto?» chiede una voce alle sue spalle.
Vita si lascia ripiombare i capelli addosso, solleva la valigia e sale.
«Non c’è bisogno, grazie».
Un neon smisurato illumina il treno. Vita fissa i numeri e avanza, come tutti ha fretta di prendere posizione, capita in un posto a quattro con il tavolino in mezzo. Due ragazze sono già comode e stanno facendo la Settimana Enigmistica.
In questo periodo Sarah conduce un laboratorio teatrale. Legge testi di Sarah Kane e Mark Ravenhill, non fa che pianificare performance.
L’anno scorso si era intestardita a produrre un video in cui si mostrava completamente nuda con un asterisco disegnato sul sesso e leggeva con una voce impostata male, fintamente naturale, un testo di Rebecca West. Poi l’ha messo su YouTube e aspetta ancora che diventi virale.
Vita pensa ai capelli neri che le scendono sulle spalle incurvandosi, alle volte che le ha spostato una ciocca dietro l’orecchio per liberarle il viso e vederla meglio, ai momenti in cui ha sentito di amarla e che voleva eterni. Pensa che Sarah abbia ragione a insistere con le sue domande e che lei abbia torto a non risponderle per la naturale angoscia che l’afferra all’idea di perdere chiunque.
Pensa di non sapere andare oltre l’inizio di una relazione.
Pensa, Vita, di finire con l’essere un buco nero che ingoia tutto e sparisce in sé stesso.
Le viene in mente che quando era poco piú che una bambina, camminando a fianco di suo padre verso la scuola di danza, pensava che non sarebbe piú tornato a prenderla. Che avrebbero raggiunto l’ingresso, lui l’avrebbe salutata con un bacio sulla guancia, raccomandandole di chiudere l’armadietto a chiave. E non sarebbe tornato mai piú.
Poi pensa che suo padre si sarà dimenticato che sta per arrivare, e anche che è Natale.
Il treno intanto è partito come una possibilità dall’esito incerto. La sicurezza di farcela è solo un calcolo di probabilità, pensa Vita, una questione statistica, tra il punto di partenza e quello di arrivo ogni cosa è precaria, la perfetta linearità dei binari non conta niente quando un treno ci corre sopra a trecento chilometri all’ora.
Guarda le ragazze assorte sulla Settimana Enigmistica, una cosa difficilissima da fare in due. Origlia i discorsi e si fa l’idea che siano intelligenti, ma anche cretine, che in fondo è come siamo tutti, pensa, e allora fissa lo sguardo sulle lettere che si incrociano, sulle parole spezzettate. Legge i suoni appesi nelle caselle che cercano un significato nell’incastro perfetto.
Concepisce la sua esistenza come un cruciverba in cui un errore di stampa rende impossibile il completamento.
Dal finestrino non vede l’esterno perché è buio, solo il riflesso del neon e il riflesso di sé stessa, ma fatica a riconoscersi. I capelli lisci le appaiono piú lunghi e scendono oltre le spalle, Vita li sposta da un lato, guarda il collo scoperto che nel riflesso è eccessivamente stretto, segue con gli occhi una vena che pulsa non di sangue ma di angoscia e che arriva all’attaccatura dell’orecchio, con la mano destra si stringe il collo per farla smettere. Suo padre un giorno aveva aperto la porta della sua stanza e l’aveva trovata a sfogliare un giornaletto per adolescenti che si chiamava Cioè.
L’aveva guardata con disprezzo.
«In questo modo diventerai una donna che preferirei non conoscere in futuro» aveva detto.
E adesso che il futuro era arrivato, Vita si chiedeva se era andata cosí.
Scrive sul taccuino: treno per Trieste, h. 19.00, ultimo viaggio verso casa di mio padre. Sono incapace di scegliere come vivere (figuriamoci con chi), quindi chi essere, e il tempo stringe, ho dunque paura di morire, senza, in definitiva, essere stata nessuno.
Al distributore automatico ci arriva barcollando come un’attrice ubriaca, guarda avanti e si tiene l’orlo del vestito per non farlo salire.
C’è un uomo che sta aspettando il caffè. Vita fissa il suo profilo contratto che lo fa sembrare impensierito, le rughe intorno agli occhi sono disegnate come in un ritratto a carboncino. Una manica del maglione scuro è appena sollevata e scopre un tatuaggio sul polso dove c’è scritto My heart is full.
È davanti al distributore e si gira un attimo verso di lei, uno sguardo che a Vita sembra distratto, non si sposta per lasciarle spazio.
«Caffè?» le chiede.
«Amaro». Vita risponde porgendogli una moneta che lui non prende.
Bevono il caffè insieme.
«Non volevo infastidirti prima».
Lo guarda senza capire.
«Quando ho cercato di prendere la tua valigia».
«Sei stato gentile».
«Arrivi fino a Trieste?»
«Sí. Mio padre sta morendo» dice e, mentre lo dice, le sembra assurdo.
«Mi dispiace». Vita si limita a un’espressione di circostanza ma vorrebbe scusarsi di questa intimità a cui lo ha costretto. «E tu?»
«Mi fermo a Venezia, dove abito da qualche anno».
«Mi sono sempre chiesta come si vive a Venezia».
«Si vive nell’acqua».
Il cellulare vibra, sono messaggi di Sarah.
Ho provato a chiamarti ma non prende. Sei arrivata?
No.
Mi chiami appena puoi? Devo dirti una cosa importante.
Appena posso.
No, chiamami adesso. Devo dirtela adesso.
Scrivila.
Non ti perdonerò mai.

L’uomo aspetta. Vita sente i suoi occhi e controlla il corpo, inclina la testa verso la spalla e porta i capelli da un lato mentre digita sul cellulare.
Sta osservando la linea dell’ovale, il collo in tensione e i movimenti delle dita.
Quando il treno fischia violentemente sembra all’improvviso che i binari non siano piú dritti, dondola quasi. Non è normale, pensa Vita e mentre lo pensa perde l’equilibrio, sente i tonfi delle valigie che cadono, anche Vita cade, il caffè finisce per terra e le macchia le scarpe, lui è instabile ma le afferra un braccio per sorreggerla prima che sbatta contro la parete. Punta i piedi e sostiene entrambi.
Il fischio è ancora fortissimo, spaventoso, fa pensare a un’esplosione imminente. Qualcuno, dalle carrozze, grida. Un gatto con la coda gonfia passa da una carrozza a un’altra in una corsa isterica e piomba sul distributore che lampeggia.
Vita è diventata pallida, ancorata a lui con entrambe le mani vorrebbe chiamarlo per nome ma non lo sa, gli stringe il maglione all’altezza dei fianchi, mentre cade con le ginocchia per terra, come se lo stesse implorando.
Il treno, lentamente, si ferma. Un annuncio informa che due estranei in corsa hanno attraversato i binari, il conducente ha attivato il freno d’emergenza, tranquillizza i passeggeri, comunica che sarà effettuato un controllo per accertare la buona salute di tutti e che il treno riprenderà al piú presto la corsa verso Trieste. «Stai bene?»
«Sí» risponde incerta sentendo di colpo, per la prima volta, il pesante senso dell’incertezza della vita. «Dovremmo bere qualcosa di piú forte adesso» sorride, mentre allenta la presa.
Vita sente un disordine attraversarle il corpo.
«Dovresti scendere a Trieste allora» dice, riprendendo faticosamente il controllo di sé, mentre una nausea dolciastra le sale dallo stomaco alla bocca.
«Mi piacerebbe poterlo fare».

Attraversa la stazione, passa sotto gli enormi archi per uscire dall’ingresso principale, in piazza della Libertà. C’è freddo e silenzio, potrebbe prendere un taxi e rintanarsi un attimo. Resta qualche momento ferma in quest’indecisione e accende la sigaretta.
Vuole arrivare a piedi, pensa Vita che camminare sia la scelta giusta. Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità. È una frase che crede di ricordare nel momento in cui la sta pensando. Una frase che la riguarda.
Riva Tre Novembre è lunga e cosí ampia e il mare sullo sfondo è cosí scuro che se Vita si guardasse da una finestra dei palazzi allineati si vedrebbe molto piccola camminare sull’orlo del precipizio.
Il Caffè degli Specchi è chiuso. Quella notte non avrebbero bevuto qualcosa insieme, pensa, e non lo avrebbero fatto mai.
Quando Vita apre la porta di casa tutte le luci sono spente, tranne quella della cucina.
«Iniziavo a pensare che non saresti venuta» dice suo padre quando la vede entrare.
«Ho fatto tardi perché mi sono persa, scusa».

Vita guarda il mare fuori dalla finestra mentre tiene in mano la mela che era sul tavolo, suo padre le si mette vicino, ha un sorriso semplice e malinconico che Vita vorrebbe riuscire a trattenere.
«La marea sta salendo di nuovo, papà».

Gioco di bambole, di Kianny N. Antigua

Il racconto che vi proponiamo, per gentile concessione dell’editore, è contenuto in due raccolte pubblicate da Arcoiris edizioni: Club Silencio e Bestiole.
"Club Silencio" è il secondo volume della collana tReMa e ha come elemento conduttore (liberamente declinato da ogni autore) il film  Mulholland Drive di David Lynch e il tema del deragliamento identitario, del doppio, della deformazione della narrazione.
I protagonisti di Bestiole sono individui intensamente umani, animali complessi con più volti, capaci di assistere e godere del dolore altrui e in cui la malvagità prevale e sembra vincere la partita.

Di seguito potete leggere il racconto di Kianny N. Antigua, autrice caraibica vincitrice di svariati premi e autrice di numerose raccolte, romanzi, libri per bambini, poesie.

Gioco di bambole
di Kianny N. Antigua.

Traduzione di Barbara Stizzoli

Quando ero bambina adoravo giocare con le bambole: fare i loro vestiti, pettinarle e immaginare per loro mondi meravigliosi.
Rubavo i collant di mia nonna e facevo vestiti attillati per le mie barbie, ah, perché mi piaceva giocare solo con le barbie; le altre bambole non erano belle come le barbie e non erano magre come le barbie e non erano bianche come le barbie né avevano i capelli belli come quelli delle barbie. Le barbie erano bellissime e io adoravo giocare con loro.
Quando mamma scappò a Porto Rico, l’unica cosa che le chiesi fu di portarmi tante barbie nuove quando sarebbe ritornata perché, nonostante avessi cura delle due che già avevo, stavano diventando brutte; una aveva i capelli molto corti perché un giorno si erano impigliati e avevo dovuto tagliarglieli per togliere il nodo e adesso i capelli le si drizzavano. All’altra, Ivé aveva morsicato le mani, anche se ancora oggi dice di non essere stata lei, io so che è stata lei, per questo bruciai la camicia della sua uniforme scolastica e dopo, siccome le presi per colpa sua, affogai il gattino che le aveva regalato la sua madrina.
Ecco, l’unica cosa che volevo era che mamma mi portasse un sacco di barbie da New York e mi assicuravo di ricordarglielo ogni volta che telefonava; fin quando smise di telefonare e basta. La cosa buona fu che un giorno venne mia zia, la madre di Ivé, da Curaçao, a farci visita.
Oltre a essere arrivata, bellissima, con i capelli stirati, ci ha portato i vestiti e una barbie per una. L’unica cosa è che la stramaledetta ha portato una barbie bianca e una nera e ha dato la bianca a Ivé.
—Ma Ivé è più negra di me.
—Si, ma è più piccola. E comunque, tutte e due le bambole sono belle e hanno anche gli stessi vestiti.
Ed era vero, le bambole erano identiche, come se fossero state gemelle, ma a una l’avevano lasciata bruciare nel forno. Avevano addirittura lo stesso vestito lungo e rosato. Ma a me non importava, la mia era nera e la iettatrice di Ivé me l’avrebbe pagata. E glielo dissi, «continua così, tanto tua madre se ne va di nuovo». E lei che fece, niente, continuò a giocare con la sua bambola bianca, mettendola a sedere sotto il cespuglio di dalia, facendola camminare in aria in modo da non farle sporcare il vestito, facendole il bagno nuda nel serbatoio dell’acqua, provocando in me invidia solo perché sua madre era lì, a fare il bagno con lei, pettinandola con gocce profumate (non quella merda che puzzava di cocco che mi metteva mamma sulla testa e che non scioglieva niente, mi lasciava soltanto la testa oleosa e che colava). Ci portava anche a mangiare pizza e gelato. Io andavo perché in quei giorni nonna non cucinava, ma me le stavo segnando tutte le cose che faceva Ivé, una per una.
E come tutti sapevamo, due settimane dopo, sua madre andò via di nuovo e la lasciò sola come il gatto. Alla barbie nera la decapitai e, alla fine, furono tre.