Pane senza sale, di Fatemeh Piravi Vanak

Polidoro edizioni porta in libreria Iran under 30, un’antologia di giovani scrittrici e scrittori iraniani, un inaspettato e vivido spaccato dell’Iran raccontato dalle nuove generazioni a cura di Giacomo Longhi e con la prefazione di Ginevra Lamberti. Traduzioni dal persiano di Melissa Fedi e Federica Ponzo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nell’antologia, per gentile concessione dell’editore.


Pane senza sale
di Fatemeh Piravi Vanak

Immergo la mano nella fontana, mi sciacquo la faccia e mi passo la mano sulla testa rasata. Mi guardo nello specchio rotto appeso all’albero lì vicino: sembro un kiwi. C’è un sacchetto di plastica pieno di pane secco appeso a un altro ramo dell’albero. Non ci arrivo. Saltello su e giù. Un dito si aggancia al sacchetto che si spacca, il pane si rovescia sulle mattonelle del cortile. Le urla della mamma mi fanno sobbalzare, vedo che brandisce una ciabatta di plastica e me la do a gambe levate verso la porta di casa. Mi guardo indietro, chiudo la porta, sento la ciabatta che si schianta. Quando si accorge di me, la mamma di Mansur stringe gli occhi tondi e mi chiede: «Tuo papà non è tornato?». 
Mansur di per sé è un buon amico, è sua mamma che è un’impicciona. Io e lui giochiamo sempre nella creta. La mamma di Maryam dice che non sono più di vent’anni che questo posto lo chiamano così. Un anno sono arrivati qui, hanno rivoltato il terreno ma la creta l’hanno trovata solo su questo pezzo. La creta è proprietà della mamma di Maryam. Molte delle case in fango e mattoni di qui sono state costruite proprio con questo tipo di argilla e, a forza di continuare, dove c’è l’argilla si è formata una buca. Dio ha messo in piedi un buon affare per la mamma di Maryam.
Noi ragazzi ci riuniamo a giocare nella creta da tutto il paese. La casa di Mansur è due isolati più giù rispetto alla nostra. Così come io mi sposto due isolati più giù per andare a trovare Mansur, sua madre si sposta due isolati più su per fare le sue strane domande, e mica è contenta di come vanno le cose dove abita lei. Comunque la mattina la passa da noi mentre il pomeriggio se ne sta con le sue vicine. Da casa nostra a casa di Mansur è pieno di gelsi che d’estate fanno diventare tutto appiccicoso per terra. Prendo a calci un sassolino fino alla casa di Mansur, poi lo prendo e lo picchietto contro il cancello del cortile. È da quando sono nato che il campanello è rotto, forse anche da prima.
Arriva Mansur. Gli è venuta la faccia come la mia: siamo tutti costretti a tagliarci i capelli con la macchinetta di agha Jasem. Agha Jasem è il preside della scuola. È stato un ragazzo del paese anche lui. A scuola se la prende con i capelloni. Aspetto che vada in bagno a prendere la palla. Il cortile di Mansur è grande come quello di casa nostra, ma c’è più spazio, perché sua mamma compra il pane dalla mia.
Da noi c’è un forno a gas che occupa metà cortile. Dall’altro lato del cortile ci buttano gli attrezzi della macchina di papà. Il papà e la mamma litigano sempre per colpa del forno e delle cianfrusaglie che lui lascia in giro. Alla mamma piace cuocere il pane, mentre papà lo detesta: odia i vestiti della mamma sporchi di impasto, odia il caos in cortile, il viavai delle vicine che vengono a comprare. Ma la mamma non lo sta a sentire.
Quando arriva Mansur, do un colpo alla palla che tiene sottobraccio e ridacchio. Ce la passiamo fino alla creta. Quando arriviamo, ci sono già tutti. Costruiamo la porta con i mattoni e facciamo le squadre. Maryam la Cicciona capita con noi, allora propongo di metterla in porta: è grassa, quindi la palla non passa. Io, Mansur e altri due ci mettiamo in difesa e in attacco. Solo il portiere ha un compito preciso, noialtri corriamo dietro alla palla finché qualcuno non riesce a segnare. Anche per la squadra avversaria è lo stesso. C’è una ragazza vicino al cumulo di terra, non sappiamo come si chiama, non parliamo con lei, dicono tutti che è strana. Da qualche mese vive con la mamma nella casa sulla strada per il cimitero che nessuno vuole comprare, e nessuno va a trovarle. La mamma dice che non hanno un papà, ma la mamma di Mansur dice di aver visto un uomo dall’aria circospetta che passa spesso di lì.  
Ogni giorno la ragazza si presenta alla creta con un panino, e la sua bambola ci guarda. Ha i capelli più lunghi che abbia mai visto ed è sempre pulita e ordinata, al contrario di noi.
Mansur non riesce a deviare la palla che finisce dritta in faccia a Maryam la Cicciona. Diventa paonazza e scoppia a piangere: il nostro portiere se ne va via tutto arrabbiato. Non sappiamo che fare. Io sono dell’idea di far giocare la ragazza con il panino. Gli altri non sono d’accordo, ma io voglio continuare la partita. Mi faccio avanti. Mi fissa con i suoi occhioni color miele. Dico: «Hai visto cos’è successo. Vieni a giocare al posto di Maryam, rimango io in porta e giochi tu».  
Sorride, appoggia il panino e la bambola accanto al cumulo di terra e si unisce alla partita. Mansur le chiede ad alta voce: «Come ti chiami?».
La ragazza risponde piano: «Khorshid».
Ed è un sole veramente, proprio come dice il nome. I suoi occhi, perfino i capelli, sono uguali ai soli che mi disegnava papà. Sto in porta, mentre lei corre dietro alla palla insieme a Mansur e agli altri. Non subiamo gol, ma nemmeno li facciamo. Tutti stanchi di giocare, ci buttiamo in un angolo. Il sole è alto nel cielo e i suoi raggi mi arrivano dritti in faccia. Chiudo gli occhi, mi sento come all’ombra. Li apro. Khorshid spezza a metà il suo panino e me lo offre. Lo accetto e do un morso, ha il sapore del pane della mamma.
Quando Mansur dice che è ora di andare, ci diamo una scrollata e ci incamminiamo. La palla è di Mansur ed è lui che decide quando si gioca e quando si va via. Saluto Khorshid. Mansur mi lancia la palla, la porto sottobraccio fino a casa sua e intanto parlo di Khorshid. Lui dice: «Se non c’era lei almeno un gol lo facevi».
Mansur va a casa e io raggiungo il nostro isolato facendo il sentiero appiccicoso. Fa un caldo rovente, il sudore mi cola sulla fronte e lungo la schiena. Il cancello è aperto. Quando entro vedo la mamma, è seduta in cortile e si tiene la testa tra le mani. Ci sono anche la mamma di Mansur e le altre donne. Le guardo sorpreso e mi siedo vicino alla fontana. La mamma di Mansur dice alla mamma: «Non avere paura, Dio è grande».
La mamma ha cambiato il sacchetto di plastica del pane secco, come se non fosse caduto tutto per terra la mattina. Di nuovo non ci arrivo. Salto su e giù per prendere un pezzo di pane, quando di colpo mi sento la schiena che brucia. La mamma mi sta prendendo a ciabattate così forte che a momenti mi sfonda. La mattina l’avevo scampata, ma adesso mi becco tutte le sue grida: «Tuo papà è andato a portare il carico a Bam, dove c’è stato il terremoto, e nessuno ha sue notizie. Che ti possano ammazzare!».
La mamma di Said le si è seduta vicino: «È un bambino, ha solo fame. Che ti ha fatto? Secondo me devi fare un voto, vedrai che Dio ti aiuta».
La casa della mamma di Said sta di fianco alla moschea e tutti quelli che vogliono fare un fioretto vanno da lei, la vicina del Signore. La mamma le chiede: «Ma che voto posso fare?».
La mamma di Jasem le dice: «Io una volta ho fatto un’offerta a quarantadue vergini e il Cielo mi ha ascoltato. Tu sai preparare il pane. Devi andare a prendere un bicchiere di farina dalle quarantadue vergini una per una, poi ci fai il pane e adempi il voto».
Io finora la mamma di Jasem a fare un voto non l’ho mai vista, secondo me puntava ad avere il pane gratis. La mamma piange e a me si stringe lo stomaco. Neanche fossero le sue ultime volontà, porta un bicchiere, carta e penna. È la penna dorata che papà appoggiava sempre accanto al quaderno nero sul tavolino della televisione, vicino al mazzo di chiavi. Amo il portachiavi di papà: luccica, è un cerchio dorato e splendente. Fantastico sempre sul giorno in cui si romperà e allora prima che lo butti diventerà mio. Toccare le cose di papà equivale a prenderle di santa ragione. Quando papà deve andare via, solo la sua penna resta a casa. Alla fine la danno alla figlia della vicina per farle scrivere i nomi. Davanti a ogni nome mette un pallino. Mi danno un bicchiere e mi dicono di andare a casa del primo nome della lista a dire che si tratta di un voto di quarantadue vergini e prendere un bicchiere di farina. La più felice dell’iniziativa è la mamma di Jasem.
Busso, arriva la vicina e apre la porta. Le dico: «È un voto: quarantadue persone devono darci della farina».
 «Che voto?».  
«A Bam c’è stato un terremoto e mio papà si trova lì. È un voto per salvarlo».
Papà è in viaggio tutti i santi giorni. Ne torna a casa giusto due o tre, pianta un casino perché la mamma fa il pane e io in mezzo a tutto ciò mi prendo pure un paio calci, dopodiché se ne va via di nuovo. La donna mi prende il bicchiere dalle mani, ci versa la farina e me lo riporta. Protesto: «Mica è pieno!».
«Tu portalo, non ti preoccupare».
I bicchieri di farina si riempiono e si svuotano e i pallini accanto ai nomi delle vicine vengono spuntati uno dopo l’altro. È l’imbrunire. La mamma di Jasem ha detto che dobbiamo prendere tutti i quarantadue bicchieri di farina entro la sera, così con il richiamo alla preghiera del mattino la mamma prepara l’impasto e domani come prima cosa si mette a fare il pane. La mamma piange: non c’è una vicina da cui non abbiamo preso la farina, eppure manca un bicchiere. Non ho mai visto la mamma piangere per papà, col fatto che non faceva altro che ripetere che sperava che in casa non ci rimettesse più piede pensavo che se lui non fosse tornato davvero sarebbe stata felice. Le vicine se ne sono andate tranne la mamma di Maryam e la mamma di Jasem, rimugino un po’ e alla fine chiedo: «Perché non abbiamo preso la farina dalla mamma di Mansur?».
La mamma perde la pazienza e si toglie una ciabatta, la mamma di Jasem le afferra la mano e rivolta a me dice: «Dobbiamo prenderla solo da chi ha figlie femmine, in paese non c’è più nessuno che ne abbia». «Beh, ho un’amica che gioca con noi nella creta, potremmo prenderla da lei».
La mamma si è avvicina e mi chiede: «Chi?».
Le racconto di Khorshid che gioca con noi nella creta, con la mamma di Jasem si guardano ed esclamano che proprio se l’erano dimenticata. Ecco che di nuovo mi danno un bicchiere da riempire di farina. Si è fatto buio e la casa di Khorshid si trova vicino al cimitero. È un vecchio camposanto, nessuno ha i parenti sepolti laggiù. Quello nuovo si trovava alle porte del paese. Non c’è mai un’anima viva da quelle parti. La mamma di Maryam, che è quella con più anni di tutte, dice che quando era bambina suo papà si era appropriato a poco prezzo di un terreno dalle parti del vecchio cimitero e ci aveva costruito una casa, e quando ci sono andati ad abitare, sua mamma è morta di parto e dopo tre mesi gli spiriti si sono presi pure il bambino che aveva messo al mondo. Ma mia mamma dice che ha infarcito il racconto con una miriade bugie e che la mamma della mamma di Maryam e il suo bambino sono morti di malattia. Però mia mamma non è coetanea della mamma di Maryam. Dice che dopo tutto quello che era successo, suo papà ha lasciato la casa, dove adesso ci abitano Khorshid e sua mamma senza spendere un soldo.
Le storie terribili che la mamma di Maryam mi racconta sulle strade e le case dei dintorni prendono vita nella mia immaginazione e fanno diventare tutto spaventoso. La mamma di Maryam vive qui da quando ancora il paese non esisteva, e tutte le storie di paura le racconta lei. Suo papà pure era pazzo, e per non pagare si è costruito la casa al cimitero, così adesso mi tocca andare là a fare visita a Khorshid. Le luci della casa sono accese, si è fatto buio e il loro bagliore è l’unica cosa che mi indica la via di casa sua. Per terra ci sono un sacco di grossi sassi su cui ogni tanto inciampo. Maledico la mamma di Jasem. Mica poteva dirmi che tutti i bicchieri di farina andavano riempiti entro stasera? E perché quarantuno non andavano bene mentre quarantadue sì? Raggiungo la casa arrugginita. Si capisce che l’ha costruita il papà della mamma di Maryam: non è altro che un pezzo di lamiera spoglio e scolorito. Busso alla porta. Qualcuno grida: «Chi è?».
«Sono io, il figlio di Mehri la panettiera».
Ci vuole un po’ prima che vengano ad aprire. La porta resta socchiusa, è la mamma di Khorshid. Mi viene da pensare che si chiami Khorshid anche lei, hanno gli stessi occhi e la stessa capigliatura. Ha la fronte sudata e si morde le labbra. Khorshid fa capolino dalla fessura della porta e mi sorride. Nella scarpiera noto un paio di scarpe da uomo. Dalla porta socchiusa si intravede la tavola, c’è profumo di cotolette. La mamma di Khorshid mi chiede cosa voglio. Le spiego che voglio della farina perché la mamma ha fatto un voto e le ripeto tutto quello che aveva detto la mamma di Jasem. Con un sospiro di sollievo prende il bicchiere e sorride: «Aspetta».
Khorshid la segue. Sulla tavola ci sono tre piatti, uno è più pieno degli altri. Anche da noi ogni volta che la mamma prepara le cotolette, la porzione più grande spetta al papà. Le cotolette vanno a nozze con il pane della mamma e le verdure del cortile. Sotto alla finestra vicino alla tavola c’è un tavolino di legno con sopra un quaderno nero dietro al quale c’è qualcosa che brilla. Sbircio meglio, è un portachiavi dorato luccicante. La mamma di Khorshid appoggia il bicchiere sul tavolo, spezza il pane, ci mette sopra due cotolette, lo arrotola a mo’ di panino e me lo porge insieme al bicchiere di farina. Prendo il panino e il bicchiere. Esclama: «Buon appetito!».
Chiude la porta. Schiaccio il panino in tasca, mi assicuro il bicchiere sotto il braccio e, per quanto possibile, mi metto a correre. La farina nel bicchiere sballonzola tutta, e il vento un po’ se la porta via. Quando arrivo sulla soglia di casa il bicchiere è mezzo vuoto. La mamma me lo strappa bruscamente dalle mani e mi dà una tirata d’orecchi. Lancia un’occhiata alla chiazza di unto che il panino mi ha lasciato sulla tasca dei pantaloni e dice: «È per riempirti la pancia che ci è voluto così tanto?». Io la guardo. Molla la presa dall’orecchio. Vado a sedermi in un angolo. Aggiunge il bicchiere di farina al resto dell’impasto e con entrambe le mani ci dà dentro. Schiaccia la pasta con i pugni mentre il sudore le scorre dalla fronte e dagli occhi le lacrime. Guardo il ramo dell’albero, non c’è appeso niente. La mamma ha lasciato il sacchetto del pane secco sulla veranda. Butto il panino dall’altra parte del muro del cortile e infilo la mano unta nel sacchetto. Prendo un pezzetto e lo mordo. Scrocchia. Poi mi tiro su le maniche, mi lavo le mani e vado dalla mamma. Affondo le mani nell’impasto e l’aiuto a impastare. Mi guarda e sorride.

Bairro Alto, di Fabio Iuliano

Radici edizioni porta in libreria Oceans, di Fabio Iuliano: un racconto che sa di saudade e serendipity, di sale dei mari del Nord. Tre città e tre tempi, per illuminare con i riflettori lo spicchio di palco occupato da chi cerca di lasciarsi alle spalle le proprie cicatrici.

Cattedrale pubblica un estratto dell’incipit per gentile concessione dell’editore.

Bairro Alto
di Fabio Iuliano

Ci rivedremo in quel luogo dove le ruote del tempo si incrociano
Leiji Matsumoto

Lisbona, 7 gennaio 2019

“Do not feed the musicians”. Scritto in rosso, su un cartello bianco che finisce con una freccia orientata verso il percussionista. Dovrebbe chiamarsi César. Célia, l’altra metà del duo in acustico, ha messo il cappello a terra, tra l’ampli della Fender e l’asta del microfono. È rivolto verso l’alto, con piazzato dentro un biglietto: “Tip”.
“Do not feed the musicians” – non dare da mangiare ai musicisti – ma lascia pure un’offerta, se vuoi, non fiori, opere di bene, pensa Simone seduto davanti a una Sagres.
La birra scende molto meglio della musica: l’esecuzione di Redemption Song è stramba, più vicina alla versione ubriaca di Strummer che a quella di Marley. Simone avrebbe voglia di pescare le noccioline dai piattini sul bancone e giocare a fare centro col cappello delle mance.
L’interpretazione è tanto maldestra da farlo tornare con la mente alle jam sul palco dell’Uplands Tavern, ai tempi dei giovedì anonimi di Swansea, la città dove ha imparato davvero a suonare la chitarra.
Una borsa di studio da spendere per un corso universitario di specializzazione in Creative Music Technology. Un ingaggio garantito – sessanta sterline a serata per almeno un concerto a settimana – e un campus niente male, con bacheche su cui affiggere annunci di ripetizioni di pratica e solfeggio e alzare altri soldi per spese varie ed eventuali. Da un docente del Cymraeg Department si era fatto scrivere dei biglietti promozionali in gallese e guadagnava qualche ulteriore sterlina pubblicando articoli su testate musicali, cartacee e online.
Mesi a fare la spola tra le Uplands, il Taliesin Art Centre e la Main Library, per poter un giorno raccontare ai nipoti che il Galles valeva il prezzo del biglietto, al di là delle immancabili dosi di rugby, beer, sheep, hens e videoritratti di Catherine Zeta-Jones.
Aveva stretto una relazione con Christelle, una biondina còrsa della Ty Beck House, dottoranda in Economia. Si erano incontrati durante una festa di musica revival organizzata per degli studenti Erasmus che frequentavano l’ateneo. Era una di quelle serate nei pub che avevano raccolto l’eredità e le playlist dell’Hungry Bear, chiuso nel 2006, col dj che spaziava dai Bon Jovi a Boy George, da Livin’ on a Prayer a Karma Chameleon e poi in mezzo Edie Brickell con What I Am e le Spice Girls con Wannabe. A volte ti ritrovavi a ballare The Bad Touch dei Bloodhound Gang oppure le hit da donna-che-non-deve-chiederemai di Shania Twain. Quando il dj era particolarmente in forma, si arrivava a fine serata con Darude e la sua tempesta di sabbia.
C’era intesa fra Simone e Christelle. Si volevano bene, al punto da immaginarsi nella stessa casa, quando non nello stesso letto, almeno per i successivi vent’anni, mese più mese meno. Gli occhi chiari della ragazza, severi ma rassicuranti, lo cullavano in quella proiezione, regalandogli l’illusione di vivere nel migliore dei momenti possibili.
Fino a quella notte di giugno, quando arrivò lei a riempire tutto il vuoto che Simone neanche sapeva di avere dentro.
Dopo quella notte, il buio.
Sono già passati tre anni, ma è come se avesse albeggiato da non più di tre ore. Quella notte è rimasta impressa a fuoco nella sua anima, più bruciante delle manette che gli avevano stretto ai polsi a Parigi, vent’anni prima. Il riverbero di quegli strani mesi, che avevano fatto seguito agli attentati alle Twin Towers, avrebbe condizionato pensieri, reazioni e comportamenti di milioni di persone e aveva investito in pieno la psiche di un Simone poco più che ventenne.
Era stato fermato dalla Gendarmerie per aver gettato a terra una Harley Davidson parcheggiata davanti a una fermata della Metro, mentre cantava la Marsigliese a torso nudo. Così, senza alcun motivo apparente. Un muro di nebbia nella testa che si dissolveva in tre complesse di Carbolithium® da 300 milligrammi ciascuna o, in alternativa, in due compresse di Lithium Resilient™ a lento rilascio, ponendo un freno agli sbalzi di umore tipici del disturbo bipolare con il quale, dopo quel disastro, aveva giocoforza imparato a convivere, ça va sans dire.
“È acqua passata”, si è ripetuto negli anni, affidando quella storia di obiettivi, telecamere e trattamenti sanitari obbligatori all’Espace Maison Blanche alle pagine di un taccuino, che era passato nelle mani di un collega empatico e poi in quelle di un giovane editore tanto coraggioso da pubblicarla. Che strana sensazione veder scorrere la tua vita fra le dita di altri. È come specchiarsi nella parte concava di un cucchiaio in cui l’immagine appare capovolta sia in orizzontale sia in verticale.
L’episodio di Parigi è parte di un racconto da guardare ormai con occhi adulti. Un gioco fatto di regole prestabilite, senza molte possibilità di scelta.
“Acqua passata non macina più”, vorrebbe poter dire anche ora, davanti alla sua birra, ripensando a quella notte di tre anni fa che invece si sente ancora serpeggiare dentro indifeso come un bambino. Un gioco le cui regole sono da creare, da cui sarebbe bello poter tornare indietro. Ma non si può.
Ne è consapevole e si accontenta di passare da un pensiero al successivo con la stessa velocità con cui César e Célia switchano da Bob Marley alle note di Mr Jones dei Counting Crows.
Célia, portoghese – a volersi fidare del manifesto – ha un bell’American accent. Dicono che il vedere film in lingua originale possa fare la differenza.
“Non sarebbe male vivere da queste parti”, pensa Simone appoggiando sul tavolo i suoi sensi stanchi e mischiandoli con la ginjinha, un liquore a base di amarene che ha imparato ad apprezzare appena sbarcato all’aeroporto Portela. Alle 9 del mattino. Da quando Slash ha inciso quel suo It’s Five O’Clock Somewhere, è sempre più facile incontrare baristi capaci di trasformare in qualunque momento il bancone di un aeroporto in uno dei peggiori bar della città. Tanto da qualche parte del mondo saranno pure le cinque del pomeriggio.
La ginjinha lo trasporta con la mente a casa, perché è simile alla ratafià, un liquore dolce tipico della sua zona. Non sono poche le cose che Lisbona e L’Aquila hanno in comune. Sono unite dal legame con la terra e le sue sventure – hanno subìto terremoti che le hanno segnate e ridisegnate – ma anche dal baccalà, che nella città lusitana si cucina in mille modi e nel capoluogo abruzzese, invece, rappresenta da sempre la rara possibilità di mangiare pesce in montagna. Era stata sua zia Maria a spiegargli che il baccalà all’Aquila era un piatto tradizionale della festa grande e che arrivava dalla costa insieme alle aringhe. Si cucinava baccalà nelle ricorrenze e all’entrata della Quaresima.
Ma un fil rouge tra le due città si ritrova, per molti versi, nel carattere degli abitanti: chiuso in una iniziale diffidenza che si apre progressivamente e con genero sità. Persino il modo di parlare non è troppo diverso, specie nel suono delle “sh” e delle “nd”, tipico dell’entroterra abruzzese. Un dialetto che si ostenta in branco e che ci si sforza di attenuare mentre si flirta, stemperando una birra sfacciatamente tiepida con una citazione sfacciatamente aulica.
Simone, comunque, si è sempre considerato un montanaro atipico. Uno di quelli nati con la malinconia del mare lontano, delle notti scandite dalle onde e dagli accordi di un canzoniere. Notti umide sulla spiaggia. Le sagome delle barche dei pescatori all’alba, in lontananza. Una chitarra e una sfilza di Peroni vuote, allineate sui bordi di un pattino a riva. Nei mesi più freddi gli ha sempre attraversato le vene quella mancanza. La nostalgia delle vacanze estive. Sulla sabbia, del resto, aveva avuto anche la prima esperienza con una ragazza, poco più grande ma molto più esperta di lui.
Le sinapsi rimbalzano nella testa di Simone che, puntando i gomiti sul legno del bancone, osserva una vecchia bicicletta fissata al soffitto, da cui pende una quantità notevole di reggiseni di ogni misura e foggia. È una trovata dei gestori del bar: per le clienti disposte a sfilarsi il reggiseno e consegnarlo, tre shottini in omaggio!

L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans

Dal 20 Ottobre, minimum fax porta in libreria L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans, tradotto da Assunta Martinese.

Danielle Evans, tra le più acclamate giovani autrici statunitensi, si concentra su specifici momenti nelle vite dei suoi personaggi in cui sembra che un equilibrio fragilissimo sia sul punto di spezzarsi, finestre in grado di illuminare l’inestricabile intreccio di colpa, resistenza, vergogna, forza, cordoglio, potere e amore di cui si compone la storia americana. Sette toccanti racconti che ci costringono a confrontarci con i temi della razza, della cultura, e soprattutto della storia.

Cattedrale propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’ufficio delle correzioni storiche
di Danielle Evans

Il nostro ufficio era nascosto in fondo a un corridoio in uno dei labirintici edifici brutalisti della città. Non mi era mai dispiaciuta l’architettura imponente di Washington; quando ho capito che avrei dovuto trovarla brutta e non funzionale e accogliente ero ormai al college. Ma ero cresciuta in mezzo a quell’architettura, ero cresciuta idealizzando le persone che lavoravano in edifici come questo, e comunque ci tenevo sempre a precisare che la parola brutalismo non era nata da un giudizio estetico ma da «cemento grezzo» in francese. Da quando avevo iniziato a lavorare all’istituto avevo dovuto correggere già sette volte alcune affermazioni sull’etimologia del termine. Di solito queste piccole correzioni mi facevano sentire penosa e pedante, ma quella in particolare mi piaceva farla, mi piaceva immaginarci – non solo i miei colleghi in ufficio ma tutti i funzionari pubblici in città – come persone impegnate a creare qualcosa di solido col materiale grezzo che ci era stato dato, mi piaceva pensare che ci trovavamo nell’ambientazione giusta per svolgere il nostro lavoro.
Naturalmente, essendo un’agente operativa, è raro che io trascorra tutta la giornata in ufficio. Normalmente quella libertà mi sembrava un lusso, ma adesso era giugno – non ancora la parte peggiore dell’estate, ma faceva già così caldo che uscivo dai miei giri quotidiani imperlata di sudore ed ero in costante ricerca di pretesti per stare al chiuso. Certi giorni entravo in negozi pieni di souvenir kitsch e correggevo le date sbagliate solo per godermi l’aria condizionata. Alla fine di tutto, avrei ricordato quanto spesso mi ero annoiata all’inizio di quell’estate, quanto mi ero preoccupata che il nostro lavoro stesse diventando insignificante, quante volte mi ero chiesta se mi sarebbe capitato di nuovo nella vita di sentirmi parte di un’impresa rilevante.
L’Istituto per la Storia Pubblica mi aveva reclutata quando insegnavo storia alla George Washington University, e in origine il progetto aveva una visione grandiosa. Un’ambiziosa deputata neoeletta aveva chiesto dei fondi per mettere una persona laureata in storia in ogni distretto del paese, per contrastare quella che lei definiva «l’attuale crisi della verità». Fu presentato come un nuovo progetto occupazionale in ambito pubblico destinato alla classe intellettuale, visto che molti di noi ultimamente si erano ritrovati a fare gli autisti, consegnare la spesa e svolgere lavoretti su commissione per arrivare a fine mese. I nuovi posti di lavoro nel dipartimento governativo avrebbero messo a frutto quelle lauree e sarebbero stati relativamente ben pagati. La deputata immaginava una rete nazionale di storici e fact-checker, un cordiale esercito di cittadini devoti a rendere la verità talmente accessibile e allettante che sarebbe stato impossibile ignorarla. Eravamo partiti come istituto di ricerca, sotto la direzione della Library of Congress: una specie di National Institute of Health per far fronte a un altro tipo di emergenza sanitaria. Eravamo la soluzione a decenni di cattiva informazione e deliberata disinformazione. Il nostro compito era proteggere la memoria storica e non attaccare briga (Direttiva 1) o correggere le interpretazioni che le persone davano alle notizie di cronaca recenti (Direttiva 2).
L’energia postelettorale che ci aveva creati si era esaurita quasi immediatamente; l’ex deputata adesso faceva l’opinionista in televisione. All’istituto eravamo quaranta in tutto, venti dei quali di stanza a Washington. Ora che i parametri della nostra missione erano stati ridimensionati capitava spesso che la gente ci scambiasse per guide turistiche troppo zelanti o logorroici impiegati museali che si erano allontanati dalla casa base. Alcuni miei colleghi ci marciavano. Bill gironzolava attorno ai monumenti correggendo i turisti che avevano nozioni sbagliate, spesso limitandosi a leggere ad alta voce le targhe che avevano sotto gli occhi; Sophie raramente si allontanava dai giardini dello Smithsonian; Ed passava tutta la giornata in qualche birreria, ma ogni settimana presentava un verbale con l’elenco delle correzioni apportate, ed era talmente lunga e plausibile che nessuno avrebbe saputo dire se era un alcolizzato particolarmente funzionale o un talentuosissimo scrittore di dialoghi fittizi.
A quel punto lavoravo all’Istituto per la Storia Pubblica da quattro anni, e volevo prendere il mio incarico molto sul serio. Per evitare di scivolare nella routine, ogni mese mi assegnavo un quartiere diverso di Washington. A giugno ero a Capitol Hill, e poco dopo aver corretto un turista convinto che il Rayburn Building fosse intitolato a Gene Rayburn, mi resi conto che era ora di pranzo. La zona dove mi trovavo era piena di ristoranti i cui nomi erano giochi di parole che vendevano costosissimo comfort food da banconi cromati ostentatamente vintage; tutto mi appariva sinistro, e avevo appena optato per la pizza quando passai vicino a una pasticceria con la tenda rosa all’ingresso sulla quale in un corsivo arzigogolato che imitava la glassa c’era scritto: bella e tonda. Il nome era orrendo – voleva essere un doppio senso e io stentavo anche a capire il primo – ma era il compleanno di Daniel, e in vetrina notai un elaborato alberello di cupcake, con collinette rosse e dorate e color cioccolato. I cupcake erano una cosa leggera e offrivano la possibilità di scegliere, pensai, quindi entrai e passai in rassegna i gusti prima di decidere che i cupcake non andavano bene: portare un vassoio di cupcake gli avrebbe fatto pensare che ero una bambina incapace di decidere, oppure lo avrebbe portato a immaginare lo scenario opposto – una me in versione casalinga che entrava trionfante con un vassoio all’incontro scuola-famiglia, come se stessi aspettando che lui mi offrisse quel futuro. Avanzai lungo il bancone, oltre le torte nuziali e le riproduzioni iperrealistiche dei monumenti di Washington, e le torte a forma di scarpe e bottiglie di champagne e cartoni animati, cercando qualcosa di un po’ più discreto.
L’errore era così piccolo che la me di quattro anni prima lo avrebbe giudicato trascurabile. Su una delle torte c’era scritto juneteenth con la glassa rossa, circondata da fuochi d’artificio e stelle rosse bianche e blu. Il volantino appiccicato sul banco sopra la torta incoraggiava i clienti a ordinare per tempo una torta per la festa del Juneteenth: Il Quattro Luglio lo conosciamo tutti!, diceva il foglietto. Ma perché non iniziare a celebrare la libertà con qualche settimana di anticipo e festeggiare l’anniversario del Proclama di Emancipazione? Dillo con una torta! Una delle due ragazze dietro il banco era nera, ma intuivo che i proprietari non lo fossero. Il quartiere, i prezzi, la stucchevole musica acustica diffusa dalle casse lucide: conoscevo tutte le parole della canzone, ma ogni singolo dettaglio in quel posto dichiarava a chi fosse diretta. I miei ricordi della festa di Juneteenth a Washington erano i miei genitori che mi portavano a una grigliata in giardino a casa di amici, a mangiare budino alla banana e crostata di pesca e torta alla fragola fatta con il mix Jell-O; a nessuna di quelle grigliate avevo visto una torta di pasticceria da 75 dollari che aggiungendo un sovrapprezzo poteva essere realizzata a forma di borsa griffata. L’incipit del volantino – quel lo conosciamo tutti – non era rivolto a quelli che già festeggiavano il Juneteenth, ma ai capufficio che si sarebbero sentiti obbligati a non trascurare una festività afroamericana, o che semplicemente volevano una scusa per un dessert diverso.
«Mi scusi», dissi, con il dito ancora poggiato sul bancone sopra il volantino. La ragazza nera si voltò.
«Vuole quella?», chiese.
«No», dissi. «Ciao. Sono Cassie. Sono dell’Istituto per la Storia Pubblica».
La donna bianca si voltò, ma entrambe mi fissarono senza dare segno che quel nome dicesse loro qualcosa.
«Una sciocchezza», dissi. «Non diamo ordini né niente. Siamo un servizio pubblico. Come il 311! Ma ho pensato che magari vi è utile sapere che il volantino non è del tutto corretto. Il Proclama di Emancipazione è stato emesso nel settembre 1862. Il June­teenth è diventato la festa di tutti gli schiavi liberati e adesso si celebra a livello nazionale, ma in realtà commemora la data in cui gli schiavi del Texas appresero che erano liberi, a giugno 1865, dopo la fine della guerra civile».
«Uhm, ok», disse la donna bianca.
«Vi lascio un biglietto. Una piccola correzione».
Tirai fuori il nostro sticker ufficiale – con la costosa stampa di una foca sollevata su carta olografica; era facile farne delle imitazioni ironiche, ma quasi impossibile farne repliche accurate. Digitai la correzione nell’unico lusso futuristico concessoci dall’ufficio – la stampante portatile che avevano dato a tutti noi quando ci avevano assunti – e ci infilai lo sticker per stampare il testo. Apposi la data e la firma, staccai la pellicola e lo appiccicai al bancone accanto al volantino.
«Ecco», dissi. «Niente di che».
Sorrisi e guardai negli occhi entrambe le donne. Quando chiedevamo alle persone di dedicarci il loro tempo non dovevamo essere aggressivi – dovevamo correggere le informazioni sbagliate nel modo più rapido e gentile possibile (Direttiva 3) – ma dovevamo mostrarci disponibili a fornire ulteriori informazioni o a intrattenere una conversazione più lunga se qualcuno desiderava saperne di più (Direttiva 5). Dovevamo essere pronti a citare le fonti (Direttiva 7).
«Vuol comprare una torta?», mi chiese la ragazza nera. «O è venuta per il volantino?»
«Ah», dissi. «Sì. Sto uscendo con un ragazzo ed è il suo compleanno. Cercavo di decidere che torta prendere. Ma non lo so, forse sono meglio i cupcake? Lei cosa mi consiglia?»
«Signora, se va a casa di uno con una torta di compleanno e quello si lamenta allora mi sa che non ci esce più. A prescindere dalla torta».
«Ha ragione», dissi. «Mi dia quella».
Indicai una torta che si chiamava blackout. «Come un Oreo senza la crema», diceva la descrizione. Potevo dire a Daniel che gli avevo comprato la torta più nera che avevano. Le scatole erano rosa con elaborate scritte in oro; chiesi quella con la scritta bella e tonda. Avrei lasciato decidere a lui se fare la battuta sconcia o lamentarsi del fatto che negozi di proprietà dei bianchi facevano appropriazione culturale, o optare per il commento scontato sugli Oreo. Avrei tralasciato la parte in cui avevo fatto una correzione. Daniel era un giornalista, scettico sia per indole che per mestiere, e il mio lavoro gli sembrava – nella migliore delle ipotesi – sospetto.
Non era l’unico. Prima di andarmene dalla George Washington University per venire a lavorare all’istituto avevo una traiettoria in ascesa, ero stata fortunata. Potevo recitare a memoria il discorso di avvertimento che mi avevano fatto e che io avrei dovuto fare agli studenti più promettenti: se si voleva lavorare nel proprio campo bisognava essere pronti ad andare ovunque, a lasciare chiunque, e lavorare per stipendi ridicoli, e anche facendolo i posti a disposizione erano scarsi, e ancora più scarse le possibilità di essere scelti tra i mille dottorati che si candidavano. Ma io avevo ottenuto un contratto di quattro anni come visiting professor in un’università del Midwest, e dopo appena un anno mi avevano offerto un lavoro ben pagato che mi avrebbe avviata alla carriera accademica, un posto all’università non solo in una città importante, ma nella città dove ero nata. La Washington della mia infanzia non esisteva più, ovviamente, e se adesso molte parti della città mi sembravano familiari era solo perché cominciavo a dimenticare com’erano prima, ma restava l’unico posto in cui mi fossi mai sentita a casa. La serendipità di ottenere un posto accademico proprio lì rasentava la magia, in un mercato in cui essere «professori» quasi sempre significava tenere sette corsi in quattro campus diversi senza assicurazione medica e senza il minimo sindacale.
Quando partii sentii la mancanza dei miei studenti e dei miei colleghi, mi mancava lavorare ai manoscritti di cui nessuno mi chiedeva più niente – i miei anni di ricerca su Odetta Holmes ancora negli archivi. Mi mancava l’eterna preadolescenza delle feste universitarie e, lo ammetto, mi mancava il fatto di essere sulla vetta – l’intera impalcatura si stava sgretolando, ma io mi sentivo sulla vetta. Tuttavia, quando si era presentata l’opportunità di lavorare per l’Istituto per la Storia Pubblica, avevo mollato tutto per andare a fare qualcosa che, nell’immediato, mi sembrava più importante.
I miei genitori si erano beati nel dire a tutti che ero la professoressa Jacobs, docente universitaria di storia, e adesso non sapevano più cosa dire quando qualcuno chiedeva che lavoro facessi. Avevo provato a spiegargli che professore, perfino nella sua più rosea incarnazione, ormai significava sottostare anno dopo anno alla tirannia di valutazioni e tassi di iscrizione, significava tradurre le cose che amavi perché le amavi e alle quali davi valore perché avevano valore in aziendalese, per convincere gli amministratori che i tuoi studenti erano utili al mercato del lavoro. Significava sentirti dire che il problema eri tu, perché coccolavi troppo gli studenti, tu, la loro ultima possibilità di arrivare preparati a un mondo di squali, ma il problema eri tu anche quando gli studenti entravano in crisi, perché non avevi allertato immediatamente qualcuno del fatto che uno studente costituiva un rischio per se stesso, perché non avevi un piano pronto per mettere al sicuro la tua classe nel caso in cui uno studente si fosse presentato armato in un edificio vecchio di cinquant’anni dove le porte non si chiudevano più. Significava sentirti dire ogni anno con tono trionfante che la facoltà non era mai stata così inclusiva e poi qualche mese dopo, durante una cupa riunione, vederti consegnare un elenco di tutte le misure di autoregolamentazione che non era più il caso di lasciare al giudizio dei docenti e di tutti i parametri valutativi oggettivi che da quel momento in poi andavano osservati in modo più fiscale. Significava ricevere consigli benintenzionati da colleghi più anziani che si rifiutavano di ammettere che l’istituzione alla quale avevano consacrato la loro vita non esisteva più per come l’avevano conosciuta, e sentirti dire da colleghi più precari che eri stata fortunata e non avevi di che lamentarti.
Era stato difficile convincere la gente, perfino i miei colleghi all’isp che erano stati reclutati tra le schiere di disoccupati con un dottorato – che davvero avevo scelto io di andarmene. Il modo migliore in cui riuscivo a spiegarlo era che amavo il mio lavoro e stavo male a vederlo sparire.

© Danielle Evans, 2020 Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Ayesha Pande Literary 
© minimum fax, 2023 
Tutti i diritti riservati

Invocazione, un racconto di Alfredo Zucchi

Edicola Edizioni porta in libreria Demolition job. Lettere all’usurpatore di Alfredo Zucchi. Cinque racconti che partono dall’evidenza della deflagrazione per restituire un’inattesa utopia della costruzione.
Alternando lo sviluppo dell’azione, spesso sospesa e decontestualizzata, alla riflessione teorica, Alfredo Zucchi sceglie la strada dell’accumulazione e dell’esplosione formale per affrontare temi come l’autorità e la morte, il desiderio e l’amore, il sogno e il linguaggio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


INVOCAZIONE
di Alfredo Zucchi

Tornare ogni volta è stupendo, è rimasto tutto uguale: le pozze sul basalto tra i vicoli sanno di pesce vivo, c’è un’aria salata che viene da est e sembra di stare in un grembo acquatico appena sguainato, apri gli occhi e le cose non sono ancora putrefatte. Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.
Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.

C’è un affare nel mezzo, in piazza, un palco e uno schermo, qualcuno si sgola in piedi per avere l’attenzione dei passanti ma questi s’infilano a imbuto nel mercato coperto a due passi, guardano il tizio che grida e ridono e lui finge una delusione lacerante. Chi sa se dentro c’è ancora il banchetto del baccalà con la bionda che sciacqua, dissala e sviscera come Diana nel bosco dei pesci.
Mi imbuco a spallate, è un festivo e la gente si riversa dentro come al bordello – ogni corpo dice “ho fame” e io pure rispondo che ho fame e voglio scopare. Ma è rimasto tutto uguale: il metallo a vista sul soffitto, le vetrate, i rivoli a terra – sale e acqua, sangue, acqua e visceri – che scorrono come il tappeto rosso delle occasioni uniche. Ogni volta è la prima e l’ultima, l’unica, questo ormai l’ho imparato.
Scorgo, infine, in un angolo, il più remoto del mio sguardo, il banchetto e la donna. L’ultima volta era proprio lì, vicino ai crostacei? Non mi risulta. Non mi scompongo: mi avvicino e incrocio i suoi occhi, sorridiamo insieme. Mi fa cenno con la testa, con le braccia e le mani eterne, dice “un momento e sono tua” e io uguale col capo le dico che il tempo è una pozza di visceri e pinne smembrate. Fisso l’animale morto disposto in vaschette diverse secondo i tagli e i gradi di salatura – io voglio i pezzi alti e spessi, non ho mai voluto altro.

Poi la bionda ritorna, lo sguardo ostile. Qualcosa è andato storto. Mi chiedo se la mia postura ha tradito l’urgenza, se la mia voce ha infranto un codice ignoto – forse un codice nuovo, o uno che ho dimenticato, dopotutto torno solo due volte l’anno, sono uno straniero. Diana si avvicina al banco, senza degnarmi dello sguardo chiede chi è il prossimo.
Io alzo la mano, il braccio teso, mi sembra di toccare il soffitto con un indice che non mi appartiene – alzo la voce e chiedo quattro pezzi alti, i più alti e spessi che esistono. Lei mi fissa, sorride e si volta di lato, dove un altro richiama la sua attenzione. C’era prima il signore. Le guardo le mani: non è vero, rancida vecchia – se una volta sono stato tuo, ora non lo sono, non so più di chi sono. L’uomo dietro di me ha la voce calda, ordina tre pezzi alti e due alette per il fritto – è il momento, mi dico: come la massa liquida a un passo dal foro del tubo striminzito da cui esploderà, è qui che il dramma ha propriamente inizio. Prendo a insultarlo strillando nella lingua che è stata la mia (ricordo dal fondo del tubo infinite varianti della bestemmia che riempie la bocca), lo aggredisco fissando la bionda che mi ride in faccia – così, mi dico, solenne ma incerto, vendicatore delle occasioni uniche, così io privo te, usurpatore dei pezzi alti, del mio sguardo, e me ne riapproprio; e privo te, bionda dei pesci morti, del mio impeto, e lo disperdo nel tubo del tempo.

Infine mi volto. Esaurita la catena del dubbio, i rivoli d’acqua e visceri per terra si prendono il naso e lo stomaco. Ora affoga, dico mentre mi sgonfio, regredisci al brodo dei primordi, anche tu come tutti. La tua bocca sia la fonte putrefatta, la sorgente morta. Mi volto infine e lo fisso, senza impeto, lo guardo in faccia e quell’uomo, l’usurpatore, sono io.

Olga, di Alice Sivo

Racconti Edizioni porta in libreria ‘Mangime in compresse per pesci tropicali’, di Alice Sivo. Uno strano libro-acquario in cui tutti i personaggi nuotano come pesci dentro la stessa acqua, incrociando le proprie traiettorie oppure mancandosi di qualche pagina.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Olga
di Alice Sivo

Sono fortunata perché nella mia vita ho avuto sempre delle storie d’amore favolose, romantiche e appassionate, anche se spesso sono finite in modo tragico. Ma amare vuol dire anche soffrire, l’ho letto una volta nei cioccolatini.
Il primo è stato Leo ed ero poco più che una bambina. Facevamo insieme delle lunghe passeggiate. Anche se di solito i bambini a quell’età non vanno in giro da soli, i miei erano tranquilli a lasciarci uscire insieme, si fidavano di Leo e io con lui mi sentivo sempre al sicuro, protetta. Facevamo cose così semplici eppure così speciali: restavamo ipnotizzati davanti alle vetrine dei negozi e ci piaceva rotolare sul prato e abbracciarci, rincorrerci e poi accoccolarci vicini a leggere l’ultimo numero di Topolino. Non litigavamo mai e le mie amiche che ancora non avevano nemmeno dato il primo bacio erano molto gelose di noi. Gli scrivevo spesso dei bigliettini d’amore decorati con i brillantini e anche se non mi rispondeva mai capivo che provava per me le stesse identiche cose. Quando i miei mi hanno dato la notizia che Leo era morto sul colpo investito da un pirata della strada ho pensato che avrei preferito che fossero morti loro al posto suo e mi sono rinchiusa a piangere nella mia cameretta tutta rosa senza mangiare per due giorni e senza andare a scuola per una settimana.
Poi la vita va avanti e i dolori si superano. Ecco un’altra verità, che non ho letto nei cioccolatini ma che ho vissuto direttamente sulla mia pelle. Ero un po’ più grandicella e all’improvviso mi sono sentita pronta per una nuova storia e proprio allora è comparso Bobo. Era così possente, aveva quel nome così rude, il nostro è stato un classico colpo di fulmine. Me lo ricordo bene, all’uscita della parrocchia, era già buio e lui era lì, appoggiato a un albero, e sembrava proprio che mi aspettasse da tutta la vita. I nostri sguardi si sono incrociati, ci siamo scambiati un segnale d’intesa, mi sono avvicinata senza dire una parola, mi ha preso in modo selvaggio ed è stato subito mio e io sua, avvinghiati vicino a un cespuglio, senza pensare che qualcuno potesse vederci e giudicarci. Quando l’ho portato a casa i miei non hanno potuto fare altro che accettarlo, anche se ai loro occhi aveva un’aria poco raccomandabile. A volte effettivamente era un po’ aggressivo e quando eravamo da soli, chiusi in cameretta, mi saltava addosso all’improvviso senza dolcezze e preliminari, ma io sapevo come calmarlo e renderlo di nuovo docile e gentile. Nascondevo i lividi e i graffi con un doppio strato di fondotinta della trousse a forma di orso che i miei mi avevano regalato a Natale. A Bobo piaceva molto guardarmi mentre mi truccavo, era uno dei nostri tanti riti d’amore. Un giorno però ha deciso di andarsene via, senza neanche un saluto o una spiegazione. L’unico messaggio che mi ha lasciato è stato la trousse dei trucchi frantumata sul pavimento della cameretta. L’ho cercato per giorni, dappertutto, ho fatto stampare dei fogli con la sua foto, i dettagli sulla scomparsa e la promessa di una ricompensa e li ho attaccati a ogni palo e su tutti i muri dell’universo. Ma non è servito a niente. L’ho odiato tanto per avermi abbandonato in questo modo ma poi quel sentimento è passato e ancora oggi continuo a ricordare con piacere tutti i bei momenti passati insieme. E poi se non se ne fosse andato Bobo non sarebbe mai arrivato quel diavoletto di Tony. Che peperino era.
Ha portato in casa una ventata di allegria e buonumore. Anche i miei si sono dovuti arrendere alla sua simpatia. Era così giocherellone e ci faceva tanto ridere con le sue espressioni buffe e quando si esibiva nei suoi spettacolini con la palla. E in cameretta mi ha fatto godere più di ogni altro. Poi gli è venuto un brutto male e ci ha lasciati nel giro di un mese. Aveva solo sette anni.
Con Bernardo sto vivendo una storia matura, fatta di affetto, di piccole gioie quotidiane, di diritti e doveri reciproci. Ci facciamo compagnia, ci supportiamo a vicenda, lui mi fa tornare il buonumore quando sono triste, mi basta una semplice leccata, io lo porto a spasso tutti i giorni e gli faccio fare i bisogni. Poi li lascio lì, sul marciapiede, ai piedi degli alberi, sulle scale della chiesa, vicino alle ruote dei motorini, perché mi sembrerebbe di offenderlo e umiliarlo raccogliendoli. Non l’ho mai fatto con i bisogni di nessuno, ho avuto sempre il massimo rispetto per i miei cuccioli orgogliosi.

Ultimamente la notte sogno il nostro matrimonio, in una deliziosa chiesetta di campagna, io con un bellissimo abito bianco, scollato, con il corpetto di pizzo e vere perle e lo strascico lungo e leggero che una specie di magia fa rimanere sospeso a un centimetro da terra, per non impolverarsi e sporcarsi, Bernardo elegantissimo in un completo blu classico e insieme moderno. Io sono radiosa e lui è affascinante, siamo in estasi e non ci importa se gli invitati non sono venuti. C’è soltanto Giuseppe, che ho conosciuto ai giardini e anche se ha solo nove anni gli dico sempre che è il mio migliore amico. Non ci sono neanche i miei, che nel frattempo sono morti, anche nei miei sogni. Ci basta don Giorgio, che mi infila la fede e mi porge un costosissimo collare d’oro bianco che io metto delicatamente intorno al collo morbido e peloso di Bernie. Non mi importa dei figli e della predica sull’unione casta e feconda che ha fatto don Giorgio. Tanto Bernie per me è tutto: compagno, amico, amante, padre e figlio.

Foto di Dario Fatello

La pentolaccia, un racconto di Giovanni Verga

La pentolaccia
di Giovanni Verga

(tratto da Vita dai campi, 1880)

Adesso viene la volta di «Pentolaccia» ch'è un bell'originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua. Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barba di compare don Liborio, meglio di un re di corona.
Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene.
Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia, per buscarsi il pane. Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse: - Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada -. I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio.
Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercano il marito fuori della mantellina: perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa, dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece, che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio. Quando infine la povera vecchia finì di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non poté riceverne la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. - Eh?... Eh?... -
Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine.
La povera vecchia morì col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo. Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie - Tu che ci credi? - gli diceva lei. E basta. Lui allora contento come una pasqua.
Era fatto così, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero, grazia di Santa Lucia benedetta. A che giovava guastarsi il sangue? C'era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d'altro, santo Iddio?
Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria, ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio. «Pentolaccia» gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta, don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio «signor compare» e lavorava con coscienza. Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a «Pentolaccia». Badava a far prosperare la società col «signor compare» il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti.
Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt'a un tratto, in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che «Pentolaccia» s'era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto. - Per questo si suol dire «quando mangi, chiudi l'uscio, e quando parli, guardati d'attorno».
Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare «Pentolaccia» il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gl'improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima come un chiodo. - E quel becco di «Pentolaccia»! - dicevano, - che si rosica mezzo don Liborio! - e ci mangia e ci beve nel brago! - e c'ingrassa come un maiale! -
Che avvenne? Che gli passò pel capo a «Pentolaccia»? Si rizzò a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l'avesse morso la tarantola, senza vederci più degli occhi, che fin l'erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. - Sentite, «signor compare», - gli disse - se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! -
Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a «Pentolaccia» saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo.
- Che avete oggi, compare? - gli disse.
- Ho, che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! -
Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripeté alla moglie:
- Se vedo qui un'altra volta il «signor compare» com'è vero Dio, gli faccio la festa! -
Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quella novità. La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva.
«Pentolaccia» non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle muoversi di lì, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia.
Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. «Pentolaccia» lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venìa adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, «Pentolaccia» andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l'uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale.
Così fu che «Pentolaccia» andò a finire in galera.

Ragazza/serpente, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini

Pidgin edizioni porta in libreria Cloris, storie per i tarocchi a cura di Vargas. Undici autori si cimentano nella scrittura di novelle basate sui primi undici arcani maggiori, dando un’interpretazione personale ai significati che si celano in ciascuna carta, per rendere concreto e disturbante l’esoterico calandolo in una realtà quotidiana e palpabile.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

Estratto da

Ragazza/serpente

di Lucrezia Pei e Ornella Soncini

 

Sopraterra non c’è nemmeno un piccolo ricordo di voi.
Vi hanno fatto scivolare nel buio ancora caldi di vostra madre. Lo Stomaco ha pareti di cemento nudo e neon che si accendono e spengono da soli; una stanza con letti vicini e un’altra più grande con un tavolo per studiare e consumare i pasti; una piccola cucina e un bagno ancora più piccolo; un corridoio stretto con una scala che sale fino a una botola. La botola porta al vostro giardino.
Sopraterra ci sono il prato e le nuvole e tutto quello che sta sulla terra e nel cielo. Attorno al giardino corre senza uscita un alto steccato bianco e appuntito, come un serpente che si morde la coda; dagli spazi sottili tra le tavole intravedete una villa con tetto e muri chiari, una fila di colonne sul davanti e tante finestre sempre chiuse su cui si specchiano le nuvole.

*

All’inizio vi porta sopraterra la Vecchia che vive con voi nello Stomaco. Ha i capelli scuri e ricci dei tuoi fratelli e la pelle sfiorita. Non vi sgrida e non vi carezza mai, vi ha spiegato lei che vostro padre avrebbe potuto uccidervi e invece vi ha lasciato vivere; che oltre lo steccato avete anche una madre, vivono insieme nella villa bianca. Avvicinarvi a loro non vi è permesso «e se provate a uscire vi ucciderà».
A volte ti arrampichi sull’alto tiglio che sta proprio in mezzo al giardino. Chiami tua sorella: «Prima, sali!», ma lei rimane seduta sul vostro prato di dicondra. Tu ti avvoltoli sui rami come fanno i serpenti, il sole ti riempie la pancia come dopo una bella mangiata.
Anche da lassù non guardi mai la villa, nemmeno quando il vento porta una voce di donna che urla.

*

Se chiudi gli occhi stretti stretti sei capace di far crescere le foglie della dicondra, allungare e intrecciare gli steli nelle forme che preferisci; col tempo crei ogni specie di animali con l’erba, ti basta solo ricordare quelli che vi mostra il computer quando vi insegna le cose del mondo.
Indichi alla Vecchia le tue creature.
«Sei brava» ti dice, «ma non dovresti farti vederti».
Dopo, stai sempre attenta a disfarle prima di tornare sottoterra.

*

Quando a Prima comincia a crescere il petto, la Vecchia vi dice: «Ormai badateci voi agli altri fratelli» e una notte se ne va da sottoterra. A Prima sono spuntati come due capolini di margherita sotto la maglia, li trovi buffi.
Ora che siete da soli salite in giardino ogni volta che vi va.
Presto arriva un nuovo fratello allo Stomaco, ancora sporco di sangue e di cera come gli altri due. È Prima a pulire Quinto, a dargli il latte intiepidito sul pentolino. Fate a turno per nutrirlo e cambiarlo, ma senza la Vecchia a tenerla in riga tua sorella smette presto di fare il suo dovere e resti solo tu a stargli dietro.
Prima preferisce starsene per conto suo in cucina o a studiare al computer. Sei tu a correre da Quinto non appena piange, è da te che vengono Terza e Quarto quando si fanno male e hanno fame di cibo e risposte. 
Diventi una madre prima ancora di avere il tuo sangue.

*

Addormenti Quinto al suono della tua voce perché impari in fretta a ripetere ciò che dici: la sua prima parola è il tuo nome. Quando è abbastanza grande, gli insegni a salire i gradini fino alla botola come hai fatto con Terza e Quarto. Nel giardino i tuoi fratelli ti corrono dietro come uccellini coi becchi spalancati, vogliono giocare con le tue creature. Ti piace farti pregare, ma a volte ti stanchi dei loro capricci. Non ti è permesso picchiarli, così tiri orecchie e capelli fino a che non imparano a ubbidirti.
Terza ti segue ovunque e resta a fissare con gli occhi rotondi le tue creature, non ti lascia in pace finché insieme non immaginate pavoni con enormi code di foglie brillanti. È il suo animale preferito, dice che è bellissimo. Da quando la Vecchia se n’è andata, appena si spengono i neon viene a infilarsi sotto le tue coperte anche se state diventando troppo alte per dormire insieme. I suoi capelli odorano di vento, di temporali in arrivo. Se le dici di tornare nel suo letto, senti rumoreggiare di rabbia le nuvole e piangere di pioggia sulla botola chiusa.

*

Un mattino ai piedi della scala trovate una scatola e un biglietto: Giocate.
Dentro c’è un globo di metallo, più liscio di un uovo e pesantissimo tra le mani. Lo appoggi sul suo piedistallo trasparente, sopra il tavolo della grande stanza; il globo si alza a mezz’aria, il metallo si cambia in acque profonde, emergono lembi di terra nuda e bianchi vapori grumosi come nuvole sfilacciate.
I tuoi fratelli guardano te e tu guardi Prima: «Sembra un mondo. Ma senza niente, appena nato» dice alzando per un momento gli occhi dal computer.
Voi restate a fissarlo mentre ruota su se stesso. Quarto è il primo ad allungare una mano, con un dito oltrepassa le nuvole e fa increspare il pelo dell’acqua fino a sollevare un’onda che annega i vicini continenti di terra brulla.
Quel giorno non salite in giardino. Restate attorno al tavolo anche quando i neon si spengono, finché non capite come si gioca, finché non vi si chiudono gli occhi.

*

Conservi il globo sul ripiano più alto della grande stanza, ruota placido mentre fate lezione.
«Secondaaa» si lamenta Quarto allungando l’ultima vocale, «a che serve che studiamo? Facci giocare!»
Gli dici quello che la Vecchia ha detto a te e Prima: perché lo vuole vostra madre. Quarto sbuffa e Terza gli ride dietro.
Non sai perché a vostra madre importi e nemmeno perché, da quando non salite più tutti insieme in giardino, certe volte la tua pancia si stringe fino a farti male. I tuoi fratelli non ti chiedono più di giocare con le tue creature. Ti viene da piangere, ma tu non sai far lacrimare il cielo come Terza e così non se ne accorge nessuno.

*

La terra brulla si corruga in montagne e si liscia in pianure, si riga di fiumi e si concava in laghi, si ricopre di distese di sabbia, ghiaccio e verde fitto che nascondono il sottoterra. 
Continuate a giocare anche quando Prima vi dice che ormai siete grandi e non dovete litigare per una palla.
La notte che l’Estraneo entra nello Stomaco, si è messa tra le mani inferocite di Quarto e Quinto che non nega di aver barato, non riesci a vedere chi di loro fa cadere il globo a terra. Vi voltate tutti insieme come le tante teste di una sola bestia e lo seguite ruzzolare via liscio come appena fuori dalla scatola, fino a un paio di scarpe grandi in una pozza d’acqua.
Alzate gli occhi sull’Estraneo. Ha gli abiti gocciolanti e due occhi chiarissimi che sembrano i tuoi, riesci a vederli sotto il cappuccio per un attimo, appena prima che i neon si spengano e tutto diventi buio.
Senti un odore, come di temporale.

*

L’Estraneo si arrampica per primo, vi tende il braccio dall’entrata della botola.
«Sono venuto per liberarvi» vi ha detto prima ancora del suo nome e che è anche lui vostro fratello. Vi issa fuori uno a uno sul prato fradicio, come se non vi riuscisse di farlo da soli. Fulmini illuminano la sua barba e la macchina nera che aspetta oltre lo steccato, il maltempo ha sradicato alcune assi, sembra una bocca sdentata. Al volante c’è una donna giovane, vi dice qualche parola che perdi tra lo scroscio della pioggia.
Vi stringete tremanti sulle due file di sedili di dietro, Quarto strofina una guancia contro il tuo petto appuntito dal freddo mentre intrecci le dita scivolose con quelle di Quinto e sfiori i capelli zuppi di Terza; sta guardando corrugata la nuca lanosa dell’Estraneo, seduto davanti a voi, vicino a Prima.
La villa con le colonne bianche rimane buia, correte via su ruote veloci.

*

Jazz café, di Raffaele Simone

La Nave di Teseo porta in libreria Jazz café, di Raffaele Simone. Una raccolta in cui si dà vita a una serie di personaggi che hanno, malgrado la diversità dei loro destini, qualcosa in comune: la ricerca inesausta di quella scheggia di felicità e di giustizia forse concessa agli umani.
Una serie di storie che avanzano senza respiro, sospinte da un vibrante intreccio di tonalità, animate da personaggi stranianti e irresistibilmente comici e da una fitta rete di evocazioni letterarie. Sullo sfondo, grandi città inquiete, potenti notturni, vaste marine, movimenti di folle, inattesi impromptus musicali, improvvise irruzioni di versi.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.



SANTO SUBITO
di Raffaele Simone





1.

Gimmy gettò lo sguardo in strada e restò senza parole: i giorni precedenti la folla era stata fitta, certo, ma non stipata e ribollente come ora. Già alle sei di mattina un tappeto di capoccette formicolanti ricopriva Borgo Pio, folto al punto che dalla finestra non si vedeva più il suolo negli interstizi tra una persona e l’altra. Quella massa di teste, migliaia e migliaia di persone, avanzava frusciante e molle come non avesse nessuna spinta alle spalle.
Gimmy (in realtà si chiamava Girolamo) Marcatajo era inquieto: “E mo’ che succederà?” si chiese. Erano tre giorni che la zona dei borghi era invasa da quell’immensa folla tenuta insieme da un collante tenace, una massa che non si scioglieva neanche all’ora di dormire: di giorno si amalgamavano in quella fila pastosa e invadente, di notte dopo aver mangiato e buttato ordinatamente i resti ai bordi delle strade ciascuno si sdraiava su un giaciglio di fortuna, fosse pure un sacco a pelo tirato fuori dagli zaini, cantando qualche canzone delle loro, con invocazioni a Dio, santi e madonne, e dormendo poi à la belle étoile come nel più accurato degli alberghi. Erano di tutte le età, mischiati senza conflitto apparente, infaticabili: giovani, adulti, anziani, qualche vecchio vero, e un’infinità di bambinetti che stavano accanto o in braccio ai genitori senza mandare un gemito di protesta.
“Forse i bambini dei credenti non rompono,” pensò Gimmy, “Dio li rende più buoni…” Ma i loro bisogni ce l’avevano lo stesso, grandi e piccoli, benché avessero contatti diretti con Dio. Le centinaia di bagni da campo che la protezione civile aveva montato alla svelta in tutto il quartiere bastavano appena alla bisogna catabolica di quella massa sterminata: molti, donne e uomini, la pipì la facevano negli angoli, castamente, facendosi cioè attorniare da due o tre amici in modo che non si vedesse niente, e persino il resto, benché di produzione più laboriosa e schiva, era stato in più punti depositato per la strada alla meglio, Dio sa con quale riservatezza. Gli spazzini esitavano a infilarsi in mezzo a quella sterpaia di umani, la zona mandava in più punti un odore dolce di orina e lo scroscio di migliaia di bottiglie di plastica pestate da milioni di piedi.
Per fortuna l’aprile non era crudele e proteggeva sotto una sfera di sereno quel popolo di illuminati, che erano pronti a dormire all’aperto pur di arrivare a tempo per veder da vicino il papa morto. La gente dei borghi invece bofonchiava sorda: “Cce mancava puro ’sto funerale! Mo’ so’ cazzi amari so’!” Arduo uscire di casa e soprattutto ritornarci, telefoni e telefonini bloccati a intermittenza per il traffico fuori misura, poca acqua nei rubinetti, impossibile far la spesa o ricevere gente, impensabile gettare l’immondizia che da giorni restava a marcire in casa, la circolazione deviata o interdetta. I commercianti, che vendevano a prezzo quadruplo immaginette del papa e altre cianfrusaglie e che insieme alle fotografie spacciavano di nascosto anche bottigliette d’acqua minerale e d’aranciata a prezzi da mercato nero, si lamentavano come al solito, ma per finta: a loro, la vicinanza del papa morto non li rendeva migliori per niente. Tanta gente tutta in una volta non s’era mai vista in quelle strade e forse neppure a Roma in generale: uno, due, tre milioni, nessuno sapeva di preciso, lo stesso numero degli abitanti della città, si diceva, quasi una volta e mezzo, il doppio perfino: e che è?, mamma mia! Era un’inondazione, un mare, un oceano! I giornali dicevano: neanche gli anni santi del Medioevo, neanche le santificazioni più popolari, avevano portato a Roma folle simili: nessuno riusciva a spiegarsi come mai fossero in tanti, arrivati a falangi lunate, crescenti di giorno in giorno, senza freno, richiamati da chissà cosa, da un Dio, un bisogno di fede, o forse tentati dall’idea di apparire sui cristalli liquidi di casa, di “uscire in tv”, de fassevéde, come nel Grande Fratello! Difficile spiegare, sennò, come mai, in un paese ingordo, senza speranza e con le chiese vuote, le strade attorno a San Pietro fossero soffocate da quella gente disciplinata e rispettosa, spinta da un’infrenabile propensione a far del bene a tutti i costi.
Indispettito dalla folla che ronzava crescendo sotto le sue finestre, Gimmy si lavò con la poca acqua polverosa che colava dalla doccia, si vestì alla brava, senza giacca né cravatta, e decise di tentare almeno di prendere i giornali all’edicola dell’angolo. Per la scala si sentiva il cupo mormorio della gente che premeva di fuori: ed erano appena le sette. Quando Gimmy aprì il portoncino sulla strada, fece appena a tempo a gettar l’occhio fuori: il battente rinculò verso l’interno spinto dal peso delle persone che ci stavano addossate sopra. Solo quando quelli si spostarono con un soprassalto per aver perso l’appoggio, Gimmy riuscì a dischiudere la porta e a sporgere fuori la testa. Un volantino, infilato nella fessura dei battenti, ricadde all’interno.
Seduta su un gradino della soglia una donna dormicchiava poggiata allo stipite. Quando lui si chiuse la porta alle spalle, lei aprì un occhio, lo guardò con aria imbarazzata, si scostò un po’, si stirò con cura pudica la gonna sulle gambe e gli sorrise trasognata.
“Buongiorno,” disse “scusi l’invasione ma, sa, stanotte abbiamo dormito per la strada.”
“Solo stanotte?” fecero coro ridendo alcune sue compagne che erano in piedi attorno, sfiorate dalla folla avanzante.
“Dio la benedica per la sua pazienza,” aggiunse lei.
Anche lui sorrise, senza saper bene perché. Cercando di cominciare a muoversi lesse il volantino: “Ospitate un pellegrino per una notte: una magnifica occasione di fare del bene e di conoscere un fratello o una sorella.”
“Un fratello o una sorella? Ma dove?” pensò. Non sembrava di essere a Roma, una città che s’è venduta l’anima, strafottente, dove nessuno mai ringrazia per niente: quella folla mite e invadente era grata invece per la pazienza della gente malgrado le noie e le rotture che provocava. Gimmy sorrise tra sé: erano davvero diventati tutti buoni? “Servirà almeno a questo, la morte di un papa! Ne morisse uno ogni anno, allora,” pensò, e cominciò la manovra di penetrazione.

Impenetrabile e senza cuore, di Joseph Conrad

Impenetrabile e senza cuore
di Joseph Conrad

Quasi fosse troppo grande e troppo potente per le virtù comuni, l'oceano ignora compassione, fede, legge, memoria. La sua incostanza può essere mantenuta conforme ai propositi umani solo con una risolutezza indomita, e con una vigilanza insonne, armata, gelosa, in cui, forse, c'é sempre stato più odio che amore. Odi et amo può ben essere la professione di fede di coloro i quali coscientemente o ciecamente hanno consegnato la propria esistenza al fascino del mare.
Tutte le passioni tempestose dell'umanità quando era giovane, l'amore della rapina e l'amore della gloria, l'amore dell'avventura e l'amore del pericolo, insieme con il grande amore dell'ignoto e i vasti sogni di dominio e di potenza, sono passati come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare alcun segno sulla faccia misteriosa del mare. Impenetrabile e senza cuore, il mare non ha dato nulla di se stesso a coloro che ne hanno corteggiato i precari favori.
Diversamente dalla terra, non si può soggiogarlo a nessun prezzo di pazienza e di fatica. Benché siano tanti coloro che il suo fascino ha adescato e condotto a una morte violenta, la sua immensità non é mai stata amata come sono state amate le montagne, le pianure, persino il deserto.
Le stelle spuntarono innumerevoli nella notte chiara e riempirono tutta la volta del cielo. Scintillarono come cose vive sul mare e avvolsero tutt'intorno nella sua corsa la nave, più penetranti degli occhi fissi di una folla attenta ed imperscrutabile come sguardi umani.
La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt'intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un'altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino. Il sole dardeggiava la nave coi suoi raggi tutto il giorno e ogni mattina riapriva su di essa il rotondo occhio ardente pieno di curiosità insoddisfatta. Essa aveva il suo destino, viveva della vita di quegli esseri che si muovevano sopra i suoi ponti e come la terra che l'aveva confidata al mare trasportava un intollerabile carico di speranze e di rimpianti. Nel suo seno vivevano la verità timida e la menzogna audace; e come la terra essa era inconscia, bella a vedere e condannata dagli uomini ad un ignobile fato.
L'augusta solitudine del suo cammino conferiva dignità al meschino scopo del suo pellegrinaggio. Essa filava schiumeggiando verso il sud come guidata dal coraggio di un'alta impresa. La ridente immensità del mare rimpiccoliva la misura del tempo. I giorni volavano uno dietro l'altro rapidi e luminosi come il guizzare di un faro, le notti brevi e piene di avvenimenti parevano fuggevoli sogni. Gli uomini se ne stavano raggomitolati ai loro posti ed ogni mezz'ora la campana di bordo regolava la loro vita di incessante lavoro. Notte e giorno la testa e le spalle d'un marinaio si profilavano in alto a poppa contro il sole o il cielo stellato immobili sopra la mobile ruota del timone. Le facce cambiavano succedendosi l'una dopo l'altra; facce giovani, barbute, torve, serene o corrucciate; ma tutte fatte rassomiglianti dal mare che affratella, tutte con la stessa espressione attenta degli occhi fissi a scrutare la bussola o le vele.

Ortiche, di Cristina Pasqua

Pièdimosca edizioni porta in libreria Fughe, di Cristina Pasqua. Ventitré racconti stretti dall’uso di un linguaggio necessario, asciutto, fatto di reazioni impreviste tra le parole, che si rincorrono affilate e impietose, o sfregano tra loro come carta vetrata, o esplodono con un colpo secco.
Ventitré racconti che lasciano la sensazione di avere sbirciato di soppiatto attraverso una porta accostata che avrebbe dovuto rimanere chiusa, di essere entrati senza permesso dentro esistenze sghembe che avanzano alla rinfusa. E quando la porta in cui, clandestini, ci siamo intrufolati si chiude con uno scatto, si resta con la sensazione di aver afferrato al volo brandelli di vita impossibili da ricucire insieme, e che continuano però a pulsare ben oltre l’ultima pagina del libro.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.

ORTICHE

di Cristina Pasqua

Estate e campi secchi. Storpio, Trespicci e Gimondi non sapendo come ammazzare il tempo erano arrivati in corsa fino al passaggio a livello. Si erano lasciati alle spalle cicale a falcidiare erba secca e alberi assetati ed erano entrati in Stazione.
«Sciò, sciò», disse il Carioti. Era una stazione abbandonata ma il Carioti, che un tempo era stato capostazione, era rimasto lì, appeso a un lavoro che non esisteva più, la divisa macchiata di tempo e disoccupazione, la barba sfatta, le unghie nero di orto.
«Siam mica mosche», disse Trespicci, frugandosi in tasca. «Toh! Un bicchiere ce lo prendi», e gli allungò centocinquanta lire, ghignando forte.
Storpio, che era finito un paio d’anni prima sotto la mototrebbia di suo zio, trascinava la gamba marcia e avanzava con la buona. «Buttala via quella divisa. Il treno l’hai perso, qua non passano più».
Sarà stato l’incidente, era diventato gramigna, l’erba cattiva gli cresceva dentro da anni. Infestato aveva lingua di ortica e occhi di indivia. Gimondi sorrise. Parlava poco, quasi niente. Mentre Storpio si tirava dietro la gamba, lui aveva poca dimestichezza con le parole, zagagliava, inciampava, arrotava, rovinava a ogni sillaba. Per questo aveva scelto il silenzio, l’apparecchio in bella mostra, le labbra tirate.
La banchina era deserta. L’erba era cresciuta tra le traversine e si era fatta spazio tra un lastrone e l’altro, ingannando la puntualità dei treni e l’abito grigio che indossava un tempo.
«E adesso?», aveva detto Storpio.
«Proseguiamo dritti e usciamo al podere di Vinci. Poi si torna indietro passando per il torrente.»
«Ho portato questa», disse Trespicci e srotolò dalla tasca una colata di plastica bianca e stropicciata.
«Da’ qua», disse Storpio strappandogliela di mano. «Se puzza», aveva aggiunto poi, scacciando l’odore dal naso.
«La mamma ci aveva messo le uova.» «Pe-pe que-que-s-to s-sem-bra us-us-citadal-cu-cu-lo-de-’na-ga-ga…»
«Gallina, sì», disse Storpio tagliando corto.
Fatti pochi passi l’ingombro della vista scivolò sotto le dita.
«E q-qu-que-s-to?»
«Cos’è?», disse Storpio appoggiandoci la mano sopra.
Era un baule, verde torba, le cerniere in ottone arrugginito.
«Ma chi ce l’ha portato qua?», disse Trespicci soffiando sul ciuffo che gli copriva la fronte bagnata.
«A-a-ap», provò a dire Gimondi.
«Apriamo, sì», gli venne in soccorso Storpio.
Il rumore delle cerniere infangò l’aria. Alzarono il coperchio in due, Storpio a guardare.
«Cambia tempo», disse grattandosi la gamba marcia.
All’interno, in un disordine di bianco, c’era un corpo. Un ragno bianco e gonfio, gli arti scomposti, una gamba, un braccio, e un’altra ancora e la testa al centro.
«Madonnacara», disse Storpio, «che me rappresenta?»
Un rumore di ossa spaccate TLAC! gli soffiò all’orecchio, quando il coperchio si richiuse sul baule, in alto una scritta con il gesso. 01.
«E m-mo?»
«Gimo’, mo gambe!», disse Storpio puntando il peso sulla gamba buona e torcendo il corpo in direzione dell’uscita.
Carioti li vide sfilare pallidi e silenziosi.
«Finito?», e si infilò il berretto da capostazione che gli dava un’aria ancora più frusta.
«Sì, finito. Ne sai di quello?», disse Storpio indicando.
«Quello cosa? Io non vedo niente», disse agitando un gessetto bianco nell’aria. Poi si avvicinò alla maglietta di Trespicci. Gli disegnava le costole per quanto aveva sudato, gli si era appiccicata addosso, e scrisse 02.

Bago, di Alberto Savinio

Bago
di Alberto Savinio

« Buongiorno, Bago. »
Questo augurio Ismene lo dice ogni mattina appena sveglia, e ogni sera prima di addormentarsi dice: « Buonanotte Bago ». Le parrebbe altrimenti d’iniziare male la giornata e di terminarla male, anzi di non iniziarla e di non terminarla. Così in passato se non avesse detto « buongiorno » e « buonanotte » al babbo e alla mamma. Poi soltanto alla mamma quando il babbo morì. Poi soltanto a Bug quando anche la mamma morı`. E ora soltanto a Bago che anche Bug è morto che aveva tanti peli sugli occhi e lo sguardo umano. A suo marito Ismene dimentica talvolta di dire « buongiorno » o « buonanotte », ma allora non le pare di iniziare male la giornata o di terminarla male. Rutiliano del resto è cosı` di rado in casa, cosı` spesso in viaggio... Una mattina Rutiliano aprı` la porta e domandò : « Con chi parlavi? » Ismene rispose: « Forse nel sogno » e questa risposta ella non ebbe difficoltà a trovarla. Non ebbe neanche l’impressione di mentire. La parte migliore della sua vita e` della specie di un sogno che tanto dormendo essa sogna quanto vegliando, e anche i suoi dialoghi segreti con Bago fanno parte della parte del sogno. Dicendo che col dire « Buongiorno Bago » parlava nel sogno, Ismene non mentiva. « Buongiorno Bago. »
Ismene è seduta sul letto, la testa china d’un lato, le mani unite e calde ancora di notte, sorridendo nella direzione di Bago come a un padre robusto e protettore, e sta in ascolto. La camera è odorosa di sognati sogni come di fiori appassiti. Sola traccia che i sogni si lasciano dietro è questo odore, e se la camera la mattina puzza è che abbiamo sognato brutto. Sulla tenda tirata davanti la finestra lucono come gradini di una scala d’oro le strisce della luce mattutina che trapela tra le stecche dell’avvolgibile. I mobili sono ombre gravi che emergono dal pallore del muro. Su una sedia albeggia la biancheria di Ismene. Sul soffitto tremola un serto di luce che non si sa onde venga, un alone forse entro il quale si affaccerà la testa di un angelo. Ma Billi angelo non e`. Che aspetta di ascoltare Ismene? Che cosa ascolta? Che cosa ha ascoltato?

(Ismene balza leggera giù dal letto e corre a piedi nudi ad aprire la finestra.)

Nulla ha echeggiato nella camera, eppure Ismene egualmente ha udito ed è contenta. Essa stamattina è più impaziente del solito dell’attesa voce, più contenta di averla udita. Oggi Billi ritorna dal suo lungo viaggio. Oggi Ismene ha bisogno più che negli altri giorni di sentire Bago presente e la sua protezione. Ora la camera è chiara, l’odore dei sogni vizzi si è dissipato. Ismene indugia alla finestra, in fondo alla valle galleggiano ancora alcuni vapori. È contenta. Il suo corpo roseggia dietro il velo della camicia da notte, s’incupisce alla commessura delle cosce e del bacino in un’ombra triangolare simile all’occhio di un dio tenebroso. Ma chi all’infuori di Bago può vedere il corpo stretto di Ismene sotto il velo della camicia, simile a un gran pesce rosa sotto un pelo d’acqua? Di Bago Ismene non ha vergogna... Eppure sì. Ma è un’altra specie di vergogna. E il timore di fare a Bago qualcosa che a Bago non bisogna fare. Prima di aprire i battenti di Bago Ismene rimane un po’ incerta, come quando, bambina, stava per sbottonare la giacca del babbo e cavargli dal panciotto l’orologio per sentire sonare le ore e i quarti. Babbo, mamma, Bug, Bago, Billi. Quanto diverso il nome Rutiliano da questi nomi che sembrano formati apposta per la bocca di un bambino, di un balbuziente, di una creatura debole! Quanto estraneo il nome Rutiliano!
Altri sono i momenti di vergogna. Quando Rutiliano viene a trovare Ismene di notte. Ismene allora si alza dal letto, va a prendere il grande paravento e lo apre tra il letto e Bago, così da nascondere il letto. Rutiliano ogni volta stupisce di quella manovra e chiede spiegazioni. Ismene dice che ha paura dell’aria. L’aria? Sı` l’aria che passa sotto la porta. E a rendere più forte il riparo Ismene spiega sul paravento la coperta di giorno del letto, che di notte sta ripiegata su una sedia. Rutiliano guarda quelle operazioni con occhio incomprensivo. Del resto che cosa capisce Rutiliano? Che cosa capisce di lei? Rutiliano è grave e distante. Non ride mai e tiene dietro a certe occupazioni misteriose che necessitano frequenti viaggi. Malgrado il mistero che le avvolge, Ismene non ha curiosità di conoscere le occupazioni di Rutiliano. Fin dove arrivano i suoi ricordi d’infanzia, Ismene ricorda Rutiliano. Questi faceva parte della casa come il divano fa parte del salotto, come la credenza fa parte della stanza da pranzo. Per Natale e la Befana Rutiliano arrivava carico di scatole, dalle quali estraeva con meticolosità i regali. Ismene allora lo baciava in fronte e diceva: « Grazie, zio Rutiliano ». Zio era un titolo d’onore e, per Ismene, sinonimo di vecchio. Non piaceva a Ismene baciare la fronte dello zio Rutiliano nè tanto meno farsi baciare da lui. Eppure quando anche la mamma morì, non rimaneva altro da fare che sposare lo zio Rutiliano. A chi profittava quel matrimonio? A zio non di certo. Così almeno diceva lui. Dalla vita ormai questi non aspettava più nulla. A Ismene invece quel matrimonio avrebbe assicurato benessere e protezione. « Non ci si sposa mica per il solo nostro piacere. » Così disse zio Rutiliano il quale parlava molto di rado, ma le pochissime volte che parlava diceva delle verità inconfutabili. « Fortuna che parla così di rado! » disse Billi a Ismene, e chinò la testa. L’abito di seta, il velo bianco, i regali, gl’invitati, il pranzo avrebbero potuto fare del giorno delle nozze un giorno lieto, ma proprio in quel giorno Billi partì per arruolarsi nella marina. « Come sarebbe felice la tua povera mamma, come sarebbe felice il tuo povero papà!» disse zio Rutiliano, che in quel giorno fu anche più silenzioso del solito.
A tavola, davanti a trenta invitati che si abbottavano, Ismene chiamò suo marito « zio Rutiliano », e immediatamente il gelato le andò per traverso. Pochi giorni dopo, affinchè Ismene non ricadesse nello stesso errore, Rutiliano cambiò nome e si fece chiamare Ruti. Non era vero però che Ruti avesse sempre ragione.
Ismene non trovò in suo marito quella sicurezza, quella confidenza che aveva avuto nei suoi genitori, e per ritrovare le quali si era unita in matrimonio con lui. Le trovò invece in Bug che aveva tanti peli sugli occhi e lo sguardo umano, e dopo la morte di Bug le trovò in Bago. E Bago era impossibile che morisse. Ruti un giorno parlò di rinnovare i mobili della camera da letto, mettere dei mobili più chiari, più freschi, più intonati alla camera di una giovane sposa. Ismene difese i « suoi » mobili con un accanimento che sbalordì Ruti. Questi si maravigliò di un attaccamento così forte a mobili di così poco valore, ma in fondo fu contento di non fare nuove spese. Ismene, specie quando suo marito era in casa, passava la giornata nella propria camera vicino a Bago. Il « vecchio » armadio l’aveva vista nascere, aveva custodito i suoi abiti di bambina, poi quelli di fanciulla e ora custodiva i suoi abiti di donna. Sta seduta accanto al battente socchiuso, come per ascoltare i palpiti di quel cuore tenebroso ma profondamente buono. Si confida con lui. Dice a lui quello che ad altri e soprattutto a Ruti non direbbe mai. Gli parla del ritorno di Billi.
Ruti si affacciò alla porta, annunciò con aria lugubre che partiva con la macchina e non sarebbe ritornato se non l’indomani. Ismene lo baciò in fronte, come quando Ruti era ancora « zio Rutiliano » e le portava i regali di Natale.


Ora Ismene e Billi stanno silenziosi uno di fronte all’altro, come se non avessero nulla da dirsi. È forse imbarazzato Billi di trovarsi nella camera da letto d’Ismene? Costei vuole sentirsi vicino a Bago, ora soprattutto che nella sua camera da letto c’è Billi.

Rombo crescente di un’automobile in arrivo. Scricchiolio della ghiaia sotto le ruote, strappo del freno a mano davanti alla porta d’ingresso.
La voce allarmata di Ancilla nel corridoio: «E` tornato il signore! È tornato il signore! »
Billi scatta in piedi. È pallidissimo. Si guarda attorno. Perché è allarmata la voce di Ancilla? Che pericolo costituisce il ritorno del « signore »? Un urlo. Urlo profondo. Più potente di quanto la più potente voce umana può dare, ma tutto « interno ». Urlo « incarnato » e circoscritto entro un raggio strettissimo. Urlo a uso locale. Urlo « domestico ». Urlo « cubicolare ». Urlo « per pochi intimi ». Nell’urlo, le porte dell’armadio si sono spalancate. Billi spicca un salto e si tuffa dentro l’armadio, che di colpo richiude i battenti. Billi è saltato volontariamente dentro l’armadio, oppure è stato succhiato dall’armadio? Nel momento in cui i battenti dell’armadio si sono aperti, gli abiti di Ismene sono volati fuori a sciame e ora giacciono sparpagliati per la camera, come un bucato in campagna.
Ruti si affaccia alla porta, piu` lugubre che mai.
«Gente inqualificabile! » dice Ruti. « Mi fanno fare centocinquanta chilometri in macchina e non... Che disordine è questo?
Perchè i tuoi abiti sono sparsi sui mobili, per terra? Con quello che costa oggi un abito! »
Ismene guarda i suoi abiti sparsi per la camera. Ma sono davvero i suoi abiti? Ora tutti i suoi abiti sono bianchi. Ismene guarda il suo abito da sera rovesciato sulla spalliera della poltrona, simile a un naufrago piatto su uno scoglio. La forma è la medesima, ma il colore non è più rosso ma bianco. Mentre Ismene stupita guarda il suo abito e stenta a riconoscerlo, l’abito comincia a rosseggiare e a poco a poco ritrova il suo colore che la paura gli aveva fatto perdere.
Ismene invece non ritrova il suo colore: la paura la sbianca ancora che Ruti apra l’armadio per riporvi, lui così meticoloso, gli abiti sparsi.
Ruti dice: « L’ordine è la prima qualità di una padrona di casa: ricordatelo ». E se ne va. Ora anche Ismene comincia a roseggiare in mezzo agli abiti sparsi, che a poco a poco ritrovano il proprio colore: il rosso, il celeste, il verde, l’arancione, il violetto. Quando anche Ismene ha ritrovato il proprio colore, essa va ad aprire l’armadio. L’armadio è vuoto.
Da quel giorno Ismene non si stacco` piu` d’accanto all’armadio. Non tocco` cibo e anche le poche ore che dormiva, le dormiva sulla poltrona presso i battenti socchiusi di Bago.
Visse quindici giorni in tutto. Quando le tirarono via la coperta da sopra le gambe, le trovarono un biglietto posato sulle ginocchia. Era scritto con scrittura infantile. « Anch’io voglio essere chiusa dentro il corpo oscuro e buono di Bago. Gli abiti non siano tolti: sono i miei amici.» In fondo al biglietto c’era un richiamo: «Bago è il nome dell’armadio della mia camera da letto ».
Rutiliano odiava l’assurdità in tutte le sue forme, ma poichè la consuetudine vuole che le volontà dei morti siano rispettate anche se assurde, Rutiliano ordinò che fosse fatto com’era scritto nel biglietto.
Ismene fu collocata nell’armadio e l’armadio calato nella fossa: tomba a due ante e troppo grande per quel corpo così piccino. Come un padre che si chiude la figlia in petto.

Studi etnografici a Kill House, di Dario De Marco

Overlook loop, a cura di Emanuela Cocco per Edizioni Arcoiris, è un libro di racconti di case occupate e infestate, edifici teatro di apparizioni fantasmatiche e di ossessioni nere e sinistre debitrici al film Shining di Stanley Kubrick.
Edifici insidiati dalle ombre, che evocano una fatale arrendevolezza al delirio e alla violenza. L’Overlook Hotel, il teatro dell’azione di Shining, un romanzo horror di Stephen King, un incubo cinematografico di Stanley Kubrick. Case che disorientano, terrorizzano, che tengono in assedio, che intrappolano, tormentano, cancellano. Edifici come camere di martirio, incubi interpretativi che conducono alla perdita della ragione, all’avvento del disordine indicibile e dell’orrore.

Gli autori presenti nella raccolta: Dario De Marco, Veronica Galletta, Francesco Follieri, Romeo Vernazza, Pierpaolo Di Mino con Veronica Leffe, Micol Beltramini e Angelo Mennillo, Cristiano Saccoccia, Simone Lisi, Luca Mignola, Andrea Frau, Andrea Zandomeneghi, Arturo Belluardo, Claudio Morandini, Fabrizio Lucherini, Marta Cai
Ospite straniero: Francisco Magallanes (Traduzione di Antonella Di Nobile)
Prefazione di Paola Del Zoppo, postfazione di Bartolomeo Cafarella.

Cattedrale vi propone il racconto di Dario De Marco, per gentile concessione dell’editore.

Studi etnografici a Kill House
di
Dario De Marco

Come lei ben sa, non c’è cura senza sogno, non c’è analisi senza narrazione, non c’è interpretazione senza interpretazione. Perciò questo è il racconto del sogno che ho fatto, dell’incubo che sto facendo, del labirinto onirico nel quale, a volte, ho l’impressione di vagare ancora.
Non è una storia di paura, avevo detto al mio amico Stefano, però è successa davvero. Sì certo, aveva fatto lui, dicono tutti così, peccato che poi sia esattamente il contrario.
Avevo sorriso ma avevo aggiunto: anzi, sta succedendo.
A quel punto lo avevo incuriosito, ma Stefano non lo avrebbe mai ammesso, perciò aprii la porta delle confidenze senza aspettare un invito. La presi alla lontana, iniziando con gli scarafaggi: le blatte che nella città dove viviamo sono endemiche (a differenza del posto in cui sono nato, che pure ha fama di essere sporco e degradato). Blatte che sembravano sbucare dal nulla, ma quella è la loro caratteristica, convenimmo: se vedi uno scarafaggio in un angolo, vuol dire che acquattati per la casa ce ne sono venti, come mi aveva detto il tizio che era venuto a fare la disinfestazione, peraltro invano. Quindi se sbucano a decine, significa che nelle tane, dietro i battiscopa o nelle cerniere dei mobili, ne proliferano a centinaia. Già, ma la cosa strana è che questo numero ipotetico sembrava variare in maniera repentina, nonché priva di logica: potevamo lasciare del cibo incustodito per terra, e trovarlo intatto, per poi imbatterci in quegli esseri schifosi, che sono soliti scrocchiare sotto le pantofole, nelle stanze meno appetibili della casa.
La polvere, la sporcizia, anche quelle tutto sommato erano normali, almeno a casa nostra: non eravamo mai stati fissati con la pulizia e con l’ordine, né io né mia moglie, e poi da quando c’erano i bambini il caos non aveva fatto altro che prosperare. Certo che però a volte faceva specie vedere delle macchie di unto sul pavimento subito dopo aver passato lo straccio, o cumuli di polvere aggrovigliata a peli sbucare da sotto al cuscino di prima mattina. C’erano poi i rumori dentro alle pareti, come di detriti che scivolavano lungo una conduttura, il che pure poteva essere: il proprietario precedente ci aveva raccontato che prima, in quel vecchio palazzo del centro, in ogni appartamento c’erano vari camini, che poi erano stati murati – persistevano le relative canne fumarie, come grotte cieche nei muri. E c’erano le cose che sparivano, ma questo succede a tutti, figuriamoci a noi; a noi però ricomparivano, dopo giorni o anni, nei posti più incongrui: un vasetto di marmellata nel cesto dei panni sporchi, i soldi dentro ai libri, le posate in fondo alle scatole dei pupazzi. Di queste inusuali allocazioni attribuivamo naturalmente la responsabilità ai bambini, o a volte ci accusavamo l’un l’altra; il che non faceva che aumentare la tensione e i continui screzi che avevano caratterizzato il nostro rapporto da sempre, ma in particolare da quando, freschi sposi, neo genitori, eravamo entrati in quella casa.
Tutte queste cose avevano una spiegazione: razionale, psicologica, soggettiva. Il fatto è che, mi resi conto mentre raccontavo a Stefano, per una forma di vergogna stavo omettendo i particolari più misteriosi, illogici: le macchie sui muri che scomparivano e riapparivano, senza legami apparenti con la stagione o con altri fatti concreti quali perdite, lavori eccetera. Le crepe, che in modo ancora più inspiegabile percorrevano i soffitti come rughe in un volto antico, e poi quando finalmente ci decidevamo a chiamare l’amministratore, o un imbianchino, di colpo sparivano, lasciando uno strascico di aspre polemiche e di dubbi sul nostro senso della vista. La muffa, che io scherzando avevo iniziato a chiamare l’inquilino, da quando avevo letto che i funghi, regno cui le muffe appartengono, sono esseri viventi ramificati, le cui propaggini invisibili possono spargersi per metri o chilometri, pur appartenendo allo stesso “individuo”. Era perciò probabile che le muffe che infestavano gli angoli più riposti dell’appartamento, fin dentro il frigo, fossero un solo, grande essere vivente. O gli interruttori della luce, le prese, che sbucavano in posti del muro dove avremmo giurato non fossero mai stati, mentre altre volte la mano andava a colpo sicuro nel buio, per tentare di fare clic su una parete perfettamente liscia.
Forse fu proprio per questo, per non perdere la sua attenzione, per timore che tutte queste autocensure finissero per fargli ritenere la cosa di poco conto – lo era, in effetti, o almeno così pensavo allora – per una specie di rivalsa verso l’aria di sufficienza con cui già iniziava a guardarmi, o così parve a me, fu allora che feci al mio amico la rivelazione che mi ha portato fin qui, in questa strada senza uscita. Buttai l’osservazione lì, quasi per caso: la coincidenza, che avevo notato, tra gli strani fatti della casa e gli avvenimenti della nostra vita. L’ennesimo litigio con mia moglie, la prima uscita serale della figlia quasi adolescente, i capricci del bambino piccolo, le tensioni, la noia, la rabbia, i malintesi, i rancori – insomma tutto quello che rende speciale la vita di una famiglia, d’altra parte non è per questo che ne formiamo sempre di nuove?
E poi aggiunsi, quasi sottovoce, di nuovo vergognandomi, che pareva quasi come se la casa reagisse agli umori dei suoi abitanti. Quello che mi stupì nella sua reazione, fu la mancanza di stupore: sorrise come se non stesse aspettando altro. Proprio come pensavo, disse, qui ci vuole un analista.
Un analista, ripetei come un’eco. Sì, un analista immobiliare, anzi un’analista, disse per farmi sentire l’apostrofo, ne conosco una bravissima. No un attimo, mi opposi, non ci siamo capiti io a casa mia mi trovo benissimo, non ho la minima intenzione di vendere. (E poi chi sa se riuscirei mai a vendere con quello che succede, come in quei racconti di case dove sono avvenute delle brutte storie, che portano la fama di essere infestate, maledette, o semplicemente sfigate, e che perciò nessuno vuole comprare.) Ho detto analista immobiliare non immobiliarista, mi rimbrottò Stefano, e neppure architetto, mi sembra evidente che il problema non è fisico.
Ma quindi analista… Nel senso di terapeuta, psicologa, strizzacervelli dai, benché qui tecnicamente non ci sia un cervello da strizzare. È pure una mia mezza parente, o almeno portiamo lo stesso cognome, spesso ci scherziamo su questa cosa, magari ci esce un po’ di sconto. Non sapevo bene cosa dire, quindi non dissi niente.
Stefano invece aveva continuato, ironizzando sul fatto che una persona colta come me opponesse resistenze, così tanti anni dopo la scoperta dell’inconscio da parte di Sygmund Floyd, che aveva introdotto il concetto nel seminale Psicopatologia della prima casa, e sistematizzato il metodo nel successivo The dark side of the room. Si sa, le patologie mentali si portano ancora dietro uno stigma che quelle fisiche non hanno più, commentò il mio amico, ma pensavo fosse un atteggiamento da persone più anziane, nella nostra generazione chi ha questi pregiudizi, ormai. Se invece, come immagino, quello che ti lascia perplesso, che rifiuti ideologicamente è l’approccio medicalizzato, sappi che molti analisti contemporanei, tra cui quella che ti propongo, non sono di scuola classica ma seguono le teorie archetipiche di C.N.S. Young, prima allievo e poi avversario del padre della psicanalisi immobiliare. Certo certo, avevo abbozzato, pensando che l’importante è il risultato, e a quel punto un tentativo male non poteva fare. Presi perciò appuntamento, ma in via precauzionale decisi di non dire niente a mia moglie. Il mattino dopo entrai nel ripostiglio, l’unica stanza della casa senza finestre, e vidi incollato alla parete un geco enorme, viscido e trasparente.
Ricordo ancora il primo incontro con lei, è quello che ricordo meglio, non che gli altri non siano stati importanti, ma nella memoria si appiattiscono e si amalgamano in un unico flusso, in una sola infinita seduta.
La prima cosa che fece, rapidamente, fu elaborare una diagnosi; e io che credevo quello fosse il punto di arrivo della terapia, non la partenza. Ricordi, disse, psicosomatico non vuol dire inventato, non vuol dire inesistente. I malesseri psicosomatici portato effetti fisici non meno reali. Ogni malattia è un sintomo, ogni sintomo è un messaggio.
Mi aveva poi iniziato a fare un lungo preambolo, una specie di riassunto della sua materia, come se avesse a che fare con un alieno che fosse appena arrivato per caso su quel pianeta; il che peraltro corrispondeva esattamente al mio stato d’animo, quindi misi da parte l’irritazione per non essere ascoltato come speravo, e stetti a sentire. Partendo dall’epoca preistorica in cui alle costruzioni veniva ingenuamente negata qualsiasi identità, in cui venivano usate come strumento, come esca (la Casa di marzapane, la Cantina di Barbablù). Passando per l’epoca successiva, che aveva trovato il culmine nel Gotico, epoca in cui alle case veniva riconosciuta una certa agency, ma sempre in virtù di forze esterne che le animavano, le infestavano: forze di origine umana come i fantasmi, o mostruosa come i demoni, ma comunque entità altre.
Ci furono dei precursori, nelle ere precedenti a quella moderna, mi spiegò: per esempio Chesterton, da vecchio esorcista cattolico, parlava di un palazzo che è più e meno di un palazzo, di una torre la cui sola architettura è malvagia.
Da lì all’elaborazione dell’inconscio immobiliare, il passo fu breve, fu enorme.
In epoca contemporanea, aveva detto, l’approccio più medico-scientifico, di stampo neuroingegneristico, era tornato in auge; come si erano molto diffuse le storielle divulgative alla Oliver Sax (La donna che scambiò suo marito per un castello, la più nota). Aveva poi nominato i pilastri del costruttivismocomportamentismo, la corrente di architettura anti psicanalitica che mira unicamente a ottenere risultati concreti e misurabili, e i cui autori avevano ideato delle specie di manuali pratici, quasi delle guide: Come costruire una casa di foglie (J.Z. Truant), Come demolire una magione in una sola notte (E.A.P. Usher), Come occupare una casa, metà alla volta (J.C. Morelli). E infine le ricerche sul campo di Bessie Jackson, i sopralluoghi e gli studi etnografici a Kill House, alla villa PyncheonMaule, all’Overloop Motel.
Come lei ben sa, non c’è cura senza sogno, non c’è analisi senza narrazione, non c’è interpretazione senza interpretazione. Perciò è giunto il momento di raccontare di quella notte, dell’incubo dal quale non mi sono mai svegliato, o del sogno che non è mai iniziato, ammesso che ci sia una differenza. Mia moglie era andata qualche giorno fuori con i bambini, con la scusa di un ponte, del primo caldo, dell’invito di amici; sospettavo in realtà per allontanarsi un po’ dalla persona paranoica e cupa che stavo diventando, o peggio, dall’atmosfera paranoica e cupa che ci stava avvolgendo.
Potevo dormire, finalmente: ma non ci riuscivo. Le sarà capitato, o ne avrà letto, sentito parlare: l’insonnia prolungata, unita alla deprivazione sensoriale che di solito si sperimenta nelle ore notturne, quando la casa è immersa nel buio e nel silenzio, può portare a visioni, allucinazioni, distorsioni della percezione e veri e propri stati alternativi di coscienza, non dissimili dallo stato onirico. Così come in sogno abbiamo delle rivelazioni – è l’inconscio che lavora per emergere, naturalmente – e all’improvviso un aspetto della nostra vita ci appare chiaro, quasi ovvio (lei ci tradisce, il nostro capo sta per licenziarci, abbiamo una malattia da cui non guariremo mai), così pure dopo ore senza dormire, sorgono in noi, ma come proiettate dall’esterno, idee magnifiche, consapevolezze nuove. Il sonno più profondo e la sua completa assenza producono gli stessi effetti: curioso paradosso: sono quasi impossibili da distinguere. Se sono sicuro di una cosa, riguardo a quella notte, è che non so, non saprò per sempre, se non mi sono mai addormentato o se non mi sono ancora svegliato. Ma un’altra sensazione mi prese, quando di scatto mi misi a sedere nel letto, una sensazione che invece non avevo provato prima, e che non so come articolare se non con una banalità: la certezza di aver sognato il sogno di qualcun altro; anzi di essere stato nel sogno di qualcun altro; di qualcos’altro.
Come sempre, quando ci svegliamo, tendiamo a localizzare le cause che ci hanno riportato alla realtà negli avvenimenti del sogno, piuttosto che in quelli del mondo reale. Il tappeto volante sul quale stavamo viaggiando si è improvvisamente ribaltato, non è stato il letto a subire una scossa; un mostro assassino avanza a passi pesanti per il corridoio, non è il vicino che ha deciso di piantare chiodi alle tre di notte; stiamo annegando in una grotta subacquea, non abbiamo avuto l’ennesimo episodio di apnea notturna. Così quella notte attribuii il movimento improvviso a… non ricordo cosa, ma qualcosa che stava succedendo da quell’altra parte.
Quando il letto si mosse di nuovo, facendo anche un po’ di rumore, proprio come se qualcuno stesse cercando di trascinarlo verso la parete opposta, in un primo momento non mi spaventai: quando sono solo posso finalmente dormire con un po’ di luce, vidi subito che nella stanza non c’era nessuno. Mi alzai di colpo, barcollando leggermente, cosa che attribuii allo spostamento brusco, e alla mia pressione bassa. Ma quando il pavimento cominciò a inclinarsi, tanto che per rimanere in piedi dovetti aggrapparmi a un cassetto semiaperto del comò, cominciai a sospettare che qualcosa non andava. Dopo qualche secondo, la casa si fermò. Solo il lampadario che oscillava leggermente era lì a testimoniare che non mi ero sognato tutto – a meno che non mi stessi sognando anche quello. Vediamo stavolta che si è inventata questa, dissi tra me e me, più arrabbiato che impaurito, e mi diressi verso la porta a grandi falcate, aspettandomi di trovare, non so, i ratti che brucavano in cucina, la libreria del salotto marcia di acqua e salsedine, una pianta carnivora fiorita sull’attaccapanni di ottone, il solito cinema. Ma la porta non si aprì. La maniglia si girava ma la porta non ne voleva sapere di muoversi, neanche quando iniziai a scuotere e tirare e spingere e provarle tutte, facendo un casino terribile che fu seguito da una reazione altrettanto furibonda: le pareti ripresero a scricchiolare, il letto a sussultare, i cassetti del comò ad aprirsi e chiudersi, il lampadario a fare il pendolo.
Ora basta, dissi ad alta voce, senza neanche rendermene conto, ora basta cazzo hai ROTTO IL CAZZO, stavo urlando, ma quel che è peggio stavo urlando contro la casa, stavo parlando con l’appartamento, forse per la prima volta nella mia vita o almeno da quando lei me l’aveva consigliato, ma la reazione non fu così positiva, forse per il tono che stavo usando forse perché parlare a una cosa è obiettivamente da pazzi, e come il pazzo continuavo a urlare e a scuotere la porta fino a che strappai la maniglia dal legno. A quel punto un boato, un rombo come uno sbadiglio prodotto dal più grande essere vivente che abbia mai abitato il pianeta terra, un muggito che veniva dal profondo dal basso dal lato dall’alto da tutti e da nessun luogo, mi zittì, e zittì ogni altro suono, dentro e fuori la casa.
Allora, con la testa che viaggiava a mille e il cuore che mi batteva fin nei polpastrelli, misi insieme le cose: le crepe, gli scossoni notturni al letto, la vertigine come un mal di mare, e da ultimo la porta. Ma certo: tutti sintomi di una cosa sola, indubitabile, solida e certa, come la morte: il terremoto.
C’erano state più scosse, evidentemente, nei giorni precedenti, scosse di assestamento, no quelle sono quelle che vengono dopo, scosse preparatorie? Minacce? Avvertimenti? Maledizione la sua terminologia animista mi aveva contagiato, ma qui ero di fronte a una cosa concreta, altro che fumisterie psicologistiche, una cosa materiale e pericolosa che stava distruggendo la casa e le nostre vite, me lo ricordavo (dai tanti terremoti vissuti e letti, prima che il palazzo crolli, la sua struttura inizia a cedere, a volte si sgretola un po’ alla volta e se ne viene a pezzi, altre volte in maniera globale, intima, invisibile: è come se tutti i muri, e solo i muri si rimpicciolissero, un po’ come quelle vecchine cui l’osteoporosi accorcia le ossa, e che a un certo punto della vita iniziano a decrescere, come ti sei fatto alto diceva mia madre, mamma ormai ho smesso di crescere da un bel po’, ok che sono sempre il tuo bambino ma ho quarant’anni, i muri collassano ma tutto il resto no, per esempio le parti di legno, i mobili le porte, così la casa sembra più piccola o l’arredamento più grande, ma è solo un attimo prima che esploda tutto, prima che tutto si polverizzi, e però quando te ne redi contro è troppo tardi, perché appunto la cornice della porta è diventata più piccola della porta stessa, e se quella è chiusa non si apre più resta incastrata) c’è un’altra strada, pensai con una lucidità di cui non mi credevo capace, la portafinestra che dà sul balconcino, uscendo mi venne anche in mente di saltare giù siamo solo al primo piano ma poi pensai che c’era un modo migliore per farmi male senza morire, l’altra portafinestra quella del tinello, l’altro orifizio sul retro, quante volte i bambini avevano giocato a rincorrersi in cerchio, scavalcai i cumuli di immondizia regolarmente differenziata che nessuno buttava mai e tirai un pugno nella finestra, con una forza di cui non mi credevo eccetera, non ho mai capito perché nei film si usa avvolgere un oggetto contundente in una coperta, se il colpo è ben assestato il vetro si rompe e cade dall’altra parte in mille pezzi aguzzi e acuminati, ma che ormai non possono farti più male, devi solo stare attento a ritirare la mano con lentezza, aprii il nottolino dall’interno, mi precipitai all’uscio di casa e con la mano insanguinata tremante più di quanto tremava la casa tolsi il blocco, quella porta per fortuna non era incastrata e si aprì, cigolando solo un poco, ma la cosa peggiore di tutte fu quello che vidi dopo. Gli altri appartamenti a cominciare da quello a fianco, che dà sullo stesso ballatoio, erano completamente immo
Perfetto, la ringrazio. Può pagare come sempre a Yörg, il mio segretario che l’aspetta fuori, disse la dottoressa Re.
Ma come, io
Me lo finisce di raccontare al prossimo incontro, la sua ora è finita.

C’era una volta un uomo che viveva vicino a un cimitero, di M.R. James

Racconti Edizioni porta in libreria Monito ai curiosi, storie di fantasmi, di M.R James.
Si racconta che la vigilia di Natale, al King’s College di Cambridge, in diversi, fra studenti e professori, si radunassero attorno a un fuoco vivace per ascoltare delle storie di fantasmi. Era diventata quasi una tradizione. Dentro la saletta, invece, la piccola cerchia era tutta raccolta attorno a questa voce che descriveva canoniche deserte e saloni ingombri di cianfrusaglie, e che si faceva più profonda quando in un manoscritto ritrovato si rintracciava quello che, a tutti gli effetti, sembrava proprio un presagio sinistro. La voce nella penombra era quella di M.R. James, i racconti che leggeva, invece, erano quelli che trovate in Monito ai curiosi.
Riprendere in mano queste storie oggi, dunque, non è certo un mero esercizio di hauntology né di nostalgia per un’epoca in cui bastava un rintocco di campana per farci piombare dentro un’atmosfera soprannaturale e nel terrore più autentico. Come gli oggetti inanimati che incontrerete in questo libro, anche questi racconti oggi sono capaci di assumere una nuova vita e forma.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

C’era una volta un uomo che viveva vicino a un cimitero
di
M.R. James

Questo, come sapete, è l’incipit della storia di spiriti e folletti che Mamilio, il bambino meglio descritto da Shakespeare, raccontava a sua madre, la regina, e alle dame di corte, quando il re irruppe con le sue guardie e la rinchiuse in prigione. Il racconto non ebbe un seguito dato che Mamilio morì poco dopo senza aver avuto la possibilità di terminarlo. Ora, come sarebbe andata a finire? Shakespeare di sicuro lo sapeva e, permettetemi di dire, anch’io. Non sarebbe stata una storia originale, ma una che probabilmente avete già sentito, e persino raccontato. Ciascuno è libero di darne la versione che preferisce. Questa è la mia:

C’era una volta un uomo che viveva vicino a un cimitero. Aveva una casa su due piani, quello inferiore era in pietra e quello superiore in legno. Le finestre della facciata davano sulla strada e quelle del retro sul cimitero. Un tempo – all’epoca della regina Elisabetta – l’edificio apparteneva al parroco, ma il sacerdote era sposato e gli servivano più stanze; inoltre alla moglie non piaceva vedere il cimitero dalla finestra della camera matrimoniale di notte. Diceva che si vedevano… Ma lasciamo stare ciò che diceva; fatto sta che non aveva dato tregua al marito finché non lo aveva convinto a traslocare in una casa più grande nella via principale del paese, e in quella vecchia si stabilì John Poole, un vedovo che vi abitava da solo. Era un uomo anziano che se ne stava molto per conto suo e la gente lo considerava un taccagno.
Molto probabilmente era vero: di sicuro per certe cose era morboso. A quei tempi era consuetudine seppellire i morti di sera e alla luce delle fiaccole: ogni volta che era in corso un funerale, si notava che John Poole guardava dalla finestra, al piano terra o al piano superiore, a seconda che avesse una vista migliore dall’uno o dall’altro.
Venne una sera in cui doveva essere seppellita una vecchia signora. Era piuttosto benestante ma la gente del posto non la vedeva di buon occhio. Di lei si dicevano le solite cose, che non era cristiana e che, in notti come quella della vigilia di mezza estate e di Ognissanti, non era mai a casa. Aveva gli occhi rossi e a guardarla faceva paura, tanto che nemmeno i mendicanti bussavano mai alla sua porta. Eppure, quando morì, lasciò una discreta somma di denaro alla chiesa.
La sera della sua sepoltura non era tempestosa; al contrario, era molto serena e tranquilla. Eppure, trovare uomini disposti a portare la bara e le fiaccole non fu un’impresa semplice, malgrado avesse previsto compensi più alti del solito per chi avesse eseguito il compito. La signora venne sepolta avvolta in una coperta di lana, senza bara. Non c’era nessuno tranne le persone strettamente necessarie… e John Poole, che guardava dalla finestra. Subito prima che la fossa venisse riempita, il parroco si chinò e gettò qualcosa sul corpo (qualcosa che tintinnava) e pronunciò a bassa voce alcune parole che suonavano più o meno così: «Che il tuo denaro muoia con te». Poi si allontanò in fretta, come tutti gli altri uomini, tranne uno che portava la fiaccola per illuminare il sagrestano e il garzone che spalavano la terra. Non fecero un lavoro accurato e il giorno dopo, che era domenica, i parrocchiani si lamentarono con il sagrestano, dicendo che era la tomba più disordinata del cimitero. E in effetti, quando lui stesso tornò a controllarla, gli sembrò che fosse molto peggio di come l’aveva lasciata.
Nel frattempo John Poole si aggirava con aria strana, in parte euforica, per così dire, e in parte inquieta. Contrariamente alle sue solite abitudini, trascorse più di una serata alla locanda e a coloro che si fermavano a fare due chiacchiere con lui fece intendere di essere entrato in possesso di una piccola somma di denaro e di voler cercare una casa migliore. «Be’, non mi meraviglia affatto» disse una sera il fabbro, «io non potrei proprio vivere in un posto simile. Starei tutta la notte a immaginarmi chissà quali cose.» L’oste gli chiese che genere di cose.
«Eh, magari qualcuno che si intrufola dalla finestra della camera, o roba simile» rispose il fabbro. «Che so… tipo la vecchia Wilkins, che è stata sepolta proprio una settimana fa, no?»
«Insomma, dovrebbe avere un po’ di riguardo per la sensibilità altrui» disse l’oste. «Non è bello nei confronti del signor Poole, le pare?»
«Il signor Poole mica ci fa caso» replicò il fabbro. «Se non lo sa lui che ci abita da tanto tempo. Dico solo che io non avrei mai scelto di star lì. La campana a morto e le fiaccole quando seppelliscono qualcuno, e tutte quelle tombe che stanno lì così silenziose quando non c’è più nessuno in giro… Anche se ho sentito parlare di alcune luci, le ha mai viste, signor Poole?»
«No, non ho mai visto nessuna luce» rispose Poole in modo brusco. Ordinò un altro bicchiere e rientrò a casa tardi.
Quella notte, mentre era sdraiato sul suo letto al piano di sopra, il vento cominciò a ululare intorno alla casa e lui non riusciva a prendere sonno. Si alzò e attraversò la stanza fino a un armadietto a muro: tirò fuori qualcosa che tintinnava e se lo infilò nella vestaglia all’altezza del petto. Poi andò alla finestra e guardò verso il cimitero.
Vi è mai capitato di vedere in una chiesa una vecchia lastra d’ottone, con impressa la sagoma di una persona avvolta in un sudario? La parte della testa sporge in modo bizzarro. Qualcosa di simile spuntava dalla terra in un punto del cimitero che John Poole conosceva molto bene. Si precipitò nel suo letto e rimase lì perfettamente immobile.
Poco dopo sentì qualcosa che picchiettava sommessamente contro la finestra. Molto riluttante, John Poole rivolse comunque lo sguardo atterrito in quella direzione. Ahimè! Fra lui e la luce lunare si stagliava la sagoma nera di una strana testa fasciata… Poi nella stanza apparve una figura. Sul pavimento rimbombò il suono della terra secca. Una voce flebile e gracchiante disse: «Dov’è?» mentre risuonavano passi che andavano e venivano, passi incerti, di qualcuno che camminava a fatica. Di tanto in tanto si riusciva a scorgerla, mentre scrutava negli angoli, si chinava a guardare sotto le sedie; alla fine, si udì che armeggiava con le ante dell’armadietto a muro e le spalancava. Poi, lo stridio di unghie lunghe sui ripiani vuoti. La figura si voltò di scatto, si fermò per un istante accanto al letto, alzò le braccia e con un urlo rauco disse: «CE L’HAI TU!».
A questo punto Sua Altezza Reale il principe Mamilio (il quale, penso, l’avrebbe fatta molto più breve), lanciando un grido, si gettò sulla più giovane delle damigelle presenti, che rispose con un urlo altrettanto penetrante. Il principe fu immediatamente trattenuto da Sua Maestà la regina Ermione che, frenando l’impulso di ridere, lo schiaffeggiò con gran severità. Paonazzo e sul punto di scoppiare a piangere, stava per essere mandato a letto, ma per intercessione della sua stessa vittima, ormai ripresasi dallo spavento, gli fu infine permesso di restare sino alla solita ora; nel frattempo anche lui si era ristabilito a tal punto da affermare, mentre dava la buonanotte alla compagnia, che conosceva un’altra storia almeno tre volte più spaventosa di quella, e che l’avrebbe raccontata alla prima occasione.

Enriqueta, di Nicola Ruganti

Il Barrito del mammut porta in libreria la raccolta di Nicola Ruganti Meglio che qua. Sedici novelle che raccontano la quotidianità dei personaggi dando ampio spazio al mondo dei sentimenti che li abitano. Con una penna minimale e lucida Nicola Ruganti entra nelle case, nelle vite e nelle teste dei personaggi, intreccia attualità e cronaca alla narrazione dandoci un cristallino squarcio della nostra quotidianità.
Il libro si arricchisce delle illustrazioni di Luca Dalisi.

Cattedrale vi propone uno dei testi della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

ENRIQUETA
di Nicola Ruganti

Chiudo la porta, tocco per dieci volte le chiavi in tasca e mi convinco di non averle dimenticate. Prendo i prismi di vetro trasparente del lampadario di camera mia. Enriqueta se n’è andata ormai da molti anni, io ho trovato il tempo solo oggi di smontare il lampadario. “Ci vuole il tempo che ci vuole”, ricordo che mi diceva sempre così quando, esasperandola, per decidere una cosa mi ci voleva molto tempo. Comunque ho deciso, oggi vado da Oscar, ci vado due volte alla settimana. Vado all’Els Encants, un mercato dell’usato molto grande. Oscar lavora lì, ha uno stand di lampadari, applique e chincaglierie antiche per sostituire pezzi rotti. Ha tutto in ordine: scatole da scarpe una accanto all’altra piene di vetrini, plastiche simil-vetro, tutte di forme diverse e tutti pezzi uguali in ogni scatola. Sto smontando le suppellettili di casa, senza fretta; ci vado anche un po’ per chiacchierare. Arrivo al mercato, sembra un enorme bazar, sotto il guscio della riqualificazione prezzi e venditori sono gli stessi di quando ci venivamo con Enriqueta. Oscar è molto burbero con me, chissà se da fuori si potrebbe pensare che mi tratta male. A me va bene così, se non vado da lui non saprei da chi andare. Da lui c’è sempre qualcuno, i suoi amici, altri venditori, e io mi fermo a guardarli. Una volta addirittura Oscar mi ha dato un colpetto sulla testa, tipo per scionnarmi. L’ho ringraziato, la sera sentivo ancora pizzicare sulla testa, ma non ci ho badato. Un po’ imbambolato mi guardo attorno: arriva un tizio e con un telefono gli mostra una foto, Oscar inizia a far vedere la foto a tutti e a ridere. A me dice:
– Lascia perdere, non guardare.
Credo sia una cosa che non merita di essere presa e rivenduta. Tocca a me, gli faccio vedere i prismi trasparenti preparati e allineati con pazienza e precisione dentro una scatola, Oscar li prende e li getta in un secchio. Mi guarda come un estraneo, non può farmi questo, trattato male sì, estraneo no. Mi allunga due euro spicci; li prendo, mi rendo conto della miseria che ho nelle mani e non mi capacito. Quando ero giovane, appena arrivato, facevo il lavapiatti in un locale sulla Rambla e avevo come capocuoco un giovane sulla quarantina che usciva durante il lavoro, andava a pippare coca per un paio d’ore in un locale notturno lì vicino e rientrava strafatto. Un giorno tornò, mi chiese di finire di preparare un piatto, e minacciò di dire al padrone di licenziarmi:
– Finisci tu, io esco di nuovo e mi raccomando pulisci bene!
Lo disse pure ridendo sprezzante; avevo un vassoio pieno di piatti e bicchieri e non ci fu più niente tra me e la rabbia. Gli tirai il vassoio addosso, cadde a terra e lo presi a calci, e andandomene gli buttai lo straccio su quella faccia strafatta. Oscar è davanti a me, molto più vecchio del capocuoco, e anch’io. Quasi a rallentatore inizio a prendere a calci la sua chincaglieria, se Oscar è uno sconosciuto niente mi frena più. Oscar rimane come paralizzato, quel che basta perché possa frantumare il suo bazar con una furia senza perdono, una furia da vecchio. Durante il cammino verso casa passo accanto al fruttivendolo: è appena arrivato un camion di consegna, capisco che al ragazzo del Bangladesh che gestisce il negozio manca una cassa, il camionista catalano cerca di fare finta di niente, allora quelli del negozio si iniziano a incazzare e, senza troppa fatica, si fanno rispettare.
Li osservo ammirato, ma non sento l’angoscia di sempre, oggi sono un po’ più leggero. Mi guardo nella vetrina, mi viene da piangere, ma non ci riesco; è tardi per dirglielo, ma oggi Enriqueta sarebbe contenta: c’è voluto il tempo che ci è voluto, ma quel baccano da Oscar l’ho fatto e alla fine l’avrei guardata, mi avrebbe sorriso, saremmo scappati per mano. Io, lei e tutto il nostro imbarazzo, per la prima volta.

La signorina Mary Pask, di Edith Wharton

Neri Pozza porta in libreria Fantasmi, di Edith Wharton. La raccolta fu concepita nella sua forma attuale dalla stessa Wharton prima di morire ma, pubblicata postuma nel 1937, finí ingiustamente dimenticata. In questi piccoli capolavori ritrovati, sottilmente inquietanti, ora presentati nella nuova traduzione di Tiziana Lo Porto, si possono riconoscere tutti i temi cari alla sua letteratura. Avvolti nell’abito sontuoso che tanto bene le conosciamo: la prosa nitida e affilata che sa illuminare i territori nascosti della realtà quanto, insospettabilmente, quelli del soprannaturale. 

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La signorina Mary Pask
di Edith Wharton

I

Fu solo la primavera successiva che mi feci coraggio e raccontai alla signora Bridgeworth cosa mi era successo quella notte a Morgat.
Tanto per cominciare la signora Bridgeworth era in America. E dopo la notte in questione ero rimasto diversi mesi all’estero, non per piacere, Dio lo sa, ma per un esaurimento nervoso che si pensava fosse dipeso dall’avere ricominciato a lavorare troppo presto dopo il mio attacco di febbre in Egitto. Ma anche se fossi stato vicino di casa di Grace Bridgeworth non avrei potuto parlarne prima, né a lei né a nessun altro, non prima di essere guarito e tornato in piedi in uno di quei meravigliosi sanatori svizzeri dove ti rimettono a nuovo. Non avrei nemmeno potuto scriverle, non senza rischiare la vita. Gli avvenimenti di quella notte dovettero essere ricoperti da uno strato dopo l’altro di tempo e oblio prima che potessi tollerarne un ritorno.
L’inizio fu stupidamente semplice: solo il riflesso improvviso di una coscienza del New England che agisce su una costituzione indebolita. Stavo dipingendo in Bretagna, in un clima autunnale incantevole ma instabile, un giorno era tutto azzurro e argento, e il successivo era burrasche ruggenti o fitta nebbia. Sulla Pointe du Raz c’è una rozza locanda imbiancata a calce, brulicante di turisti in estate ma solitaria e bagnata dal mare in autunno. E io me ne stavo lí a cercare di dipingere le onde, quando qualcuno disse: «Dovrebbe andare a Cap qualcosa, oltre Morgat».
Vi andai e vi trascorsi una giornata argentea e azzurra, e sulla via del ritorno il nome Morgat creò un’inaspettata associazione di idee: Morgat, Grace Bridgeworth, la sorella di Grace, Mary Pask – «Sai che adesso la mia cara Mary ha una casetta vicino a Morgat? Se mai andrai in Bretagna, vai a trovarla. Vive una vita troppo solitaria, e la cosa mi preoccupa molto».
Ecco come accadde. Conoscevo la signora Bridgeworth da anni, ma non avevo particolare confidenza con Mary Pask, sua sorella maggiore e nubile. Sapevo che Grace e lei erano molto legate. La cosa che aveva piú addolorato Grace, quando aveva sposato il mio vecchio amico Horace Bridgeworth, ed era andata a vivere a New York, era che Mary, da cui non si era mai separata fino a quel momento, si fosse ostinata a restare in Europa, dove le due sorelle erano andate in viaggio dopo la morte della madre. Non ho mai capito bene perché Mary Pask si fosse rifiutata di raggiungere Grace in America. Grace diceva che era per la sua «vena artistica» – ma conoscendo l’anziana signorina Pask e la natura estremamente elementare del suo interesse per l’arte, mi chiedevo se non fosse piuttosto perché non le piaceva Horace Bridgeworth. C’era una terza alternativa – piú plausibile nel caso di Horace – ed era che forse le piaceva troppo. Ma la cosa tornava a essere impensabile (quantomeno cosí credevo) conoscendo la signorina Pask: la signorina Pask con il suo viso tondo arrossato, i suoi occhi sporgenti dall’espressione innocente, il suo appartamento da vecchia zitella carico di ninnoli e la sua vaga e timida filantropia. Lei, aspirare a Horace…!
Ebbene, era tutto piuttosto enigmatico, o lo sarebbe stato se fosse stato abbastanza interessante da suscitare in me la voglia di occuparmene. Ma non lo era. Mary Pask era come centinaia di altre vecchie zitelle sciatte, allegri rottami contenti dei loro innumerevoli piccoli surrogati di vita. Persino Grace non mi avrebbe interessato particolarmente se non avesse sposato uno dei miei piú vecchi amici e non fosse stata gentile con i suoi amici. Era una bella donna efficiente e alquanto noiosa, votata al marito e ai figli, e senza un briciolo di immaginazione, e tra il suo attaccamento alla sorella e l’adorazione di Mary Pask nei suoi confronti c’era l’inevitabile abisso che c’è tra i sentimenti di chi non ha una vita sentimentale e quelli di chi ha una vita affettiva appagante. Ma una stretta intimità aveva legato le due sorelle prima del matrimonio di Grace, e Grace era una delle donne dolci e coscienziose che continuano a usare il linguaggio della devozione nei confronti delle persone che amano senza vederle. Tanto che quando disse: «Sai che sono anni che io e Mary non ci vediamo, non la vedo da quando è nata la piccola Molly. Se solo fosse venuta in America! Basti pensare che… Molly ha sei anni e non ha mai visto la sua cara zia…», quando lo disse, e aggiunse: «Se vai in Bretagna, promettimi che cercherai la mia Mary», mi ritrovai in quella profondità oscura del nostro essere in cui prendiamo impegni non necessari.
E cosí accadde che, in quel pomeriggio argenteo e azzurro, l’idea «Morgat – Mary Pask – compiacere Grace» risvegliò improvvisamente in me il senso del dovere. Molto bene: avrei messo un po’ di cose nella borsa, dedicato le ore di luce a dipingere, sarei andato a trovare la signorina Pask quando la luce si fosse affievolita, e avrei passato la notte alla locanda di Morgat. A tal fine ordinai a un traballante veicolo a un solo cavallo di aspettare alla locanda che tornassi dal mio studio dove dipingevo, e con esso mi avviai verso il tramonto in cerca di Mary Pask…
All’improvviso, come un paio di mani sbattute sugli occhi, la nebbia marina piombò su di noi. Un attimo prima attraversavamo un vasto altopiano brullo, girando le spalle a un tramonto che colorava di cremisi la strada davanti a noi, un attimo dopo eravamo avvolti nella piú densa delle notti. Nessuno era riuscito a dirmi con esattezza dove abitava la signorina Pask, ma pensai che probabilmente lo avrei scoperto nel villaggio di pescatori verso il quale stavamo cercando di dirigerci. E avevo ragione… Un vecchio su un uscio ci indicò: sí, sopra la prossima altura, e poi giú per un viottolo a sinistra che portava al mare; la signora americana che vestiva sempre di bianco. Oh, lui la conosceva bene… vicino alla Baie des Trépassés.
«Sí, ma come facciamo a trovarla? Non conosco quel posto» brontolò il ragazzo riluttante che mi stava accompagnando.
«Lo capirai quando saremo arrivati» commentai.
«Sí… e nel frattempo il cavallo si è azzoppato! Non posso correre rischi, signore. Mi metterò nei guai con il padrone».
Finalmente un valido argomento lo indusse a sbloccarsi e a guidare il cavallo zoppicante, e noi proseguimmo per la nostra strada. Sembrò che strisciassimo per un bel po’ in mezzo a un’umida e impenetrabile oscurità, rischiarata dal bagliore della nostra unica lanterna. Ma di tanto in tanto la coltre si sollevava o le sue pieghe si aprivano, e allora la nostra debole luce tirava fuori dalla notte un oggetto perfettamente ordinario – un cancello bianco, il muso di una vacca dallo sguardo fisso, un mucchio di sassi lungo la strada – reso portentoso e incredibile dall’essere cosí distaccato dal suo ambiente, capricciosamente spinto verso di noi, per poi ritrarsi di colpo. Dopo ciascuna di queste proiezioni l’oscurità diventava tre volte piú fitta, e la sensazione che avevo da tempo di scendere un pendio sempre piú ripido ora diventò quella di essere diretti verso un precipizio. Saltai fuori in fretta e andai a mettermi accanto al mio giovane conducente che reggeva la cavezza del cavallo.
«Non posso andare avanti… non lo farò, signore!» piagnucolò quello.
«Ehi, guarda, c’è una luce laggiú… proprio lí davanti!»
Il cielo si rischiarò per un istante e vedemmo due quadrati scarsamente illuminati dentro una forma bassa che era sicuramente la facciata di una casa.
«Portami fino a lí, poi se vuoi puoi tornare indietro».
La coltre ci avvolse nuovamente, ma il ragazzo aveva visto le luci e aveva riacquistato coraggio. Di sicuro c’era una casa davanti a noi e di sicuro doveva essere della signorina Pask, dal momento che non ce ne potevano essere due in un tale deserto. D’altronde il vecchio del borgo aveva detto: «Vicino al mare», e quelle infinite modulazioni della voce dell’oceano, tanto familiari in ogni angolo della terra bretone che si possono misurare le distanze servendosi di quelle piuttosto che della propria vista, mi dicevano da tempo che ci stavamo dirigendo verso la riva. Il ragazzo continuò a guidare il cavallo senza dare alcuna risposta. La nebbia si era addensata piú che mai e la lampada ci mostrava semplicemente le grosse gocce rotonde di bagnato sulle cosce irsute dell’animale. Il ragazzo si fermò di scatto.
«Non c’è nessuna casa, andiamo dritto in mare».
«Ma le hai viste quelle luci, no?»
«Pensavo di sí. Ma dove sono ora? La nebbia si è di nuovo diradata. Guardi, riesco a distinguere gli alberi piú avanti. Ma non ci sono piú le luci».
«Saranno andati a letto» suggerii scherzosamente.
«Allora non dovremmo tornare indietro, signore?»
«Come? A due metri dal cancello?»
Il ragazzo taceva: certo c’era un cancello davanti a lui, e dietro gli alberi gocciolanti doveva esserci una qualche abitazione. A meno che non ci fosse solo un campo e il mare… il mare, la cui voce affamata continuava a chiedere, vicinissimo a noi. Non c’era da stupirsi che il luogo si chiamasse Baia dei Morti! Ma cosa poteva aver spinto la rosea benevola Mary Pask a venire a seppellirsi qui? Naturalmente il ragazzo non mi avrebbe aspettato… lo sapevo… la Baie des Trépassés, davvero! Il mare gemeva laggiú come se fosse l’ora del pasto, e le Furie, i suoi guardiani, l’avevano dimenticato…
Ecco il cancello! Tastando con la mano lo avevo trovato. Cercai alla cieca il chiavistello, lo aprii e strisciai tra i cespugli bagnati fino alla facciata della casa. Non un luccichio di candela da nessuna parte. Se la casa era davvero della signorina Pask, di certo si alzava presto e andava a dormire presto…

II

Notte e nebbia adesso erano una cosa sola, e l’oscurità era fitta come una coperta. Cercai invano un campanello. Alla fine la mia mano entrò in contatto con un battente e lo sollevai. Il rumore con cui ricadde mandò un’eco prolungata nel silenzio, ma per un minuto o due non accadde altro.
«Non c’è nessuno lí, glielo dico io!» urlò impaziente il ragazzo dal cancello.
E invece c’era. Non udii passi dentro la casa, ma l’attimo dopo si sentí scorrere un catenaccio e una vecchia con un berretto da contadino spinse fuori la testa. Aveva posato la candela su un tavolo dietro di sé, e il suo viso, circondato da ali di pizzo, restava nell’oscurità, ma capii che era anziana dall’incurvatura delle spalle e dai movimenti maldestri. La luce della candela, che la rendeva invisibile, mi cadde in pieno sul viso e lei mi guardò.
«È la casa della signorina Mary Pask?»
«Sissignore». La sua voce, una voce molto vecchia, era abbastanza piacevole, per niente sorpresa e persino amichevole.
«Vado ad avvisarla» aggiunse, trascinandosi dentro.
«Pensa che mi riceverà?» le urlai dietro.
«Oh, perché no? Che idea!» quasi ridacchiò. Mentre si allontanava, vidi che era avvolta in uno scialle e aveva un ombrello di stoffa sotto il braccio. Ovviamente stava uscendo, forse tornava a casa per la notte. Mi chiesi se Mary Pask vivesse tutta sola nel suo eremo.
La vecchia sparí con la candela e io rimasi nel buio piú totale. Dopo un po’ sentii chiudersi una porta sul retro della casa e poi, dall’esterno, arrivò un lento battere di vecchi zoccoli di legno lungo il lastricato. Evidentemente la vecchia aveva preso i suoi zoccoli in cucina ed era uscita di casa. Mi chiesi se prima di andare via avesse detto alla signorina Pask della mia presenza, o se si fosse limitata a lasciarmi lí, bersaglio di un macabro scherzo. Di sicuro non si sentiva alcun suono dietro le porte. I passi si spensero, sentii lo scatto di un cancello, poi il silenzio piú assoluto si richiuse come la nebbia.
«Mi domando…» cominciai a dirmi, e in quel momento un ricordo soffocato affiorò bruscamente alla superficie della mia mente languida.
«Ma è morta… Mary Pask è morta!» Per lo stupore quasi lo dissi ad alta voce.
Erano incredibili gli scherzi che la mia memoria mi stava giocando da quando avevo avuto quella febbre! Sapevo da quasi un anno che Mary Pask era morta – era morta all’improvviso l’autunno precedente – e anche se avevo pensato a lei quasi di continuo negli ultimi due o tre giorni, fu solo in quel momento che il fatto dimenticato della sua morte esplose di nuovo alla coscienza.
Morta! Ma non avevo forse trovato Grace Bridgeworth in lacrime e vestita di crespo il giorno stesso in cui ero andato a salutarla prima di salpare per l’Egitto? Non mi aveva forse messo il telegramma davanti agli occhi, in lacrime, per farmi leggere: «Sua sorella morta all’improvviso questa mattina chiesta sepoltura nel giardino di casa particolari per lettera» – con la firma del console americano a Brest, un amico di Bridgeworth, mi sembrava di ricordare? Riuscivo a vedere le parole esatte del messaggio stampate nell’oscurità davanti a me.
Mentre me ne stavo lí in piedi, ero molto piú turbato dalla scoperta dei miei vuoti di memoria che dal fatto di essere solo in una casa buia, vuota o abitata da estranei. Mi era già capitato negli ultimi tempi di notare questa strana cancellazione temporanea di un fatto ben noto, ed ecco che era successo di nuovo. Decisamente non ero cosí guarito dalla mia malattia come mi avevano detto i medici… Be’, sarei tornato a Morgat e me ne sarei stato a letto lí per un giorno o due, senza fare nulla, solo mangiare e dormire… Assorto com’ero nei miei pensieri, avevo perso l’orientamento e non ricordavo piú dove fosse la porta. Cercai un fiammifero in ogni tasca, ma visto che i dottori mi avevano fatto smettere di fumare, perché avrei dovuto trovarne uno?
L’impossibilità di trovare un fiammifero aumentò il senso di irritazione e di impotenza, e stavo brancolando goffamente per l’atrio tra gli spigoli di mobili invisibili quando una luce tagliò in obliquo la parete grezza delle scale. Ne seguii la direzione e sul pianerottolo sopra di me vidi una figura vestita di bianco che con una mano ombreggiava una candela e guardava in basso. Un brivido mi attraversò la schiena, perché la figura aveva una strana somiglianza con quella della Mary Pask che conoscevo.
«Oh sei tu!» esclamò con una voce stridula e cinguettante che sembrò per un istante il tremulo di una vecchia, e l’attimo dopo il falsetto di un bambino. Scese trascinandosi nei suoi larghi abiti bianchi, con i suoi soliti movimenti goffi e ondeggianti, ma notai che i suoi passi sulle scale di legno erano silenziosi. Be’, certo che lo erano!
Rimasi fermo senza dire una parola, guardando la strana visione sopra di me e dicendo a me stesso: «Non c’è niente lí, niente di niente. È la tua digestione, o i tuoi occhi, o qualche altra dannata cosa che non va in te…»
Ma la candela c’era di sicuro, e mentre si avvicinava e illuminava la stanza intorno a me, mi voltai e mi aggrappai al chiavistello. Perché, ricordate, avevo visto il telegramma e Grace con il suo abito di crespo… «Ehi, che succede? Ti assicuro che non mi disturbi!» cinguettò la figura bianca, aggiungendo con una lieve risata: «Non ho cosí tanti visitatori ultimamente…»
Aveva raggiunto l’atrio e mi si era fermata davanti, alzando la candela tremolante e guardandomi in faccia. «Non sei cambiato, non quanto avrei pensato. Ma io sí, eh?» mi chiese con un’altra risata, e mi posò bruscamente la mano sul braccio. Guardai la mano e pensai tra me e me: «Questa non può ingannarmi».
Ho sempre fatto attenzione alle mani. La chiave del carattere che gli altri cercano negli occhi, nella bocca, nella forma del cranio, io la ritrovo nella curva delle unghie, nel taglio dei polpastrelli, nel modo in cui il palmo, roseo o giallastro, liscio o segnato, si gonfia dalla base. Ricordavo vividamente la mano di Mary Pask, perché era cosí simile a una caricatura della proprietaria: rotonda, paffuta, rosa, eppure prematuramente vecchia e inutile. E lí, in modo inequivocabile, giaceva sulla mia manica: ma cambiata e raggrinzita, in qualche modo simile a uno di quei pallidi funghi maculati che il minimo tocco trasforma in polvere… In polvere? Ma certo…
Guardai le morbide dita rugose, con i loro stupidi polpastrelli ovali che una volta erano rosa in modo cosí innocente e naturale, e adesso erano blu sotto le unghie ingiallite, e la pelle mi si alzò in creste di paura. «Entra, vieni» cinguettò, inclinando la testa bianca e spettinata da un lato e alzando gli occhi azzurri sporgenti verso di me. La cosa orribile era che praticava ancora le stesse arti, tutte le astuzie infantili di una goffa e capricciosa civetteria. Sentii che mi tirava per la manica e mi trascinava nella sua scia come un cavo d’acciaio.
La stanza in cui mi condusse era… be’, «immutata» è il termine che si usa di solito in questi casi. Perché di regola, dopo la morte delle persone, le cose vengono risistemate, i mobili vengono venduti, i ricordi sono inviati alla famiglia. Ma una pietà morbosa (o forse le istruzioni di Grace) aveva mantenuto questa stanza esattamente come immaginavo fosse stata durante la vita della signorina Pask. Non ero dell’umore giusto per notare i dettagli, però nel debole oscillare della luce al movimento delle candele ero in parte consapevole di cuscini sporchi, una raccolta di pentole di rame e un vaso che reggeva un ramo sbiadito di qualche arbusto a fioritura tardiva. Un vero interno alla Mary Pask!
La figura bianca guizzò spettrale verso il camino, accese altre due candele e posò la terza su un tavolo. Non mi consideravo superstizioso, ma quelle tre candele! Senza quasi sapere cosa facevo, mi piegai in fretta e ne spensi una. La sua risata risuonò alle mie spalle.
«Tre candele… ti preoccupi ancora per quel genere di cose? Io le ho superate, sai». Ridacchiò. «È un tale conforto… un tale senso di libertà…» Un nuovo brivido si uní agli altri che mi scorrevano dentro.
«Vieni a sederti vicino a me» pregò, sprofondando su un divano. «Erano secoli che non vedevo un essere vivente!»
La sua scelta di termini era sicuramente peculiare, e quando si appoggiò allo schienale del soffice divano bianco e mi fece cenno con una di quelle mani mai sepolte, il mio istinto fu di voltarmi e correre via. Ma il suo vecchio viso, al lume di candela, con le guance innaturalmente rosse come mele laccate e gli occhi azzurri che nuotavano in una vaga gentilezza, sembrò richiamarmi per la mia codardia, ricordandomi che, viva o morta, Mary Pask non avrebbe fatto male a una mosca.
«Siediti!» ripeté, e io occupai l’angolo opposto del divano.
«È cosí meravigliosamente gentile da parte tua… immagino sia stata Grace a chiederti di venire». Rise di nuovo: la sua conversazione era sempre scandita da risate sconclusionate. «È un evento, un vero evento! Perché sai, ho avuto cosí pochi visitatori dalla mia morte».
Per me fu come un’altra secchiata d’acqua fredda, ma la guardai con risolutezza, e ancora una volta l’innocenza del suo volto mi disarmò.
Mi schiarii la voce e parlai, faticando enormemente a respirare, come se avessi sollevato una lapide. «Vivi qui da sola?» riuscii a tirare fuori.
«Ah, sono contenta di sentire la tua voce, ricordo ancora le voci, anche se ne sento cosí poche» mormorò sognante. «Sí, vivo qui da sola. La vecchia che hai visto se ne va di notte. Non resta dopo il tramonto… dice che non può. Non è strano? Ma non importa. L’oscurità mi piace». Si chinò su di me con uno dei suoi sorrisi immotivati. «I morti» disse «ci si abituano naturalmente».
Ancora una volta mi schiarii la gola, ma non seguí nulla.
Continuò a fissarmi con ammiccamenti confidenziali. «E Grace? Raccontami tutto del mio tesoro. Avrei voluto rivederla… soltanto una volta». La sua risata venne fuori in modo grottesco. «Quando ha saputo della mia morte eri con lei? Era terribilmente sconvolta?»
Mi alzai goffamente con un balbettio senza senso. Non riuscivo a rispondere, non riuscivo a continuare a guardarla.
«Ah, capisco… è troppo doloroso» ammise, con gli occhi lucidi, e voltò la testa tremante dall’altra parte. «Ma d’altronde… sono felice che fosse cosí dispiaciuta… È ciò che desideravo ardentemente che mi venisse detto, e che facevo fatica a sperare. Grace dimentica…» Anche lei si alzò, e svolazzò attraverso la stanza, ondeggiando sempre piú vicina alla porta.
«Grazie a Dio» pensai, «se ne sta andando».
«Sai com’è questa casa alla luce del giorno?» chiese bruscamente. Scossi la testa.
«È bellissima. Ma venendo di giorno non avresti visto me. Avresti dovuto scegliere tra me e il paesaggio. Odio la luce, mi fa venire il mal di testa. E cosí dormo tutto il giorno. Mi stavo appena svegliando quando sei arrivato». Mi sorrise con un’aria sempre piú confidenziale. «Sai dove dormo di solito? Laggiú… in giardino!» La sua risata squillò di nuovo. «C’è un angolo all’ombra, in fondo, dove il sole non dà mai fastidio. A volte dormo lí finché non spuntano le stelle».
Mi tornò in mente la frase sul giardino nel telegramma del console, e pensai: «Tutto sommato non è una condizione cosí infelice. Mi chiedo se non stia meglio di quando era viva…»
Forse lei era piú felice, ma io ero sicuro di non esserlo in sua compagnia. E il suo modo di muoversi di soppiatto verso la porta mi fece desiderare di raggiungerla per primo. In un impeto di codardia le passai davanti a grandi passi, ma un istante dopo lei aveva il chiavistello in mano ed era appoggiata al battente, con la lunga veste bianca che le pendeva addosso come un sudario. Chinò leggermente la testa di lato e mi scrutò da sotto le palpebre senza ciglia.
«Non te ne starai andando?» mi rimproverò.
Cercai invano la voce che mi era venuta meno, e in silenzio feci segno che sí, stavo andando via. «Te ne vai… vai via? Del tutto?» I suoi occhi erano ancora fissi su di me, e vidi due lacrime raccogliersi agli angoli e scorrere sui cerchi rossi e scintillanti delle guance. «Oh, ma non devi» disse dolcemente. «Sono troppo sola…»
Balbettai qualcosa di inarticolato, gli occhi fissi sulla mano dalle unghie blu che teneva il chiavistello. D’un tratto la finestra dietro di noi si spalancò e una folata di vento, proveniente dalle tenebre, spense la candela all’angolo del camino piú vicino. Mi guardai indietro nervosamente per vedere se anche l’altra candela si stesse spegnendo.
«Non ti piace il rumore del vento? A me sí. È l’unico con cui posso parlare… Alla gente non piaccio molto da quando sono morta. Strano, vero? I contadini sono cosí superstiziosi. A volte sono proprio sola…» La sua voce si spezzò in un ultimo sforzo di fare una risata, e ondeggiò verso di me, una mano ancora sul chiavistello.
«Sola, sola! Se sapessi quanto sono sola! Era una bugia quando ti ho detto che non lo ero! E adesso vieni, e il tuo viso sembra amichevole… e dici che mi lascerai! No, no, no, non lo farai! Altrimenti perché saresti venuto? È crudele… Credevo di sapere cosa fosse la solitudine… sai, dopo che Grace si è sposata. Grace era convinta di pensare sempre a me, ma non era cosí. Mi chiamava “tesoro”, ma pensava a suo marito e ai suoi figli. Allora mi sono detta: “Non potresti essere piú sola se fossi morta”. Ma ora so che non è cosí… Non mi sono mai sentita sola come quest’ultimo anno… Proprio nessuno! E a volte me ne sto seduta qui e penso: “Se un giorno venisse un uomo e si invaghisse di me?”» Fece un’altra risatina vacillante. «Be’, cose del genere sono successe, ecco, anche dopo che la giovinezza è andata… un uomo anche lui con i suoi guai. Ma fino a stasera non si era visto nessuno… e adesso dici che te ne vai!» D’un tratto si gettò verso di me. «Oh, resta con me, resta con me… solo per stanotte… È cosí dolce e tranquillo qui… Non lo verrà a sapere nessuno… nessuno verrà a darci fastidio».
Avrei dovuto chiudere la finestra alla prima raffica. Avrei potuto aspettarmi che presto ce ne sarebbe stata un’altra, piú feroce. Arrivò proprio in quell’istante, sbattendo all’indietro la grata allentata, riempiendo la stanza del rumore del mare e di umidi vortici di nebbia, e scagliando l’altra candela sul pavimento. La luce si spense e io rimasi lí – noi restammo lí – persi l’uno per l’altra nell’oscurità ruggente che ci avvolgeva. Sembrò che il mio cuore avesse smesso di battere. Fui costretto a riprendere fiato con grandi ansimi che mi coprirono di sudore. La porta… la porta, be’, sapevo di averla davanti quando la candela si era spenta. Qualcosa di bianco e simile a uno spettro sembrò sciogliersi e accartocciarsi davanti a me nella notte, ed evitando il punto in cui quel qualcosa era sprofondato, avanzai a tentoni in un ampio cerchio, presi in mano il chiavistello, infilai il piede in una sciarpa o manica, svolazzante e invisibile, e mi liberai di scatto da quest’ultimo ostacolo. Adesso avevo aperto la porta. Entrando nell’atrio sentii un lamento dall’oscurità alle mie spalle, ma riuscii a raggiungere la porta d’ingresso, la aprii e mi precipitai fuori nella notte. Sbattei la porta in faccia a quel pietoso gemito basso, e la nebbia e il vento mi avvolsero nelle loro braccia confortanti.

III

Quando mi fui ripreso a sufficienza da fidarmi di me stesso e ripercorrere quanto era successo, scoprii che il solo pensiero mi faceva venire la febbre e pulsare il cuore in gola.
Era inutile… semplicemente non riuscivo a sopportarlo… perché avevo visto Grace Bridgeworth vestita di crespo, che piangeva sul telegramma, eppure mi ero seduto a parlare con sua sorella, sullo stesso divano, sua sorella che era morta da un anno! Era un circolo vizioso, non c’era modo di spezzarlo. Il fatto che la mattina seguente avessi la febbre avrebbe potuto spiegarlo, ma non riuscivo a sfuggire alla realtà soffocante di quella visione. E se fosse stato un fantasma la donna con cui avevo parlato e non una semplice proiezione della mia febbre? E se qualcosa di Mary Pask fosse sopravvissuto quanto bastava da gridarmi la silenziosa solitudine di una vita, da esprimere finalmente ciò che la donna in carne e ossa aveva sempre tenuto nascosto? Il pensiero curiosamente mi commosse: debole com’ero, piansi sdraiato nel mio letto. Un’infinità di donne era cosí, immaginai, e forse, dopo la morte, se ne avevano l’occasione, cercavano di sfruttarla… Vecchi racconti e leggende mi fluttuavano nella mente – la sposa di Corinto, il vampiro medievale – ma quale nome dare all’immagine lamentosa di Mary Pask?
La mia mente debole vagava dentro e fuori quelle visioni e congetture, e piú a lungo vivevo con loro, piú mi convincevo che ciò che era stata Mary Pask aveva parlato con me quella notte… Decisi che, quando fossi stato di nuovo in forma, sarei tornato in quel posto (in pieno giorno, questa volta) per cercare la tomba in giardino – quell’«angolo all’ombra dove il sole non dà mai fa stidio» – e placare il povero fantasma con qualche fiore. Ma i medici erano di parere diverso, e forse la mia debole volontà inconsapevolmente li assecondò. Comunque sia, cedetti alla loro insistenza di essere trasferito direttamente dal mio albergo al treno per Parigi, e poi trasbordato, come un bagaglio, al sanatorio svizzero che avevano in mente per me. È ovvio che avevo intenzione di tornare non appena mi avessero rimesso a posto… e nel frattempo, con crescente tenerezza, ma in modo piú intermittente, i miei pensieri tornavano dalla mia montagna innevata a quella ventosa notte autunnale sopra la Baie des Trépassés, e alla rivelazione della morta Mary Pask, che per me era piú reale di quanto non lo fosse stata da viva.

IV

Del resto, perché avrei dovuto dirlo a Grace Bridgeworth? Avevo intravisto cose che in realtà non la riguardavano. Se mi era stata concessa quella rivelazione, non avrei dovuto seppellirla nelle profondità piú profonde dove l’inspiegabile e l’indimenticabile giacciono insieme? E poi, quale interesse poteva esserci da parte di una donna come Grace per un racconto che non sarebbe riuscita a capire e al quale non avrebbe creduto? Mi avrebbe semplicemente definito «strano», e non sarebbe stata la sola. Il mio primo obiettivo, quando finalmente fui di nuovo a New York, fu quello di convincere tutti del mio completo ritorno alla solidità mentale e fisica, e in questo intreccio di prove la mia esperienza con Mary Pask sembrava fuori luogo. Tutto sommato, mi sarei trattenuto dal parlarne.
Ma dopo un po’ il pensiero della tomba cominciò a tormentarmi. Mi chiesi se Grace vi avesse mai fatto mettere una lapide adeguata. L’aspetto strano e trascurato della casa mi dava l’idea che forse non avesse fatto nulla, che avesse accantonato l’intera faccenda, di cui si sarebbe occupata la prossima volta, al prossimo viaggio all’estero. «Grace dimentica» sentii sussurrare il povero fantasma… No, decisamente, non poteva esserci nulla di male nel porre (con tatto) solo quella domanda a proposito della tomba, tanto piú che cominciavo a rimproverarmi di non essere tornato a vedere con i miei occhi come era tenuta…
Grace e Horace mi accolsero con la loro solita cordialità, e presto presi l’abitudine di passare da loro per un pasto, quando pensavo che sarebbero stati soli. Ma la mia occasione non arrivò subito: dovetti aspettare alcune settimane. E poi una sera, mentre Horace era a cena fuori e io ero solo con Grace, il mio sguardo si accese su una fotografia di sua sorella, una vecchia fotografia sbiadita che sembrò incontrare i miei occhi con rimprovero.
«A proposito, Grace» cominciai con un sussulto, «non te l’ho mai detto, ma sono andato in quel posticino di… di tua sorella, il giorno prima di avere quella brutta ricaduta».
Immediatamente il suo viso si accese di emozione.
«No, non me l’hai mai detto. È stato gentile da parte tua andare!» Le lacrime le riempirono prontamente gli occhi. «Sono cosí felice che tu l’abbia fatto». Abbassò la voce e aggiunse piano: «E l’hai vista?»
A quella domanda mi assalí uno dei miei vecchi brividi. Guardai con stupore il viso grassoccio della signora Bridgeworth che mi sorrideva da dietro un velo di lacrime prive di dolore. «Mi rimprovero sempre di piú riguardo alla cara Mary» aggiunse tremando. «Ma dimmi… dimmi tutto».
Avevo un nodo in gola. Sentivo quasi lo stesso disagio provato in presenza di Mary Pask. Eppure non avevo mai notato nulla di inquietante in Grace Bridgeworth. Forzai la mia voce a uscire dalle labbra.
«Tutto? Oh, non posso…» Cercai di sorridere.
«Ma l’hai vista?»
Riuscii ad annuire, sempre sorridendo.
La sua espressione divenne improvvisamente spaurita… sí, spaurita! «E il cambiamento è stato cosí terribile da non poterne parlare? Dimmi… è cosí?»
Scossi il capo. D’altronde ad avermi sconvolto era il fatto che il cambiamento fosse cosí lieve, che alla fine ci fosse cosí poca differenza tra l’essere vivo e l’essere morto, tranne un misterioso acuirsi della percezione della realtà. Ma gli occhi di Grace continuavano a cercarmi con insistenza. «Devi dirmelo» ribadí. «So che dovrei andarci da molto tempo…»
«Sí, forse dovresti». Esitai. «Quantomeno per vedere la tomba…»
Rimase seduta in silenzio, gli occhi ancora fissi sul mio viso. Le lacrime si erano arrestate, ma nel suo sguardo sollecito si insinuò lentamente qualcosa di simile al terrore. Esitante, quasi con riluttanza, tese la mano e la posò sulla mia per un istante. «Caro vecchio amico…» cominciò.
«Purtroppo» la interruppi «io stesso non sono riuscito a tornare a vedere la tomba… perché mi sono ammalato il giorno dopo…»
«Sí, sí, certo. Lo so». Si fermò. «Sei sicuro di esserci andato?» chiese bruscamente.
«Sicuro? Buon Dio…» Fu il mio turno di fissarla.
«Sospetti che non stia ancora bene con la testa?» suggerii con una risata di disagio.
«No… no… certo che no… ma non capisco».
«Che cosa non capisci? Sono entrato in casa… Ho visto tutto, di fatto, tranne la sua tomba…»
«La sua tomba?» Grace balzò in piedi, incrociando le mani sul petto e allontanadosi in fretta da me. All’altra estremità della stanza si fermò a guardarmi, poi tornò lentamente indietro.
«Allora, dopotutto… mi chiedo…» Teneva gli occhi su di me, metà spaventata e metà rassicurata. «Possibile che non tu non l’abbia mai saputo?»
«Saputo cosa?»
«Ma era su tutti i giornali! Non li leggi mai? Volevo scrivertelo… Pensavo di avertelo scritto… ma poi mi sono detta: “Comunque lo vedrà sui giornali”… Sai che sono sempre pigra con le lettere…»
«Cosa dovevo vedere sui giornali?»
«Diamine, che non è morta… Non è morta! Non c’è nessuna tomba, mio caro! Era solo una trance catalettica… Un caso straordinario, dicono i medici… Ma non ti ha detto niente, se dici di averla vista?» Scoppiò in una risata quasi isterica: «Di sicuro deve averti detto che non era morta!»
«No» dissi lentamente, «non me l’ha detto».
Ne parlammo insieme ancora a lungo, ne parlammo fino a quando Horace non rincasò dalla cena con i suoi amici, dopo mezzanotte. Grace insisteva per tornare sull’argomento, ancora e ancora. Come lei continuava a ripetere, era di sicuro l’unica volta che la povera Mary fosse mai finita sui giornali. Ma sebbene mi sedessi e ascoltassi pazientemente non riuscivo a suscitare alcun vero interesse per quello che diceva. Sentivo che mai piú mi sarei interessato a Mary Pask, o a qualsiasi cosa la riguardasse.

© Neri Pozza 2022

Ombre cinesi, di Hebe Uhart

La Nuova Frontiera porta in libreria Un giorno qualunque, di Hebe Uhart, tra le più importanti scrittrici della letteratura ispanoamericana del xx secolo. In questo libro, tradotto da Giulia Di Filippo, Hebe Uhart trasforma scampoli di quotidianità, all’apparenza trascurabili – una partita a carte, un pomeriggio dal parrucchiere, un saggio di pianoforte – in vivace materiale narrativo. Le sue parole indagano la realtà come una luce che attraversa una fessura, mettendo in evidenza le contraddizioni del quotidiano e creando un coro di personaggi eccentrici ma estremamente reali dei quali ci mostra i desideri e le frustrazioni, gli slanci e le amarezze.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Ombre cinesi
di Hebe Uhart

Gli uomini li conosco abbastanza bene, io, perché sono una prostituta della casa della signora Liu. I miei genitori mi ci hanno messa quando ero giovane perché ritenevano che fosse una buona sistemazione per me. Il primo uomo che ho conosciuto, avrò avuto sì e no sedici anni, era tormentato dai fantasmi che credeva di vedere nella stanza. Io lì dentro cominciavo quasi a vedere grandi ombre rosse e avevo paura, ma non me ne rendevo conto. Pensavo solo: “Devo scappare da qui”. Provai a scappare mentre lui dormiva, ma se ne accorse e mi fermò. Era gentile e affettuoso, aveva dimenticato le ingiurie ai fantasmi e mi disse di scegliere un regalo. Gli risposi che non avrei accettato nessun regalo e ne fu stupito. Alla fine, siccome lo vedevo dispiaciuto, accettai.
I regali erano molto importanti in quella casa, ed erano argomento di conversazione quotidiano. Una volta, un uomo molto buono che frequentava il posto ci portò una scimmia per farci divertire; giocavamo tutte con la scimmietta ma Anita, una ragazza che piangeva sempre, si sedette con la scimmia sulla gonna e cominciò a piangere. Allora la signora Liu disse all’uomo che si portasse via la scimmia, che non voleva più vedere quell’animale perché faceva solo danni. Ma il motivo era un altro; quando vide Anita piangere, la sgridò e le disse:
«Essere tristi significa perdere il 50 per cento del proprio valore. Non bisogna essere tristi.»
Stava sempre attenta alla nostra tristezza. Se una andava in giro mezza spettinata o assente, le comprava qualche bel vestito e le preparava un piatto speciale.
«Credevo che vi sarebbe piaciuta» disse l’uomo con la scimmia, e se ne andò, insieme alla scimmia.
Non appena se ne andò, cominciarono tutte a prenderlo in giro; lo chiamavano Scimmia, dicevano che aveva il culo come quello delle scimmie e, dato che non si fece più vedere, ogni tanto qualcuna chiedeva: «Che fine avrà fatto Scimmia?»
Non ricordo che altri abbiano più portato un animale o una pianta per allietare la casa. Mi ricordo di un uomo amato da tutte; era giovane, abbastanza bello, chiacchierava e scherzava con tutte; tutte stravedevano per lui. Io lo odiavo, perché quando stava con me si rilassava come un gatto e pensava solo al suo piacere; dovevo fargli il solletico con la piuma, voleva che gli grattassi la schiena e, dopo che gli avevo fatto infiniti massaggi dappertutto, mi dava una pacca e se ne andava.
Ce n’era un altro che non spiccicava parola: si spogliava e si rivestiva in silenzio.
Una volta lo incontrai per strada, ed entrambi facemmo finta di non conoscerci. Non guardò neanche dall’altra parte; io lo guardai e lui mi passò accanto con una faccia di pietra, imperturbabile. Ma non ce l’avevo con lui, affatto. Non so perché, ad alcuni uomini raccontavo storie della mia infanzia tormentata; erano tutte inventate ma, quando le raccontavo, ci credevo anche io. Mi sembravano il lato più sincero di me, ed era piacevole come leccarsi una ferita. Ma la mia infanzia non era stata così tormentata; i miei genitori, adesso riesco a vederlo, hanno fatto tutto il possibile per me. Ce n’era uno che mi raccontava la sua, di infanzia tormentata, mi diceva che anche lui era come un bambino tormentato. E rimanevamo a lungo così, distesi sul letto, da soli al buio, scambiandoci calore e compagnia. Eravamo come due fratelli.
Un altro mi insultò. Mi rivolse i peggiori insulti di questo mondo. A casa della signora Liu era vietato insultare e chi insultava non entrava più. Ma io lo perdonai perché avevo capito che insultava la sua stessa maledizione, la sua stessa disperazione; vedeva la miseria degli altri e non riusciva a farsene una ragione; insultava la miseria e ci sguazzava ogni volta di più. Provai pena per lui, perché si buttò ai miei piedi e mi chiese scusa; ma non tolleravo gli insulti. Io, prima di quegli insulti, credevo che gli insulti fossero come la morte; credevo che la rabbia causasse la morte. Ma gli insulti non sono gravi nel modo in cui pensa la gente; gli insulti sono come una zona dove c’è stato un terremoto: si può stare tranquilli solo momentaneamente, uno può distrarsi, ma c’è sempre la minaccia latente.
A quel punto mi ero già adattata a tutte le regole della casa della signora Liu, accettavo i regali, sapevo riconoscere quelli buoni da quelli inutili, buttavo via quelli inutili in maniera distratta e mi tenevo quelli buoni. Ero più bella di prima, ero nel fiore degli anni. Ma quando provavo a ricordare qualcosa che mi avevano detto, confondevo le persone e le cose. Chi mi ha detto che l’azzurro mi dona più del rosso? Quello? No. Chi mi ha detto che gli orologi si puliscono con il sapone? E non riuscivo a ricordare chi fosse.
Scambiavo una cosa che mi avevano detto con un’altra e la riferivo così alle mie compagne, a volte ripetendo una frase che avevo ascoltato come se l’avessi detta io, senza rendermene minimamente conto. Pensavo che stavo per perdere la memoria e mi dicevo: “Dio mio, fa’ che non perda la memoria”.
Non raccontai a nessuno di questa storia, neanche alla signora Liu, che non si accorse di niente. Ridevo come sempre.
Un giorno arrivò un uomo che sembrava portare un peso molto grande sulle spalle, ma non mi disse cos’aveva; io non glielo chiesi. L’uomo mi faceva regali bellissimi, ma non gli davo importanza. Erano regali buttati lì così, non sembravano suoi né di nessun altro. Io mi guardai bene dal dirgli che li trovavo regali bellissimi, visto che lui non gli dava nessuna importanza. E mi misi a pensare a quel suo modo di fare, di essere indipendente da tutto, di non dare importanza a nulla. Dalla mia faccia si notava che mi ero messa a pensare a questa cosa e la signora Liu cominciò a tenermi d’occhio. Io, a lui, un giorno dissi:
«Non voglio più regali da te, voglio…»
E non sapevo come dirgli cosa volevo. Forse mi ero dimenticata di cosa volessi. Lui mi chiese:
«Cosa vuoi? Ti do quello che vuoi.»
Volevo un’altra cosa ma non sapevo cosa. Avvilito, disse:
«Le donne sono così. Non so perché ma non sanno mai cosa vogliono.»
Io non dissi nulla. La signora Liu lo fece andare con un’altra. Successe una volta sola e poi non si fece più vedere. Non sono affatto arrabbiata che se ne sia andato. Se non in questa vita, nella prossima lo rivedrò.

Il sire della porta di Malétroit, di Robert L. Stevenson

Alter Ego porta in libreria Il Diamante del Rajà e altri racconti, tre racconti di Robert Louis Stevenson tratti dalla raccolta New Arabian Nights, pubblicata in due volumi nel 1882. Perfetti esempi del virtuosismo stilistico di Stevenson, capace di collimare con sagace caparbietà fantasia e sostanza morale.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il sire della porta di Malétroit
di Robert L. Stevenson

Denis de Beaulieu non aveva ancora ventidue anni, ma già si stimava uomo maturo e, per di più, compito cavaliere. I giovani, in quei rozzi tempi di guerre, si formavan presto: e quando uno aveva preso parte a una battaglia campale o a una dozzina di scorrerie, o aveva accoppato un uomo onorabilmente e sapeva qualcosuccia di strategia e darsi una cert’aria spaccona, era certo d’essere assolto.
Quella sera, governato con le dovute cure il suo cavallo e cenato di buon appetito, uscì, in ottima disposizione di spirito, per recarsi a far visita a un amico. Non era quella una risoluzione troppo prudente per un giovane. Avrebbe fatto meglio a restarsene bravamente accanto al fuoco o andarsene a letto: ché la città era piena di truppe borgognone e inglesi sotto misto comando, e, quantunque Denis possedesse un salvacondotto, era assai probabile che questo gli giovasse assai poco a trarsi d’impaccio, sventura volesse fosse stato aggredito. Era il settembre 1429. Il tempo s’era messo al brutto. Un vento leggero e fuggevole, con rovesci di pioggia, scorrazzava sibilando lungo tutto il territorio della città, e le foglie secche menavan riotta su per le strade. Qua e là qualche finestra s’illuminava, e il frastuono degli uomini armati, che dentro le case facevano chiasso sulle lor cene, usciva, a folate, subito inghiottito dal vento. Poi la notte calò rapida. Il vessillo inglese che sventolava dalla cima del pinnacolo divenne sempre più scuro su quello scenario di fuggenti nuvoli, una macchia nerigna, come di rondine sperduta là nel tumultuoso plumbeo caos del cielo. Caduta la notte, il vento raddoppiò di furore e cominciò a ululare sotto l’arcate e a muggire fra gli alberi della vallata che si stendeva sotto la città.
Denis de Beaulieu camminò svelto, e fu presto a picchiare alla porta dell’amico; ma quantunque si fosse proposto di restarvi assai poco per far presto ritorno alla sua taverna, l’accoglienza che gli si fece in quella casa fu così cordiale ed egli vi trovò tante occasioni per indugiarvisi, che mezzanotte era già sonata da un pezzo avanti che i due amici si salutassero dalla soglia dell’uscio. Nel frattempo il vento era caduto di nuovo, e la notte era divenuta nera nera come un sepolcro. Non una stella, non un barlume di luna trapelavano giù dal fitto padiglione delle nubi.
Denis era poco pratico di tutto quel dedalo di vicoli di Château-Landon. Già altre volte, di pieno giorno, aveva stentato a rintracciarvi la strada: ora, poi, con quel buio pesto, era interamente disorientato. D’una cosa sola era certo: che per ritornare a casa doveva risalire la collina, poiché la dimora dell’amico si trovava nell’estremità più bassa, nella coda, diremo, di Château-Landon, mentre la taverna dov’era alloggiato, era dalla parte opposta, sotto la guglia della cattedrale. Con questo unico punto di riferimento Denis andava innanzi, ciampiconi, brancolando nel buio, traendo larghi respiri quando arrivava su qualche spiazzato dove poteva scorgere una buona fetta di cielo sopra il suo capo, procedendo a tastoni rasente il muro quando si trovava a passare attraverso recinti chiusi e affogati.
C’è un senso di sgomento misterioso a ritrovarsi così ravvolti nella tetra opacità d’una notte come quella, in una città quasi sconosciuta. Il silenzio intorno ci atterrisce per tutte le possibilità che vi fantastichiamo: il contatto con la sbarra gelata d’una finestra ci fa trasalire come il contatto d’un rospo: gli avvallamenti e i rialzi del terreno su cui camminiamo ci fan balzare ogni tratto il cuore alla gola, nelle zone dove la oscurità è più fitta pare ci stiano ad attendere imboscate o fenditure: e anche là dove l’aria è più chiara, le case creano di strane e ingannevoli apparenze come volessero deviarci e spingerci lungi dal nostro cammino. Quanto a Denis che doveva raggiungere la taverna senza un indizio qualsiasi che gli mostrasse la via da tenere, i pericoli cui andava incontro eran gravi quanto lo sconforto che gli recava quel camminare balordo: e procedeva così, cauto, quantunque con coraggio, e, a ogni svolta, si fermava per guardarsi attorno.
Fino a quel momento il vicolo per il quale s’era messo era così angusto ch’egli poteva toccarne i muri laterali con ambedue le mani, ma, d’un tratto, questo si fece più largo e divenne ripido e scosceso. Era evidente che quella non era la direzione della taverna, ma la speranza di qualche luce in più lo consigliò a continuare per quella strada, onde riconoscere i luoghi. Presto il vicolo sboccò su di una terrazza la quale terminava in una costruzione murale fatta a mo’ di bertesca, donde, come da una feritoia, si poteva dominare, frammezzo ad alti caseggiati, la vallata che, oscura e informe, si stendeva parecchie centinaia di piedi sotto di essa. Denis s’accostò a quella torre e guardò giù, e poté discernere cime d’alberi agitate dal vento e una piccola macchia scintillante nel punto dove la corrente del fiume si riversava giù da una chiusa. Il tempo s’era un po’ rimesso, e il cielo rischiarato per modo che si potevano scorgere i profili dei nuvoloni più spessi e il lineamento delle colline. A quell’incerto barlume Denis poté anche osservare che il caseggiato che sorgeva alla sua sinistra era un’abitazione di qualche pretesa. Era sormontato da molti pinnacoli e torricelle, e la tonda struttura d’un’abside circondata torno torno come da una frangia di degradanti colonnette sporgeva all’infuori, con una certa baldanza, dal viluppo degli edifici principali. Là era pure un uscio dentro un portale tutto scolpito a figure e dominato da due lunghe garguglie. Attraverso fitte reti di fil di ferro che le rivestivano si vedevan le finestre della cappella illuminate di dentro dalla luce di molte candele, la quale faceva spiccare più cupo sul cielo il disegno del loggiato e del tetto cuspidato. Era quella certamente la dimora di qualche nobile famiglia della città, e poiché con le sue forme richiamava alla mente di Denis una casa cittadina di sua proprietà a Bourges, stette là, per qualche tratto, a contemplare la costruzione, paragonando fra loro, mentalmente, la perizia dei due architetti e la nobiltà delle due famiglie.
Pareva non ci fossero altre vie per arrivare alla terrazza oltre a quel vicolo che ve l’aveva condotto. Denis pensò, quindi, di ritornare sui suoi passi, e, avendo ormai acquistata qualche cognizione dei luoghi, riuscire così su qualche strada frequentata e di là lestamente raggiungere la taverna. Ma faceva il conto senza quella fila d’incidenti che gli stavano per capitare e che avrebbero reso quella notte la più memorabile di tutta la sua vita. Non aveva, infatti, dato un cento passi che vide una luce che s’avvicinava a lui e, nello stesso tempo, udì un frastuono di voci come di gente che ciarlasse insieme confusamente su nella risonante strettura del vicolo. Era un drappello d’armigeri che andava attorno con fiaccole per la ronda notturna. Denis s’accorse subito che quegli uomini eran stati in confidenza coi boccali e che, ad ogni modo, non dovevan essere d’umore tale da star troppo a largheggiarla sul suo salvacondotto o simili delicatezze ancor in uso durante la guerra cavalleresca. Anzi era assai probabile che, se lo avessero trovato lì, l’avrebbero accoppato come un gatto, e piantatolo dove si trovava. La situazione era abbastanza interessante, quantunque gli andasse suscitando una certa nervosa trepidazione. Allora, riflettendo che il chiarore stesso delle torce avrebbe potuto confondere la vista della sua persona e il chiasso delle voci il suono dei suoi passi, stimò che, per poco fosse stato svelto e circospetto nel fuggire, avrebbe potuto sottrarsi interamente alla vista della ronda.
Ma sfortuna volle che, mentre si volgeva per spiccare la corsa, un piede gli smucciò su di un ghiajottolo, ed egli stramazzò al suolo mandando un grido, mentre la spada battendo sulle pietre dava un suono cupo. S’udirono due o tre voci gettare il chi va là, in francese, in inglese… Denis stette quatto, poi, rimessosi in piedi, riprese svelto a fuggire giù per il vicolo. Giunto sulla terrazza si voltò per vedere. Gli uomini di ronda continuavano a vociargli dietro, e, proprio in quel momento, allungavano il passo per raggiungerlo, e si udiva il gran baccano dell’armature scosse, e si vedevano balenamenti di fiaccole qua e là fra le strette muraglie del sottopassaggio. Denis girò lo sguardo intorno, e, senz’altro, si risolse d’avventarsi dentro la strombatura della porta. Così acquattato, pensava di poter sfuggire alla loro vista o, quanto meno, trovarsi in una posizione eccellente sia per parlamentare sia per difendersi. E, snudata la spada, si pose con la schiena a ridosso del battente della porta. Ma ecco che, con sua meraviglia, la porta cedeva sotto al suo peso! Si volse di colpo, ma quella, come girando su perni oliati e silenziosi, continuò a indietreggiare, finché rimase là spalancata sopra al buio d’una stanza.
Quando nella vita ci accade qualche buona ventura, non è il caso di star a sottilizzare sul perché e sul come ci sia capitata, poiché l’utile immediato che ne ricaviamo sembra sufficiente motivo per farci accettare per buoni anche i più stravaganti rivolgimenti e le più matte incongruenze di queste nostre sublunari faccende. Per il che, senza esitare un istante, Denis si cacciò là dentro, poi riaccostò dietro di sé la porta per celare ai sopraggiungenti la vista del suo rifugio. Certo, egli non aveva intenzione di chiuderla interamente, quella porta, ma, per qualche motivo inesplicabile, forse a cagione d’un ordegno nascosto o del peso stesso del battente abbandonato a sé medesimo, fatto è che la poderosa massa di quercia gli sfuggì di fuor dalle dita e si venne richiudendo da sé con uno strepito fragoroso, come il cadere automatico d’una lastra di ferro.
Proprio in quell’istante la ronda irrompeva sulla terrazza e si dava a chiamarlo con alte grida e bestemmie. Li udiva sferracchiare per gli angoli bui, e ci fu pure un momento che il calcio d’una alabarda venne a grattare sulla superficie esterna della porta dietro la quale egli stava. Ma quei bravi uomini eran certamente troppo sovreccitati per dilungarsi nella faccenda, sì che, di lì a poco, egli li udì che si precipitavano giù per un passaggio fatto a chiocciola che era sfuggito prima alla sua vista, e di là s’allontanavano via lungo il muro merlato del castello.
Denis trasse un respiro. Stette ancora lì quatto per qualche minuto per timore ch’essi ritornassero, poi si mise a cercare un mezzo per riaprire la porta e fuggirsene fuori. La superficie interna della porta era tutta liscia: non una presa, non un oggetto, non una sporgenza qualsiasi. Si provò a ficcare le unghie nella commessura superiore e trarla a sé, ma la greve massa non si rimoveva. Tentò di scuoterla: era fissa come rupe. Denis de Beaulieu aggrottò le ciglia e diè fuori un fischiarello sommesso. Ma che diavol ha questa porta?, pensava. E perché prima stava aperta? E come va che s’è chiusa con tanta docilità e tanta fermezza dietro di me?
V’era in quella faccenda qualcosa di misterioso e di losco da dar l’aire alla fantasia d’un giovane. Tutto lì aveva l’aria d’un tranello bell’e buono. Eppure, come supporre un tranello su quella strada così cheta, in una casa che aveva un’apparenza così florida, così signorile? Comunque, si trattasse o no d’un tranello, fosse o no la cosa premeditata, egli si trovava là dentro trappolato a dovere. E, pur tuttavia, per scampare la vita altra via non c’era che uscire di là.
Tese l’orecchio. Al di fuori s’era fatto un gran silenzio; ma di dentro, proprio vicino a lui gli sembrò a poco a poco di udire come un lento respirare, un sommesso brusio di singhiozzi e dei piccoli scricchiolii come di molte persone che stessero lì al suo fianco e tutte quatte e immobili, sforzandosi di rattenere i fiati per non farsi accorgere della loro presenza. Queste immaginazioni risvegliarono di colpo tutti i suoi istinti vitali e subito si mise in atto di difesa come per proteggere la vita. Fu allora che i suoi occhi scorsero, a qualche distanza, verso l’interno della casa, un barlume di luce ch’era situato al di sopra del livello dei suoi occhi… un filo di luce verticale che si veniva allargando verso il basso, come sfuggisse dallo spiraglio lasciato da una cortina calata su l’ingresso d’un vestibolo. Il vedere qualcosa fu già un sollievo per Denis: fu come a uno che lavora in una palude toccare il duro d’un terreno sodo. Egli s’aggrappò avidamente a quel rigo di luce, e stette là per un po’ a fissarlo cercando di raccapezzare qualche indizio sul luogo dove si trovava.
Era evidente che una serie di gradini si spiccava dal punto dov’egli era e ascendeva verso un andito illuminato, e, infatti, là poté notare pure un altro rigo di luce, sottile come un ago, fievole come fosforo, e che poteva bene essere quella prima luce riflessa nel pulito legno della maniglia d’una scala. Da quell’istante in cui Denis s’avvide di non esser più solo, il cuore gli ripigliò a battere con soffocante violenza, e un folle desiderio lo invase di agire, agire, comunque si fosse. S’immaginò minacciato da mortale pericolo. E allora quale cosa più semplice e naturale che montare quei gradini, alzare la tenda e fronteggiare di colpo la terribile situazione? Almeno sarebbe venuto alle prese con alcunché di tangibile, almeno sarebbe uscito da quell’oscurità penosa!
Con le braccia protese camminò lentamente in avanti finché venne a urtare col piede nel primo gradino della scala. Allora, di volo, la salì: stette un istante sulla cima per dar tempo ai tratti del suo viso di ricomporsi, poi alzò la cortina ed entrò.
Si trovò in un ampio salone tutto pavimento e pareti di lucide lastre. Là erano tre porte, una su ciascuno dei tre lati, tutte egualmente incortinate da arazzi, ma il quarto era occupato da due larghi finestroni e da un camino grande in pietra scolpito con lo stemma dei Malétroit. Denis riconobbe subito l’impresa, e ringraziò la Provvidenza d’esser caduto in sì buone mani. La stanza era ampiamente illuminata, ma povera di mobilio: appena un tavolone e due o tre sedie. Il focolare era senza foco, e sul pavimento era sparsa una fiorita di giunchiglie ma che pareva di molti giorni prima.
A lato del camino, seduto entro un alto seggiolone stava proprio di faccia a Denis, quando entrò, un vecchierello che indossava una palatina di pelo. Teneva le gambe incrociate, le mani sobbracciate sul grembo e una tazza di vin drogato stava posata su una mensola al suo fianco. Il suo aspetto aveva una espressione fortemente maschia: ma non propriamente umana. C’era qualcosa in lui che arieggiava l’espressione di un toro, di un gatto o di un maiale: qualcosa insomma di equivoco e di stranamente mansueto a un tempo: qualcosa di avido, di bruto e di minaccioso. Il labbro superiore, irto di densi peli arruffati, appariva enfiato come da un colpo di pugno o da una flussione di denti: il sorriso della sua faccia, le sopracciglia a sest’acuto, i piccoli occhi pieni di gagliardo foco davano a quella fisionomia un’apparenza bizzarramente e quasi comicamente malvagia. Una zazzera di splendido candore gli scendeva diritta intorno al capo e si veniva raccogliendo in un unico ricciolone adagiato sul bavero della palatina. Barba e mustacchi erano modelli di ogni venerabile maestà e dolcezza, e, forse a cagione di qualche trattamento preventivo, la vecchiaia pareva non avesse lasciato traccia alcuna sulle sue mani. Sarebbe stato difficile immaginare un disegno più robusto e più delicato. Le dita affusolate e sensuali richiamavano quelle delle donne di Leonardo: tra l’indice e il pollice, quando stavan chiusi, si scorgeva, alla base, una protuberanza tutt’a pozzette: le unghie eran tagliate a perfezione e la carne di una sorprendente cadaverica bianchezza. Ma ciò che rendeva quell’aspetto ancor più temibile era appunto vedere quel vecchio che se ne stava con quelle mani così belle sobbracciate sul grembo come una vergine martire, quel vecchio che recava nella faccia un’espressione così intensa e sgomentante, sedere là con tanta pace nel suo seggiolone e volgere attorno uno sguardo immacolato, come un dio, come il simulacro d’un dio. Ma la sua pace pareva piena d’ironia e di perfidia tanto poco s’addiceva al suo aspetto.
Era Alain, Sire di Malétroit.
Per un attimo i due si guardarono in faccia, muti.
«Prego, venite avanti» disse alla fine il Sire di Malétroit «è tutta sera che vi sto aspettando».
Non s’era levato da sedere, ma le parole aveva accompagnate con un sorrisetto e con un lieve cortese chinar di capo. E un po’ per il sorriso, un po’ per uno strano murmure melodioso con cui il vecchio preludiò a quella sua dichiarazione, Denis sentì un diaccio brivido di disgusto serpeggiargli su per il midollo. E a stento riuscì a metter insieme qualche parola per una risposta.
«Temo, signore» finì per dire «che siamo caduti ambedue in un equivoco. Io, certo, non sono la persona che voi credete. Se non erro, voi aspettate delle visite; da parte mia vi dirò che nulla era più lontano dal mio pensiero, nulla più contrario al mio desiderio che l’entrare qui da voi…».
«Bene, bene» s’affrettò a dire il vecchio con un certo compiacimento «voi, ora, siete qui, e questo è l’essenziale. Accomodatevi dunque, amico mio, e mettetevi pure a vostro agio. Tra poco sbrigheremo tra noi i nostri piccoli affari».
Qui Denis s’accorse che la faccenda s’andava imbrogliando e s’affrettò a ripigliare i suoi schiarimenti.
«La vostra porta…» cominciò.
«Ah, la mia porta?» interruppe l’altro alzando le sopracciglia aguzze. «Ma quello non è stato che un ingenuo giochetto!» e alzò le spalle. «Una fantasia da ospite!… S’era per voi, giovinotto, non avreste certo desiderato di far la mia conoscenza. Ebbene, che volete, noialtri vecchi, di quando in quando, andiamo volentieri in cerca di tali riluttanze, e, quando ciò impegna il nostro onore, ci diamo attorno a trovar qualche modo per soggiogarle e per vincerle. Voi non foste invitato qui, certo; ma credetemi, signor mio, non per questo siete meno il benvenuto».
«M’avveggo» replicò Denis «che continuate a persistere nel vostro errore. Tra voi e me, signor mio, non può esservi rapporti di sorta. Io sono straniero in questo Paese. Mi chiamo Denis de Beaulieu. Se voi mi vedete qui, in questa vostra casa si è soltanto…».
«Mio giovine amico» l’altro ribatté «permettetemi ch’io abbia una mia opinione su questo argomento. È assai probabile che, per il momento, questa mia opinione sia differente dalla vostra» e qui lo fissò con uno sguardo un po’ traverso «ma il tempo dimostrerà quale di noi due abbia ragione».
Denis, a questo punto, si convinse d’aver proprio a che fare con un mentecatto. Per il che sedette abbrividendo, e, per il momento, si contentò di star ad aspettare lo scioglimento della strana avventura. Poi seguì una pausa durante la quale gli parve come di udire, da dietro l’arazzo calato sulla porta che gli stava dirimpetto, un rapido sussurrio come di persona che pregasse. E un momento pareva una persona sola, un altro parevan due, e la veemenza con cui venivan proferite le parole, ancorché sommesse, pareva dinotare una gran fretta o una grande ambascia d’animo. Denis pensò che quella ricca portiera doveva ricoprire l’ingresso della cappella di cui aveva ammirato l’abside quand’era fuori.
Nel frattempo il vecchio signore con un sorrisetto andava squadrandolo da capo a piedi e lasciandosi sfuggire ogni tanto un piccolo gorgheggio che aveva dell’uccellesco e del topesco a un tempo, e che sembrava denotare in lui un certo grado di soddisfazione. Questo indugio e questo stato di cose divennero in breve così insopportabili che Denis, per porvi fine, osservò cortesemente che il vento aveva cessato di soffiare.
Allora il vecchio proruppe in un riso silenzioso, ma così prolungato, così violento che la sua faccia si fece quasi vermiglia.
Denis, detto fatto, balzò in piedi, e, rigirandolo alla brava per l’aria, si rimise il cappello in testa.
«Signore» disse poi «se siete sano di mente vi dico che m’avete villanamente oltraggiato; se non lo siete, v’assicuro che spero trovare migliore occupazione al mio cervello che non starmene qui a cianciare con un pazzo. Io ho la coscienza pulita, signore. Vi siete fatto gioco di me fin dal primo momento che son arrivato qua dentro: poi avete rifiutato di ascoltare i miei schiarimenti. Ora, badate, non c’è forza al mondo che mi possa trattenere qui più a lungo, e, s’io non potrò trovarmi una via d’uscita onorevole, vi giuro che saprò far a pezzi la vostra porta con questa spada».
Il Sire di Malétroit levò la mano destra e la tese verso Denis, col pollice e il mignolo aperti.
«Caro nipote» disse poi «via, sedete».
«Nipote?» ribatté Denis. «Voi mentite per la gola!» e gli fece schioccare le dita sott’al naso.
«Sedete, furfante!» gridò allora il vecchio con rabbiosa voce, che pareva latrato di cane. «Ma che vi credete?» continuò.
«Che quando io ebbi inventato il mio piccolo ordegno della porta m’avessi a fermar lì? Se preferite esser legato mani e piedi sino a sentirvi scricchiolar le ossa, alzatevi pure e tentate di fuggire. Ma se gradite meglio rimanere e ragionarla un po’ con me, da buon amico, sedete là quieto quieto, e Dio vi abbia in gloria». «Che intendete dire?» proruppe Denis.
«Ch’io sono prigioniero?». «Constato il fatto» replicò l’altro «e preferisco lasciare a voi la risposta».
Denis risedé. All’esterno si sforzava di tenersi calmo, ma dentro bolliva di rabbia, gelava di spavento. E non andò molto ch’egli finì anche per convincersi di aver a che fare proprio con un pazzo. Perché, se il vecchio era sano di mente, che voleva da lui? In quale tragica e assurda avventura s’era mai cacciato! E come doveva diportarsi adesso?
Mentre stava su queste riflessioni, l’arazzo che ricopriva la porta d’ingresso della cappella si sollevò e un prete lungo lungo ne venne fuori vestito dei suoi abiti sacri, il quale, gettato un lento acuto sguardo su Denis, si chinò poi a parlare, a bassa voce, al Sire di Malétroit.
«Si trova essa in buona disposizione di spirito?» domandò quest’ultimo.
«Ella è ora più rassegnata, messere» rispose il prete.
«Che Dio la benedica, la è ben difficile da contentare!» ghignò il vecchio.
«Un giovincello simile… di non cattiva nascita… e pure di sua scelta! Bene, che pretende di più, la sgualdrina?».
«Per una ragazza» disse l’altro «la cosa non è delle più semplici e correnti. È tale almeno da mettere a dura prova il suo pudore».
«A questo perché non ci ha pensato prima d’imbarcarsi? Mica l’ho voluto io l’intrigo, Dio sa… Ma dacché è in ballo, per la madonna, balli». Poi volgendosi a Denis: «Signor de Beaulieu» gli domandò «permettete che vi presenti mia nipote? Essa attendeva la vostra venuta con la medesima impazienza, direi, con cui l’attendevo io stesso».
Anche a questo Denis si rassegnò di buona grazia, poiché, infine, egli non desiderava che una cosa sola, arrivare alla conclusione dell’avventura il più presto possibile. Perciò si levò su e fece un inchino di assentimento. Il Sire di Malétroit s’inchinò pure lui, poi, appoggiandosi al braccio del prete, si incamminò zoppicando verso la porta della cappella. Colà giunti, il prete sollevò un lembo dell’arazzo, e tutt’e tre entrarono.
L’interno di quell’oratorio aveva una certa ricercatezza architettonica. Una leggera cordonata si spiccava dalla cima di sei grosse colonne e veniva a raccogliersi nel mezzo della vòlta donde pendevano due ornamenti. Dietro l’altare la cappella si chiudeva in uno spazio emicicloidale, le cui pareti erano tutt’a bozze e scavi, sovraccarica di ornati in rilievo, e forata da molte finestrelle a forma di stella, di trifoglio, di ruota. Queste finestre erano male invetriate, e l’aria della notte entrava e s’aggirava liberamente per la cappella strapazzando senza misericordia le fiamme d’una cinquantina di candele posate sull’altare: onde la luce passava, per fasi graduali, dallo splendore più brillante a una penombra d’eclissi. Sui gradini, davanti all’altare, stava inginocchiata una giovane donna riccamente abbigliata, in abito di nozze.
Al vedere quell’abbigliamento Denis si sentì un brivido di freddo: e lottò, lottò con disperazione contro certo presentimento che gli era caduto nell’animo. No, non poteva… non doveva accadere quello ch’egli temeva.
«Bianca!» esclamò il sire con la sua voce a tono di flauto. «Ti ho portato qua un giovinotto che desidera conoscerti, piccolina mia. Su, da brava, volgiti e porgigli la tua vezzosa manina. Buona cosa è l’esser devoti, ma è necessario esser cortesi con gli ospiti, nipote mia».
La fanciulla, allora, si levò in piedi e si volse incamminandosi verso i sopraggiunti.
Si moveva a stento, tutta stecchita, e i lineamenti del suo fresco giovanile corpo esprimevano un pudico riserbo misto a un estremo abbattimento. Venne innanzi lentamente, a testa bassa, gli occhi fitti al suolo: finché, a un certo punto, il suo sguardo cadde sui piedi di Denis de Beaulieu – il quale, detta fra noi, era solito calzare, anche viaggiando, assai ricco ed elegante – e allora sostò di colpo, ebbe un trasalimento, come se la gialla calzatura l’avesse d’improvviso richiamata alla realtà delle cose, e levò lo sguardo su alla figura di colui che la recava. I suoi occhi incontrarono quelli di Denis, e il suo aspetto timoroso fu invaso dal terrore. Le sue labbra impallidirono gettò un alto strido, e, copertosi il volto con le mani, s’afflosciò di colpo sul pavimento della cappella.
«Non è lui!» gridava. «Zio, non è lui!».
Il Sire di Malétroit mandò il suo piacevole gorgheggio, poi: «Naturalmente» esclamò «io questo me lo immaginavo. È una sventura davvero, ve’, che non puoi ricordarti il suo nome».
«No, no!» gridava lei. «Questo signore io non l’ho veduto mai prima d’ora… Non mi è mai accaduto di porgli gli occhi addosso… Signore» esclamò poi volgendosi a Denis «se voi siete gentiluomo, aiutatemi a trarmi d’impaccio… Dite, ho io mai veduto voi? E voi mi avete veduta mai, prima di questa maledetta notte?».
«Per me» rispose il giovine «dichiaro di non aver avuto mai questo piacere… È proprio la prima volta, signore, che io ho l’onore di incontrarmi con questa vostra graziosa nipote».
Il vecchio fece spallucce, poi disse: «Son dolente d’udire questo… Ma, a dirvi il vero, non è mai troppo tardi per incominciare. Io, per esempio, con la mia defunta moglie, quando la sposai, ci avevo poca dimestichezza sulle prime. Ciò non toglie» soggiunse con un ghignetto «che matrimoni simili, improvvisati, possano sortire bene, in andar di tempo. E siccome è il fidanzato che ha da aver voce in capitolo in queste cose, così io vi concederò due ore per rifarvi del tempo perduto, quindi daremo inizio alla cerimonia». E, detto questo, s’avviò verso la porta, seguito dal prete. In un balzo la fanciulla fu in piedi.
«Zio, zio tu non puoi dir questo sul serio!» esclamò. «Dichiaro davanti a Dio che preferirei darmi una pugnalata piuttosto che forzare la volontà di questo giovine. Il cuore vi si ribella… Dio vieta un tale matrimonio! Voi disonorate la vostra canizie, zio! Oh, abbiate pietà di me… Non v’è donna al mondo che non anteponesse la morte a una simile unione! Ma è mai possibile» proseguì tremando «ma è mai possibile che non mi crediate? Che voi pensiate che questi…» e additò Denis con un tremito di collera e di vergogna «che voi pensiate ancora che questi possa essere lui?».
Di sulla soglia dove s’era indugiato il vecchio rispose: «Francamente, lo penso. Ma concedi, Bianca di Malétroit, che ti dichiari il mio pensiero in questa faccenda. Dacché ti sei ficcata in capo di gettare il disonore sulla mia famiglia e sul buon nome che, da più di tre ventine d’anni, io porto in pace e in guerra, ti sei preclusa anche ogni diritto non pure di intervenire nei miei disegni, ma pur anche di fissarmi in volto. Fosse vivo ancora tuo padre, t’avrebbe dato una buona dose di scapaccioni e cacciata di casa. Aveva mano di ferro, quell’uomo. Ringrazia il cielo se ora hai a che fare soltanto con una mano di velluto, mademoiselle. È mio dovere farti sposare, e subito. Per mia pura benevolenza ho tentato di scovarti fuor il tuo galante. Mi lusingo esservi riuscito. Ma se non lo fosse, Bianca di Malétroit, ti giuro davanti a Dio e a tutti gli angeli sacrosanti, che non me ne importa un fico. Ti consiglio, adunque, di essere cortese e gentile col nostro giovine amico, ché, parola, il tuo valletto è certo meno piccante e appetitoso di lui».
Detto questo, egli uscì col cappellano alle calcagna. E l’arazzo calò dietro di loro.
La fanciulla si volse a Denis. Aveva gli occhi vampanti.
«Ditemi, signore, ditemi» ella esclamò «che significa tutto questo?».
«Che volete che sappia? Io sono qui prigioniero in questa casa, che la mi par proprio una casa di matti. Di più non so: né mi riesce di capirci nulla».
«E come siete arrivato qua dentro?».
Denis glielo narrò succintamente, poi aggiunse: «Abbiate la bontà di far altrettanto anche voi, di spiegarmi un po’ in che rebus ci troviamo, di dirmi quale diavol verrà a essere, a un di presso, la fine di questa imbrogliata faccenda».
Bianca stette silenziosa, ed egli vide che le sue labbra tremavano, che i suoi occhi senza pianto brillavano d’uno splendore febbricoso. Poi ella si tolse il capo fra le mani.
«Oimè, come mi duole la mia testa!» cominciò con un accento accorato. «… per non dire del mio povero cuore!… Ma è bene sappiate la mia storia, signore; per quanto essa poco s’addica a una ragazza. Io mi chiamo Bianca de Malétroit. Ero assai giovine quando padre e madre mi morirono, tanto ch’io non ricordo più nulla di loro e davvero fui assai infelice tutta la mia vita… Tre mesi or sono, un giovine capitano cominciò a venirmi presso, ogni giorno, in chiesa. M’avvidi che gli piacevo. Son molto da biasimare, ma, che volete, ero così felice di sapere che qualcuno mi amava! E quando egli mi passò un biglietto, io me lo portai a casa e lo lessi avidamente con gran gusto. Da allora me ne scrisse molti biglietti. Era così desideroso di parlarmi, povero ragazzo! E cominciò a dire se, qualche sera, gli avrei lasciato aperta la porta, che avremmo fatto due chiacchiere lì su per le scale. Poich’egli sapeva quanto mio zio si fidasse di me». E qui scoppiò in un mezzo singhiozzo e pausò un poco avanti di ripigliare a parlare. «Mio zio» riprese poi «è uomo assai difficile, ma fine e sagace. Ha compiuto di molte gesta in guerra, aveva un grado eminente a corte, ed era molto in confidenza con la regina Isabeau, nei tempi andati. Bene, com’egli venisse in sospetto della cosa non saprei: certo ch’era assai difficile fare alcunché all’insaputa di quell’uomo. Fatto è che, stamane, mentre tornavamo dalla messa, egli d’un tratto m’afferra la mano, l’apre a forza, e si mette a leggere il mio bigliettino, pur sempre continuando a camminare. Finito di leggere, me lo restituisce cortesemente. Purtroppo, in esso, il mio innamorato mi rinnovava quella tal sollecitazione di lasciargli aperta la porta. Fu questo che ci perdé. Lo zio mi rinchiuse nella mia camera e mi vi tenne sotto chiave sino a sera; poi m’ordinò mi vestissi nel modo che qua mi vedete. Oh, uno scherno ben atroce per una povera ragazza, non vi pare? Poi, immagino che, non essendo egli riuscito a strapparmi di bocca il nome del giovine capitano, gli abbia teso un agguato, quello appunto nel quale siete caduto voi stasera, in vece sua, per disgrazia del cielo. Oh, io sono assai confusa, poiché penso ch’egli certamente avrà abbandonato l’idea di tormi in moglie adesso che le cose sono arrivate a questo punto. In verità io non pensavo di dovermi meritare un castigo così vergognoso. Non pensavo che Dio avrebbe permesso che una fanciulla si trovasse davanti a un giovine in una maniera così disonorata!… E ora che v’ho raccontato ogni cosa, davvero che ho poca speranza che voi non m’abbiate a disprezzare».
Denis le fece un rispettoso inchino. «Signora» disse «voi m’avete onorato della vostra confidenza; a me ora dimostrarvi che non ne sono indegno. Dov’è il Sire di Malétroit?».
«Suppongo che stia scrivendo nella sala di là» rispose la fanciulla.
«Vi posso accompagnare da lui?» domandò Denis porgendole il braccio con atto galante.
Avendo ella accettato, la coppia s’incamminò e uscì dalla cappella. Bianca era tutta abbattimento e vergogna, Denis invece assai impettito e compreso della missione che si recava a compiere: e, per di più, con una certa baldanzosa consapevolezza di averla a risolvere con onore.
Come li vide apparire, il Sire di Malétroit si levò e mosse a incontrarli facendo loro un’alquanto ironica riverenza.
Denis, allora, dandosi l’aria la più grandiosa del mondo, cominciò a parlare:
«Signore, credo d’aver pur io qualche parola da dire in argomento a questo matrimonio. E lasciate che vi assicuri subito ch’io, per me, non sono affatto persona da forzare l’inclinazione di questa signorina. Mi fosse stata spontaneamente offerta la sua mano, sarei orgoglioso d’accettarla, dacché so che ella è onesta quanto bella fanciulla; ma, allo stato in cui sono le cose, messere, io ho l’onore di rifiutarla».
Bianca lo fissò con uno sguardo pieno di riconoscenza, ma il vecchio sorrise soltanto, e continuò a sorridere, sorridere, fin che a Denis quel sorriso cominciò davvero a suscitare un certo disgusto.
«Ho timore» disse alfine «ho timore, signor de Beaulieu, che non abbiate ben compreso il partito ch’io ebbi il piacere di proporvi. Venite qua, di grazia, a questa finestra» e lo condusse a una delle finestre che stavano aperte nella notte. «Guardate» riprese a dire «guardate su alla parte superiore di questo edificio. Lo vedete quel grosso anello di ferro lassù, dove sta infilata una fune molto robusta? Ebbene, ora fate attenzione a quel che vi dico. Se voi trovate che la vostra antipatia per la persona della mia nipote è affatto irriducibile, fate conto, avanti l’alba, di vedervi bell’e impiccato a quella fune, fuori di questa finestra… Credetemi, è con mio gran rincrescimento ch’io sarò costretto a risolvermi a quel partito estremo, poiché non è certo la vostra morte ch’io desidero, ma solo di procurare a mia nipote una buona posizione nella vita. E tuttavia, a ciò si deve pur venire, se voi v’ostinate. La vostra famiglia, signor de Beaulieu, è nobile e onorata, ma, discendeste anche da Carlo Magno, voi non potete rifiutare la mano d’una Malétroit, impunemente: nemmeno ella fosse volgare come una strada di Parigi o mostruosa come una delle garguglie che stanno sopra la mia porta. Non mia nipote, non voi, non i miei personali sentimenti mi muovono a quest’atto: ma l’onore della mia famiglia ch’è stato compromesso. Io suppongo che voi siate il colpevole, ma se anche non lo foste, siccome siete ora a parte del segreto, non vi dovete affatto meravigliare se chiedo a voi di lavare la macchia di quest’onta. Non lo fate, il vostro sangue ricadrà su di voi. E vi dico che sarà un gran piacere per me vedere il vostro interessante cadavere spenzolare e sgambettare al vento sotto le mie finestre. Meglio una mezza pagnotta oggi che digiuno domani. Non posso rimediare alla vergogna? Voglio almeno soffocare lo scandalo».
Qui una pausa.
«Io credo tuttavia» disse Denis «che un altro modo vi sia di accomodare la cosa fra due gentiluomini. Voi avete una spada e so che la maneggiaste con bravura».
Il Sire di Malétroit fece un cenno al cappellano il quale, attraversata a passi lunghi e silenziosi la sala, s’accostò alla terza delle tre porte, e sollevò l’arazzo. Di lì a poco lo lasciava ricadere: ma non troppo presto che Denis non avesse avuto tempo di scorgere, dietro quello, un andito tenebroso dove stavano adunati molti uomini in arme.
«S’io era soltanto un po’ più giovine» riprese a dire Sir Alain «sarebbe stato un piacere per me onorarvi in quanto mi richiedete. Ma io sono adesso troppo vecchio. Che volete, il circondarsi di servi fedeli è una delle poche risorse di cui si compiace l’uomo vecchio; e io ho pur da impiegare le forze che ho. Vedete, è cosa dura pensare come un uomo matura negli anni e invecchia; ma, via, anche a questo, con un po’ di pazienza, si finisce per farci il callo. Voi e la vostra signorina, sembra – non è vero? – che desideriate restar soli in questa sala per godere il tempo che ancor vi rimane prima che scocchino le vostre due ore. Ebbene, io non desidero certo contrariare questo vostro desiderio, e vi cedo la sala con tutto il piacere del mondo. E, niente furia!» soggiunse poi levando in alto la mano come vide che un’espressione minacciosa s’appalesava sulla faccia di Denis de Beaulieu. «Se la vostra mente si ribella all’idea dell’impiccagione, due ore, sapete, è tempo sufficiente per gettarvi giù dalla finestra o sulle picche levate dei miei famigliari. Due ore di vita son pur sempre due ore di vita e grandi cose si possono operare in tale tenue spazio di tempo. Mi sembra, poi, se bene arguisco, che mia nipote abbia ancora qualcosa da dirvi. Non vorrete certo guastare le vostre due ultime ore di vita con un atto incivile verso una graziosa signorina, non è vero?». Denis si volse a guardare Bianca, e questa gli fece un gesto implorante.
È assai probabile che il vecchio si compiacesse di questi indizi d’un accordo che poteva nascere tra i due giovani, perché di nuovo sorrise all’uno e all’altra, poi, voltosi a Denis, con un tono più mansueto, soggiunse:
«Se voi mi date la vostra parola d’onore, signor de Beaulieu, che aspetterete il mio ritorno fino al termine delle due ore senza tentare atti disperati, vi prometto d’allontanare i miei servi e di lasciarvi qui a discorrere con tutta pace e segretezza con mademoiselle».
Denis fissò ancora la fanciulla, che parve implorarlo di accettare.
«Vi do la mia parola» diss’egli.
Messer di Malétroit s’inchinò e si diè quindi a girare zoppicando intorno per la sala schiarendosi di tanto in tanto la voce con quel tal grottesco e flautino gorgheggio che già tanto era piaciuto alle orecchie del signor de Beaulieu. Pigliò su da prima alcune carte che stavan posate sulla tavola, poi si diresse verso l’uscita dell’andito dove fu udito impartire qualche ordine agli uomini che stavan dietro l’arazzo; infine, arrancando, se ne uscì per la porta dalla quale Denis era entrato, non senza prima essersi indugiato sulla soglia a fare un altro sorrisetto e inchino alla coppia. Dopo di che scomparve, seguito dal prete con una lampada in mano. Appena soli, Bianca s’accostò a Denis e gli tese ambe le mani. Era tutta imporporata in volto, commossa: nei suoi occhi brillavano lacrime. «Voi non dovete morire» esclamò «dovete sposarmi piuttosto, e nonostante tutto».
«Mi sembra, signora, che voi pensiate che la morte mi faccia di molto paura» rispose Denis.
«Oh, no!» diss’ella. «Lo vedo bene che non siete un codardo. Dico così per me… Io non potrei reggere al pensiero di esser stata la cagione della vostra morte, e ciò soltanto per un mero scrupolo di coscienza». «Signora mia» rispose Denis «temo che voi facciate troppo poco caso delle difficoltà. Ebbene, quello che voi siete tanto generosa da voler eludere, io posso essere invece tanto orgoglioso da accettare. In un momento di nobile slancio verso di me, forse dimenticaste ciò che dovete ad altri».
E, questo dicendo, egli ebbe il pudore di tener gli occhi chinati e anche un po’ dopo ch’ebbe finito, tanto da non scorgere la confusione che s’era dipinta sul volto di Bianca. La quale rimase lì silenziosa per un istante, poi subito si volse via e abbandonatasi dentro il seggiolone dello zio scoppiò in singhiozzi.
Denis fu imbarazzatissimo. Si guardò attorno come cercasse un’ispirazione e, scorto uno sgabello, vi si lasciò cader su, tanto per fare qualcosa. Là egli stava, rigirandosi fra mano la custodia dello stocco, augurandosi di esser piuttosto le mille volte morto e sepolto sotto il più lurido immondezzaio di Francia. Il suo sguardo errava attorno per la vasta sala, né trovava su che posarsi. E vi erano tali ampi spazi tra mobile e mobile, e la luce si spandeva per tutto così nuda e così aduggiata, e il buio della notte penetrava dalle finestre così freddo freddo, ch’egli pensò non aver mai veduto chiesa tanto vasta, né una tomba così triste. I singhiozzi regolari di Bianca parevano scandire il corso del tempo come il tic tac d’una pendola. Denis contemplò a più riprese l’emblema dipinto sullo scudo, finché gli s’intorbidiron gli occhi: cacciò lo sguardo dentro gli angoli più bui finché gli parve vederli brulicanti d’orribili mostri e, a ogni tratto, si destava, trasaliva, e gli veniva in mente che quelle erano le due ultime ore della sua vita, e che stavano per fuggire, e che la morte era in cammino.
Intanto, sempre più sempre più, durante quel tempo, il suo sguardo s’andava indugiando sulla figura della fanciulla. Ella stava con la faccia giù chinata nelle mani, e, a ogni tratto, era scossa da un convulso di singhiozzi più dolorosi. Anche così era pur cosa graziosa a riguardarsi, pienotta eppure tutta delicata, con una pelle di una tinta calda e morata, e la più bella capigliatura di donna che mai accadesse a Denis di rimirare per il mondo. Le sue mani assomigliavano a quelle dello zio: ma certo stavano meglio lì, all’estremità di quelle giovanili braccia, e avevano un che d’infinitamente tenero e carezzevole. E Denis ricordò pure come i suoi occhi turchini avevano folgorato sopra di lui pieni di collera, di pietà, d’innocenza. E più egli andava innanzi a considerare quella perfezione e più nera gli appariva la morte, più profondamente era colpito dalla pietà e dal dolore al vederla lacrimare a quel modo, continuatamente. Allora egli si disse che a nessun uomo basterebbe l’animo di abbandonare un mondo che conteneva sì bella creatura; e che volentieri egli avrebbe dato quaranta minuti di quella sua ultim’ora pur di non aver proferite le crude e decisive parole di dianzi. D’improvviso, uno stridulo canto di gallo si levò dalla buia vallata sottostante. Nel silenzio che pesava su ogni cosa, l’assordante grido fu come un guizzo di luce che lacerasse l’oscurità d’una stanza, e li riscosse di colpo dagli amari pensieri.
Ella levò il capo e lo fissò.
«Ebbene» disse «non posso proprio far nulla per voi?».
«Signora» Denis rispose, eludendo con sottile grazia la domanda «s’io ho detto alcunché che possa avervi ferita, credetemi, l’ho fatto per amor vostro, non per mio giovamento».
Un’occhiata lacrimosa di lei fu il ringraziamento per quella risposta.
«Il vostro stato mi addolora profondamente» continuò Denis. «Il mondo fu crudele con voi. Vostro zio è una vera disgrazia per l’umanità. Credetemi, signora, non c’è in Francia giovane gentiluomo cui non parrebbe gioia trovarsi ora nella buona occasione in cui mi trovo io di morire per rendere a voi anche il più futile servigio».
«So che siete valente e generoso» essa rispose. «Ciò che mi occorre sapere adesso è se io posso esservi utile, in qualche modo, ora o dopo…» ella aggiunse con un brivido.
«Oh, certo che lo potete» rispose egli sorridendo. «Ma lasciatemi sedere un momento, qui, accanto a voi, come fossi un buon amico vostro, e non uno strano importuno. Cercate di dimenticare la balzana posizione in cui ci troviamo l’uno di fronte all’altro. Fate che questi ultimi miei istanti scorrano un po’ piacevolmente, e voi m’avrete reso il miglior servigio del mondo».
«Siete molto gentile» ella rispose con un accento ancora assai desolato «molto gentile… e questo, vedete, mi contrista ancor più. Ma avvicinatevi pure se vi piace; e se avete qualcosa da dirmi, state pur certo che troverete in me una affettuosa ascoltatrice. Ah, signor de Beaulieu, come ardirò io mai fissarvi in volto?…» e qui scoppiò di nuovo a piangere con rinnovata effusione.
«Signora» disse Denis prendendole una mano fra le sue «pensate al breve tempo che ancor mi rimane a vivere e alla grande tristezza che mi procura la vostra desolazione. Risparmiatemi, vi prego, in questi ultimi momenti, la vista di un dolore cui io non potrei porre rimedio neppure col sacrificio della mia vita».
«Sì, sono molto egoista» rispose Bianca «voglio esser più savia per voi, signor de Beaulieu. Ma, suvvia, riflettete, ditemi s’io non possa giovarvi in alcun modo pel futuro… Non avete amici ai quali io possa recare il vostro estremo saluto? Datemi pure incarichi, gravi fin che vorrete; ogni peso, per piccolo che sia, mi varrà ad alleviare la gratitudine senza prezzo ch’io vi devo. Procurate ch’io possa fare qualcosa per voi oltre che piangere».
«Mia madre» disse Denis «è passata a seconde nozze e ha una seconda famiglia da badare. Mio fratello Guiscardo sarà, quindi, l’erede del mio feudo; e, se non erro, della mia morte egli sarà assai soddisfatto. La vita è un fumo, come ci han appreso quei tali che stan negli ordini sacri. Quando l’uomo è su un bel cammino, e vede la vita dispiegarglisi davanti, gli sembra d’esser la creatura più importante della terra. Il suo cavallo gli annitrisce, le trombe squillano, le ragazze si affacciano alla finestra per rimirarlo quand’egli entra in città cavalcando alla testa del suo drappello. Riceve dimostrazioni di fiducia e di stima, alcune volte per lettera, altre a parole, da persone di grand’affare che gli capitano fra capo e collo. Non è quindi da meravigliare se la testa alcun poco gli gira. Ma, una volta ch’è morto, fosse stato valente come Ercole o saggio come Salomone, chi più si ricorda di lui? Dieci anni fa, in una molto feroce mischia, mio padre cadde insieme ai suoi cavalieri; ebbene, io credo che di nessuno d’essi, che neppure del luogo del combattimento, v’è più chi si ricordi al mondo! No, no, signora, più v’andate avvicinando alla morte, più v’accorgete ch’essa è una buia e polverosa stanza dove v’han chiuso dietro per sempre la porta. Io ho pochi amici, adesso; morto, non n’avrò più nessuno».
«Ah, signor de Beaulieu» esclamò la fanciulla «voi dimenticate Bianca di Malétroit».
«Siete assai cortese, signora mia, vi compiacete valutare il piccolo servigio che v’ho reso assai più di quanto esso meriti».
«Non è questo» ella replicò. «Avete torto se pensate ch’io sia tanto preoccupata del mio interesse. Dissi così perché voi siete il più nobile uomo che mai incontrassi, perché rilevo in voi un animo pieno di generosità e di finezza».
«E con tutto questo» ribatté Denis «eccomi qui, condannato a morire in questa trappola come un sorcio!». Una nube d’angoscia volò sulla faccia di lei, che rimase silenziosa, per un istante. Poi una luce brillò improvvisa nei suoi occhi e, sorridendo, ella riprese a dire:
«Io non voglio che il mio paladino pensi così bassamente di sé. Chi fa getto della propria vita per un’altra persona, sarà accolto in Paradiso da tutti gli angeli e arcangeli del buon Dio. Ma, ditemi, pensate ch’io sia bella?» proruppe infine arrossendo.
«Lo penso davvero» diss’egli.
«Son contenta di questo» rispose ella cordialmente. «Ebbene, pensate che vi possano essere molti uomini in Francia che, chiesti in nozze da una bella ragazza, e di sue proprie labbra, abbian rifiutato? So bene che di simili trionfi voialtri uomini fate poco caso. Ma noi donne sappiamo meglio di voi quello che v’è di più prezioso nell’amore: e non c’è nulla, credetemi, che più di questo possa innalzare una persona nella nostra stima: noi donne nulla s’apprezza più caramente».
«Vi ringrazio delle vostre gentili parole» diss’egli «ma voi non potete farmi dimenticare che io ero domandato di pietà e non d’amore».
«Di questo non son ben certa» replicò la fanciulla col capo chinato. «Ascoltatemi, signor de Beaulieu. Immagino quanto dovete disprezzarmi voi, e sento ch’è giusto lo facciate. Sono una troppo misera creatura, io, per occupare un pensiero nel vostro cuore. Tuttavia è pure vero che voi siete condannato a morire per me, stamani. Ma, sappiatelo, se io vi domandai che mi sposiate, sì, sì, fu perché io vi stimavo, perché vi ammiravo, perché, dal momento che pigliaste le mie difese contro lo zio, ho sentito d’amarvi con tutta l’anima. Oh, se aveste potuto vedervi allora, non disprezzo, ma pietà avreste sentito per me. E ora» continuò, rattenendolo con una mano «sebbene, posto da parte ogni riserbo, io sia arrivata a dirvi di queste cose, sappiate che i vostri sentimenti verso di me io già li conosco. Io non vorrei, essendo nobile di nascita, tediarvi con dimostrare l’utilità di un consenso da parte vostra. Io pure ho il mio orgoglio, e vi dichiaro davanti la santa Madre di Dio, che se voleste tornare sulla parola data, quant’a me, ho tanto desiderio di sposare voi quanto di non sposare… il lacchè di mio zio».
Denis sorrise un poco amaro.
«Gli è un piccolo amore» disse «che adombra un piccolo orgoglio». Ella non rispose, ma assai probabilmente aveva formulato il suo pensiero.
«Qua, venite alla finestra» ella disse, additandogli uno di quei finestroni. «Guardate: è l’alba!».
Infatti l’alba era di già levata. La volta del cielo era tutta soffusa dell’essenziale luce del giorno, nitida ma ancora scolorita, e la valle sottostante era percorsa tutta da un grigio riflesso. Radi e lievi vapori stavano covigliati nell’insenature della foresta, o strisciavano via lungo il corso serpeggiante del fiume. Tutta la scena emanava un’ineffabile sensazione di pace che appena venne turbata quando i galli cominciarono a innalzare il loro canto dalle fattorie. E forse tra essi era quel medesimo compare che, mezz’ora prima, aveva gettato così orrido strido nell’oscurità della notte, e ora alzava più gaio il suo saluto ad accogliere la venuta del giorno. Fra gli alberi della vallata un venticello si levò tutt’affaccendato, vorticante. Poi, grado grado, dall’oriente, la luce venne inondando ogni cosa: finché diventò incandescente, e spremé fuori, rossa palla di cannone, il sole.
Denis guardava giù tutte quelle cose con un poco di brivido. Aveva preso tra le sue le mani della fanciulla e la ratteneva lì, quasi inconsciamente.
«Di già fa giorno!» ella esclamò; poi, alquanto incongruente:
«La notte è stata così lunga… Ahimè, che diremo allo zio quando ritornerà?».
«Ciò che vorrete» fece Denis, e strinse le piccole dita fra le sue. Ella taceva.
«Bianca…» egli ripigliò con un concitato incerto accento pieno di passione «avete veduto com’io temo la morte. Ora dovete saperlo bene che io sarei felice di gettarmi da questa finestra quanto lo sarei di mettervi pur un dito addosso senza il vostro consenso. Ma, se un poco vi date pena di me, non fate ch’io abbia a far getto della mia vita per un semplice equivoco; poiché io vi amo, Bianca, più del mondo intero; e, per quanto abbia caro morire per voi in tutt’allegrezza, mi parrebbe godere tutte le gioie del Paradiso s’io potessi continuare a vivere accanto a voi, dedicare la mia vita interamente a voi…».
Aveva appena cessato di parlare che, dall’interno della casa, una campana cominciò a rintoccare pesantemente, e un frastuono d’armati si sparse per il corridoio: il che attestava che le guardie ritornavano ai loro posti, e che le due ore eran scorse.
«Ebbene, avete sentito?» ella mormorò piegandosi verso di lui, tutta labbra e occhi.
«Non ho sentito nulla» rispose Denis.
Ella gli sussurrò all’orecchio:
«Il capitano si chiamava Florimond de Champedivers».
«Non l’ho mai udito nominare» egli rispose; e, pigliando fra le sue braccia l’elastico corpo della fanciulla, ricoprì di baci l’umido viso.
Dietro loro s’udì un melodioso gorgheggìo seguito da una risatina soffocata, poi la voce del Sire di Malétroit che augurava buon dì al suo nuovo nipote.

In attesa di Charlie, di Lily King

Fazi Editore porta in libreria i racconti di Lily King, autrice statunitense dallo stile caustico e intelligente. In Cinque martedì d’inverno, una serie di splendide storie raccontate dalle voci intime di personaggi complessi, Lily King esplora con eleganza il desiderio, la perdita e l’inesorabile spinta verso l’amore. Romantica, piena di speranza, brutalmente onesta e capace di costruire interi mondi in pochi tocchi, l’autrice si conferma una delle più grandi narratrici del nostro tempo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.



In attesa di Charlie
di Lily King

Tutti gli avevano detto di parlarle «normalmente». Ma come faceva, se la testa rasata era abbandonata in direzione della finestra, se il camice dell’ospedale si era allentato e lasciava intravedere un torace lentigginoso e piatto come una tavola da stiro, coi grossi seni che ricadevano ai lati; se era appoggiata ai cuscini sotto un cartello che diceva: «LA PZ NON HA OSSO SUL LATO DESTRO DEL CRANIO». Gliel’avevano asportato per via dell’infiammazione dopo l’incidente. Altrimenti sarebbe morta. Ora, a distanza di settimane, il gonfiore era scomparso e quel lato della testa era incavato, come un melone marcio. Si era abituato ai propri deterioramenti: l’anca, i polmoni, la pelle che si lacerava come un fazzoletto di carta bagnato. Doveva dormire con l’ossigeno. Sanguinava senza una ragione, attraverso i vestiti. Ma vedere questa ragazza di neanche venticinque anni malconcia al punto di non avere ripreso conoscenza era una cosa a cui non si sarebbe mai abituato. Non sarebbe mai più tornato lì. Mai più.
Si fa presto a dire «normalmente».
«Ciao, Charlotte». Attese che si girasse e lo salutasse. Certo, conosceva bene le circostanze, ma quando mai negli ultimi novantun anni aveva rivolto la parola a qualcuno in una stanza silenziosa senza ricevere risposta? Parlò più forte. «Ho detto: “Ciao, Charlotte”». Era sicuro di farla rinsavire, nell’ora che gli era stata assegnata. Nella vita aveva fatto cose ben più eccezionali.
Lo sapeva: i suoi nipoti avevano paura di lui. O ne avevano avuta. Era stato un uomo grosso, col vocione. Non gli piaceva che masticassero gomme e che rispondessero male. Ora si dispiacque per tutte le volte che aveva detto a quella nipote che aveva i capelli troppo corti, che già non stava bene che si facesse chiamare Charlie. Ma a volte i bambini avevano bisogno di una guida.
C’era una sedia vicino alla finestra. L’avvicinò a sé e vi sedette.
«Charlotte, sono tuo nonno. Sono venuto fin qui da solo per stare con te. Ti ordino di svegliarti. Hai dato troppe preoccupazioni a tutti quanti». Rammentò che sua moglie gli aveva detto di non dire niente di negativo e proseguì: «Sei un’attrice bravissima, ma adesso basta».
Ci fu uno schiocco deciso, come di una cosa dura e secca che si spaccava in due. Vide la bocca larga di un tubo posato sulla clavicola di lei. Riconobbe lo stesso apparecchio dell’ultima operazione che aveva fatto. Pompava nell’aria il quindici per cento d’ossigeno in più e l’aveva fatto sentire al sicuro. Sembrava che non sfregasse contro niente, se non la pezzuola che c’era sotto. La mandibola di Charlotte si mosse e ci fu un altro schiocco. Arrivava dall’interno della sua bocca.
«Ehi, questo non si fa». Le mise le mani sulle guance. Aveva la pelle scivolosa per il sudore. Tra le sue dita, il mento di lei dondolò ancora da un lato all’altro, emettendo quel rumore orribile. Ebbe paura di scoprire che aveva tutti i denti rotti, ma quando le aprì la bocca erano a posto. Li conosceva bene, quei denti. Charlotte aveva passato un’intera estate con lui: l’estate in cui le sue sorelle più grandi erano andate in campeggio e i suoi genitori avevano divorziato. Aveva otto anni: i denti o le crescevano o cadevano. Gli faceva vedere gli ultimi sviluppi quasi tutte le sere. Era stata una bambina paurosa, ma da grande era diventata una ragazza audace e sicura di sé. Troppo, forse. I suoi nipoti erano tutti troppo sicuri. Quando li criticava per questo, per l’aggressività, l’avventatezza, ridevano. «Da che pulpito», dicevano. Aveva visto una foto della discesa dov’era caduta. «Io non sarei andato su quella pista. Troppo ripida, troppo gelata, si vedevano le rocce nude. È stata una stupidaggine». Pazienza. Bisognava sgridarla. Forse non ne poteva più della gente che veniva a farle tante moine, sdilinquirsi e compatirla.
Aveva bisogno di una mano ferma. «Una vera stupidaggine».
Su una lavagnetta bianca davanti al letto, davanti al cartello che diceva del cranio, le sorelle avevano scritto col pennarello cancellabile: «Buongiorno, Charlie! Oggi è sabato 15 febbraio. Hai avuto un incidente mentre sciavi. Noi siamo da papà e torniamo presto. Non vediamo l’ora di vederti!». Su tutta quella parete c’erano fotografie, poster, disegni, poesie e lettere. Poi c’erano le rose rosse e un mucchio di biglietti di San Valentino sul termosifone.
C’erano anche vari flaconcini di vetro in un cestino sul davanzale. Uno era pieno di grani rossi. Lo rigirò; sull’etichetta c’era scritto: «PEPE ROSA INTERO». Gli altri erano liquidi: «ACQUA DI MARE», «GRANATINA», «ACETO».
«Come andiamo?».
C’era un’infermiera sulla porta. Cercò di pensare se avesse bisogno di qualcosa, poi ricordò che non era lui il paziente.
L’infermiera vide il cestino sulle sue ginocchia. «Pensava di farle un po’ di aromaterapia?».
«No».
«Sa», disse lei, come facevano sempre le infermiere, completamente assuefatte alla resistenza, «il terapeuta non viene la domenica, quindi potrebbe essere una bella idea. Basta che tolga il tappo da un flacone e glielo faccia annusare un pochino. Gli odori sono incredibili. Liberano i ricordi più in fretta e più intensamente di qualsiasi altro tipo di stimolante sensoriale».
Scelse un flacone con l’etichetta strappata. Svitò il tappo e un profumo di limoni pervase la stanza. Lo respirò avidamente. Era un odore buonissimo. Pensò alle sue tre nipoti in estate, quando mettevano le sedie pieghevoli arrugginite in giardino e si spremevano i limoni sui capelli bruni. Dopo il divorzio si fermavano spesso a dormire da lui, malgrado l’appartamento di suo figlio si trovasse a pochi isolati. Dicevano che i letti erano più comodi. Le mise il flacone sotto il naso. Non ci fu nessuna reazione. «Charlotte, ti ricordi Dennis Wight? Ha chiesto di te, l’altro giorno».
Una volta in piena notte aveva trovato Dennis in una delle sedie pieghevoli; russava così forte da tirare giù un intero piano della casa. Il ragazzo aveva aspettato di intravedere Charlie attraverso uno strappo della tenda nella camera degli ospiti.
«Voi bambine vi abbronzavate tanto. Avevate striature d’oro nei capelli». Senza bisogno di guardare percepì la desolazione di febbraio dall’altra parte della finestra, le pozzanghere di fango mezze ghiacciate nel parcheggio di sotto. «L’estate è una bellissima stagione, Charlie». «Sicuramente».
Si era dimenticato dell’infermiera. Si domandò cosa aveva detto e a cosa aveva solo pensato. Rimise il tappo al limone e tirò fuori i grani di pepe. Non avevano odore.
Se li mise sotto il naso. Niente. Scosse il flacone, annusò e gli esplose la testa. Tossì, starnutì, si asciugò gli occhi con il fazzoletto. Nel frattempo l’infermiera rise. Lui desiderò che se ne andasse all’inferno.
Tenne il flacone verso Charlie, che continuò a respirare lievemente senza reagire. Aveva visto tanti morti in guerra, eppure mai, in quella lunga vita, una cosa così agghiacciante come la faccia che aveva davanti adesso. Tutti i muscoli erano diventati flaccidi. La carne sembrava gelatina. Il mento ammassato sul collo; le guance che ricadevano sulle orecchie. Le si erano appiattite persino le narici. Fisicamente aveva perso tutto quello che un tempo l’aveva caratterizzata. Guardò da un’altra parte, le proprie gambe. I vecchi calzoni marroni si gonfiavano come una sottana; gli orli toccavano terra. La cintura dal cuoio logoro al primo buco adesso era chiusa all’ultimo. Tra poco doveva fargliene un altro. Si stavano staccando tutti e due dal loro corpo. E senza il corpo cosa siamo noi? Aveva mai creduto veramente all’anima?
Scosse forte il flacone e continuò finché la sentì inspirare. Lui starnutì quattro volte; e ricordò i raggi del sole, il polline e i libri impolverati, ma non ebbe effetto su di lei.
L’estate del divorzio dei suoi genitori era andata di stanza in stanza dicendo che si annoiava.
«Non ti annoi, lì dentro, Charlie? Non ti annoia da matti questo coma?».
L’infermiera si allungò sopra il letto e gli mise una mano sul braccio. «Non dica così».
«Non posso dire “coma”? È una parolaccia qui?».
«Potrebbe farle paura».
«È lei che fa paura a me».
Non si lamentava così da quand’era bambino. «Forse adesso è ora di andare».
«No. Per me no. Non è ora di andare per me». Sentì come gli batteva veloce il cuore e capì di doversi calmare. Rovistò nel cestino e trovò una boccetta di liquido blu con scritto «DOPOBARBA» sull’etichetta. La aprì e inspirò i balli di quand’era giovane, il bagno della casa di sua madre e suo padre, suo fratello Tom che monopolizzava il lavandino e il profumo della propria colonia fra i capelli di una ragazza alla fine della serata. Non era mai stato religioso, ma sapeva che, se a Charlie fosse successo qualcosa, Tom sarebbe stato ad aspettarla. Ora dovevano avere più o meno la stessa età. Tom era morto a ventiquattro anni soltanto. Gli sembrava impossibile aver vissuto per sessantasette anni senza di lui.
Finse un altro attacco di tosse e si asciugò gli occhi. Era troppo. Troppe perdite inutili. Era sempre stato così. Tenne il dopobarba sotto il naso piatto di Charlie. Lei inspirò lentamente e aprì un occhio. Le scese la pupilla e lo guardò diritto. Restò troppo sbalordito per salutarla. Ma eccola. Ci era riuscito.
«Succede», disse l’infermiera. «Apre solo quell’occhio. Sempre quello».
Docilmente, l’occhio iniziò a percorrere la stanza in lungo e in largo. Quando rifece il giro e tornò su di lui, la salutò con la mano e sorrise come davanti a una macchina fotografica. Nessuno, nemmeno gli specialisti, con quel gergo complicato e tutti i macchinari, sapevano se Charlie era ancora lì con loro. Rimise a posto il flacone blu e pescò ancora nel cestino, distrattamente. Ma non era certo di avere la forza di fargliene sentire un altro e fu sollevato quando l’infermiera disse che tre in una volta erano più che sufficienti.
«Erano buoni odori, vero, Charlie?», disse l’infermiera; poi le controllò i parametri vitali e se ne andò.
La sua presenza era stata una seccatura, ma quando non ci fu più la stanza sembrò svigorita e disabitata. Prese la mano di sua nipote, una mano stretta a pugno sul petto di lei, e cercò di pregare. Non aveva mai imparato a pregare. Sapeva solo supplicare. Supplicò che questa bambina fosse risparmiata, ma anche nella piccola cavità della sua mente la sua voce fu flebile.
Si rimise sulla sedia. Non aveva notato il gigantesco orologio. Gli erano rimasti quaranta minuti.
Fuori, in corridoio, passava continuamente gente. Ogni tanto infermieri e OSS deceleravano e lanciavano un’occhiata dentro, perché erano stati informati del vecchissimo signore in visita nella 511.
«Sono un arrogante», sussurrò. «Credevo che fosse più facile».
Era una bella stanza, più grande di tutte quelle che aveva avuto lui in quell’ospedale. Ormai gli ospedali avevano un che di confortante. Gli piacevano l’ambiente, le voci all’altoparlante che dicevano nomi di gente sconosciuta, il vapore che usciva dal tubo dell’ossigeno, la spia luminosa del pulsante di chiamata vicino al letto, il rollio dei carrelli e delle sedie a rotelle in corridoio, l’odore di pulito e di sterile. Lì si sentiva più protetto che a casa, dove gli incidenti erano in agguato, dove l’assistenza era dalla parte opposta della città. Qui la morte sembrava lontana, lontanissima.
La sedia era comoda. Una pioggia leggera cominciò a picchiettare sulla finestra. Avvertiva l’ossigeno aggiunto nella stanza e lo respirò con gratitudine. Gli venne sonno, un sonno denso e lento, e subito prima di cedere sentì che il ritmo del suo respiro si adagiava su quello di Charlie, si adagiava in un posto più facile, più semplice, dove forse finalmente si sarebbero ritrovati.


Allevata dai lupi, di Simon Rich

Nottetempo porta in libreria Il grande sonnellino, di Simon Rich, tradotto da Alessandra Castellazzi.
Strappandoci a ogni frase una risata, queste storie raffinate e irresistibili raccontano l’approdo alla vita adulta, i cambiamenti di sensibilità del mondo che ci circonda e le assurdità che caratterizzano ogni famiglia. Definito “lo Stephen King della scrittura umoristica”, Simon Rich compone con la sua arte comica un indimenticabile mosaico della società contemporanea.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Allevata dai lupi
di Simon Rich

Nel 2003 un gruppo di cacciatori trovò in Siberia una giovane donna che apparentemente era stata allevata dai lupi. Gli scienziati non riuscirono a rintracciare le origini della bambina, ma una visita medica stabilì che aveva all’incirca diciotto anni ed era in condizioni di salute sorprendentemente buone, considerate l’infanzia e l’adolescenza fuori dal comune. I ricercatori chiamarono la donna “Lauren” e collaborarono con le autorità affinché potesse integrarsi nella società umana.
Con un certo sforzo, Lauren riuscì a mettersi in pari con i coetanei, nella sfera sociale e intellettuale. Ottenne una laurea e a trentacinque anni era ormai sposata con un assicuratore di nome Gabe e aveva partorito una figlia in buona salute. Aveva smesso di interagire con i lupi che l’avevano allevata, tranne quando andavano a farle visita per il giorno del Ringraziamento.

Lauren stava valutando se prendere un Clonazepam quando suo marito entrò a passo strascicato, arrancando sotto il peso di un alce morto. “Non ce n’era bisogno,” disse Lauren.
“È il minimo!” disse Gabe con un’allegra vocetta da boy-scout.
“È davvero gentile da parte loro venire fin qui”. Scaricò la carcassa sul tavolino da caffè, mandando in frantumi diverse ciotole di noccioline e olive.
Lauren sospirò.
“Che c’è che non va?” chiese Gabe.
“È solo che non riesco a capire perché dobbiamo sempre adattarci ai loro comodi”.
Gabe le lanciò un’occhiata di rimprovero.
“Perché sono i tuoi genitori. E sono nostri ospiti”.
Lauren si ficcò in bocca il Clonazepam e lo mandò giù con una sorsata di pinot grigio.
“Senti, capisco,” disse Gabe. “È dura coi genitori. Anche i miei mi fanno impazzire. Mio padre, con quei giochi di parole? È terribile”.
“Penso che i miei siano peggio,” disse Lauren. “Cioè, crescere con loro è stato un incubo in piena regola”. “Forse ne hai un ricordo peggiore di com’è stato?”
“È tutto documentato dagli scienziati,” disse lei, la voce venata di frustrazione. “Ci sono diversi libri al riguardo e anche un documentario che ha vinto dei premi”.
Gabe le massaggiò le spalle in un modo che riuscì a farla sentire persino più tesa. “So che i tuoi non sono perfetti,” disse. “Ma si sono fatti tutto il viaggio dalla Siberia. Hanno corso e nuotato per mesi, e nel giro di mezz’ora si leveranno di torno. Il minimo che possiamo fare è essere cortesi, o sbaglio?”
“Immagino di sì,” disse lei.
“Fantastico!” disse lui, suggellando il patto con un bacio accondiscendente sulla fronte. “E poi, potrebbe essere divertente. Dai, devi ammettere che le storie di tuo padre sono leggendarie”.
Lauren sorrise a denti stretti mentre Gabe vorticava nel salotto, disponendo tovaglioli e tele cerate. Gli aveva raccontato tutto della sua infanzia incasinata.
I latrati, i ringhi, l’assoluta mancanza di struttura e supporto. I suoi genitori non erano mai stati violenti, ma l’ambiente domestico era comunque disfunzionale.
La sua psicologa l’aveva confermato. “Non ti vedevano,” le aveva detto. “E non ti ascoltavano”.
Eppure, benché Gabe sapesse delle trasgressioni dei suoi genitori, non vi aveva mai assistito. I genitori di Lauren si erano notevolmente addolciti con l’età. Dopo l’ictus suo padre aveva smesso di ululare alla luna e nonostante un paio di false partenze sua madre era riuscita a rinunciare all’alcol. Lauren sapeva che avrebbe dovuto sentirsi grata per quei progressi, ma in qualche modo la irritavano. Riabilitandosi, i genitori le avevano tolto un pubblico per le sue sofferenze. L’ennesima deprivazione: l’ultima di una serie che si estendeva a ritroso fino all’infanzia.
Si udirono in lontananza due penetranti ululati canini.
“Credo siano loro,” disse Gabe.
“Gli apri tu?”
“Vai pure tu,” rispose lei.
Rabboccò il bicchiere di vino fino all’orlo. Sentiva i suoi genitori ridere con Gabe nell’ingresso, mentre si scambiavano i soliti convenevoli sul viaggio. Voleva ritardare l’incontro il più a lungo possibile, ma i suoi genitori la fiutarono subito ed entrarono a grandi falcate nel salotto.
“Scusa il ritardo!” disse sua madre. “Sai com’è tuo papà – non voleva chiedere indicazioni!”
“È un bene che con me ci sia la mia dolce metà!” disse lui.
Lauren rabbrividì mentre i suoi genitori si strofinavano il naso l’un l’altra.
Quando era piccola, suo padre tradiva in continuazione sua madre, con le amiche, con le vicine, e una volta con un tronco d’albero bucato. E ora erano disposti a fingere che avessero un matrimonio perfetto? “Allora, come vanno le cose?” le chiese suo padre. “Il lavoro?”
“Va bene,” disse Lauren.
Ci fu una pausa di due secondi, che Gabe si affrettò a riempire. “Il lavoro va più che bene,” disse, colpendo Lauren al braccio con un fastidioso eccesso di forza. “Tesoro, raccontagli la grossa novità!”
“Non è niente,” disse Lauren.
“Non è vero che non è niente,” protestò Gabe.
Si girò verso i genitori di Lauren e la indicò come il presentatore di un quiz televisivo. “State parlando con la nuovissima Responsabile Marketing di zona per le Comunicazioni di Verizon!”
I genitori di Lauren le saltarono addosso e le leccarono la faccia. “Siamo così orgogliosi di te!”
“Grazie,” disse Lauren.
“Allora, che significa?” chiese suo padre. “Potrai cacciare animali più grossi?”
“Non sono una cacciatrice,” disse lei. “Lavoro per Verizon. È una compagnia di telecomunicazioni”.
“Ah, capito,” disse lui, abbassando gli occhi. “Scusa se mi sono sbagliato”.
“Non ti sei sbagliato,” gli disse Gabe in tono rassicurante. “Ha ottenuto un aumento del venti per cento, che è un po’ il corrispettivo umano di cacciare animali più grossi. Giusto, tesoro?”
“Bah, immagino di sì,” disse Lauren evasivamente.
“Be’, è fantastico!” disse sua madre. “Non mi stupisce. Lo dicevamo sempre: ‘Ecco Lauren, il nostro genietto!’”
“Ah,” disse Lauren.
Gabe le lanciò un’occhiata di avvertimento, che lei ignorò.
“Cosa?” chiese sua madre.
“Niente,” disse Lauren.
“Tranquilla,” disse sua madre. “Dì pure”.
“È che non ricordo di avervelo mai sentito dire,” disse. “Da quel che ricordo, anzi, non mi avevate neppure dato un nome”.
I suoi genitori chinarono la testa.
“Qualcuno vuole assaggiare le chiappe di questo alce morto?” chiese Gabe.
“Grazie,” disse suo padre. “Ma non ho molto appetito”.
“Ok, mi dispiace,” disse Lauren, alzando gli occhi al cielo. “Non avrei dovuto dire niente. Avrei dovuto ricordare la regola di famiglia: mai e poi mai affrontare un argomento scomodo”.
Il padre di Lauren mise la coda tra le zampe. “Forse abbiamo sbagliato a venire qui,” mormorò. “Forse dovremmo saltarcene fuori dalla finestra”.
Lauren scrollò le spalle. “Non sarebbe la prima volta che te ne vai”.
“Tesoro,” disse lui supplichevolmente. “Ne abbiamo già parlato dalla psicologa. Il motivo per cui ho lasciato la famiglia non c’entrava niente con te. È stato un periodo di confusione. Credevo che quel tronco bucato fosse tua madre. Davvero, credevo che il legno fosse il suo corpo e il muschio la pelliccia. È stato un periodo folle della mia vita. Avevo la rabbia”.
“E allora io adesso dovrei dispiacermi per te?” chiese Lauren. Malgrado il vino e il Clonazepam, le tremavano le mani.
“Non chiediamo la tua compassione,” disse sua madre. “E se c’è qualcosa che vuoi dirci, siamo qui per ascoltarti. Vero, caro?”
“Sì,” disse suo padre. “Siamo pronti a onorare le tue emozioni”.
Lauren serrò i pugni; odiava quando parlavano come un libro di psicologia.
“Cominciamo dal mio abbandono,” disse il padre. “Dimmi perché ti turba così tanto”.
“Oh, non so,” disse Lauren sarcastica. “Forse perché era il giorno del mio cazzo di compleanno?”
I suoi genitori si guardarono di sottecchi.
“Fatemi indovinare,” disse Lauren. “Non ve lo ricordate”.
“Onestamente no,” disse suo padre.
“Allora stai dicendo che me lo sono inventato?”
“Non è quello che sto dicendo!” disse lui, alzando le zampe sulla difensiva. “Sicuramente può essere andata come ricordi. Sto solo dicendo che io ricordo diversamente”.
“Ok, bene,” disse lei. “Come ricordi il giorno in cui te ne sei andato?”
“Be’ – ripeto, potrei sbagliarmi. Stiamo parlando di un fatto accaduto molto tempo fa, e il mio cervello ha le dimensioni di una pigna, e non ho alcuna comprensione del tempo e dei numeri. Ma io ricordo che quel giorno stavo camminando nei boschi. E poi il grande dio giallo che vive nei cieli ha cominciato a splendere rovente. E poi c’è stato un odore, tipo: ‘Ok, è ora di andare’. E così ho corso fino al posto bagnato dove fa freddo. Ripeto, potrebbe non essere una descrizione perfettamente accurata di come sono andate le cose. Ma è come me lo ricordo”.
“Ricordo anch’io così,” disse sua madre.
“Tutto questo non ha senso,” disse Lauren. “Ogni volta è così frustrante”.
“È frustrante anche per noi!” disse suo padre. Sospirò. “Mi dispiace di aver ringhiato. Ero sommerso”.
“Non preoccuparti,” disse Lauren. “Continua”.
“Grazie,” disse lui. “Il punto è: so che non siamo stati i genitori migliori del mondo. Eravamo giovani, ed eravamo lupi, e non sempre sapevamo cosa stavamo facendo. Ma quando ci vediamo non facciamo che scusarci, ancora e ancora, e non è semplice. Per farlo abbiamo dovuto imparare a parlare la vostra lingua, che ci gratta la gola e ha un suono assurdo. Sentire la voce che mi esce dalla bocca in questo momento… è così innaturale e inquietante. Perciò se vuoi ancora sentirci dire che ci dispiace, con queste strane voci da animali strozzati, lo faremo. Perché siamo dispiaciuti. Ma a un certo punto… la palla passa a te”.
Nella stanza cadde il silenzio, che permise a tutti loro di sentire uno squittio in lontananza.
“Sembra proprio che qualcuno si sia svegliato!” disse Gabe, grato di avere una scusa per fuggire dal salotto. Tagliò la corda e tornò poco dopo tenendo in braccio Haley, la figlia di tre anni, che stringeva una pallina arancione – la fonte dello squittio. Aveva gli occhi annebbiati dal sonno, ma quando vide i nonni cacciò uno strillo e seppellì la faccia nella loro pelliccia.
Lauren era sorpresa che Hailey si ricordasse di loro. Aveva passato pochissimo tempo insieme a loro, soltanto il Ringraziamento dell’anno precedente e il Memorial Day in cui l’avevano spedita in aereo in Siberia perché la sorella di Gabe si sposava, e non c’erano altri bambini al matrimonio, e quella era la soluzione più semplice. Lauren si era aspettata che Hailey provasse nostalgia di casa quel fine settimana nella tundra, ma per qualche motivo si era divertita. Ovviamente non guastava il fatto che i nonni l’avessero viziata all’inverosimile. Lauren aveva chiesto che mettessero dei paletti a Haley sull’uso dello schermo, ma le avevano lasciato guardare tutti i cartoni animati che voleva. Sostenevano di non avere idea di cosa fosse uno schermo e di non saper distinguere tra un iPad e qualsiasi altra superficie riflettente, come una pozzanghera o un occhio. Lauren sospettava che mentissero, ma per qualche motivo quell’indulgenza l’affascinava. Nel modo in cui coccolavano Haley percepiva il loro desiderio di rimediare al passato, una consapevolezza subconscia che dovessero riparare dei torti. Haley lanciò la pallina arancione dall’altra parte della stanza e i nonni corsero obbedientemente a prenderla. Per Lauren era surreale vedere i suoi genitori così docili, ma ovviamente per sua figlia aveva perfettamente senso. Ai suoi occhi non erano una coppia di lupi feroci. Per lei erano soltanto Nonno e Nonna.
Un giorno avrebbe dovuto raccontare a Hailey la verità sulla sua infanzia, e il trauma che aveva subito. O forse no. Forse avrebbe raccontato una storia diversa, incentrata sulle cose che dopotutto avevano azzeccato. Il modo in cui le avevano dato un riparo, l’avevano nutrita e protetta dai falchi. Malgrado la disfunzionalità complessiva, alla fine era cresciuta bene. In qualche modo, le mancanze dei suoi genitori avevano persino contribuito al suo successo (sapeva, per esempio, che il saggio su di loro era stato un fattore decisivo nell’ammissione alla Brown).
Haley stava per lanciare di nuovo la pallina, quando invece si avvicinò alla mamma. “Ora Mamma lancia,” disse, ficcandole la pallina fradicia nel palmo.
Lauren se la rigirò tra le mani. Difficile dire se la bava fosse della bambina o dei suoi genitori. A Haley stavano spuntando dei denti nuovi. Di recente Lauren l’aveva portata dal dentista ed era rimasta sconvolta dalla radiografia alla mascella di sua figlia. Non c’era niente di eccezionale, ma era inquietante vedere tutti i denti adulti innestati nel cranio, una vita intera di canini e molari che aspettavano il momento giusto per emergere. Prima che quei denti perforassero la gengiva sarebbero passati anni, in alcuni casi decenni, scanditi da apparecchi odontoiatrici, retainer ed estrazioni. Perché gli umani non potevano nascere già pienamente sviluppati, dotati di tutto il necessario? Perché ci volevano così tanto tempo e dolore per crescere?
Guardò i suoi genitori, ora accucciati sul tappeto in una posa deferente. La loro età equivaleva a quattrocento anni umani. Si chiese come fossero stati cresciuti. Allevati anche loro dai lupi, ovviamente. Non parlavano mai dei propri genitori, e solo adesso Lauren si accorse di non aver mai fatto domande al riguardo. Sollevò la palla e i suoi genitori la fissarono con occhi gialli e stanchi. Il respiro era affannoso, ma le pupille concentrate, seguivano la palla che lei muoveva esitante nell’aria. Li sentiva uggiolare appena, come due cuccioli che implorano per gli avanzi. “Lancia, Mamma,” supplicò Hailey. “Lancia”. Lauren alzò la palla, avvertendone il peso denso e appiccicoso. Poi fece un respiro profondo e allentò la presa.

Ragazzacce, di Barry Gifford

Jimenez edizioni porta in libreria Il mondi di Roy, di Barry Gifford, tradotto da Michele Carpi. Il mondo di Roy raccoglie i racconti brevi, a volte brevissimi, che Barry Gifford ha scritto nel corso di decenni, tutti con protagonista il giovane, irresistibile Roy, suo palese alter ego. Il mondo di Roy è, a suo modo, il romanzo di formazione che Barry Gifford non ha mai scritto: una carrellata di diapositive piuttosto che un film, una storia che procede in modo ellittico, che mescola realtà e immaginazione e che dà forma, come in un sogno, a ricordi e desideri, speranze e paure, per tornare sempre lì dove solo la buona letteratura sa arrivare, nel cuore del personaggio e del lettore.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


RAGAZZACCE
di Barry Gifford

Jimmy Boyle chiese a Roy di accompagnarlo ad Uptown a incontrare una ragazza che aveva conosciuto il sabato prima al cinema Riviera.
«Perché non ci vai da solo?» domandò Roy.
«Ha detto che viene con un’amica» disse Jimmy.
«Ho bisogno che mi dai una mano, che ci parli tu con la sua amica».
«Sono delle buzzurre?».
«Penso di sì. Babylonia mi ha detto che la sua famiglia si è trasferita qui dal West Virginia».
«Babylonia? Si chiama Babylonia?».
«Sì, ma dice che tutti la chiamano Babs».
«La maggior parte di quelli che si sono trasferiti qui dagli Appalachi vivono ad Uptown» disse Roy.
«Babs mi ha detto che fino ai dieci anni ha vissuto in una città così piccola che non c’era neppure un semaforo, poi si sono trasferiti a Wheeling e sono rimasti lì fino a un anno fa. Sono arrivati a Chicago il giorno dopo che aveva compiuto tredici anni».
«Com’è?». Jimmy fece un’alzata di spalle.
«Non so. Capelli castano chiaro, occhi azzurri, un po’ magrolina. Ma la sua pelle è bianca come una statua. Più bianca del latte».
«Dove dovresti incontrarla?».
«Sulla Kenmore, dietro il Graceland Cemetery, all’una. Lei dice ai suoi che va al cinema con l’amica». «Perché il cimitero?».
«Credo abiti lì vicino».
Era metà novembre ma non faceva troppo freddo. Nel cielo, completamente grigio, non si vedeva volare neanche un uccello, cosa che fece sentire Roy come se fosse uno degli ultimi sopravvissuti in un pianeta in agonia. Lui e Jimmy Boyle si avviarono dalla Ravenswood alla Montrose, svoltarono a sinistra e si diressero verso Kenmore Avenue. Le strade erano vuote come il cielo.
«E se non vengono?» disse Jimmy.
«Ce ne andiamo a fare un giro al Loop, e magari incontriamo lì qualche ragazza».
Non c’era nessuno all’angolo tra Kenmore e Montrose, così i ragazzi si diressero verso sud e camminarono lungo il lato est del cimitero.
«Conosci qualcuno sepolto qui?» domandò Jimmy.
«No. Papà è stato seppellito al Rosedale».
«Eccole» disse Jimmy. «Te l’ho detto che sarebbe venuta».
A metà dell’isolato c’erano le due ragazze, entrambe con un foulard nero intorno alla testa, caban blu, gonna corta nera con calze nere e scarponcini neri. Una delle due stava fumando una sigaretta. «Ragazzacce» disse Roy.
«Lo spero» disse Jimmy Boyle.
Quando furono più vicini, Roy notò che la ragazza che fumava aveva in bocca anche una gomma da masticare. Aveva i capelli neri e gli occhi neri. L’altra era quella di Jimmy. «Ciao, Babs» disse Jimmy Boyle. «Lui è Roy».
«Ciao, Jimmy» disse Babs.
«Ciao, Roy. Lei è Sunny».
«Sunny con la u o con la o?» domandò Roy.
Sunny si tenne il gomito destro con lamano sinistra. Aveva la sigaretta nella destra e non sorrideva. Fece schioccare la gomma da masticare. «Lei lo scrive con la u» disse Babs.
«Roy come Roy Rogers» disse Sunny.
«Roy Rogers è adorabile» disse Babs.
«Mia madre dice che è mezzo indiano».
Sunny si era truccata per nascondere dei brufoli sulle guance e sul mento, ma Roy pensò che era bellissima, addirittura bella come Gene Tierney. Aveva sentito dire dalla madre del suo amico Frankie, una che leggeva un sacco di riviste hollywoodiane, che Gene Tierney era pazza e che periodicamente dovevano ricoverarla in manicomio. Comunque, Sunny era molto più carina di Babs, anche se quello che aveva detto Jimmy sulla pelle di Babs era vero.
«Andiamo da qualche parte?» domandò Babs.
«Dove volete andare?» disse Jimmy.
«Ho fame» disse lei.
«Andiamo da Billy the Greek’s a Irving Park. Possiamo tagliare per il cimitero».
Jimmy Boyle e Babs si avviarono per primi e Roy e Sunny gli andarono dietro. Dopo un minuto, Sunny disse a Roy: «Sono greca. I miei vengono dal Pireo. Ma mi hanno avuta qui, quindi sono greco-americana».
«Anch’io sono americano di prima generazione» disse Roy. «Mio padre veniva da Vienna, in Austria».
«Non credo di avere mai conosciuto qualcuno dell’Austria».
Sunny gettò via la sigaretta. Era alta quasi quanto Roy. «Quanti anni hai?» chiese lui.
«Quattordici, come Babs. E tu?».
«Quattordici e mezzo».
Proseguirono un altro minuto senza parlare, poi Sunny disse: «Ti piacciono i cimiteri?».
«Non da quando papà è morto» disse Roy.
Sunny si fermò e poggiò la mano destra sull’avambraccio sinistro di Roy. Si fermò anche lui. «Oh, Roy, mi spiace avertelo chiesto».
Roy la guardò negli occhi. Erano marrone scuro con una sfumatura di rosso. «È tutto a posto» disse. «È morto un paio di anni fa».
Sunny intrecciò il braccio destro al sinistro di Roy, e ripresero a camminare. Con la sinistra si tolse la gomma di bocca e la lanciò a terra. «Mia madre è morta un anno fa» disse Sunny, «quando io stavo al Chicago Parental».
«Sei stata in riformatorio?». Sunny annuì.
«Per cosa?».
«Assenteismo cronico».
«Che vuol dire cronico?».
«Vuol dire che facevo sega a scuola troppo spesso» disse Sunny. «Ero sconvolta, perché mamma stava male e io non potevo fare niente per aiutarla. Suo marito? Non è mio padre. Mio papà, quello vero, è andato in Corea con l’esercito e non è mai più tornato. Probabilmente è ritornato in Grecia».
«Com’è il tuo patrigno?».
«Ah, lui. Un ubriacone. Lavorava al carico dei camion al South Water Market. Ha provato a stuprare mia sorella il giorno del suo sedicesimo compleanno, così adesso è in galera. C’era sempre una brutta aria a casa nostra, e io stavo fuori tutto il tempo. Sono stata al Chicago Parental per tre mesi. Mi hanno fatta uscire quando mia madre è morta e sua sorella, zia Edita, è venuta a vivere con me e mia sorella. È molto gentile». «Vai di nuovo a scuola?».
«Sicuro. Ho la media della B».
Camminavano lentamente, lasciando che Jimmy Boyle e Babs andassero avanti.
«Abbiamo delle cose in comune, Roy. È molto importante, non credi? Voglio dire, se diventeremo amici». «Il tuo patrigno ci ha mai provato con te?».
«Naah. Valeria è più bella di me, e ha già le tette grosse. Per cui non badava molto a me. È ungherese». «Bene, sono contento che ci sia tua zia a prendersi cura di te».
«Suo marito, zio Ganos, un giorno ha dato di matto, non voleva più uscire da un armadio. Quando la polizia ha provato a tirarlo fuori, ha preso uno sbirro a morsi sul naso, gliel’ha quasi strappato via dalla faccia. Mia zia ha detto che a quel poveraccio gliel’hanno dovuto ricucire addosso. Avevo otto anni quando è successo».
«Gesù» disse Roy. «Che è successo a tuo zio?».
«È al Dunning, l’ospedale psichiatrico statale dalle parti di Foster. Probabilmente ci rimarrà per il resto della sua vita».
Quando Roy e Sunny arrivarono a Irving Park, non c’era traccia di Babs e Jimmy. «Saranno già al Billy the Greek’s» disse Roy.
Sunny e Roy erano una di fronte all’altro.
«Roy» disse lei, «vuoi baciarmi?».
Sunny si sporse in avanti e infilò la lingua nella bocca di Roy, poi la fece roteare un po’ di volte.
«Dove l’hai imparato?» chiese Roy.
«Me l’ha insegnato Valeria» disse Sunny. «Una ragazzaccia».