Pièdimosca edizioni porta in libreria Fughe, di Cristina Pasqua. Ventitré racconti stretti dall’uso di un linguaggio necessario, asciutto, fatto di reazioni impreviste tra le parole, che si rincorrono affilate e impietose, o sfregano tra loro come carta vetrata, o esplodono con un colpo secco.
Ventitré racconti che lasciano la sensazione di avere sbirciato di soppiatto attraverso una porta accostata che avrebbe dovuto rimanere chiusa, di essere entrati senza permesso dentro esistenze sghembe che avanzano alla rinfusa. E quando la porta in cui, clandestini, ci siamo intrufolati si chiude con uno scatto, si resta con la sensazione di aver afferrato al volo brandelli di vita impossibili da ricucire insieme, e che continuano però a pulsare ben oltre l’ultima pagina del libro.
Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.
ORTICHE
di Cristina Pasqua
Estate e campi secchi. Storpio, Trespicci e Gimondi non sapendo come ammazzare il tempo erano arrivati in corsa fino al passaggio a livello. Si erano lasciati alle spalle cicale a falcidiare erba secca e alberi assetati ed erano entrati in Stazione.
«Sciò, sciò», disse il Carioti. Era una stazione abbandonata ma il Carioti, che un tempo era stato capostazione, era rimasto lì, appeso a un lavoro che non esisteva più, la divisa macchiata di tempo e disoccupazione, la barba sfatta, le unghie nero di orto.
«Siam mica mosche», disse Trespicci, frugandosi in tasca. «Toh! Un bicchiere ce lo prendi», e gli allungò centocinquanta lire, ghignando forte.
Storpio, che era finito un paio d’anni prima sotto la mototrebbia di suo zio, trascinava la gamba marcia e avanzava con la buona. «Buttala via quella divisa. Il treno l’hai perso, qua non passano più».
Sarà stato l’incidente, era diventato gramigna, l’erba cattiva gli cresceva dentro da anni. Infestato aveva lingua di ortica e occhi di indivia. Gimondi sorrise. Parlava poco, quasi niente. Mentre Storpio si tirava dietro la gamba, lui aveva poca dimestichezza con le parole, zagagliava, inciampava, arrotava, rovinava a ogni sillaba. Per questo aveva scelto il silenzio, l’apparecchio in bella mostra, le labbra tirate.
La banchina era deserta. L’erba era cresciuta tra le traversine e si era fatta spazio tra un lastrone e l’altro, ingannando la puntualità dei treni e l’abito grigio che indossava un tempo.
«E adesso?», aveva detto Storpio.
«Proseguiamo dritti e usciamo al podere di Vinci. Poi si torna indietro passando per il torrente.»
«Ho portato questa», disse Trespicci e srotolò dalla tasca una colata di plastica bianca e stropicciata.
«Da’ qua», disse Storpio strappandogliela di mano. «Se puzza», aveva aggiunto poi, scacciando l’odore dal naso.
«La mamma ci aveva messo le uova.» «Pe-pe que-que-s-to s-sem-bra us-us-citadal-cu-cu-lo-de-’na-ga-ga…»
«Gallina, sì», disse Storpio tagliando corto.
Fatti pochi passi l’ingombro della vista scivolò sotto le dita.
«E q-qu-que-s-to?»
«Cos’è?», disse Storpio appoggiandoci la mano sopra.
Era un baule, verde torba, le cerniere in ottone arrugginito.
«Ma chi ce l’ha portato qua?», disse Trespicci soffiando sul ciuffo che gli copriva la fronte bagnata.
«A-a-ap», provò a dire Gimondi.
«Apriamo, sì», gli venne in soccorso Storpio.
Il rumore delle cerniere infangò l’aria. Alzarono il coperchio in due, Storpio a guardare.
«Cambia tempo», disse grattandosi la gamba marcia.
All’interno, in un disordine di bianco, c’era un corpo. Un ragno bianco e gonfio, gli arti scomposti, una gamba, un braccio, e un’altra ancora e la testa al centro.
«Madonnacara», disse Storpio, «che me rappresenta?»
Un rumore di ossa spaccate TLAC! gli soffiò all’orecchio, quando il coperchio si richiuse sul baule, in alto una scritta con il gesso. 01.
«E m-mo?»
«Gimo’, mo gambe!», disse Storpio puntando il peso sulla gamba buona e torcendo il corpo in direzione dell’uscita.
Carioti li vide sfilare pallidi e silenziosi.
«Finito?», e si infilò il berretto da capostazione che gli dava un’aria ancora più frusta.
«Sì, finito. Ne sai di quello?», disse Storpio indicando.
«Quello cosa? Io non vedo niente», disse agitando un gessetto bianco nell’aria. Poi si avvicinò alla maglietta di Trespicci. Gli disegnava le costole per quanto aveva sudato, gli si era appiccicata addosso, e scrisse 02.