Ombre cinesi, di Hebe Uhart

La Nuova Frontiera porta in libreria Un giorno qualunque, di Hebe Uhart, tra le più importanti scrittrici della letteratura ispanoamericana del xx secolo. In questo libro, tradotto da Giulia Di Filippo, Hebe Uhart trasforma scampoli di quotidianità, all’apparenza trascurabili – una partita a carte, un pomeriggio dal parrucchiere, un saggio di pianoforte – in vivace materiale narrativo. Le sue parole indagano la realtà come una luce che attraversa una fessura, mettendo in evidenza le contraddizioni del quotidiano e creando un coro di personaggi eccentrici ma estremamente reali dei quali ci mostra i desideri e le frustrazioni, gli slanci e le amarezze.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Ombre cinesi
di Hebe Uhart

Gli uomini li conosco abbastanza bene, io, perché sono una prostituta della casa della signora Liu. I miei genitori mi ci hanno messa quando ero giovane perché ritenevano che fosse una buona sistemazione per me. Il primo uomo che ho conosciuto, avrò avuto sì e no sedici anni, era tormentato dai fantasmi che credeva di vedere nella stanza. Io lì dentro cominciavo quasi a vedere grandi ombre rosse e avevo paura, ma non me ne rendevo conto. Pensavo solo: “Devo scappare da qui”. Provai a scappare mentre lui dormiva, ma se ne accorse e mi fermò. Era gentile e affettuoso, aveva dimenticato le ingiurie ai fantasmi e mi disse di scegliere un regalo. Gli risposi che non avrei accettato nessun regalo e ne fu stupito. Alla fine, siccome lo vedevo dispiaciuto, accettai.
I regali erano molto importanti in quella casa, ed erano argomento di conversazione quotidiano. Una volta, un uomo molto buono che frequentava il posto ci portò una scimmia per farci divertire; giocavamo tutte con la scimmietta ma Anita, una ragazza che piangeva sempre, si sedette con la scimmia sulla gonna e cominciò a piangere. Allora la signora Liu disse all’uomo che si portasse via la scimmia, che non voleva più vedere quell’animale perché faceva solo danni. Ma il motivo era un altro; quando vide Anita piangere, la sgridò e le disse:
«Essere tristi significa perdere il 50 per cento del proprio valore. Non bisogna essere tristi.»
Stava sempre attenta alla nostra tristezza. Se una andava in giro mezza spettinata o assente, le comprava qualche bel vestito e le preparava un piatto speciale.
«Credevo che vi sarebbe piaciuta» disse l’uomo con la scimmia, e se ne andò, insieme alla scimmia.
Non appena se ne andò, cominciarono tutte a prenderlo in giro; lo chiamavano Scimmia, dicevano che aveva il culo come quello delle scimmie e, dato che non si fece più vedere, ogni tanto qualcuna chiedeva: «Che fine avrà fatto Scimmia?»
Non ricordo che altri abbiano più portato un animale o una pianta per allietare la casa. Mi ricordo di un uomo amato da tutte; era giovane, abbastanza bello, chiacchierava e scherzava con tutte; tutte stravedevano per lui. Io lo odiavo, perché quando stava con me si rilassava come un gatto e pensava solo al suo piacere; dovevo fargli il solletico con la piuma, voleva che gli grattassi la schiena e, dopo che gli avevo fatto infiniti massaggi dappertutto, mi dava una pacca e se ne andava.
Ce n’era un altro che non spiccicava parola: si spogliava e si rivestiva in silenzio.
Una volta lo incontrai per strada, ed entrambi facemmo finta di non conoscerci. Non guardò neanche dall’altra parte; io lo guardai e lui mi passò accanto con una faccia di pietra, imperturbabile. Ma non ce l’avevo con lui, affatto. Non so perché, ad alcuni uomini raccontavo storie della mia infanzia tormentata; erano tutte inventate ma, quando le raccontavo, ci credevo anche io. Mi sembravano il lato più sincero di me, ed era piacevole come leccarsi una ferita. Ma la mia infanzia non era stata così tormentata; i miei genitori, adesso riesco a vederlo, hanno fatto tutto il possibile per me. Ce n’era uno che mi raccontava la sua, di infanzia tormentata, mi diceva che anche lui era come un bambino tormentato. E rimanevamo a lungo così, distesi sul letto, da soli al buio, scambiandoci calore e compagnia. Eravamo come due fratelli.
Un altro mi insultò. Mi rivolse i peggiori insulti di questo mondo. A casa della signora Liu era vietato insultare e chi insultava non entrava più. Ma io lo perdonai perché avevo capito che insultava la sua stessa maledizione, la sua stessa disperazione; vedeva la miseria degli altri e non riusciva a farsene una ragione; insultava la miseria e ci sguazzava ogni volta di più. Provai pena per lui, perché si buttò ai miei piedi e mi chiese scusa; ma non tolleravo gli insulti. Io, prima di quegli insulti, credevo che gli insulti fossero come la morte; credevo che la rabbia causasse la morte. Ma gli insulti non sono gravi nel modo in cui pensa la gente; gli insulti sono come una zona dove c’è stato un terremoto: si può stare tranquilli solo momentaneamente, uno può distrarsi, ma c’è sempre la minaccia latente.
A quel punto mi ero già adattata a tutte le regole della casa della signora Liu, accettavo i regali, sapevo riconoscere quelli buoni da quelli inutili, buttavo via quelli inutili in maniera distratta e mi tenevo quelli buoni. Ero più bella di prima, ero nel fiore degli anni. Ma quando provavo a ricordare qualcosa che mi avevano detto, confondevo le persone e le cose. Chi mi ha detto che l’azzurro mi dona più del rosso? Quello? No. Chi mi ha detto che gli orologi si puliscono con il sapone? E non riuscivo a ricordare chi fosse.
Scambiavo una cosa che mi avevano detto con un’altra e la riferivo così alle mie compagne, a volte ripetendo una frase che avevo ascoltato come se l’avessi detta io, senza rendermene minimamente conto. Pensavo che stavo per perdere la memoria e mi dicevo: “Dio mio, fa’ che non perda la memoria”.
Non raccontai a nessuno di questa storia, neanche alla signora Liu, che non si accorse di niente. Ridevo come sempre.
Un giorno arrivò un uomo che sembrava portare un peso molto grande sulle spalle, ma non mi disse cos’aveva; io non glielo chiesi. L’uomo mi faceva regali bellissimi, ma non gli davo importanza. Erano regali buttati lì così, non sembravano suoi né di nessun altro. Io mi guardai bene dal dirgli che li trovavo regali bellissimi, visto che lui non gli dava nessuna importanza. E mi misi a pensare a quel suo modo di fare, di essere indipendente da tutto, di non dare importanza a nulla. Dalla mia faccia si notava che mi ero messa a pensare a questa cosa e la signora Liu cominciò a tenermi d’occhio. Io, a lui, un giorno dissi:
«Non voglio più regali da te, voglio…»
E non sapevo come dirgli cosa volevo. Forse mi ero dimenticata di cosa volessi. Lui mi chiese:
«Cosa vuoi? Ti do quello che vuoi.»
Volevo un’altra cosa ma non sapevo cosa. Avvilito, disse:
«Le donne sono così. Non so perché ma non sanno mai cosa vogliono.»
Io non dissi nulla. La signora Liu lo fece andare con un’altra. Successe una volta sola e poi non si fece più vedere. Non sono affatto arrabbiata che se ne sia andato. Se non in questa vita, nella prossima lo rivedrò.