In attesa di Charlie, di Lily King

Fazi Editore porta in libreria i racconti di Lily King, autrice statunitense dallo stile caustico e intelligente. In Cinque martedì d’inverno, una serie di splendide storie raccontate dalle voci intime di personaggi complessi, Lily King esplora con eleganza il desiderio, la perdita e l’inesorabile spinta verso l’amore. Romantica, piena di speranza, brutalmente onesta e capace di costruire interi mondi in pochi tocchi, l’autrice si conferma una delle più grandi narratrici del nostro tempo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.



In attesa di Charlie
di Lily King

Tutti gli avevano detto di parlarle «normalmente». Ma come faceva, se la testa rasata era abbandonata in direzione della finestra, se il camice dell’ospedale si era allentato e lasciava intravedere un torace lentigginoso e piatto come una tavola da stiro, coi grossi seni che ricadevano ai lati; se era appoggiata ai cuscini sotto un cartello che diceva: «LA PZ NON HA OSSO SUL LATO DESTRO DEL CRANIO». Gliel’avevano asportato per via dell’infiammazione dopo l’incidente. Altrimenti sarebbe morta. Ora, a distanza di settimane, il gonfiore era scomparso e quel lato della testa era incavato, come un melone marcio. Si era abituato ai propri deterioramenti: l’anca, i polmoni, la pelle che si lacerava come un fazzoletto di carta bagnato. Doveva dormire con l’ossigeno. Sanguinava senza una ragione, attraverso i vestiti. Ma vedere questa ragazza di neanche venticinque anni malconcia al punto di non avere ripreso conoscenza era una cosa a cui non si sarebbe mai abituato. Non sarebbe mai più tornato lì. Mai più.
Si fa presto a dire «normalmente».
«Ciao, Charlotte». Attese che si girasse e lo salutasse. Certo, conosceva bene le circostanze, ma quando mai negli ultimi novantun anni aveva rivolto la parola a qualcuno in una stanza silenziosa senza ricevere risposta? Parlò più forte. «Ho detto: “Ciao, Charlotte”». Era sicuro di farla rinsavire, nell’ora che gli era stata assegnata. Nella vita aveva fatto cose ben più eccezionali.
Lo sapeva: i suoi nipoti avevano paura di lui. O ne avevano avuta. Era stato un uomo grosso, col vocione. Non gli piaceva che masticassero gomme e che rispondessero male. Ora si dispiacque per tutte le volte che aveva detto a quella nipote che aveva i capelli troppo corti, che già non stava bene che si facesse chiamare Charlie. Ma a volte i bambini avevano bisogno di una guida.
C’era una sedia vicino alla finestra. L’avvicinò a sé e vi sedette.
«Charlotte, sono tuo nonno. Sono venuto fin qui da solo per stare con te. Ti ordino di svegliarti. Hai dato troppe preoccupazioni a tutti quanti». Rammentò che sua moglie gli aveva detto di non dire niente di negativo e proseguì: «Sei un’attrice bravissima, ma adesso basta».
Ci fu uno schiocco deciso, come di una cosa dura e secca che si spaccava in due. Vide la bocca larga di un tubo posato sulla clavicola di lei. Riconobbe lo stesso apparecchio dell’ultima operazione che aveva fatto. Pompava nell’aria il quindici per cento d’ossigeno in più e l’aveva fatto sentire al sicuro. Sembrava che non sfregasse contro niente, se non la pezzuola che c’era sotto. La mandibola di Charlotte si mosse e ci fu un altro schiocco. Arrivava dall’interno della sua bocca.
«Ehi, questo non si fa». Le mise le mani sulle guance. Aveva la pelle scivolosa per il sudore. Tra le sue dita, il mento di lei dondolò ancora da un lato all’altro, emettendo quel rumore orribile. Ebbe paura di scoprire che aveva tutti i denti rotti, ma quando le aprì la bocca erano a posto. Li conosceva bene, quei denti. Charlotte aveva passato un’intera estate con lui: l’estate in cui le sue sorelle più grandi erano andate in campeggio e i suoi genitori avevano divorziato. Aveva otto anni: i denti o le crescevano o cadevano. Gli faceva vedere gli ultimi sviluppi quasi tutte le sere. Era stata una bambina paurosa, ma da grande era diventata una ragazza audace e sicura di sé. Troppo, forse. I suoi nipoti erano tutti troppo sicuri. Quando li criticava per questo, per l’aggressività, l’avventatezza, ridevano. «Da che pulpito», dicevano. Aveva visto una foto della discesa dov’era caduta. «Io non sarei andato su quella pista. Troppo ripida, troppo gelata, si vedevano le rocce nude. È stata una stupidaggine». Pazienza. Bisognava sgridarla. Forse non ne poteva più della gente che veniva a farle tante moine, sdilinquirsi e compatirla.
Aveva bisogno di una mano ferma. «Una vera stupidaggine».
Su una lavagnetta bianca davanti al letto, davanti al cartello che diceva del cranio, le sorelle avevano scritto col pennarello cancellabile: «Buongiorno, Charlie! Oggi è sabato 15 febbraio. Hai avuto un incidente mentre sciavi. Noi siamo da papà e torniamo presto. Non vediamo l’ora di vederti!». Su tutta quella parete c’erano fotografie, poster, disegni, poesie e lettere. Poi c’erano le rose rosse e un mucchio di biglietti di San Valentino sul termosifone.
C’erano anche vari flaconcini di vetro in un cestino sul davanzale. Uno era pieno di grani rossi. Lo rigirò; sull’etichetta c’era scritto: «PEPE ROSA INTERO». Gli altri erano liquidi: «ACQUA DI MARE», «GRANATINA», «ACETO».
«Come andiamo?».
C’era un’infermiera sulla porta. Cercò di pensare se avesse bisogno di qualcosa, poi ricordò che non era lui il paziente.
L’infermiera vide il cestino sulle sue ginocchia. «Pensava di farle un po’ di aromaterapia?».
«No».
«Sa», disse lei, come facevano sempre le infermiere, completamente assuefatte alla resistenza, «il terapeuta non viene la domenica, quindi potrebbe essere una bella idea. Basta che tolga il tappo da un flacone e glielo faccia annusare un pochino. Gli odori sono incredibili. Liberano i ricordi più in fretta e più intensamente di qualsiasi altro tipo di stimolante sensoriale».
Scelse un flacone con l’etichetta strappata. Svitò il tappo e un profumo di limoni pervase la stanza. Lo respirò avidamente. Era un odore buonissimo. Pensò alle sue tre nipoti in estate, quando mettevano le sedie pieghevoli arrugginite in giardino e si spremevano i limoni sui capelli bruni. Dopo il divorzio si fermavano spesso a dormire da lui, malgrado l’appartamento di suo figlio si trovasse a pochi isolati. Dicevano che i letti erano più comodi. Le mise il flacone sotto il naso. Non ci fu nessuna reazione. «Charlotte, ti ricordi Dennis Wight? Ha chiesto di te, l’altro giorno».
Una volta in piena notte aveva trovato Dennis in una delle sedie pieghevoli; russava così forte da tirare giù un intero piano della casa. Il ragazzo aveva aspettato di intravedere Charlie attraverso uno strappo della tenda nella camera degli ospiti.
«Voi bambine vi abbronzavate tanto. Avevate striature d’oro nei capelli». Senza bisogno di guardare percepì la desolazione di febbraio dall’altra parte della finestra, le pozzanghere di fango mezze ghiacciate nel parcheggio di sotto. «L’estate è una bellissima stagione, Charlie». «Sicuramente».
Si era dimenticato dell’infermiera. Si domandò cosa aveva detto e a cosa aveva solo pensato. Rimise il tappo al limone e tirò fuori i grani di pepe. Non avevano odore.
Se li mise sotto il naso. Niente. Scosse il flacone, annusò e gli esplose la testa. Tossì, starnutì, si asciugò gli occhi con il fazzoletto. Nel frattempo l’infermiera rise. Lui desiderò che se ne andasse all’inferno.
Tenne il flacone verso Charlie, che continuò a respirare lievemente senza reagire. Aveva visto tanti morti in guerra, eppure mai, in quella lunga vita, una cosa così agghiacciante come la faccia che aveva davanti adesso. Tutti i muscoli erano diventati flaccidi. La carne sembrava gelatina. Il mento ammassato sul collo; le guance che ricadevano sulle orecchie. Le si erano appiattite persino le narici. Fisicamente aveva perso tutto quello che un tempo l’aveva caratterizzata. Guardò da un’altra parte, le proprie gambe. I vecchi calzoni marroni si gonfiavano come una sottana; gli orli toccavano terra. La cintura dal cuoio logoro al primo buco adesso era chiusa all’ultimo. Tra poco doveva fargliene un altro. Si stavano staccando tutti e due dal loro corpo. E senza il corpo cosa siamo noi? Aveva mai creduto veramente all’anima?
Scosse forte il flacone e continuò finché la sentì inspirare. Lui starnutì quattro volte; e ricordò i raggi del sole, il polline e i libri impolverati, ma non ebbe effetto su di lei.
L’estate del divorzio dei suoi genitori era andata di stanza in stanza dicendo che si annoiava.
«Non ti annoi, lì dentro, Charlie? Non ti annoia da matti questo coma?».
L’infermiera si allungò sopra il letto e gli mise una mano sul braccio. «Non dica così».
«Non posso dire “coma”? È una parolaccia qui?».
«Potrebbe farle paura».
«È lei che fa paura a me».
Non si lamentava così da quand’era bambino. «Forse adesso è ora di andare».
«No. Per me no. Non è ora di andare per me». Sentì come gli batteva veloce il cuore e capì di doversi calmare. Rovistò nel cestino e trovò una boccetta di liquido blu con scritto «DOPOBARBA» sull’etichetta. La aprì e inspirò i balli di quand’era giovane, il bagno della casa di sua madre e suo padre, suo fratello Tom che monopolizzava il lavandino e il profumo della propria colonia fra i capelli di una ragazza alla fine della serata. Non era mai stato religioso, ma sapeva che, se a Charlie fosse successo qualcosa, Tom sarebbe stato ad aspettarla. Ora dovevano avere più o meno la stessa età. Tom era morto a ventiquattro anni soltanto. Gli sembrava impossibile aver vissuto per sessantasette anni senza di lui.
Finse un altro attacco di tosse e si asciugò gli occhi. Era troppo. Troppe perdite inutili. Era sempre stato così. Tenne il dopobarba sotto il naso piatto di Charlie. Lei inspirò lentamente e aprì un occhio. Le scese la pupilla e lo guardò diritto. Restò troppo sbalordito per salutarla. Ma eccola. Ci era riuscito.
«Succede», disse l’infermiera. «Apre solo quell’occhio. Sempre quello».
Docilmente, l’occhio iniziò a percorrere la stanza in lungo e in largo. Quando rifece il giro e tornò su di lui, la salutò con la mano e sorrise come davanti a una macchina fotografica. Nessuno, nemmeno gli specialisti, con quel gergo complicato e tutti i macchinari, sapevano se Charlie era ancora lì con loro. Rimise a posto il flacone blu e pescò ancora nel cestino, distrattamente. Ma non era certo di avere la forza di fargliene sentire un altro e fu sollevato quando l’infermiera disse che tre in una volta erano più che sufficienti.
«Erano buoni odori, vero, Charlie?», disse l’infermiera; poi le controllò i parametri vitali e se ne andò.
La sua presenza era stata una seccatura, ma quando non ci fu più la stanza sembrò svigorita e disabitata. Prese la mano di sua nipote, una mano stretta a pugno sul petto di lei, e cercò di pregare. Non aveva mai imparato a pregare. Sapeva solo supplicare. Supplicò che questa bambina fosse risparmiata, ma anche nella piccola cavità della sua mente la sua voce fu flebile.
Si rimise sulla sedia. Non aveva notato il gigantesco orologio. Gli erano rimasti quaranta minuti.
Fuori, in corridoio, passava continuamente gente. Ogni tanto infermieri e OSS deceleravano e lanciavano un’occhiata dentro, perché erano stati informati del vecchissimo signore in visita nella 511.
«Sono un arrogante», sussurrò. «Credevo che fosse più facile».
Era una bella stanza, più grande di tutte quelle che aveva avuto lui in quell’ospedale. Ormai gli ospedali avevano un che di confortante. Gli piacevano l’ambiente, le voci all’altoparlante che dicevano nomi di gente sconosciuta, il vapore che usciva dal tubo dell’ossigeno, la spia luminosa del pulsante di chiamata vicino al letto, il rollio dei carrelli e delle sedie a rotelle in corridoio, l’odore di pulito e di sterile. Lì si sentiva più protetto che a casa, dove gli incidenti erano in agguato, dove l’assistenza era dalla parte opposta della città. Qui la morte sembrava lontana, lontanissima.
La sedia era comoda. Una pioggia leggera cominciò a picchiettare sulla finestra. Avvertiva l’ossigeno aggiunto nella stanza e lo respirò con gratitudine. Gli venne sonno, un sonno denso e lento, e subito prima di cedere sentì che il ritmo del suo respiro si adagiava su quello di Charlie, si adagiava in un posto più facile, più semplice, dove forse finalmente si sarebbero ritrovati.