Allevata dai lupi, di Simon Rich

Nottetempo porta in libreria Il grande sonnellino, di Simon Rich, tradotto da Alessandra Castellazzi.
Strappandoci a ogni frase una risata, queste storie raffinate e irresistibili raccontano l’approdo alla vita adulta, i cambiamenti di sensibilità del mondo che ci circonda e le assurdità che caratterizzano ogni famiglia. Definito “lo Stephen King della scrittura umoristica”, Simon Rich compone con la sua arte comica un indimenticabile mosaico della società contemporanea.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Allevata dai lupi
di Simon Rich

Nel 2003 un gruppo di cacciatori trovò in Siberia una giovane donna che apparentemente era stata allevata dai lupi. Gli scienziati non riuscirono a rintracciare le origini della bambina, ma una visita medica stabilì che aveva all’incirca diciotto anni ed era in condizioni di salute sorprendentemente buone, considerate l’infanzia e l’adolescenza fuori dal comune. I ricercatori chiamarono la donna “Lauren” e collaborarono con le autorità affinché potesse integrarsi nella società umana.
Con un certo sforzo, Lauren riuscì a mettersi in pari con i coetanei, nella sfera sociale e intellettuale. Ottenne una laurea e a trentacinque anni era ormai sposata con un assicuratore di nome Gabe e aveva partorito una figlia in buona salute. Aveva smesso di interagire con i lupi che l’avevano allevata, tranne quando andavano a farle visita per il giorno del Ringraziamento.

Lauren stava valutando se prendere un Clonazepam quando suo marito entrò a passo strascicato, arrancando sotto il peso di un alce morto. “Non ce n’era bisogno,” disse Lauren.
“È il minimo!” disse Gabe con un’allegra vocetta da boy-scout.
“È davvero gentile da parte loro venire fin qui”. Scaricò la carcassa sul tavolino da caffè, mandando in frantumi diverse ciotole di noccioline e olive.
Lauren sospirò.
“Che c’è che non va?” chiese Gabe.
“È solo che non riesco a capire perché dobbiamo sempre adattarci ai loro comodi”.
Gabe le lanciò un’occhiata di rimprovero.
“Perché sono i tuoi genitori. E sono nostri ospiti”.
Lauren si ficcò in bocca il Clonazepam e lo mandò giù con una sorsata di pinot grigio.
“Senti, capisco,” disse Gabe. “È dura coi genitori. Anche i miei mi fanno impazzire. Mio padre, con quei giochi di parole? È terribile”.
“Penso che i miei siano peggio,” disse Lauren. “Cioè, crescere con loro è stato un incubo in piena regola”. “Forse ne hai un ricordo peggiore di com’è stato?”
“È tutto documentato dagli scienziati,” disse lei, la voce venata di frustrazione. “Ci sono diversi libri al riguardo e anche un documentario che ha vinto dei premi”.
Gabe le massaggiò le spalle in un modo che riuscì a farla sentire persino più tesa. “So che i tuoi non sono perfetti,” disse. “Ma si sono fatti tutto il viaggio dalla Siberia. Hanno corso e nuotato per mesi, e nel giro di mezz’ora si leveranno di torno. Il minimo che possiamo fare è essere cortesi, o sbaglio?”
“Immagino di sì,” disse lei.
“Fantastico!” disse lui, suggellando il patto con un bacio accondiscendente sulla fronte. “E poi, potrebbe essere divertente. Dai, devi ammettere che le storie di tuo padre sono leggendarie”.
Lauren sorrise a denti stretti mentre Gabe vorticava nel salotto, disponendo tovaglioli e tele cerate. Gli aveva raccontato tutto della sua infanzia incasinata.
I latrati, i ringhi, l’assoluta mancanza di struttura e supporto. I suoi genitori non erano mai stati violenti, ma l’ambiente domestico era comunque disfunzionale.
La sua psicologa l’aveva confermato. “Non ti vedevano,” le aveva detto. “E non ti ascoltavano”.
Eppure, benché Gabe sapesse delle trasgressioni dei suoi genitori, non vi aveva mai assistito. I genitori di Lauren si erano notevolmente addolciti con l’età. Dopo l’ictus suo padre aveva smesso di ululare alla luna e nonostante un paio di false partenze sua madre era riuscita a rinunciare all’alcol. Lauren sapeva che avrebbe dovuto sentirsi grata per quei progressi, ma in qualche modo la irritavano. Riabilitandosi, i genitori le avevano tolto un pubblico per le sue sofferenze. L’ennesima deprivazione: l’ultima di una serie che si estendeva a ritroso fino all’infanzia.
Si udirono in lontananza due penetranti ululati canini.
“Credo siano loro,” disse Gabe.
“Gli apri tu?”
“Vai pure tu,” rispose lei.
Rabboccò il bicchiere di vino fino all’orlo. Sentiva i suoi genitori ridere con Gabe nell’ingresso, mentre si scambiavano i soliti convenevoli sul viaggio. Voleva ritardare l’incontro il più a lungo possibile, ma i suoi genitori la fiutarono subito ed entrarono a grandi falcate nel salotto.
“Scusa il ritardo!” disse sua madre. “Sai com’è tuo papà – non voleva chiedere indicazioni!”
“È un bene che con me ci sia la mia dolce metà!” disse lui.
Lauren rabbrividì mentre i suoi genitori si strofinavano il naso l’un l’altra.
Quando era piccola, suo padre tradiva in continuazione sua madre, con le amiche, con le vicine, e una volta con un tronco d’albero bucato. E ora erano disposti a fingere che avessero un matrimonio perfetto? “Allora, come vanno le cose?” le chiese suo padre. “Il lavoro?”
“Va bene,” disse Lauren.
Ci fu una pausa di due secondi, che Gabe si affrettò a riempire. “Il lavoro va più che bene,” disse, colpendo Lauren al braccio con un fastidioso eccesso di forza. “Tesoro, raccontagli la grossa novità!”
“Non è niente,” disse Lauren.
“Non è vero che non è niente,” protestò Gabe.
Si girò verso i genitori di Lauren e la indicò come il presentatore di un quiz televisivo. “State parlando con la nuovissima Responsabile Marketing di zona per le Comunicazioni di Verizon!”
I genitori di Lauren le saltarono addosso e le leccarono la faccia. “Siamo così orgogliosi di te!”
“Grazie,” disse Lauren.
“Allora, che significa?” chiese suo padre. “Potrai cacciare animali più grossi?”
“Non sono una cacciatrice,” disse lei. “Lavoro per Verizon. È una compagnia di telecomunicazioni”.
“Ah, capito,” disse lui, abbassando gli occhi. “Scusa se mi sono sbagliato”.
“Non ti sei sbagliato,” gli disse Gabe in tono rassicurante. “Ha ottenuto un aumento del venti per cento, che è un po’ il corrispettivo umano di cacciare animali più grossi. Giusto, tesoro?”
“Bah, immagino di sì,” disse Lauren evasivamente.
“Be’, è fantastico!” disse sua madre. “Non mi stupisce. Lo dicevamo sempre: ‘Ecco Lauren, il nostro genietto!’”
“Ah,” disse Lauren.
Gabe le lanciò un’occhiata di avvertimento, che lei ignorò.
“Cosa?” chiese sua madre.
“Niente,” disse Lauren.
“Tranquilla,” disse sua madre. “Dì pure”.
“È che non ricordo di avervelo mai sentito dire,” disse. “Da quel che ricordo, anzi, non mi avevate neppure dato un nome”.
I suoi genitori chinarono la testa.
“Qualcuno vuole assaggiare le chiappe di questo alce morto?” chiese Gabe.
“Grazie,” disse suo padre. “Ma non ho molto appetito”.
“Ok, mi dispiace,” disse Lauren, alzando gli occhi al cielo. “Non avrei dovuto dire niente. Avrei dovuto ricordare la regola di famiglia: mai e poi mai affrontare un argomento scomodo”.
Il padre di Lauren mise la coda tra le zampe. “Forse abbiamo sbagliato a venire qui,” mormorò. “Forse dovremmo saltarcene fuori dalla finestra”.
Lauren scrollò le spalle. “Non sarebbe la prima volta che te ne vai”.
“Tesoro,” disse lui supplichevolmente. “Ne abbiamo già parlato dalla psicologa. Il motivo per cui ho lasciato la famiglia non c’entrava niente con te. È stato un periodo di confusione. Credevo che quel tronco bucato fosse tua madre. Davvero, credevo che il legno fosse il suo corpo e il muschio la pelliccia. È stato un periodo folle della mia vita. Avevo la rabbia”.
“E allora io adesso dovrei dispiacermi per te?” chiese Lauren. Malgrado il vino e il Clonazepam, le tremavano le mani.
“Non chiediamo la tua compassione,” disse sua madre. “E se c’è qualcosa che vuoi dirci, siamo qui per ascoltarti. Vero, caro?”
“Sì,” disse suo padre. “Siamo pronti a onorare le tue emozioni”.
Lauren serrò i pugni; odiava quando parlavano come un libro di psicologia.
“Cominciamo dal mio abbandono,” disse il padre. “Dimmi perché ti turba così tanto”.
“Oh, non so,” disse Lauren sarcastica. “Forse perché era il giorno del mio cazzo di compleanno?”
I suoi genitori si guardarono di sottecchi.
“Fatemi indovinare,” disse Lauren. “Non ve lo ricordate”.
“Onestamente no,” disse suo padre.
“Allora stai dicendo che me lo sono inventato?”
“Non è quello che sto dicendo!” disse lui, alzando le zampe sulla difensiva. “Sicuramente può essere andata come ricordi. Sto solo dicendo che io ricordo diversamente”.
“Ok, bene,” disse lei. “Come ricordi il giorno in cui te ne sei andato?”
“Be’ – ripeto, potrei sbagliarmi. Stiamo parlando di un fatto accaduto molto tempo fa, e il mio cervello ha le dimensioni di una pigna, e non ho alcuna comprensione del tempo e dei numeri. Ma io ricordo che quel giorno stavo camminando nei boschi. E poi il grande dio giallo che vive nei cieli ha cominciato a splendere rovente. E poi c’è stato un odore, tipo: ‘Ok, è ora di andare’. E così ho corso fino al posto bagnato dove fa freddo. Ripeto, potrebbe non essere una descrizione perfettamente accurata di come sono andate le cose. Ma è come me lo ricordo”.
“Ricordo anch’io così,” disse sua madre.
“Tutto questo non ha senso,” disse Lauren. “Ogni volta è così frustrante”.
“È frustrante anche per noi!” disse suo padre. Sospirò. “Mi dispiace di aver ringhiato. Ero sommerso”.
“Non preoccuparti,” disse Lauren. “Continua”.
“Grazie,” disse lui. “Il punto è: so che non siamo stati i genitori migliori del mondo. Eravamo giovani, ed eravamo lupi, e non sempre sapevamo cosa stavamo facendo. Ma quando ci vediamo non facciamo che scusarci, ancora e ancora, e non è semplice. Per farlo abbiamo dovuto imparare a parlare la vostra lingua, che ci gratta la gola e ha un suono assurdo. Sentire la voce che mi esce dalla bocca in questo momento… è così innaturale e inquietante. Perciò se vuoi ancora sentirci dire che ci dispiace, con queste strane voci da animali strozzati, lo faremo. Perché siamo dispiaciuti. Ma a un certo punto… la palla passa a te”.
Nella stanza cadde il silenzio, che permise a tutti loro di sentire uno squittio in lontananza.
“Sembra proprio che qualcuno si sia svegliato!” disse Gabe, grato di avere una scusa per fuggire dal salotto. Tagliò la corda e tornò poco dopo tenendo in braccio Haley, la figlia di tre anni, che stringeva una pallina arancione – la fonte dello squittio. Aveva gli occhi annebbiati dal sonno, ma quando vide i nonni cacciò uno strillo e seppellì la faccia nella loro pelliccia.
Lauren era sorpresa che Hailey si ricordasse di loro. Aveva passato pochissimo tempo insieme a loro, soltanto il Ringraziamento dell’anno precedente e il Memorial Day in cui l’avevano spedita in aereo in Siberia perché la sorella di Gabe si sposava, e non c’erano altri bambini al matrimonio, e quella era la soluzione più semplice. Lauren si era aspettata che Hailey provasse nostalgia di casa quel fine settimana nella tundra, ma per qualche motivo si era divertita. Ovviamente non guastava il fatto che i nonni l’avessero viziata all’inverosimile. Lauren aveva chiesto che mettessero dei paletti a Haley sull’uso dello schermo, ma le avevano lasciato guardare tutti i cartoni animati che voleva. Sostenevano di non avere idea di cosa fosse uno schermo e di non saper distinguere tra un iPad e qualsiasi altra superficie riflettente, come una pozzanghera o un occhio. Lauren sospettava che mentissero, ma per qualche motivo quell’indulgenza l’affascinava. Nel modo in cui coccolavano Haley percepiva il loro desiderio di rimediare al passato, una consapevolezza subconscia che dovessero riparare dei torti. Haley lanciò la pallina arancione dall’altra parte della stanza e i nonni corsero obbedientemente a prenderla. Per Lauren era surreale vedere i suoi genitori così docili, ma ovviamente per sua figlia aveva perfettamente senso. Ai suoi occhi non erano una coppia di lupi feroci. Per lei erano soltanto Nonno e Nonna.
Un giorno avrebbe dovuto raccontare a Hailey la verità sulla sua infanzia, e il trauma che aveva subito. O forse no. Forse avrebbe raccontato una storia diversa, incentrata sulle cose che dopotutto avevano azzeccato. Il modo in cui le avevano dato un riparo, l’avevano nutrita e protetta dai falchi. Malgrado la disfunzionalità complessiva, alla fine era cresciuta bene. In qualche modo, le mancanze dei suoi genitori avevano persino contribuito al suo successo (sapeva, per esempio, che il saggio su di loro era stato un fattore decisivo nell’ammissione alla Brown).
Haley stava per lanciare di nuovo la pallina, quando invece si avvicinò alla mamma. “Ora Mamma lancia,” disse, ficcandole la pallina fradicia nel palmo.
Lauren se la rigirò tra le mani. Difficile dire se la bava fosse della bambina o dei suoi genitori. A Haley stavano spuntando dei denti nuovi. Di recente Lauren l’aveva portata dal dentista ed era rimasta sconvolta dalla radiografia alla mascella di sua figlia. Non c’era niente di eccezionale, ma era inquietante vedere tutti i denti adulti innestati nel cranio, una vita intera di canini e molari che aspettavano il momento giusto per emergere. Prima che quei denti perforassero la gengiva sarebbero passati anni, in alcuni casi decenni, scanditi da apparecchi odontoiatrici, retainer ed estrazioni. Perché gli umani non potevano nascere già pienamente sviluppati, dotati di tutto il necessario? Perché ci volevano così tanto tempo e dolore per crescere?
Guardò i suoi genitori, ora accucciati sul tappeto in una posa deferente. La loro età equivaleva a quattrocento anni umani. Si chiese come fossero stati cresciuti. Allevati anche loro dai lupi, ovviamente. Non parlavano mai dei propri genitori, e solo adesso Lauren si accorse di non aver mai fatto domande al riguardo. Sollevò la palla e i suoi genitori la fissarono con occhi gialli e stanchi. Il respiro era affannoso, ma le pupille concentrate, seguivano la palla che lei muoveva esitante nell’aria. Li sentiva uggiolare appena, come due cuccioli che implorano per gli avanzi. “Lancia, Mamma,” supplicò Hailey. “Lancia”. Lauren alzò la palla, avvertendone il peso denso e appiccicoso. Poi fece un respiro profondo e allentò la presa.