Cosa può fare un racconto breve? di Shruti Swamy

di Shruti Swamy
traduzione di Fabrizia Gagliardi

I racconti brevi e perché i racconti brevi sono per me di grande importanza. La domanda più grande: leggere e scrivere sono attività valide in tempi come questi?

Cos'è un racconto breve? Cosa lo rende buono?

 Scrivo questo mentre il mio paese continua a finanziare un genocidio. Sto osservando, per lo più con paura, che le proteste nei campus vengono affrontate con una resistenza brutale da parte dello stato—dico “per lo più con paura” perché sto anche guardando con ammirazione il coraggio e la chiarezza di questi giovani. Scrivo da Roma, dove mi è stato consegnato un bellissimo premio che mi permette di essere qui, lontana dal mio paese e dai problemi del mio paese—naturalmente non posso distogliere lo sguardo. A volte, in piccoli scorci, guardo le immagini della distruzione a Gaza, le immagini dei morti. Un fagotto con la forma di un bambino fa dolere le mie braccia, il bambino, lo posso riconoscere dal fagotto, ha cinque anni. Le mie braccia conoscono la forma di un bambino di cinque anni. La forma del fagotto mi fa venire voglia di inginocchiarmi e implorare che questa violenza finisca. Quando ero in America lo facevo, chiamavo i miei politici e lasciavo loro messaggi vocali che non avrebbero mai ascoltato, marciavo per le strade con la mia famiglia e con altre famiglie. Tale è la posizione di un cittadino americano che paga le tasse. Puoi urlare e implorare, ma i tuoi rappresentanti eletti sono vincolati ad altri interessi. Devi fare di più, gettare il tuo corpo negli ingranaggi della macchina nella speranza di rallentarne il progresso. Facendo così, rischi il tuo sostentamento presente e futuro - come stanno facendo questi studenti - o persino la tua vita.
Ma non mi è stato assegnato il compito di scrivere del genocidio a Gaza, devo discutere il ruolo del racconto breve, cosa significa per me nella mia vita. Sembra una piccola domanda accanto a questa atrocità in corso, e forse lo è. È comunque una domanda che mi sono posta negli ultimi due decenni contro le innumerevoli atrocità che il mio governo ha perpetrato, e continuerò a chiedermelo. Continuerò a farlo perché amo i racconti brevi e perché i racconti brevi sono per me di grande importanza. La domanda più grande: leggere e scrivere sono attività valide in tempi come questi? — la lascerò da parte, senza risposta. Potrei difendere con passione il ruolo delle arti nella società— tale è la posizione di un artista in America, a cui viene chiesto costantemente di giustificare la propria esistenza, a differenza di chi lavora nel marketing per una azienda di patatine, per esempio— ma oggi non ne ho la forza. Mi interrogherò, invece, sulla domanda più piccola: cosa può fare un racconto breve?

In Mendocino Fire, una storia che amo della scrittrice Elizabeth Tallent, vediamo una giovane ragazza, Finn, che cresce diventando un’adolescente politicamente attiva, formata, sia nonostante che a causa, dall’educazione come figlia di una madre hippy nei boschi della California del Nord. Non c'è nulla di romantico nella sua infanzia nei boschi, si sposta da un posto all'altro così come sua madre passa da un fidanzato all'altro, è intrappolata nella vita selvaggia della stessa madre la cui natura le è oscura, anche se il suo pericolo è a volte spaventosamente visibile. Ci muoviamo in avanti, percorrendo piccoli scorci degli anni successivi, e poi ci fermiamo a indugiare nell'atto di protesta che orienta la storia, quando Finn prende dimora in una sequoia antica per proteggerla dai boscaioli (forse ispirata dall'impresa realmente accaduta di Julia Butterfly Hill alla fine degli anni '90 per salvare una sequoia antica chiamata Luna).
Perché amo così tanto questa storia? La prosa è incredibilmente bella lungo tutta la narrazione, anche durante gli anni amari e difficili dell’infanzia di Finn. Seguendo il loro ritmo sorprendente e perfetto, le frasi catturano la capacità di un bambino di vedere chiaramente la bellezza in situazioni pericolose o difficili. A volte la bellezza può essere una maschera, un modo per evitare la verità di una situazione, dipingendoci sopra un sorriso. Non qui. Ecco Finn che ama una madre imperfetta: “…la pelle chiara e ruvida di sua madre e la ricchezza dei suoi capelli mai tagliati e il suo abituale strofinare una foglia tra pollice e indice e chiedere alla pianta Cosa c'è che non va qui? Mi sta sfuggendo qualcosa? e il suo odore di fumo di legna, e lana umida, e patchouli e la sua voce e i pancake di farina di miglio che prepara nella padella di ghisa quando è di buon umore…”, cattura il flusso dell'amore infantile in punte di dettagli sensoriali. Nella parte del sit-in sull'albero, Tallent contrappone costantemente il mondo magicamente surreale della chioma con le difficoltà di viverci, insieme alle interruzioni e alle provocazioni grossolane dei boscaioli frustrati, il cui sostentamento dipende dall'abbandono dell'albero da parte di Finn (empatia e disgusto ugualmente evocati in una frase sputata da un boscaiolo arrabbiato: “Fanculo, puttana, sto solo cercando di sfamare i miei figli.”)
Forse oggi sono attratta da questa storia perché riguarda un atto politico di protesta, così come una dimensione umana: rendere personale un problema globale, quello del cambiamento climatico, è oggi ancora più pressante di quando questa storia è stata pubblicata dieci anni fa. Più di tutto, penso, è la storia di una persona che vive in un mondo danneggiato, e cerca di fare scelte dall'interno del compromesso. La sua attenzione è ugualmente rivolta ad abusi e privazioni a cui Finn sopravvive così come al suo senso di meraviglia, alla sua intelligenza, all’innocenza, e alla sua capacità di amare. Ritorno a questa storia perché cerca di dire la verità, e penso che ci riesca, su qualche aspetto dell'essere vivi oggi. Al suo centro brilla una grande speranza: che è nella nostra natura trovare il bene, anche in una cosa rovinata.
Cosa può fare un racconto breve? Può provare, e forse persino riuscire a dire la verità. Uno scrittore può lasciare da parte tutte le sue vanità, gli attaccamenti ai suoi abbellimenti di prosa o alle manovre tecniche, lasciar andare persino l'attaccamento al sapere dove una storia potrebbe andare, e ascoltare davvero cosa la storia sta cercando di esprimere. Poi, quando il racconto viene letto, una frase, un'immagine, o una scena risuoneranno nel cuore del lettore. Non ogni lettore, ma quelli che ne hanno bisogno. Forse più di tutti la scrittrice stessa, che diventa una lettrice della storia una volta terminato di scriverla.
Ci sono implicazioni morali e persino politiche per questo tipo di racconto e l’ascolto della verità, ma di nuovo non ho la forza di esporle. Diciamo che le grandi storie esistono come gli alberi nella loro complessità e bellezza—perché esistono. Possiamo sederci all'ombra dell'albero e respirare la sua aria espirata e ricordare per un momento che siamo vivi.

Cosa significa ciò per il dolore del padre che deve vivere con il ricordo della sua figlia morta tra le braccia?

 Free Palestine.

La radicale libertà del racconto. Di Marco Mancassola

di Marco Mancassola

”E questo è il segno che un racconto, oggi, è soprattutto un terreno di radicale libertà. Non deve servire a qualcosa. Può essere tutto quello che vuole: una Sfinge, oppure il portatore di un messaggio più o meno conciliante.”

A cosa serve scrivere un racconto? Per lo scrittore con occhio pratico, oggi, a nulla. Non essendo un romanzo, non è un prodotto di cui provare a vendere i diritti a Netflix o per lo meno ad Audible; non è un oggetto da fotografare su Instagram, e anche nel caso venga raggruppato con altri racconti e diventi un libro, difficilmente diventerà un volume alla moda o parteciperà ai premi famosi. Non contribuirà al brand dell’autore né mostrerà al mondo la sua ambizione.
E a cosa serve leggere un racconto? Per il lettore contemporaneo, ancora a meno. Un racconto non rientra nei valori narrativi dominanti. Esula dal feticismo per lo “sviluppo del personaggio” imposto dalle serie tv, e dall’idea edificante che un prodotto narrativo serva a “fare compagnia al lettore/spettatore” (e dunque debba avere una certa durata tattica).[1] Il predominio delle serie tv plasma da decenni la nostra nozione di cosa significhi narrare, fare fiction, e di quale sia il posto di tali attività nel mondo; ma se il romanzo è diventato il cugino povero delle serie tv, il racconto non è neppure più un secondo cugino, è stato espulso dalla famiglia, come un parente ormai troppo marginale.
Il racconto, in quanto forma persino più enigmatica e imprevedibile del romanzo, non si presta nemmeno alle facili teorie dello storytelling, ovvero a quel campo di discorsi in cui la parola “storia” viene usata di continuo come un amuleto, e si proclamano slogan sulle “storie che danno un senso alle nostre vite”. Un racconto, certo, a volte suggerirà un senso utile a chi lo legge (un’idea di mondo, di vita, e di come affrontare i loro dolori); molte altre volte, no. Spesso, la forma-racconto rifiuta in partenza l’illusione di rivelarci chissà cosa. E a chi chiede una risposta, una teoria, un “senso”, il racconto ripete con faccia da Sfinge il suo pacato messaggio: “Non è così semplice”.[2]

 

*

I miei racconti preferiti, da sempre, sono quelli in cui quel messaggio, “Non è così semplice”, viene messo al centro. E per la natura compatta e sintetica della forma-racconto, tale messaggio si mostra nudo, sotto gli occhi di tutti. Ovvero, mi piacciono quei racconti che, secondo un certo sistema di valori narrativi, non servono a nulla e – ancora più imperdonabile – non possono fare nulla per nasconderlo.
L’esempio più ovvio di questa stirpe di racconti è Bartleby lo scrivano. L’impiegato che preferirebbe di no rifiuta di farsi storia, di confermare le nostre banali persuasioni su cosa siano una storia e un personaggio e un arco narrativo. A cosa servirà un racconto come questo? Se appare un esempio troppo scontato, prendiamone un altro. Alëša Bricco di Lev Tolstoj narra invece di un giovane servitore remissivo, ubbidiente e sempre sereno – un personaggio che non dirà mai “preferirei di no”.[3]
Nel suo libro Un bagno nello stagno sotto la pioggia, George Saunders ipotizza che Tolstoj abbia iniziato a scrivere il racconto per trasmettere un messaggio semplice, moraleggiante, una parabola semi-evangelica su un animo umile e per questo sereno, di quelli che Tolstoj idealizzava. Eppure, quando nel racconto Alëša muore, sorpresa: il narratore non chiarisce se sia una buona morte, se Alëša sia davvero in pace, se muoia pensando di aver vissuto nel modo giusto. Il racconto rimane un enigma. Cos’è successo alle intenzioni di Tolstoj? Saunders suggerisce che l’onestà narrativa di Tolstoj gli abbia impedito di portare a termine il progetto di un testo con un “senso” finale. L’onestà della narrazione ha vinto sulla morale, sul “senso”, sul progetto di un racconto che servisse a dire qualcosa.
Il Nuotatore di John Cheever appartiene a una simile stirpe: un racconto su un uomo che si tuffa in una serie di piscine nei giardini dei vicini, sulla via di casa dopo una festa. Ma giunto a quella che ricordava come casa sua, la trova abbandonata. Nessuno vive più lì: “Le porte erano chiuse a chiave, e sulle mani gli rimase la ruggine delle maniglie.” Ecco un altro racconto che non ci consola, non ci fa davvero “compagnia”, trascende i precetti dei corsi di scrittura (che Cheever aveva insegnato) e che probabilmente lascerebbe freddi gli executive di Netflix. Soltanto ruggine sulle nostre mani. Nessun “senso” univoco neppure qui.

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Si potrebbe obiettare, certo, che per ogni esempio di racconto organizzato intorno al nudo anti-messaggio “Non è così semplice” – per ogni racconto, dunque, che si rivela oggetto narrativo incollocabile nella nostra epoca affamata di semplificazioni, di messaggi divulgabili, di valore d’uso – si possano trovare degli esempi opposti: racconti che, seppure in uno spazio compatto, ci affidano degli altri messaggi, pieni e convincenti.
È sicuramente così. Penso ad esempio, ora, a quei racconti brevi che, in poche folgoranti pagine, condensano uno sguardo sulla vita. Nel celebre Storia di un’ora, Kate Chopin racconta un’improvvisa boccata di libertà nella vita della protagonista, e ci ricorda che tali boccate di libertà, soprattutto nella vita di una donna, sono spesso illusorie. Nell’altrettanto celebre Il gorgo, Beppe Fenoglio ci fa compiere – in un paio di pagine – un denso viaggio emotivo: narrando di uno sventato suicidio, ci ricorda che per superare la tentazione di arrenderci abbiamo bisogno, anzitutto, di qualcuno che ci impedisca di farlo.
Dunque scrivere o leggere un racconto, se il testo appartiene a quest’altra stirpe, serve a qualcosa, a rivelarci un “senso”, un “valore”, un’epifania misurabile nel nostro corrente sistema di valori?
Può darsi. Tendo a mantenere l’attenzione, però, su tutto ciò che neppure questi racconti dicono: sui personaggi con poco sviluppo, sull’ambientazione soltanto accennata, e sui modi in cui tanti racconti, in qualche misura, confessano “preferirei di no” – in questo caso non ho bisogno di dire altro, di occupare più spazio, di fare discorsi più articolati, di diventare una novella o addirittura un potenziale romanzo. Non voglio continuare a farvi compagnia, lasciatemi stare.
Tutte le volte che qualcuno a un corso mi chiede come capire se una certa idea narrativa potrebbe diventare un racconto o un romanzo, fornisco la risposta razionale: capire l’ampiezza del tema, le possibilità dell’ambientazione e dei personaggi, la disponibilità a inserire sottotrame, eccetera. Sono però tentato di aggiungere altro. Suggerire che un racconto è una narrazione che si prende la libertà di dire preferirei di no: non un atto di rinuncia o pigrizia bensì di consapevole, sofferta libertà (una differenza che traccia, in fondo, uno dei possibili confini fra un racconto buono e uno meno buono).
E sono tentato di aggiungere: in un’epoca in cui ci chiediamo di continuo a cosa serve la letteratura, e cerchiamo goffamente di attribuirle valori pratici contingenti, la domanda più drastica è chiederci a cosa serve scrivere o leggere quella precisa forma di letteratura che è il racconto.
Sarà difficile rispondere in modo convincente. E questo è il segno che un racconto, oggi, è soprattutto un terreno di radicale libertà. Non deve servire a qualcosa. Può essere tutto quello che vuole: una Sfinge, oppure il portatore di un messaggio più o meno conciliante. Ma per essere un buon racconto deve anzitutto essere onesto come Alëša Bricco, il racconto di Tolstoj. Deve sapere che non si può dire tutto né fingere che sia possibile. I modi in cui parliamo oggi di letteratura sono, per tre quarti, posa e feticismo e marketing scadente, un piano a cui chi scrive o legge (ovvero vende o compra) romanzi fatica a sottrarsi. Ma il racconto, il parente in apparenza del tutto marginale, non ha bisogno di tutto questo. Non serve a niente, se non a essere quella cosa smisurata che è la letteratura.[4]


[1] Per chiarezza: non sostengo che quei “valori narrativi dominanti” siano sbagliati; non mi piace però che siano esclusivi, né, da un altro lato, che il racconto sia percepito ormai automaticamente estraneo a essi.
[2] Anche molti buoni romanzi ripetono lo stesso messaggio. Ma lo fanno attraverso strati di altri messaggi, intrecciati, polifonici, e questo permette alla sfera della comunicazione contemporanea di ignorare quel messaggio di fondo così scomodo. In sintesi, un buon romanzo può ancora sperare di “servire ufficialmente a qualcosa”: promettere una “storia” e un “senso”, assolvere le funzioni dello storytelling e di conseguenza rosicchiare il suo posto da cugino povero, venire fotografato su Instagram e tutto il resto – ma può fare questo, oggi, solo nella misura in cui si presta a essere frainteso.
[3] Nel paragrafo successivo, farò uno spoiler di come finisce la storia di Alëša. Se non conoscete il racconto e intendete leggerlo, saltate il paragrafo. Oppure, anzi, leggetelo lo stesso. Il “terrore dello spoiler” è un altro dei banali valori narrativi contemporanei di cui, tutto sommato, possiamo non curarci.
[4] Chiudiamo con una nota sui testi menzionati. I racconti che ho citato sono disponibili in italiano in varie edizioni e traduzioni. Il libro di George Saunders Un bagno nello stagno sotto la pioggia, uscito nel 2021 e in edizione italiana l’anno successivo, è dedicato all’analisi di una manciata di racconti scritti da autori classici russi. La frase citata da Il Nuotatore è dalla traduzione di Marco Papi.

Samsa, Jekyll e il Mostro di Planckeinstein, di Giordano Meacci

di Giordano Meacci

“Perché cos’è poi la scrittura se non aggiungere parole al bianco infinito della pagina; inventare parole dal nulla da cui provengono indirizzandole verso il poco che comunque riescono a significare?”

móstro: Vc. dotta, lat. mōnstru(m) ‘prodigio, portento’, prob. legato
 (ma il modello formativo, che s’incontra anche in lūstru(m), è eccezionale)
al v. monēre ‘ammonire’. Lat. anche il der.
monstruōsu(m), mentre mostruosità è di form. it.

Manlio Cortelazzo-Paolo Zolli, DELI
Dizionario Etimologico della Lingua Italiana

0. In principio era la musica. E la musica era nel racconto. E la musica era il racconto.
Ogni volta che immagino una qualche sistemazione estetica dei pensieri che mi travàlicano: ecco che s’affaccia in corso d’opera, immediatamente, una fascinazione impulsiva per i suoni come significati.
Il che è anche (già da Qui) una mia musica segreta che non solo non dirìme: ma neppure introduce, se non metaforicamente, la questione.
Anzi sarebbe forse più vero dire che i primi righi mostrano, in modo frattale, attraverso la loro stessa composizione, la mia tendenza digressiva primaria; la consapevolezza profonda – la convinzione: se la parola stessa non giustificasse da sé la propria mancanza di apertura – che la Letteratura è di suo digressione; e che il portato principale della scrittura siano (un’espansione plurale su base singolare) gli aggettivi: le ‘aggiunte’, per loro stessa definizione.
Perché cos’è poi la scrittura se non aggiungere parole al bianco infinito della pagina; inventare parole dal nulla da cui provengono indirizzandole verso il poco che comunque riescono a significare?

1. Ora. Fermiamoci Qui. Sul nulla silenzioso che diventa parola scritta; e sul suono che diventa musica.
E sul tempo, soprattutto; che serve perché parole e musica si armonizzino in sintassi. Però.
Prima che il mantra risolutivo eliotiano si sonorizzi in Shandy Shandy Shandy senza neppure passare dal via.
È di tempo e di scrittura e di pause e di suoni scritti che sto parlando: tutto perché non riesco, da sempre, a rispondere a una domanda preliminare. E allora la tendenza immediata è cercare, a parole, di trovare una qualche risposta aggiuntiva e proemiale insieme da cui poter partire.
E la domanda preliminare è, da sempre: perché quando penso al Vecchio e il mare e allo Strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde e alla Linea d’ombra mi viene da dire ‘romanzo (breve)’. E invece quando mi trovo davanti il buon vecchio Gregor Samsa e la sua Metamorfosi; quando penso a Grande fiume dai due cuori (Parte prima e Parte seconda), alla Lotteria o alla Camera di sangue la resa scritta che mi vedo davanti azzarda una parola evocativa e netta come ‘racconto’?
Da sempre, un semplice conto non mi convince (di là dalla forza etimologica sovrapposta dei conti e dei conti, appunto): proprio perché non è nel numero incerto delle pagine che si concretizza la resa narrativa. E però, proprio io che mi trovo a distinguere con convinzione lo stesso termine di protagonisti in ‘effettivi’ e ‘ellittici’ (solo a seconda del numero di righi che li compongono, non certo come giudizio di valore estetico fondante); proprio io che mi attengo da sempre alla massima di John Charles Foester “non valutare mai una vita dal numero degli anni”; proprio io che mi sono inventato la figura di un inesiste John Charles Foester per avvalorare una mia incertezza dinamica: di fronte alla questione ‘romanzo breve’ e ‘racconto lungo’ non posso che offrire una risposta provvisoria (come tutte le risposte, sì) e incerta (come tutte le risposte, va bene): che neppure la precisione sontuosa di novella risolve. (Pur amando disperatamente la parola stessa).
Comunque rimane sospeso un interrogativo béderiano e insonne: perché La morte a Venezia di Mann è ai miei occhi un romanzo breve e invece La donna di picche di Puškin un racconto lungo?
E sia chiaro che non si tratta né di ossessione catalogatrice né di giudizi di valore. Sono solo – lo so, lo sento: anche ora mentre scrivo – delle domande che nascondono un modo di guardare la realtà.
Almeno: un mio modo di guardare la realtà. Visto che è evidente che ognuno potrebbe giocare a incasellare i suoi titoli nella griglia che più lo convince.

2. Adesso. Visto anche che le parole si pensano scrivendo, mi rendo conto che le mie percezioni sono percezioni fisiche. Artificiali – perché ricomposte – percezioni fisiche, mi verrebbe da scrivere, in vena di ossimori. Ma forse il modo migliore è fermarmi per un attimo a considerare – per via metaforica, sia chiaro – le forze che girellano e si esprimono sulle pagine scritte che abbiamo amato; che ci hanno piegato la curvatura scomposta del nostro stesso io per rendercelo più vago e meno definito proprio mentre ci raccontavano chi saremmo stati. Più o meno.
E se azzardo una qualche metafora d’aiuto, probabilmente mi assale la percezione di una furia (più che forza) centripeta; e di una furia centrifuga.
Ecco, mi dico. Probabilmente quando il numero di pagine della Metamorfosi mi porta decisamente nella dimensione racconto è perché ci ritrovo l’abisso della fuga verso un centro incandescente, un mondo minuscolo e cupo che si lascia precipitare da Gregor Samsa verso il cuore a spirale della sua trasformazione. Come se tutti gli elementi formali del racconto, la sintassi che lo incatena: corressero a precipizio – le particelle d’inchiostro delle parole che si lasciano attrarre dal fuoco del nucleo, pronte a diventare tutt’uno con lui, qualunque cosa voglia dire un nucleo  ―  una corsa a precipizio a comporre un peso compatto di parole che alla fine chiudono “il giovane corpo” ultimo della fanciulla con un whimper eliotiano a farle da tappo.
E come non pensare, a questo punto, alla furia centrifuga che prende il vecchio corpo schiacciato di Gustav von Aschenbach e con la furia dei venti senzanome della giovinezza perduta, delle sirene incostanti del mondo: lo trascina vìa; sparpagliandolo in coriandoli di pensieri e granelli di sabbia per tutto il ghiaccio eterno del Lido. Ogni sua molecola che ha occhi solo per la bellezza di Tadzio e la sua vecchiezza che si làcera, le furie che s’avventano su un Dioniso stanco e imbolsito: mentre le arcature sintattiche di Mann rimbalzano sulla quarta corda del tempo e sminùzzano i suoni che compongono il vecchio scrittore.

3. Però. Forza centripeta. Forza centrifuga. C’è chi potrebbe dire – e avrebbe ragione, formulando l’obiezione con la giusta musica – che sono forze sommate e contrapposte nella Grande Letteratura. Che probabilmente ho aggiunto una percezione soggettiva a una illuminazione di comodo. E forse è vero.
Allora esageriamo, etimologicamente. Dalle forze che si scontrano e sovrappongono passiamo al duello conradiano di due interpretazioni che ci sovrastano.
La fisica quantistica. La relatività generale.
L’immensamente minuscolo. L’impensabilmente gigante.
Universi interpretativi in cui i numeri stessi – le pagine – perdono di significato.
E allora avrà senso scomodare Planck e la sua fuga verso il centro minimo delle cose; e Einstein e la sua digressiva, debordante, compulsiva – epperò elegantissima – gara a dadi con le galassie e i vincoli eternamente inaccettabili della velocità della luce.
Planck. Einstein. Fisiche che si scontrano e – come rette parallele di cui non possiamo raccontare le origini senza inventare – si riuniscono in un punto per comodità detto ‘infinito’.

4. Quindi. Si racconta per quanti ripiegati su sé stessi e si romanza per frasi lanciate lontane da sé alla velocità della luce?
Non lo so. Però scriverlo mi procura conforto.
Anche se.
Tutte le domande inespresse che azzerano qualsiasi teoria.
The Dead. Che da solo vale un romanzo lungo quanto l’Ulisse, manifestandosi entrambi dentro l’àlveo necessario di due Bellezze uguali e contrarie mentre si sommano.
L’Adalgisa di Gadda.
E poi perché non pensare che nei romanzi ogni pagina, ogni brano, possa trasformarsi in uno scontro di forze uniche e di compulsioni digressive? E un brano come la lettera a Molly del Viaggio: è un racconto? O è un cuore frattale del romanzo? La sua fuga centripeta non è forse una corsa verso il centro più al centro di quel guazzabuglio del cuore umano che ci appare solo per intuizioni e frammenti?
E poi Un amore di Swann, di là dalle necessità editoriali su cui sorvoliamo a disagio. Non ha – proprio a ragione della digressione reattiva dei sette volumi della Ricerca – una sua natura minima e privatissima di racconto?
E i racconti in sintassi di Gente di Dublino. E i capitoli-racconti di Jennifer Egan in Il tempo è un bastardo?
Ecco.
Domandarsi come s’intreccino tra loro le forze è come chiedersi quale sia il momento di passaggio perfetto da una dimensione all’altra; il momento nel tempo ricreato – quindi inventato – della Letteratura in cui a una qualche precisione prima fa séguito una qualche precisione dopo.
Ma nell’arte; nella scrittura: non esistono categorie certe. Tutto fluttua al suono – alla musica – di ogni singola, unica opera. E quindi non possiamo che fare i conti con quell’indefinibile, incerto, incandescente e imprevedibile Mostro di Plankeinstein che presiede alla creazione (alla ricreazione) di racconti, novelle, romanzi, racconti lunghi, romanzi brevi.
Monstrum. Prodigio. Meraviglia.
Meraviglie.
Tutte nella stessa pagina, nello stesso rigo; nella stessa parola, anche.

5. Avrete capito che fin dall’inizio non avevo intenzione di dare risposte. Non sono in grado. Né voglio; le domande senza sintesi mi procurano gioia e un’idea di eternità che nessun sillogismo compiuto potrà mai regalarmi, a meno che non si chiuda con l’apertura maleducata di una domanda su una domanda.
Anche perché. Che dire, allora, della forza metaforica delle nuove ricerche?
(La sospensione della teoria delle stringhe; la luce persuasiva della gravità quantistica a loop).
Tutto e il contrario di Tutto. Va da sé.
O forse.
Solo che nella discesa della loro ultima fine ci sono vecchi che sognano leoni e giochi che riprendono il loro corso dopo una nuova mescolata di carte; che sono queste e solo queste perché proprio queste tutte le forze che ci accompagnano alla fine della pagina.
E di cui possiamo solo indicare la fuga e l’abisso che portano con loro.

6. È sempre così. Alla fine, si torna a fare i conti con l’ineffabile. Bisognerà imparare sempre meglio, per quello che si può, a non sapere cosa dire.

Il racconto e le sue etichette, di Federico Falco

di Federico Falco
traduzione di Giulia Zavagna

“Ho capito che il racconto è una forma ideale per nevrotici che hanno bisogno di riaffermare le proprie convinzioni al fine di scongiurare il panico e l’angoscia”.

Ormai non so più che cos’è un racconto. Prima, quando appena cominciavo a fantasticare di essere scrittore e leggevo con lo sguardo e il desiderio di essere scrittore, mi era molto chiaro. Il racconto era il genere che più mi piaceva e, in quel periodo, se qualcuno mi chiedeva «cos’è un racconto?», il mio unico dubbio era come rispondere a una domanda così ovvia, così semplice, così evidente. Era come se mi chiedessero «cos’è una mano?». Perché, cos’è una mano? È una di quelle cose che si usano tutto il giorno ma alle quali praticamente non prestiamo attenzione, una cosa che si conosce così bene che non si sente l’esigenza di definirla. Perché, chi fa domande di questo tipo?, chi mai potrebbe avere un dubbio su cos’è una mano?
Il racconto era per me una sorta di successione cronologica di autori: Edgar Allan Poe, Čechov, Katherine Mansfield, James Joyce, Hemingway, Salinger, Carver. E tutto intorno, una costellazione di altre voci che aggiungevano, modulavano, ripetevano o rimescolavano ciò che questi autori avevano ottenuto – e stabilito – nell’ambito del genere.
Quello era il mio orizzonte, quelle le mie aspirazioni: scrivere un racconto come l’avrebbe scritto Carver. Ero davvero ossessionato da Carver, dai suoi narratori neutrali e distanti, da quella specie di depressione moderata da cui erano afflitti i suoi personaggi, dall’azione narrativa stagnante quanto la vita dei protagonisti, dai finali non risolutivi, le epifanie al penultimo paragrafo, la sferzata severa ma mascherata da fredda indifferenza del finale.
Il racconto per me era una forma, una sorta di recipiente che bisognava riempire con qualcosa di nuovo ogni volta che ci si sedeva a scrivere.

Sono uscito piuttosto rapidamente da quel tranello. Quasi senza rendermene conto mi sono ritrovato a dubitare del recipiente. Perché tutti i racconti dovevano avere le stesse forme? Sono entrato in una fase di ribellione, trasformandomi in una specie di adolescente ostinato a sfidare le strutture. Un racconto poteva essere molte cose: dilatare i limiti del genere, fare spazio, esplorarne i confini, come se un racconto fosse un palloncino di gomma che si gonfia; continuare a gonfiarlo e gonfiarlo senza farlo scoppiare per vedere fino a che punto questi limiti reggevano, fino a che punto il racconto continuava a essere un racconto.
Fino a relativamente poco tempo fa, questo era il mio modo di avvicinarmi alla scrittura di un racconto. Non mi chiedevo cos’è un racconto?, mi chiedevo piuttosto fino a che punto potevo spostarne i confini, modellarlo, smontarlo senza che smettesse di essere un racconto.
Pensavo a una frase di Mavis Gallant, quando dice che non vuole che il lettore legga i suoi racconti tutti di fila. Un racconto ha bisogno di silenzio, di spazio bianco intorno per poter crescere, per riverberare nel lettore, per echeggiare nella vita stessa di chi legge. Fantasticavo di scrivere racconti come eleganti ikebana giapponesi: in equilibrio precario, con strutture asimmetriche, con assi obliqui che si estendevano follemente da una parte e, comunque, non rompevano l’armonia dell’insieme. Ikebana da disporre su un piedistallo e osservare con molto bianco neutro intorno.

Ero così entusiasta all’idea di spingermi oltre i confini che ho smesso di farmi domande sulla definizione stessa di racconto. Cercavo di scrivere racconti che fossero il più asimmetrici possibile, pur rimanendo racconti. E, a un certo punto di questo lungo processo durato quattro anni, credo di aver perso la bussola: ho smesso di interessarmi alla domanda e al tempo stesso ho smesso di interessarmi al racconto, con le sue regole così rigide, con le sue logiche, i suoi decaloghi, le sue leggi e il suo numero di pagine massimo e minimo.

Ho riletto Grace Paley. Sono entrato in una fase di idillio con Lydia Davis, come faceva quella donna a scrivere così? La domanda sul racconto non c’era più. Scriveva in modo geniale, ma poteva trattarsi di qualunque cosa: poesie?, saggi?, pensieri? Era importante definirlo? Di tanto in tanto, il mio lato più nevrotico sentiva l’esigenza di porre dei limiti, delle etichette, un certo ordine: fin qui può essere un racconto e più in là, non più. Oltre questa linea tracciata nell’aria quel che stava facendo Lydia Davis era un’altra cosa.

Eppure a quel punto ero sempre più stanco del mio lato nevrotico. Il mondo e la vita si erano incaricati di refutare la mia convinzione che le cose fossero chiare, precise, bianche e nere, definite e dai confini netti. E a poco a poco avevo cominciato a percepire che quei vortici di richiamo all’ordine ed etichette immutabili nei quali a volte cadevo non erano che capricci infantili.

Come se l’illusione di sapere con certezza cos’era o non era un racconto potesse salvarmi da qualcosa. Come se avere regole chiare mi permettesse di scrivere meglio.

Riferivo tutte queste cose alla mia psicologa e lei mi guardava con molto interesse e annuiva facendo «a-ha», e a volte diceva qualcosa di brevissimo, come per spingermi a rendermi conto da solo che tutto quel che stavo dicendo circa il racconto in realtà aveva sì a che fare con il racconto ma aveva molto più a che fare con la mia vita, con mio padre, o con la struttura mentale del “padre” che io costruivo nella mia testa, con il mio modo di affrontare la vita e con la mia paura che tutto andasse male. Esigenza di limiti chiari, lagnanze dovute a regole che non si rispettavano: modi di canalizzare l’ansia e l’angoscia di ritrovarsi nudi in un mondo nel quale non si sa mai molto bene cosa fare, o come, o come non sbagliare, o come fare le cose per bene, se in fondo esiste la possibilità di “fare le cose per bene”.
Quando ho capito che per salvarmi cercavo di aggrapparmi a corde invisibili quanto illusorie, quando ho capito che non c’era davvero modo di salvarsi, semplicemente si fa quel che si può, con più o meno fortuna e al buio e a tentoni, ecco, a quel punto la domanda su cosa era un racconto, sulla forma del racconto, sui limiti del racconto, ha smesso del tutto di interessarmi.

Ho capito che il racconto è una forma ideale per nevrotici che hanno bisogno di riaffermare le proprie convinzioni al fine di scongiurare il panico e l’angoscia.
E ho deciso che avrei provato a essere un’altra cosa: un nevrotico in via di recupero. O, meglio, un nevrotico che tutti i giorni prova a mascherarsi da persona molto meno rigida, più libera e spontanea, una persona “che si lascia trascinare” dagli eventi, e si permette di ballare al ritmo della musica inconsistente che i giorni a poco a poco gli propongono. Fake it till you make it, quella sarebbe stata la mia strategia, ho spiegato alla psicologa, e lei mi ha detto che non conosceva la frase ma che le sembrava molto interessante.

Quindi, ora leggo per esempio «The Circus», una bellissima poesia di Kenneth Koch, e penso che potrebbe tranquillamente essere «un racconto». Oppure leggo «Todo piola», un’altra poesia stupenda di Mariano Blatt e penso che potrebbe essere «un racconto». E lo stesso mi succede quando leggo il monologo teatrale «Nada del amor me produce envidia», di Santiago Loza, o «Últimos días de Sexton y Blake», di Leónidas Lamborghini, o i pezzi d’opinione di Clarice Lispector, e perfino i romanzi di César Aira, perché un romanzo di César Aira non potrebbe essere considerato un racconto?
Di tanto in tanto ho una ricaduta e, di fronte a un libro aperto, con un certo fastidio mi chiedo, ma cos’è questa roba? E subito mi rispondo che non importa, che quella era una domanda che si sarebbe posto il vecchio me, che ora in teoria sono una persona più libera e non devo farmi queste domande e che ora devo semplicemente godermi quello che sto leggendo, senza cercare di definirlo, etichettarlo, senza cercare di inserirlo in uno schema rigido, metterlo in questo cassetto o in quest’altro.

La mia psicologa annuisce quando le racconto queste cose ma non dice nulla. Io comunque vedo nel suo leggero movimento della testa una discreta approvazione e celebrazione del mio atteggiamento, mi sembra orgogliosa di me e della mia crescita. Orgogliosa del mio tentativo, costante e sostenuto, di essere un nevrotico in via di recupero che non cade nei tranelli della sua stessa mente.

Vita breve, ma non troppo. Di Sergi Pàmies

di Sergi Pàmies
traduzione a cura di Francesco Ferrucci

La brevità è un valore che genera consenso in quasi tutti gli ambiti della società. Un “sarò breve” pronunciato da politici o da esperti all’inizio di un discorso è rassicurante e molto apprezzato. A volte è una promessa disattesa ma, in ogni caso, ci solleva e ci consola. Con questa premessa si intende che la brevità non è incompatibile con la sostanza. In letteratura, invece, la gerarchia di valori è presuntuosamente diversa e considera la brevità come un territorio di prova, di apprendistato e di iniziazione.

Anni fa, in una chiacchierata informale con Enrique Vila-Matas, abbozzammo un possibile teorema sulla brevità letteraria: “Qualsiasi testo è suscettibile di essere ridotto a metà fino alla sua assoluta sparizione”. Ci sono, per fortuna, alternative che ci permettono di gustare una moltitudine di grandi testi che, grazie a Dio, non sono scomparsi, forse perché erano soggetti ai limiti che sottolineava Ramón Gómez de la Serna nel definire gli aforismi: “L’aforisma è un genere che non può ridursi perché la sua brevità non lo permette”.

La base della brevità dovrebbe essere la coerenza, che ha a che vedere con le dimensioni dell’idea. Troppo spesso c’è uno squilibrio colossale tra l’estensione del contenuto e la capacità del contenente. Così come c’è gente bassa, ci sono idee piccine che hanno bisogno di essere spiegate in coerenza con questa geometria. Questo non significa che si debba cadere in una narrazione telegrafica, anzi: il racconto è uno dei generi che assimila meglio l’utilizzo della digressione e dell’elucubrazione ossessiva, creativa o persino paranoica (non stavo pensando per forza a Kafka; o forse sì). Se la poesia ricorre alla digressione come a un processo di distillazione, la narrativa breve la perfeziona perché la incorpora all’inerzia stessa del racconto. Julio Cortázar o Giorgio Manganelli (soprattutto in Centuria), Alfred Polgar o Raymond Carver, A.M. Homes o Mariana Enríquez, Dino Buzzati o Quim Monzó, David Sedaris o Pere Calders, eccellono tutti nell’arte di concentrare elementi senza malversarli, tenendo sempre presente che la narrativa breve è un genere di velocità e non di fondo. Questo, però, non dovrebbe renderla meno apprezzabile. Di fatto, i 100 metri piani sono, di gran lunga, la gara più spettacolare, intensa e seguita del programma olimpico. E trasferendo quest’idea alla scrittura, non dovremmo correre la maratona di un romanzo con gli ingredienti dei 100 metri e viceversa.

La forma breve, proprio per la sua caratteristica principale, può avvicinarsi alla pittura, alla fotografia, alla cronaca giornalistica o alla canzone senza perdere il registro che la definisce: facilitare l’esercizio dello stile e convertirsi, senza il rischio di stuccare, in una piattaforma di sperimentazione flessibile e polivalente. Se abusiamo della stessa metafora atletica, c’è una brevità di mezzofondo, che equivarrebbe alle corse dei 400 o dei 1.500 metri. Alberto Moravia, Alice Munro, John Cheever, Lorrie Moore, Julian Barnes vi si trovano a loro agio perché coltivano delle virtù che spesso, per quanto riguarda il ritmo e la struttura, potrebbero essere romanzesche ma che, attenendosi ai presupposti della narrativa breve, non spaventano e non creano false aspettative.

Negli ultimi anni è diventato popolare, a volte molto frivolamente, il microracconto. Ha un’aureola mediatica basata sulla funzionalità, più vicina alla trovata e al passatempo che all’essenza di una brevità che non sia solo spumeggiante e che, come i messaggi della serie Mission: impossible, non si autodistrugga dopo cinque secondi. L’alibi totemico che giustifica questa moda è l’opera monumentale di Augusto Monterroso, che invece fu capace di unire la massima sostanza e il minimalismo essenziale. C’è un proverbio che, senza esagerare la loro trascendenza, situa le virtù della brevità in un ambito deliziosamente terreno: “Nelle botti piccine sta il vino buono”. Non è una verità assoluta e nemmeno intuitivamente dimostrabile, ma è verosimile. In realtà, il segreto della brevità è che permette di controllare, senza soffrire la vertigine di una maratona romanzesca, l’equilibrio tra verità e verosimiglianza.

La brevità, però, si porta dietro la leggenda di non essere commerciale. Ci sono sempre più eccezioni, per fortuna, però c’è una scena che si ripete in tutte le case editrici
e perpetua l’anacronismo conservatore.

Un autore inedito presenta un manoscritto di racconti a una casa editrice e, che piaccia o meno, l’editore gli chiede di scrivere un romanzo. È una situazione che spesso parte da un malinteso: l’autore disprezza i racconti ma gli sembrano una buona lettera di presentazione, e l’editore li disprezza perché sogna di scoprire un nuovo autore non attraverso testi brevi e vari, bensì attraverso l’impatto categorico di un romanzo. È compatibile applicare la brevità ai contenuti, sempre più abituali, autobiografici ed emozionalmente torrenziali? Non lo so, ma cerco comunque di non dimenticare il consiglio del poeta Chênedollé: “È soprattutto quando sei obbligato a parlare di te che la brevità è necessaria”.

Serpente, falco. Di Laura Pugno

di Laura Pugno

Questo sarà un editoriale per exempla e immagini.

Cosa chiediamo al racconto, a questo oggetto misterioso che percorre lunghissime orbite, che ritorna a noi dalle lontananze, che non scompare, anche quando ce lo aspetteremmo, che si sposta di quadrante in quadrante d’attenzione come lo sciame delle Perseidi nel cielo d’estate, quando alziamo la testa.

Lettori e lettrici, scrittrici e scrittori, cosa chiediamo, cosa ci viene chiesto.

Il genere ci viene detto in estinzione, eppure raccolte di racconti continuano ad uscire per editori importanti. Apriamo Animal spirit, di Francesca Marciano (Mondadori, 2021), scrittrice e sceneggiatrice affermata, con all’attivo libri di racconti oltre che film e romanzi.

Nel secondo testo della raccolta, “La ragazza”, Ada, una giovane donna letteralmente scappata col circo, incontra Snow, il pitone albino di Burma con cui dovrà esibirsi. ““Ada sussultò nel vedere la testa di Snow spuntare lentamente e il corpo, di un biancore accecante, luminoso, appena marezzato di giallo oro, farsi sempre più grande man mano che l’animale si allungava oltre il bordo della cassa, fino a diventare grosso come una delle sue cosce. (…) allungò la mano timidamente, fino a sfiorare la pelle di Snow. Era liscia, scivolosa al tatto – come seta, pensò – e di nuovo provò la sensazione di una forza incredibile, energia allo stato puro imprigionata in una forma astratta. Il resto del corpo di Snow era ancora arrotolato in una spirale che si annodava lentamente, ogni spira in una direzione diversa, così che dentro la cassa sembrava ci fosse più di un serpente”. (p. 60).

Ecco, davanti all’insight del racconto, la schiusa della vista come un uovo che si crepa e permette di scorgere cosa c’è dentro ed oltre, siamo come Ada davanti alla creatura abbacinante nelle cui spire, nelle pagine successive, si mostrerà davanti al pubblico, in una forma paradossale, svelata ed esposta, di intimità. E forse è questa la parola chiave: la terribile intimità con la realtà che ci offrono le rivelazioni, anche le più piccole, la moneta che ci chiedono di scambiare per andare avanti.

Nel suo recente saggio Come pensano le foreste (Nottetempo 2021), l’antropologo Eduardo Kohn – nel parlarci del tessuto di pensieri viventi che trama di sé tutta la realtà in quanto espressione di quella continua, incessante semiosi, creazione e interpretazione di segni, che è la caratteristica specifica del mondo vivente, molto prima dell’emergere di quel simbolico che è specialmente proprio dell’essere umano  – evoca, potremmo dire, il verbo è quello, la filosofia di Charles Sanders Peirce, i tre aspetti che a giudizio dell’ottocentesco filosofo di Cambridge, Massachusetts, definiscono il reale.

Scrive Kohn, “l’elemento del reale che per noi è più facile da comprendere è ciò che Peirce chiama ‘secondità’”, ciò che “si riferisce all’alterità, al cambiamento, agli eventi, alla resistenza e ai fatti”. Gli elementi secondi del reale sono brutali, producono uno shock “che ci strappa dai nostri abituali modi di immaginare come sono le cose”, ci spingono “a pensare altrimenti da come abbiamo sempre pensato”, come un serpente che si risveglia dal letargo uscendo da una cassa e si stringe intorno al nostro corpo, lasciandoci, come sussurra Marciano insieme ad Ada, con la sensazione delle scaglie sulla nuda pelle.

Come un racconto che improvvisamente fa entrare un taglio di luce, per un istante, e poi di colpo chiude, ma noi intanto abbiamo visto. E non basta.

Ancora Kohn ci dice che il realismo di Peirce “include anche qualcosa che egli ha definito ‘primità’”. Ma cosa sono, questi elementi primi del reale, dopo che i secondi ci hanno strappato al nostro intontito stupore cambiando al Reale stesso la minuscola in maiuscola? Sono l’immaginato, sono l’oltre: “Meri forse, non necessariamente ‘realizzati’ che implicano il particolare genere di realtà della spontaneità, della qualità o del possibile”, in sé e per sé, oltre ogni relazione. Per questo “l’esperienza di un profumo fuggevole, in sé stesso e per sé stesso, senza chiedersi da dove venga, a cosa somigli o a cosa sia legato, si avvicina alla primità”. All’essenza, dell’uno o dei molti, che se esiste, esiste come un profumo.

Ciò che la letteratura ci lascia, da cui potremmo ricominciare, è forse la primità?

Quel che resta nell’aria quando chiudiamo un libro, il nostro stesso odore, rassicurante, ancora lo stesso anche dopo aver scoperto qualcosa di nuovo; o quello di un altro corpo che potremo riconoscere solo se la sua marcatura sarà esattamente quella che ricordiamo, senza smarginature o aloni.

O forse, invece, a balzarci incontro per primo sarà l’odore sconosciuto del selvatico, come nell’ultimo racconto di Animal spirit. In “Potrebbero esserci spargimenti di sangue”, Diana, americana in fuga a Roma dalla fine ancora appena intravista del proprio matrimonio, assolda Ivo, un addestratore di falchi, per scacciare i gabbiani che hanno fatto il nido sul suo terrazzo. Così incontra il falco Queen, sotto il suo cappuccio di cuoio sul braccio del falconiere: “Aveva un sontuoso piumaggio color cioccolata, con qualche riflesso ruggine sulle ali. Il suo corpo compatto e flessuoso si tese, poi con un colpo secco spalancò le ali, come un ventaglio che si apre di scatto”. Quando Ivo toglie il cappuccio a Queen, il falco posa sulla donna “uno sguardo minaccioso, che aveva qualcosa di rettiliano, e lei fu scossa da una sensazione sconosciuta, una specie di rimescolamento del sangue. La creatura che aveva di fronte era molto più straordinaria e potente di quanto avrebbe mai immaginato. “È bellissima”, sussurrò”.

Lanciata Queen in cielo a fare – potenziale – strage, Diana scopre da Ivo che “i gabbiani sanno riconoscere un rapace anche se non l’hanno mai visto prima. Gli basta scorgerne il profilo. È una forma inscritta nel loro DNA”. E apprende anche che i falchi possono essere addestrati ma mai addomesticati: “Purtroppo accade spesso ai falconieri di perdere gli uccelli. Fa parte del rischio di addestrare una creatura selvatica. Ogni caccia potrebbe essere l’ultima. Se vogliono volare via lo fanno, non ci puoi fare niente. È sempre il falco a scegliere se tornare da te o no´”.
Così anche nella scrittura. Così il racconto, così la poesia, verso cui il racconto striscia nell’erba, si lancia dall’alto.

L'infinito per errore, di Elisa Ruotolo

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di Elisa Ruotolo

Quando ero piccola a casa avevamo una macchina fotografica. Non ricordo più di che marca fosse e dall’anno scorso - quando l’ho cercata trovando solo il vuoto in fondo al cassetto – so che questo dato è ormai irrecuperabile.

Posso dire che era pesante, nera, grossa (o forse era la mia infanzia a ingigantirla), e soprattutto era una di quelle che lavorano a pellicola. Il rullino andavo a comprarlo io dallo stesso fotografo a cui lo riconsegnavo per lo sviluppo. Lui chiedeva il tempo di qualche giorno, poi ci consegnava tutto in una busta con un taschino anteriore dove lasciava i negativi. Non selezionava, stampava anche le foto sfuocate, anche quelle in cui i soggetti erano così deboli e stinti da sembrare fantasmi. La mano ci tradiva a quei tempi, e non avevamo la pazienza di aspettare il momento giusto. Scattavamo con urgenza, oppure senza considerare lo sfondo inadatto, la luce eccessiva o carente, le ombre da tenere a bada, l’esigenza del flash o la sua ridondanza. Lo capivamo sempre dopo, dove sbagliavamo, quando era tardi e il fotografo ci consegnava le stampe chiedendo una cifra che, unita a quella del rullino, ci faceva sentire affranti. Comunque conservavamo tutto, nascondendo gli scatti peggiori sotto quelli appena riusciti. Quando ancora mi capita di guardarli penso ai danni della fretta e a quelli d’una mano che trema, che esita: che non riesce a salvare l’istante, a metterlo a fuoco e così, irrimediabilmente, lo perde. Se non fossi stata maldestra, ora potrei ricordare com’era esattamente mia nonna in un pomeriggio di luglio dei miei cinque anni; e se avessero avuto maggior cura nel ritrarmi, oggi avrei più informazioni della bambina che sono stata.
La rappresentazione fotografica della mia famiglia – in nome di una curiosa coincidenza – cessa, per un lungo periodo, con l’inizio della scuola. Accadde quando la macchina fotografica prese a guastarsi e a nessuno sembrò il caso di investire in un aggiusto. C’è un buco di vari anni nelle nostre vite, in esso non so cosa ne sia stato di tutti noi, come vestivamo, quanto lunghi fossero i nostri capelli e in carne i nostri volti: oltre il ricordo spesso riversato nel racconto (che è l’unico rimedio all’inesistente) non rintraccio alcuna prova di essere stati tristi o felici. Tuttavia, fu come se l’inchiostro che mi avrebbe sporcato le dita si fosse sostituito alla luce che non avevo saputo controllare fotografando. Di questa transizione mi rendo conto adesso, ma allora non potevo sapere che avrei passato il resto della mia vita a correggere l’errore della mia messa a fuoco.
Tutto ciò che non avrei compreso, che avrei vissuto male o che per qualche ragione sarebbe stato inarrivabile, tutto ciò che non avrei colto o che avrei mancato, quel che non avrei potuto essere, il senso di invisibilità ricevuto sin dalla nascita come un nuovo e più invincibile utero; ecco, proprio questo io avrei provato - se non a guarirlo - a raccontarlo. A dire di quante mancanze è fatta una vita. Ora so che esiste una scrittura foraggiata dall’esistente, da ciò che effettivamente si attraversa e si possiede; ma ce n’è anche un’altra che si nutre di sottrazione e cerca di quietare il margine delle cose quando perde la sua naturale calma.
Io sono sempre stata lì, ma ogni volta, come un nuotatore, ho dovuto calibrare il respiro. Ho cominciato con i racconti perché, in quelle prime immersioni, ero certa di poter sostare sott’acqua per un tempo breve. Il mio fiato era ancora inconsulto, senza educazione. La vanità di creare mondi dal nulla, dalla realtà prudentemente modificata, o dal ricordo, era qualcosa di brutale, da gestire considerando il peso dell’inesperienza (la giovinezza mi sembrava allora una colpa che avrei scontato solo col tempo). Ma i racconti - l’ho capito in seguito – più che semplificare, sono esercizi di perfezione. Congegni delicatissimi a cui va destinata per sempre la cura (quasi la fede) incrollabile degli inizi. In quelle poche pagine tutto è esposto e in offerta. Ciò che non funziona è più visibile e indifeso, sa tradirsi come un capriolo in una radura dove bazzicano i cacciatori.


Usare la misura breve finora ha significato questo: rimediare all’eventuale imprudenza dell’errore con la precisione, la lucidità, l’intelligenza, la spietatezza dell’occhio che punta il mirino di un’arma o – per usare un’immagine meno feroce - di una macchina fotografica. Soprattutto ha significato non indietreggiare davanti a un’impresa quasi mitologica:
far stare il tanto (il tutto) nel poco: adagiarvi la vita intera o una sua porzione non trascurabile.


Del resto la scrittura, qualsiasi forma assuma, vive di tagli, amputazioni. E gran parte del suo valore dipende dall’abilità della lama, dall’intransigenza con cui lascerà andare ciò che non ha legittimità nel racconto, nel verso o nel capitolo di un romanzo. Un bravo scrittore o poeta, insomma (come un bravo fotografo), sa cosa lasciare fuori dall’inquadratura e in quel sacrificio riposa la dimensione della sua grandezza. Nella scelta è senz'altro più accorto di Dio, che tanto spesso ammette l’errore, l’inutile, l’inciampo, lo spreco; e di certo li tollera più di quanto un essere umano, seduto al proprio tavolino a trafficare in parole, sia disposto a concedere.
Oggi so qualcosa che a cinque anni ignoravo: senza la scrittura non avrei saputo indirizzare lo sguardo; e l’errore, quel mio essere fuori fuoco, avrebbe continuato ad abitarmi indisturbato. Tantomeno mi sarei educata a vedere l’invisibile, a farlo restando tale (in fondo si scrive per scomparire, anche se lo abbiamo dimenticato). Nei miei scatti sciagurati, nei tanti (tantissimi) racconti imprecisi che ho scritto per privato esercizio e bisogno, ho sempre visto di più: tutto quello che nella realtà restava inosservato, intangibile, immodificabile.
Lì smettevo di essere cieca e impotente. Perché in quel minimalismo, attraverso l’errore che incrudeliva e si mostrava affinandomi la vista, io miravo all’infinito. A volte lo guadagnavo. Certo, era pur sempre un infinito privato, piccolo, che quasi nessuno vedeva. E che quasi nessuno vede. Eppure è in esso che io esisto, e sono viva.
Ho scritto racconti, romanzi, poesie e ne ho avuto sempre un presentimento d’origine, come un’intenzione che veniva da lontano. So da principio, e con inspiegabile chiarezza, quanto dureranno le parole. O meglio, quanto durerà il respiro. In effetti, nella scrittura, è sempre questione di respiro, come nella vita. Allora ho rallentato il passo di ciò che mi accorava per la sua inguaribile fretta; ho raccolto silenzio dal caos; mi sono finalmente fidata dell’inesistente e della mia fermezza di mano. Ogni volta ho provato (e ancora provo) ad addomesticare una bulimia di vita che, diversamente, sarebbe uscita dai suoi cardini, facendo di me la persona sfuocata dei ritratti, sgajolata come il più manchevole dei racconti che posso aver scritto. Sarà anche una disciplina da monaci, un passatempo per chi la vita non sa come prenderla e tenerla, eppure io credo che sia l’unico fuoco e luce che ho trovato contro la notte dell’essere primitivo che mi abita, e che fatica tanto a venire fuori dalla preistoria di questo tempo.

Il respiro dei racconti, di Gaia Manzini

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di Gaia Manzini

Per scrivere c’è bisogno di aria; e i racconti sono pieni di respiro. C’è il brillio scoppiettante di un dettaglio e intorno c’è il buio della notte. Ci sono le immagini, ma anche i non detti, le ellissi, gli ariosi spazi tra una riga e l’altra.

C’è quello stacco tra il primo e il secondo paragrafo di Un giorno ideale per i pesci banana in cui Salinger non dice che lo strano giovane in spiaggia è Seymour, l’uomo con problemi psicologici oggetto della telefonata della prima scena tra Muriel – sua moglie – e la madre preoccupata della vacanza dei giovani sposi; eppure noi lo sappiamo, lo scrittore non ha bisogno di dire niente, basta l’inspirazione dello spazio sulla pagina. Nel racconto di Amy Hempel, Arcobaleno bianco, l’autrice non ha bisogno di dirci che bevendo dell’acqua a letto la protagonista l’ha rovesciata sul materasso: basta l’ariosità di un a capo, la donna che si scambia di posto con il proprio cane, a cui non interessa delle lenzuola bagnate, per capire cos’è successo e perché ci arrivi, in un attimo, la solitudine di quella donna.
Scrivere – e leggere – un racconto è una pratica cadenzata e attenta, in cui i particolari stanno sospesi in modo seducente e rimangono lì, continuano ad accendersi nel ricordo come inesausti fuochi di artificio; non ti lasciano più. È la paradossalità dei racconti: dettagli che levitano, che pulsano come enigmi e accumulano significato, ma che – proprio per questo – si conficcano come frecce velocissime e continuano a parlarti, a farti sentire il senso della vita.

C’è sempre bisogno dei racconti: di scriverli, per tornare a muoverci nel territorio dell’essenziale, e di leggerli per cullarci nell’immensità della piccola misura. Perché un racconto dice molto di più di quanto rimane circoscritto nel perimetro delle poche pagine a sua disposizione.
L’aria che lo circonda è colma del senso che si muove tra le sue righe.


Le suggestioni dei racconti letti negli anni rimangono indelebili nella mia mente di lettrice; le cose a margine, i particolari, ciò che è minuto ma cesellato alla perfezione ha continuato a sussurrarmi nel tempo. Ci sono i calzettoni rossi di Thomas Bernard (il racconto è Incontro, in Goethe muore) che rammentano al protagonista le gite montane con i genitori, la disciplina, la rigidità, la totale assenza di empatia; calzettoni rossi ruvidi e pungenti, piccola tortura di lana, destinati a essere bruciati per segnare una distanza definitiva, e pulsante, con la propria famiglia di origine. C’è il geranio di Flannery O’Connor, piccolo vaso esposto a una finestra e osservato ogni giorno dall’anziano Dudley come una fiammeggiante promessa – vita di cui prendersi cura, delicata, bellissima, sempre in bilico. C’è la seduzione perpetua dei correlativi oggettivi, come il cappotto di Gogol’: oggetto del desiderio di un grigio funzionario, che si ritrova a uscire da sé stesso, a proiettarsi nel futuro, a dare più ritmo e più senso alle proprie giornate perché mosso dalla necessità di un cappotto nuovo per affrontare l’inverno russo. Risparmiare, ma anche tendere la propria vita verso il mondo grazie a uno scopo che non lo fa sentire più solo, lo affianca e conforta. Ma il cappotto lungo dal collo fino ai piedi è come il bozzolo di una crisalide che sta per diventare farfalla. Il desiderio ci trasforma e diventa desiderio degli altri, della vita, di una dignità più pienamente umana.
C’è sempre bisogno di racconti, di leggerli insieme, di confrontarsi sul quello che agitano dentro di noi con piccoli dettagli e colpi di luce, con i loro immensi silenzi. Non possiamo dimenticarci della mamma di Lucia Berlin, quella donna infelice e feroce, che si divertiva con la sua bambina a far rotolare i barattoli di conserve sul pavimento inclinato, e rideva, e sembrava una donna giovane e luminosa, non importava fosse completamente ubriaca: a sua figlia era sembrato un momento speciale tra di loro, uno dei pochi. Continuo a pensare alla mosca nel racconto di Virginia Woolf L’invito, indifesa, residuale, da schiacciare al più presto, un po’ come il mondo faceva con le donne che uscivano dalle aspettative della società, che volevano farsi strada con le proprie capacità intellettuali. Né riesco a dimenticarmi di quella giornata di mezza estate che diventa una giornata d’autunno a un passo dall’essere invernale: quel tempo sospeso in cui si muove il nuotatore di Cheever fino a quando non soppesiamo il senso del suo fallimento.
C’è ora una nuova raccolta di racconti, si intitola Sabrina & Corina (Racconti edizioni) è firmata da un’esordiente americana: Kali Fajardo-Anstine. I bambini di una scuola media vengono fatti esercitare alla genitorialità con le cure da rivolgere a un pacco di zucchero, che da quel momento in poi sarà per loro come un neonato bisognoso di attenzioni. E il pacco di zucchero – oggetto così ordinario – si trasforma in una presenza pulsante di senso, pronto a raccontarci di un’intera cultura. A sottolineare per negazione gli abbandoni, il disinteresse per l’infanzia di certe comunità, il percorso accidentato che deve compiere chiunque si voglia prendere cura della vita.
Nei racconti è racchiusa una postura etica. È il contrario del sensazionalismo, dell’evidenza, dell’abitudine all’urlato che fa parte della comunicazione alla quale siamo esposti. Torniamo a respirare, il respiro consapevole che è vita, radicamento dell’esistenza. E acuiamo la vista verso le piccole cose. I dettagli preziosi che hanno sempre qualcosa di importante da raccontare non solo della letteratura, ma anche di noi.

Photo credit Rino Bianchi

Questa è l’acqua, di Matteo Bussola

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di Matteo Bussola

Romanzo e racconto, allo stesso modo, richiedono due posture polmonari specifiche, due maniere differenti di prendere fiato e perfino di visualizzare il traguardo.

A me succede questo: quando scrivo un racconto, so spesso dove andrò a parare. Se comincio, riesco quasi sempre a scorgere l’approdo. Poi magari potranno volerci giorni, settimane, mesi perfino, tempi fatti di ripensamenti e dubbi e desiderio di tornare indietro. Ma intravedo comunque la destinazione.

Dopo anni di scrittura quotidiana, sono giunto alla conclusione che la scrittura non è un talento, ma un’attività. Somiglia molto al respirare. Tutti respirano. Ma esistono persone che respirano meglio di altre? Credo di poter dire che ci sono persone che respirano in maniera più efficiente, o più consapevole. Del resto – e questo lo so per certo – è così anche nel disegno e nel fumetto, e probabilmente con un mucchio di altre cose che non conosco: l’efficienza arriva con la pratica.
La scrittura non ha a che fare solo con la pratica del respiro, ma anche con quella dello sguardo. In definitiva, si scrive o si disegna prima di scrivere o disegnare. Scrivere o disegnare, per me, sono principalmente un modo di guardare il mondo e immagazzinare le informazioni. Una maniera ordinata, strutturata, in parte forse inconscia e di certo diversa per ciascuno, che consente di attingere a tali informazioni al momento giusto, traducendole in suggestioni o spunti. Questo spiega in parte perché, all’interno di un gruppo di individui che vivano più o meno le stesse esperienze, ve ne siano alcuni in grado di renderle efficaci durante un racconto, mentre altri no. Non è una cosa che c’entra con l’atto dello scrivere in senso stretto, ma con l’organizzazione mentale con cui le immagini vengono estratte dalla scatolina dorata per tornare a essere vive proprio qui, proprio adesso, ovvero con la capacità di incanalarle dalla testa giù attraverso la pancia e i nervi e le mani per arrivare infine sul foglio, e vederle trasformarsi in parole o segni.
Poi, certo: la predisposizione, l’attitudine, l’innatismo. Ma sono, queste, cose che incidono quanto la lunghezza di una miccia sull’ottenere una detonazione. La predisposizione è una miccia corta che magari ti fa giungere prima al risultato, ma quel che conta resta come assemblerai l’esplosivo.
A proposito della pratica, mi sono recentemente imbattuto nella massima di John Steinbeck che dice: scrivi una pagina al giorno, tutti i giorni. E quando finirai resterai sorpreso. Quella sorpresa, spesso, almeno per me, riguarda la scoperta che poche pagine – a volte addirittura una sola – possono essere sufficienti per esaurire l’immagine che hai in testa. Altre volte, invece, di pagine ne occorrono molte di più. Tocca a chi scrive scegliere quante? Per quella che è la mia esperienza: no. Perché quando una storia arriva a trovarti, nella grande maggioranza dei casi, contiene già la sua estensione. L’estensione ti costringe alla scelta di un’andatura, di un passo. Il passo detta sempre il tuo respiro.
Correre una maratona, per esempio, impone una respirazione differente rispetto a quella che serve per correre i cento metri. Nuotare a stile libero, una diversa rispetto a una sessione di yoga.
Romanzo e racconto, allo stesso modo, richiedono due posture polmonari specifiche, due maniere differenti di prendere fiato e perfino di visualizzare il traguardo.
A me succede questo: quando scrivo un racconto, so spesso dove andrò a parare. Se comincio, riesco quasi sempre a scorgere l’approdo. Poi magari potranno volerci giorni, settimane, mesi perfino, tempi fatti di ripensamenti e dubbi e desiderio di tornare indietro. Ma intravedo comunque la destinazione.

Scrivere un racconto è una nuotata nel fiume. Ti immergi nell’acqua e l’altra riva è là. L’obiettivo saldo e visibile. Naturalmente, potrai raggiungerlo in molti modi diversi. Potrai decidere di andare diritto, tagliando l’acqua a metà, potrai valutare di fartela in parte in immersione oppure tutta in superficie, sbracciandoti a dorso o a farfalla o prendendo a pugni le onde, potrai valutare di opporti alla corrente con forza, perpendicolarmente, optando per un approccio muscolare. Oppure avanzare obliquo e storto e lasciartene, in parte, trasportare.

La salvezza, in ogni caso, è laggiù. La vedi, la senti, anche durante i momenti di disattenzione dovuti a eccessiva fiducia, in cui ti sembra che i flutti stiano per inghiottirti senza speranza.
Con il romanzo è diverso. Il romanzo somiglia a una nuotata in mare aperto. Quando parti, sei già perduto. Non sai se approderai, né dove, né dopo quanto. Troppe variabili: dal vento al freddo, dalla siccità alle tempeste, dalla sete agli squali. Ma l’incognita più angosciosa è non avere idea di quale mare si stia attraversando: se uno stretto, un braccio, oppure un oceano che ti costringerà presto a rivedere i tuoi piani.
Una delle due cose non è più complessa dell’altra.
Attraversare un fiume potrebbe sembrare più semplice, ma nuotare per vincere la corrente è uno sforzo insidioso, e pochi elementi sanno essere traditori e imprevedibili come le acque di un fiume.
Attraversare il mare potrebbe sembrare più difficile, ma negli attimi di stanchezza o disperazione puoi fermarti a farti sostenere dall’acqua salata, puoi sperare di incrociare un’imbarcazione, puoi perfino decidere di tornare indietro sapendo che tornare non sarà, comunque, mai più pericoloso che scegliere di proseguire.
In entrambi i casi, ciò che conta è che, qualunque andatura o bracciata o respiro si scelga, tu sia disposto a bagnarti.
Perché alla fine, come avrebbe detto Foster Wallace: questa è l’acqua. Ed è la stessa per tutti.
Dall’asciutto della riva si scrivono solo cartoline.

 

La libertà nel racconto lungo, di Helena Janeczek

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di Helena Janeczek

In famiglia hanno sempre preso in giro la mia incapacità di esprimermi in modo sintetico. Provo a ribattere che, non a caso, scrivo romanzi. Romanzi che dalla prima all’ultima stesura necessitano di “sfrondature”, visto che tendo a raccontare ogni dettaglio, a inseguire ogni rivolo che si dirama dal flusso principale. Sebbene di racconti ne abbia scritto anch'io, non mi sentivo dunque la persona più titolata a esprimermi sull’arte del racconto. Ma il compito di riflettere sulle forme narrative brevi mi ha portato una scoperta a cui non ero preparata. Ripensando alle opere che amo di più e da più tempo, mi sono resa conto che molte di esse sono racconti. Kafka, Mansfield, Čechov, Bachmann.

E poi un gran numero di testi che appartengono al genere intermedio tra il romanzo e il racconto che la tradizione anglosassone definisce novella. Cuore di tenebra e La linea d’ombra di Conrad. Michael Kohlhaas di Kleist. Lo straniero, Morte a Venezia, Il giocatore, La morte di Ivan Ilič. Bartelby lo scrivano di Melville e Lenz di Georg Büchner sono semplicemente racconti lunghi.
Credo che esistano due motivi perché la short story sia oggi considerata il modello dominante per le forme narrative brevi. Il primo è una ragione letteraria: risponde alla fama giustamente viva di Raymond Carver e Alice Munro, alla popolarità di Charles Bukowski, alla ricezione cult dei racconti di David Foster Wallace, per fare qualche esempio. L’altro motivo ci porta invece sul terreno del mercato editoriale per cui è legge che si vendono solo i romanzi. O, meglio, qualsiasi testo che possa essere confezionato come se fosse un romanzo: vale a dire quasi tutti, tranne le raccolte di racconti che, proprio per questo, spesso faticano a trovare un editore. La consuetudine di presentare come romanzo (breve) delle opere che sarebbe forse più giusto definire racconto lungo mi sembra aver prodotto qualche danno. Per cominciare, si è generata una comprensibile diffidenza verso dei volumi piuttosto agili, magari stampati a caratteri più grandi, con cui l’editoria a volte cerca di allungare il brodo di testi esili anche nella sostanza, specie quando c’è da sfruttare il nome di un autore di successo. Da questo, però, deriva un danno ancora più sostanzioso: la tendenza a considerare il racconto lungo come un genere minore o addirittura a non percepirlo più come una forma narrativa autonoma. Una forma capace di addensare un mondo entro una costruzione meno complessa e “onnivora” di un romanzo, ma che, proprio per questo, necessita di assoluto rigore, calibro, senso della misura. Non è quindi casuale che molti racconti lunghi siano dei capolavori.

Capolavori che, grazie all’incontro tra una storia molto coesa e la compiutezza formale nel restituirla, si radicano per sempre nella memoria di chi li ha letti. Il racconto lungo permette una grande varietà stilistica e di registro e una maggiore libertà nella gestione del tempo-spazio.

Non a caso discende da un modello antico come il Decameron, a partire dalla cui ricchezza si è diramato e sviluppato in tutte le letterature d’occidente. Non è necessario che sia molto elusivo e tantomeno laconico. Non porta a prediligere l’ipotassi e il dialogo diretto. Ha semplicemente la forza trainante di un fiume: può seguire un corso molto diritto o includere anse e strozzature. Può scorrere limpido, portare con sé dei materiali inerti, rispecchiare la varietà del paesaggio concedendo abbagli illusionistici.

Tre sentieri per il lago, racconto lungo un’ottantina di pagine uscito nel 1972, è l’ultima opera compiuta di Ingeborg Bachmann. In visita dall’anziano padre a Klagenfurt, la protagonista vuole concedersi un bagno nel Wörthersee, come faceva da bambina e da ragazza. Ma nessuno dei tre sentieri per il lago si rivela percorribile. Il luogo d’origine non è più quello di prima, il padre stesso è un mite relitto del mondo di ieri, come Stefan Zweig definì il tramontato impero austro-ungarico. Elisabeth Matrei è una donna saldamente inserita nel mondo di oggi, una fotoreporter che crede nel dovere di denunciare le guerre e le violenze che perdurano persino dopo la “rottura di civiltà” prodotta dal nazi-fascismo. Ma il soggiorno a casa la porta a ripercorrere tutto ciò che nella sua vita è andato storto - e sono in primo luogo le relazioni con gli uomini. Nelle sue reminiscenze si salva solo il grande amore per Franz Joseph Trotta: un nome che rimanda a Joseph Roth e alla sua Cripta dei cappucini, ossia nuovamente alla scomparsa Felix Austria dove i cittadini di diversa etnia e religione riuscivano a convivere. Trotta ha sempre cercato di smontare la fiducia nella “verità” e nell’impegno civile che Elisabeth riversava nel suo lavoro. Eppure la tragica parabola di Trotta, l’esule morto suicida, resta l’incontro che l’ha segnata indelebilmente: «perché soltanto dopo la morte di lui l’aveva lentamente trascinata con sé nella caduta, estraniandola dai miracoli e facendole sentire che l’estraneità era il suo destino.»[1]

Tre sentieri per il lago intrattiene un rapporto stretto con il romanzo Malina, pubblicato nel 1971. Motivi centrali di entrambe le opere sono la violenza della storia recente, lo sradicamento e la solitudine, l’impossibilità di conciliare il sé “maschile” di una donna che sceglie un lavoro da uomo (fotoreporter o scrittrice) con la sua parte “femminile” colma di desiderio d’amore. Malina però è un’opera “esplosa”: violenta e conturbante, stratificata e polisemica come può solo esserlo un romanzo che si allaccia alle esperienze più radicali del Novecento. In Malina la figura - onirica e emblematica - del padre è totalmente negativa: è uno stupratore, un sadico, un nazista. Il padre buono e malinconico di Tre sentieri per il lago ne rappresenta l’altra faccia. La misura del racconto lungo, la sua compostezza “classica”, riesce a veicolare qualcosa che al romanzo è impossibile trasmettere con altrettanta limpidezza. Riesce a contenere il dolore e a farlo riverberare come una nota di fondo soave e ineluttabile.

 

[1] I.B. Tre sentieri per il lago, trad. di Amina Pandolfi, Milano, Adelphi, 1980.

Temporalità e durata nel racconto

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di Alessandra Sarchi

Del racconto mi ha sempre affascinato la brevità: se in poche pagine devi portare una storia a diventare una trama, cioè farla passare dal “dopo questo avvenne quest’altro” al “avvenne questo in ragione di quest’altro”, hai l’obbligo della condensazione e della selezione. Quanto più uno scrittore sa selezionare e condensare i tratti dei personaggi, le scene e i gesti, tanto più è in grado di mantenere alta la tensione, e poiché al lettore sta chiedendo di impegnarsi per un periodo relativamente breve – un racconto si legge in meno di un’ora, in genere – può permettersi un uso della parola che è più simile a quello della poesia: concentrato, iconico, figurale, talvolta persino ermetico.

Al cuore dei racconti che amo di più c’è spesso un’immagine, a volte anche più di una, che fa da motore a tutto il resto e che, grazie alla condensazione narrativa imposta dalla forma breve, non viene diluita e superata come accadrebbe nel fluire lungo del romanzo, ma rimane il centro di irraggiamento semantico, in maniera simile a quanto avviene con la poesia.
Tuttavia il racconto, rispetto al romanzo, deve risolvere il problema della temporalità; fintanto che ci si limita a narrare eventi che si svolgono in archi brevi – un paio di ore, un giorno, un paio di settimane – la scrittura può ricorrere ai soliti dispositivi di compressione del tempo, ma quando si vuole conferire ai personaggi e alle vicende narrate lo spessore e la durata del tempo attraverso gli anni, come il romanzo può fare semplicemente affidandosi allo scalarsi disteso dei fatti, allora il racconto deve fare ricorso ad altre risorse.
Quando iniziai a scrivere la mia prima raccolta di racconti Segni sottili e clandestini (Diabasis editore, 2008) ero alle prese con questo problema; volevo raccontare non più di un fatto nella vita dei personaggi, ma volevo mostrare come questo fatto avesse agito in un tempo più lungo rispetto a quello circoscritto in cui si era consumato. Mi ponevo insomma la questione di come far percepire la durata, che non è ovviamente il semplice accumulo del tempo, ma il suo decantarsi cambiando in maniera prismatica il senso degli accadimenti.
Ci sono scrittori in grado di scrivere racconti e romanzi con uguale qualità e tenuta, Flannery O’Connor è un fulgido esempio, Guy de Maupassant un altro; ce ne sono alcuni invece che hanno scritto solo racconti, per tutta la loro vita, Alice Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, si colloca fra questi.
Anche quello che viene spacciato come il suo unico romanzo Who Do You Think Your Are (ed. or. 1977, trad. it. di A. Rusconi; Edizione e/o 1995; Ed. Einaudi 2012, trad. Susanna Basso) è in verità una raccolta di racconti che ha la medesima protagonista: un’intrepida Rose che, dall’infanzia soffocante con una terribile matrigna alla maturità di donna che ha studiato si è sposata e trasferita in città, rappresenta il prototipo di molte figure femminili uscite dalla penna di Munro, donne che si emancipano da una condizione di minorità che talvolta è economica, talvolta di classe sociale, sempre però è di natura cognitiva: le donne raccontate dalla scrittrice canadese vogliono conoscere, e non solo subire, il loro destino.

Nei racconti di Munro ho trovato la chiave per risolvere il problema della temporalità, poiché raramente ciò che narra è limitato nel tempo, anzi uno dei suoi maggior pregi letterari è proprio quello di fare emergere dalla contingenza e dalla quotidianità schegge di vissuto in grado di illuminare o distorcere il senso di un’intera esistenza.

Fra gli strumenti che usa per ottenere questo effetto i principali sono l’ellissi e l’anticipazione. Un esempio della prima si trova proprio nel primo racconto della raccolta Chi ti credi di essere, dove descrive i litigi che Rose, la protagonista, era solita avere con la matrigna, Flo, in genere risolti con l’intervento del padre; Rose si ritrovava a prenderle di santa ragione e spesso senza una reale colpa. Alcune scene di vita familiare si susseguono, poi Munro ci porta in un altro momento della vita di Flo: “Anni dopo, molti anni dopo, una domenica mattina Rose accese la radio. Fu quando viveva da solo a Toronto.”  Segue il resoconto di un vecchio conduttore di calesse intervistato alla radio; quest’uomo non solo aveva abitato nello stesso paesino in cui era cresciuta Rose, ma era stato intervistato, poco prima di morire, nella stessa casa di riposo in cui si trovava la matrigna Flo, “che si era staccata da tutto e trascorreva la maggior parte del tempo seduta in un angolino della sua stanza, mantenendo un’espressione maliziosa e antipatica, senza mai rispondere a nessuno, tranne le volte in cui esprimeva i propri sentimenti prendendo a morsi un’infermiera.” Qui l’autrice ha operato una poderosa ellissi della vita di Rose e degli sviluppi del suo rapporto con la matrigna. Sappiamo che anche da adulta una parte di lei continua a pensarla, ma col restituircene un’immagine così diminuita - è in una casa di riposo, è demente - ci fa anche percepire come gli anni abbiano lavorato a favore di un’emancipazione di Rose.
Ho cercato di impadronirmi di questa tecnica e l’ho utilizzata ad esempio in un racconto della raccolta Segni sottili e clandestini, “The shuffle of angels feet”.  Volevo raccontare di un amore giovanile strenuamente legato all’ossessione per i capelli biondi, che nell’immaginario della voce narrante si lega al rapporto con la madre. Per dare spessore a questo, che non è solo un elemento di blando feticismo, ma il marcatore di un universo emotivo ben più ampio, sono ricorsa all’ellissi di tutto quanto avviene fra il momento in cui l’io narrante e l’amato si separano; il motivo dei capelli biondi fa la sua ricomparsa furtiva e del tutto inattesa in uno sconosciuto incrociato a Parigi per poi fissarsi: “E tutte le sere, così come tutte le mattine, pettino con devozione sicuramente eccessiva i bei capelli dorati di mia figlia”.
Nulla viene detto di quanto è intercorso, all’improvviso la voce narrante ha una figlia, e non sappiamo davvero come sia arrivata fino a lì. È il ripetersi di un gesto a distanza - toccare i capelli dorati - a rinnovare il pathos di un abbandono e la reincarnazione possibile degli affetti.
Cercare la durata nello spazio del racconto ha a che vedere infatti con la manipolazione profonda della memoria, un’arte implicita al nostro stesso modo di ricordare la vita.

Quando Kafka nacque per la seconda volta, di Paolo Zardi

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di Paolo Zardi

Franz Kafka nacque due volte: la prima il 3 luglio del 1883, quando fu partorito da Julie Löwy in una casa nei pressi della Piazza della Città Vecchia, a Praga – a quei tempi la Boemia era ancora una delle tante province dell’Impero Austroungarico; la seconda volta, fu la notte tra il 22 e il 23 settembre del 1912, ancora a Praga, quando, come riferì a una sorella, e poi riportò nei Diari, scrisse il racconto Das Urteil (letteralmente Il verdetto, ma più noto in Italia con il titolo La condanna).

Kafka scriveva già da qualche anno: nel 1904, all’età di ventun anni, mentre era ancora uno studente universitario, aveva fatto leggere Descrizione di una battaglia all’amico Brod, che lo aveva consigliato di continuare a scrivere. Nel 1907 fu assunto dalle Assicurazioni Generali e in un ufficio che si affacciava sulla vasta Piazza Venceslao, imparò l’italiano, con la speranza di essere destinato alla sede di Trieste; ma dopo meno di un anno, si licenziò, provato dal duro orario di lavoro, e dalla mancanza di prospettive (sognava, inutilmente, di essere mandato in qualche sede all’estero). Due settimane dopo, sfruttando la raccomandazione del padre del suo ex compagno di classe Ewald Felix Pribam, presidente della Compagnia delle Assicurazioni, venne assunto dall’Istituto di assicurazione contro gli infortuni del regno di Boemia, l’efficientissimo equivalente del nostro INAIL. Grazie a un orario piuttosto comodo (lavorava dalle 8 alle 14), Kafka poté dedicare più tempo alla scrittura, senza tuttavia raggiungere risultati in grado di soddisfarlo. Nell’autunno del 1911 scopre la letteratura yiddish, nel quale si immerge per diversi mesi; quando esce da questo viaggio, è finalmente pronto per diventare il Kafka che conosciamo. Una domenica sera – era il 22 settembre, ultimo giorno di un’estate particolarmente mite (poche ore prima, a qualche centinaio di chilometri da là, la Bulgaria e la Grecia avevano firmato un trattato militare segreto che avrebbe avuto conseguenze importanti sugli sviluppi dell’imminente guerra mondiale) – attorno alle dieci, Kafka inizia a scrivere un racconto i cui protagonisti sono un giovane uomo di nome George Bendemann, e suo padre, un vecchio apparentemente malato e forse pazzo. Quando lo termina, alle sei del mattino, mentre Bendemann si getta nelle acque della Moldava per eseguire la condanna a morte emessa dal padre come pena per lo scarso amore dimostrato, si rende conto che niente sarà come prima. Ora sa cosa vuole scrivere, ha capito qual è la sua voce. Nei mesi successivi pubblica La Metamorfosi, inizia – e abbandona – Il disperso, che Brod pubblicò postumo con il titolo Amerika; due anni dopo si dedica a Der Process. Pagina dopo pagina, crea, definisce e perfeziona il suo personale mondo, quella gigantesca eredità che ci consegna a quarant’anni, il 24 giugno del 1924, quando muore consumato dalla tubercolosi. Le sue ultime parole? Al medico che uscendo dalla stanza gli disse “non si preoccupi, poi torno”, rispose “ma io no”.

La nascita di uno scrittore, il momento in cui improvvisamente tutte le tessere di un mosaico vanno al loro posto, appare come un evento misterioso e spesso inaspettato. Philip Roth, che aveva ricevuto una solida preparazione accademica prima alla Bucknell University, in Virginia, e poi alla Chicago University, era convinto di poter aspirare a diventare l’erede di Henry James: i personaggi e l’ambientazione di Quando lei era buona – una donna che tenta di adeguarsi alla morale medioborghese, il padre alcolista, il ridicolo marito, il Midwest che  Roth aveva conosciuto in età adulta – rimandavano a un mondo che non apparteneva al suo autore. Ma dopo aver pubblicato questo romanzo, nel 1965, e aver ricevuto un’accoglienza decisamente inferiore alle sue ambiziose aspettative, Philip Roth cambia tutto, e il percorso che è stato necessario per arrivare a diventare sé stesso ci viene raccontato proprio da lui, in un intervista della fine degli anni Sessanta con il giornalista George Plimpton, pubblicata in The New York Times Book Review, e poi riportata in Reading Myself and Others, raccolta di saggi e interviste all’autore.

[Quando lei era buona] è, in estrema sintesi, una storia sugli abitanti di una piccola città del Middle West che si considerano, molto più che volentieri, persone comuni e oneste; e questo stile convenzionale e da gente onesta che ho scelto come strumento per la mia narrazione – o, piuttosto, la versione leggermente accentuata, e più flessibile, del loro linguaggio – è in grado di attirare i loro cliché abituali, le locuzioni e le banalità. [..] I miei due romanzi precedenti, Lasciarsi andare e Quando lei era buona, erano tetri [..] e, anche se ero affascinato da quei libri, stavo cercando un modo di scoprire un altro lato del mio talento. In particolare, dopo diversi anni spesi a scrivere Quando lei era buona, con la sua prosa sciatta, la sua eroina puritana e perseguitata, il suo inesorabile legame con la banalità, morivo dalla voglia di scrivere qualcosa di divertente e scorrevole. [..]

 

In un altro punto dell’intervista:

 

Direi di essere stato influenzato [..] da un comico chiamato Kafka, e da un pezzo molto divertente che ha scritto e che si chiama La metamorfosi. [..] Avevo letto da qualche parte che lui era solito ridacchiare tra sé e sé mentre lavorava sui suoi libri. È ovvio! Era così divertente, questa preoccupazione morbosa per la condanna e la colpa. Ripugnante, ma divertente. [..]

Alcune delle idee che poi sono finite nel libro [Lamento di Portnoy] mi giravano per la testa sin da quando ho iniziato a scrivere. Mi riferisco in particolare alle idee sullo stile e sulla narrazione. Il libro procede mediante la tecnica dei “blocchi di coscienza” – pezzi di materiale di varia forma e dimensione, uno sopra l’altro, tenuti insieme più per libere associazioni che attraverso una vera e propria cronologia. [..] Ora, la strada che parte da queste idee casuali, e un po’ sciocche, e arriva fino a il Lamento di Portnoy è stata più tortuosa e movimentata di quella che io posso descrivere qui; di sicuro c’è un elemento personale, nel libro, ma finché non ho iniziato a considerare la colpa come un’idea comica, non sono riuscito a sentirmi liberato dal mio libro precedente, e dalle mie vecchie preoccupazioni [1].

 

Dopo Lamento di Portnoy, Philip Roth non è più tornato a parlare di famiglie borghesi del Middle West, non si è più obbligato a scrivere in una prosa sciatta capace di imitare i cliché degli americani bianchi borghesi e probabilmente WASP. Il nuovo scrittore che emerge da questo romanzo dissacrante non ha nulla da spartire con quello che lo ha preceduto. L’eccitazione che si percepisce dietro a questa intervista è elettrizzante: Roth riconosce, con un senso misterioso, che la voce trovata gli appartiene, ed è in grado di rappresentarlo; gli permette, finalmente, di portare alla luce il suo mondo interiore.

**

Da bambino, in certe serate invernali, mentre i miei genitori guardavano un film in salotto, io e i miei fratelli ci divertivamo a girare la manopola di una vecchia radio che mio padre teneva in camera sua: dopo esserci spostati sulle frequenze AM, cercavamo di sintonizzarci su un qualche canale, e l’operazione richiedeva pazienza e precisione. Incappavamo in notiziari di paesi sconosciuti dove, tra fruscii e fischi, una voce impostata leggeva gli imperscrutabili fatti del giorno; poi, partiva un concerto di musica viennese, simile a quello che ascoltavamo ogni Capodanno, mentre mangiavamo i tortellini in brodo con i nonni, e poi, ancora, la stanza veniva invasa da un coro di voci bianche, o dal canto ipnotico di un arabo che stava pregando il suo Dio. Era un piccolo miracolo: dal nulla rumoroso e confuso che riempiva l’etere, da quell’entropia ribollente e incomprensibile, emergevano melodie limpide e pure; ma serviva tanta pazienza.
E il lavoro di uno scrittore che cerca la propria voce assomiglia a quel gioco che facevo da bambino con i miei fratelli. Non è importante che poi il risultato sia riconosciuto da un qualche lettore: Kafka, ad esempio, è il primo ad accorgersi che il 23 settembre del 1912 è successo qualcosa di decisivo. Succede la stessa cosa a Saul Bellow: dopo alcuni romanzi non memorabili, all’inizio degli anni Cinquanta sviluppa uno stile diverso, più elettrico e moderno, capace di descrivere il fermento primitivo e inarrestabile dell’America della prima metà del Ventesimo secolo. Con questa nuova voce, riesce a raccontare la storia di Augie March, giovane ragazzo di Chicago, dalla sua infanzia nei primi anni Venti fino al suo ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale:

Sono americano, nato a Chicago – Chicago, quella tetra città – affronto le cose come ho imparato a fare, senza peli sulla lingua, e racconterò la storia a modo mio: primo a bussare, primo a entrare; a volte un colpo innocente, a volte non tanto. [..]

I miei genitori non ebbero molta importanza per me, anche se volevo bene a mia madre. Era una donna semplice, e ciò che appresi da lei non fu quel che insegnava, ma qualcosa di simile alle esercitazioni pratiche che si fanno a scuola. Non aveva molto da insegnare, povera donna. I miei fratelli ed io le volevamo bene. Parlo a nome di tutti e due: per il maggiore so di non sbagliarmi; per il più piccolo, George, devo rispondere io - era nato deficiente — ma non occorre che tiri a indovinare, perché aveva una sua canzoncina che cantava quando correva, strascicando i piedi nel suo rigido trotto da idiota, su e giù lungo la rete metallica del cortile:

Geòrgie Maaci, Augie, Simey

Winnie Maaci, volion tutti bene a mamma[1]

Ma non serve essere Kafka, Bellow o Roth, per sperimentare la gioia di trovare la propria voce, e quindi la propria identità di autore: per ogni persona che decide di scrivere con una certa continuità, può arrivare il momento in cui si prova la certezza che è nato qualcosa di nuovo. Per me è successo nell’autunno del 2013. Avevo dedicato tutto il 2012 alla scrittura di un romanzo realista, contemporaneo, nel quale si intrecciavano le storie di tre esseri umani, sullo sfondo della storia italiana degli ultimi cinquant’anni; con cura meticolosa avevo costruito le biografie di tutti e tre, avevo individuato i miti archetipici che stavano alla base delle loro scelte personali, avevo studiato paesaggi, città e luoghi. I personaggi assomigliavano a persone che conoscevo – colleghi, amici e nemici che avevo incontrato nella mia vita. Mi ero sforzato in tutti i modi di rappresentare ogni singolo punto di vista, e di renderlo credibile o quantomeno plausibile. Ero convinto di dovermi misurare con la realtà e con i suoi vincoli più stringenti. Da quel lavoro, però, ne uscii prostrato, e per niente soddisfatto.
Nel gennaio del 2013, avevo comunque iniziato a scrivere un nuovo libro basandomi sullo stesso paradigma, l’unico che conoscevo; a maggio dello stesso anno, dopo aver scritto un centinaio di pagine, mi sono fermato e ho buttato via tutto. Sentivo che ogni pagina suonava artefatta: nel mio piccolo, ero come Philip Roth alle prese con il fantasma di Henry James. Mollai tutto e smisi di scrivere. Servirono cinque mesi per costruire un modo completamente diverso per raccontare una storia: quando iniziai “Il signor Bovary”, mi fu improvvisamente chiaro che quella era la mia voce. Per sei o sette anni avevo girato la manopola delle frequenze senza trovare la stazione giusta, ma poi, improvvisamente, tutte le cose erano andate al loro posto; e la sensazione che provavo mentre scrivevo nella mia nuova lingua era che non sarebbe più stato necessario alcuno sforzo. Il personaggio principale di questo mio romanzo breve è un uomo normale, ridicolo e intimamente abominevole; il suo antagonista, il marito dell’amante che gli era morta tra le braccia, persegue i propri obiettivi con una ferocia implacabile. La periferia nella quale si svolgono i fatti non esiste, non corrisponde ad alcun luogo che ho conosciuto; i personaggi e la città in cui si muovono i protagonisti non hanno un nome perché la voce narrante se li è dimenticati. Ogni cosa è grottesca e malinconica allo stesso tempo, e tutto è immerso in un freddo medioevale.
La distanza tra questo romanzo breve e il precedente, che sarebbe uscito poi nel 2017, trasformato da una profonda revisione, è, dal mio punto di vista, abissale, non tanto per l’esito finale, che non so giudicare, quanto per la sensazione di consonanza tra me e la pagina. Il vero obiettivo di chi si pone di fronte alla pagina bianca dovrebbe essere quello di cercare, con pazienza e onestà, la propria identità di autore. È un percorso difficile e talvolta frustrante; ma sono convinto che quando il sole ha iniziato a schiarire il cielo sopra Praga, il 23 settembre del 1912, là sotto, da qualche parte, c’era un uomo finalmente felice.


[1] Traduzione di Vincenzo Mantovani, edizione Einaudi 1960.

[1] La traduzione del brano di Philip Roth è mia. L’intera intervista può essere letta qui: https://grafemi.wordpress.com/2011/09/22/unintervista-inedita-a-philip-roth/

Come era, così non è

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di Carola Susani

Un paio di anni fa Francesco Romeo dell'editore Corrimano mi ha
chiesto di riscrivere un racconto (il racconto è pubblicato, insieme a racconti
di Tuena, Erredia e altri in un'antologia che si chiama
Nulla da ridire), Ci ho
pensato un po' e poi ho scelto un racconto di Čechov. Non è
sorprendente, tutte le volte che mi viene in mente di scrivere un racconto prendo
in mano la raccolta di Čechov.

 

È uno degli autori che non mi stanco mai di leggere, per il suo modo di descrivere che risulta ancora oggi - dopo sguardi sommati a sguardi - inaspettato,
sorprende la sua abilità di capovolgere le aspettative di chi legge, non per quel che riguarda i contenuti o l'orizzonte morale del racconto, ma più in profondità, per quel che riguarda il sistema delle figure (in pochi autori come in Čechov capita, ad esempio, di trovare la relazione luce/buio capovolta eppure intuitiva, la luce a intendere il gelo, il frivolo, l'intelletto senza radicamento, il buio a intendere la profondità, la radicalità, la coscienza della morte e del dolore, come in Nemici). Ma lo leggo anche perché le strutture narrative nei suoi racconti si vedono bene. Mi pare di entrare nella sua opera come in un catalogo di strutture architettoniche molto ampio. Racconti dalla forma reiterativa comica come Dušečka, racconti di viaggio e formazione come La steppa, racconti circolari e così via. Così mi metto lì e studio, e a volte semplicemente scelgo una delle sue strutture e da quella parto. Sono convinta che la strada per imparare a scrivere passi per la relazione con gli autori, con quelli letti da molto tempo e ancora vitali, quelli che chiamiamo i classici, le cui soluzioni narrative arrivano ancora e con freschezza; e sono convinta che uno scrittore, una scrittrice, sono tenuti a non smettere mai di imparare a scrivere. In questo caso poi dovevo riscrivere un racconto. Amo le riscritture, mi è capitato di fare corsi di riscrittura: appoggiarsi su strutture note, lavorare per variazioni a partire dal dato, scegliere cosa tenere e cosa lasciare indietro, individuare cosa variare aggiungere spostare trovo sia ipnotico e stimolante insieme. Riscrivere Čechov per me, poi, propende
verso il principio di piacere in modo così deciso che il rischio è che non venga fuori niente di buono, che tutto lo sforzo si risolva in godimento quasi
amniotico.

Fra tutti i racconti di Čechov che potevo, ho scelto Il monaco nero. Me l'aveva fatto conoscere, con insistenza, giurando che parlava la mia lingua, che parlava di me, Tommasio Giartosio, venticinque anni fa. Ci avevo messo anni e molte riletture ma poi gli avevo dato ragione, mi ero innamorata del racconto. Il monaco nero parla di un giovane in procinto di essere riconosciuto dalla società, che torna in una casa con un magnifico giardino dove ha passato anni importanti della sua infanzia, qui incontra una ragazza che aveva lasciato ancora bambina e suo padre. Durante una notte in cui tutta la famiglia s'impegna a proteggere le gemme del frutteto dal gelo con i fumi dei fuochi, il giovane racconta alla ragazza una leggenda che parla delle apparizioni non di un monaco, ma del suo riflesso attraverso l'intero globo e lungo ogni epoca. Sarà l'esaltazione, sarà la sua debolezza di nervi, ma quel che viene raccontato è che il giovane il monaco nero lo incontra davvero. Da quel momento la sua vita ha un'accelerazione, sposa la ragazza, va a vivere in città, studia e lavora in modo forsennato e il monaco diventa la sua compagnia più intima; infine per eccesso di energia, vitale e autodistruttiva insieme, la sua vita va a rotoli.

Una cosa che amo dei racconti, è che non pretendono di sussumere dentro di sé tutto il reale, è come se fossero una coperta corta, cortissima, che permette al mondo
di vivere là fuori e anche di mettere in prospettiva quel che viene raccontato.

Il racconto lavora su una porzione piccola, dice poco, a volte nulla. Il monaco nero dice pochissimo dell'amore fra il giovane e la ragazza, ma quello che
dice ci basta, dice quasi nulla sull'attività del protagonista, poco di quello che succede alla sua vita oltre quel che ci viene raccontato, quello di cui ci parla è il rapporto fra il giovane e la figura fantastica, il monaco; eppure è più che sufficiente, dice tutto quel che ci serve sapere di un'intera vita. Benché nel racconto ci vengano forniti molti elementi per riconoscere il monaco nero come un'allucinazione - la fatica nervosa che il protagonista ha accumulato, l'eccesso di emozione, la suggestione della notte piena di fumo e addirittura l'evidenza: del  monaco abbiamo assistito alla gestazione - tuttavia la forma del racconto, la terza persona scelta da Čechov, che si fa prossima, vicinissima al protagonista, ci portano a fidarci dell'apparizione del monaco: la riconosciamo falsa con l'intelletto ma, alla prova dei sensi, non possiamo che accettarla come avvenuta nella realtà. Čechov non ci fornisce indicatori che siamo nel sogno o nell'immaginazione, anzi, ce li nega deliberatamente. Produce un incantamento, in cui è alla nostra percezione indecidibile se il monaco nero  sia una allucinazione o una figura mistica.  
Mentre provavo a riscrivere il racconto, cambiando il genere del protagonista, mentre la voce da terza diventava una prima persona, mentre variavo la tonalità salvando il giardino e il fumo, mutando il monaco in una figura pop, un'opera d'arte, un omino di foglie, mi accorgevo che avevo scelto quel racconto anche perché aveva una struttura squisitamente semplice. Come in qualunque racconto, all'osso, c'era una struttura base, lo schema a tre tappe: prima dell'evento, l'evento, dopo l'evento. Qui ritrovavo lo schema, schietto, senza variazioni, il prima che avviene prima, il dopo che avviene poi, nessun movimento circolare, siamo al grado zero del montaggio. Prima del monaco, l'incontro con il monaco, dopo l'incontro con il monaco. Čechov per raccontare una storia di grande complessità percettiva aveva usato la base di ogni struttura narrativa, senza variarla. Per me è stato semplicissimo riscrivere la storia, svuotare la tappa prima dell'arrivo del monaco, lasciare quasi della stessa dimensione il momento dell'incontro, far crescere di poco proporzionalmente l'ultima tappa. È facile costruire cose più diverse, quando ci si scontra con la struttura, con lo scheletro così essenziale. Per quanto sia elevata la complessità di un racconto, e Il monaco nero lo è, lo stesso alla base ha quei tre momenti, in questo caso accolti nella loro forma piana, che permettono di compiere il più grande azzardo che è alla base della narrazione, raccontare il cambiamento: come era così non è. Ogni narrazione lo fa, è la sua intima scommessa raccontare il cambiamento in una partitura che resta immobile, che una volta fatta esistere non può essere modificata, ma solo riprodotta con varianti infinite. Una delle ragioni per cui mi è così cara la forma racconto è che rende questo sforzo evidente.

COME PUÒ NASCERE UN RACCONTO

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di Evelina Santangelo

Credo che tra le possibilità di indagare la natura del «racconto» ce ne siano un paio forse più efficaci di altre: o immergersi da lettori accurati nelle profondità di racconti molto diversi tra loro o provare a restituire, da scrittori, il processo attraverso cui è nato un certo racconto. Per far questo, bisogna avere ancora vivido il ricordo di come quella storia sia stata concepita e abbia preso forma durante la stesura, almeno in alcuni passaggi salienti.

Perché, una volta congedato un racconto, buona parte di quei momenti in cui si compiono scelte che permettono alla storia di prender forma a partire da grovigli di suggestioni, pensieri, stati emotivi, ipotesi narrative, finisce per dissolversi in una foschia che non ha nulla della lucidità più o meno straniata che fa sentire «giusti» certi giri di frase, la scelta di un punto di vista, certe sterzate narrative, o anche un solo aggettivo.

Inizierei dunque questo mio personale scavo sul modo in cui è nato e ha preso forma un racconto scritto circa vent’anni fa, concedendomi la libertà di storpiare uno tra gli incipit più belli e famosi della letteratura: «tutti i racconti riusciti sono felici, ma ogni racconto con cui ci si misura è sofferto a suo modo». E il racconto di cui voglio parlarvi, La «carriola», come la costruì mamma Mattia, è uno di questi racconti d’esordio sofferti, destinato poi ad aprire la mia prima raccolta di racconti uscita per Einaudi nel 2000.

Non importa che l’abbiate letto. Quel che vorrei riuscire a fare è disseppellire alcune riflessioni o circostanze che ne hanno determinato la nascita per restituire un modo di affrontare un certo aspetto proprio dei racconti, che Flannery O’Connor in Mistery e Manners individua con queste semplici parole: «I racconti sono lunghi in profondità», che è poi il corrispettivo della «teoria dell’iceberg» di Hemingway: cioè l’idea che un racconto è la parte affiorante di una storia il cui senso affonda nelle vaste profondità su cui poggia quel che emerge in superficie.

Dunque, cominciamo dal germe, o come dice Cortázar dal «seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco». Per me il «seme» di quel mio alberello è stata una scena del tutto casuale vista in una piccola cittadina siciliana.

Non si trattava di un posto caratteristico, ma di una circonvallazione, cioè un luogo abbastanza anonimo. Così, il fatto che mi trovassi in Sicilia non ha avuto particolare rilevanza nel modo in cui si è fissata quell’immagine nella mia mente. La scena era questa: una donna di età indefinibile e malmessa tirava con una corda una sorta di piattaforma rudimentale con delle rotelle. Quel che mi ha colpito in modo particolare è stato lo sforzo e la determinazione con cui la donna compiva quel gesto al punto che potrei individuare proprio in quello sforzo e in quella determinazione il nucleo nascosto che ha fatto poi fermentare l’immaginazione intorno a una domanda: «Perché?»
La risposta che ho iniziato a immaginare aveva a che fare con qualcosa di simile a una storia d’amore di una madre per un figlio.
Ma se dovessi condensare in poche parole la trama nel suo aspetto più superficiale, potrei riassumerla così: il racconto di una madre che costruisce una carriola per il figlio che non può camminare. In fin dei conti una storia modesta e anche abbastanza banale, se non ci fossero stati quei due aspetti, «sforzo e determinazione», a ossessionarmi, insieme all’idea che c’era comunque dell’«inspiegabile» nella fatica irriducibile che accompagnava il gesto di quella donna. È stata quella dimensione dell’«inspiegabile» e dell’«inimmaginabile» che si andava sempre più profilando come elemento chiave del racconto a suggerirmi il punto di vista e la voce che avrebbe narrato la storia, facendola diventare (almeno per me) una storia degna di essere narrata.

A interrogarsi sui gesti apparentemente insensati (un grumo di ostinazione, frustrazione, rabbia, tenacia) di quella donna sarebbe stato il figlio Savino. Ma il figlio, nella mia mente, era soprattutto una voce che doveva parlare da un punto preciso di quella stanza in cui consisteva l’intera casa: un angolo vicino alle persiane attraverso cui si potessero vedere «strisce di fuori». E quella voce doveva avere una sorta di rigidità attraverso cui si potesse percepire la condizione di immobilità di quell’io narrante, mai esplicitata, ma allusa soltanto attraverso desideri (il piacere di leggere le avventure dei fumetti che gli porta la madre), alcune battute, anche dure, sarcastiche, autoironiche (il riconoscere quanto siano in gamba quasi tutti o le recriminazioni contro la madre che lascia le cose a metà, genera aborti) oppure attraverso certi dettagli che facessero man mano comprendere la sua condizione. E questo perché il cuore della storia non era la disabilità di Savino, ma il rapporto di questo figlio con quella madre dai modi bruschi e dai comportamenti indecifrabili sino alla rivelazione finale.

Per trovare questa voce, credo di essermi ispirata molto a Zombie, il romanzo di Joyce Carol Oates in cui un io-narrante-serial-killer parla di sé in modo dissociato con esiti imprevedibili per il lettore costretto a calarsi in quell’interiorità scomodissima per tutto il tempo della lettura. Il mio lettore avrebbe dunque condiviso la condizione di Savino (il figlio) e tutto il malessere, i dubbi, il senso di abbandono di quel ragazzino che vede una madre «ruvida», di pochissime parole, entrare e uscire inspiegabilmente da casa, e intanto costruire senza sosta, a costo di segarsi una mano, una piattaforma sbilenca rubando legni, chiodi, martelli, tutto quel che le serve, da un cantiere. «Una ladra», come urla la gente che a più riprese bussa furibonda alla porta, dicendo al ragazzo di aprire.

È chiaro che il nome di quella madre era una scelta importante. Doveva avere la capacità di individuare con precisione questa donna dai modi bruschi, apparentemente anaffettiva, capace di tirar fuori dal suo corpo minuto una forza da uomo. Per questo ho pensato a un nome come Mattia, ma addolcito nella forma «mamma Mattia», perché in quella madre doveva condensarsi tutto il mondo affettivo del ragazzino (un misto di orgoglio e frustrazione) e, in fin dei conti, il modo in cui possono convivere gli opposti in un gesto d’amore incondizionato e imprevedibile come quello: rudezza, mascolinità, maternità, dedizione.

Sapevo anche che, per dare concretezza e verità alla storia, dovevo conoscere con esattezza come sarebbe stata quella «carriola». Lo sforzo di mamma Mattia avrebbe avuto senso solo se avesse costruito qualcosa di veramente costruibile, mi dicevo. Per questo, ho chiesto a un mio amico capace di costruire oggetti in legno come poteva essere una carriola di quel genere, le misure esatte di ogni sua parte, il disegno del prototipo. Che quell’oggetto potesse esistere davvero era la condizione necessaria perché nella sua costruzione si manifestasse la qualità specifica d’amore di mamma Mattia con la sua furia costruttrice e demolitrice.

Infine non sapere sino alle ultime righe perché mamma Mattia stesse costruendo quell’oggetto che, a un certo punto, sembra una tartaruga spiaggiata o la Zattera della Medusa dipinta da Gèricault; l’esser costretti a condividere per tutto il tempo della lettura quel senso di sospensione del figlio che non capisce, urla, recrimina contro la madre, si pente delle proprie parole, prova vergogna di essere figlio di una ladra, e anche di se stesso, della propria menomazione… Mi sembrava che contribuisse a creare la tensione giusta e a portare la storia lì dove doveva arrivare: all’esplosione di vita liberatoria del finale nell’istante in cui mamma Mattia solleva il figlio Savino tra le sue proteste, lo mette sulla carriola e spalanca le persiane per portarlo fuori, rimettendolo al mondo.

Ecco, più o meno in questo modo, la fatica di costruire una carriola molto simile a quella che avevo visto per strada si è trasformata nel giro di qualche mese in una sorta di inno alla maternità o, più in generale, al travaglio di mettere letteralmente al mondo una vita, attraverso i gesti di una madre indecifrabile che, per nove giorni e dieci notti, lavora forsennatamente alla sua opera senza che il suo sforzo tradisca nulla della più condivisa idea di maternità.

Per restituire questa indecifrabilità, questi oscuri movimenti interiori che animano entrambi i personaggi, ho dovuto lavorare su quella «lunghezza in profondità» di cui parla la O'Connor, appunto, lasciando a galla solo l’essenziale.