Questa è l’acqua, di Matteo Bussola

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di Matteo Bussola

Romanzo e racconto, allo stesso modo, richiedono due posture polmonari specifiche, due maniere differenti di prendere fiato e perfino di visualizzare il traguardo.

A me succede questo: quando scrivo un racconto, so spesso dove andrò a parare. Se comincio, riesco quasi sempre a scorgere l’approdo. Poi magari potranno volerci giorni, settimane, mesi perfino, tempi fatti di ripensamenti e dubbi e desiderio di tornare indietro. Ma intravedo comunque la destinazione.

Dopo anni di scrittura quotidiana, sono giunto alla conclusione che la scrittura non è un talento, ma un’attività. Somiglia molto al respirare. Tutti respirano. Ma esistono persone che respirano meglio di altre? Credo di poter dire che ci sono persone che respirano in maniera più efficiente, o più consapevole. Del resto – e questo lo so per certo – è così anche nel disegno e nel fumetto, e probabilmente con un mucchio di altre cose che non conosco: l’efficienza arriva con la pratica.
La scrittura non ha a che fare solo con la pratica del respiro, ma anche con quella dello sguardo. In definitiva, si scrive o si disegna prima di scrivere o disegnare. Scrivere o disegnare, per me, sono principalmente un modo di guardare il mondo e immagazzinare le informazioni. Una maniera ordinata, strutturata, in parte forse inconscia e di certo diversa per ciascuno, che consente di attingere a tali informazioni al momento giusto, traducendole in suggestioni o spunti. Questo spiega in parte perché, all’interno di un gruppo di individui che vivano più o meno le stesse esperienze, ve ne siano alcuni in grado di renderle efficaci durante un racconto, mentre altri no. Non è una cosa che c’entra con l’atto dello scrivere in senso stretto, ma con l’organizzazione mentale con cui le immagini vengono estratte dalla scatolina dorata per tornare a essere vive proprio qui, proprio adesso, ovvero con la capacità di incanalarle dalla testa giù attraverso la pancia e i nervi e le mani per arrivare infine sul foglio, e vederle trasformarsi in parole o segni.
Poi, certo: la predisposizione, l’attitudine, l’innatismo. Ma sono, queste, cose che incidono quanto la lunghezza di una miccia sull’ottenere una detonazione. La predisposizione è una miccia corta che magari ti fa giungere prima al risultato, ma quel che conta resta come assemblerai l’esplosivo.
A proposito della pratica, mi sono recentemente imbattuto nella massima di John Steinbeck che dice: scrivi una pagina al giorno, tutti i giorni. E quando finirai resterai sorpreso. Quella sorpresa, spesso, almeno per me, riguarda la scoperta che poche pagine – a volte addirittura una sola – possono essere sufficienti per esaurire l’immagine che hai in testa. Altre volte, invece, di pagine ne occorrono molte di più. Tocca a chi scrive scegliere quante? Per quella che è la mia esperienza: no. Perché quando una storia arriva a trovarti, nella grande maggioranza dei casi, contiene già la sua estensione. L’estensione ti costringe alla scelta di un’andatura, di un passo. Il passo detta sempre il tuo respiro.
Correre una maratona, per esempio, impone una respirazione differente rispetto a quella che serve per correre i cento metri. Nuotare a stile libero, una diversa rispetto a una sessione di yoga.
Romanzo e racconto, allo stesso modo, richiedono due posture polmonari specifiche, due maniere differenti di prendere fiato e perfino di visualizzare il traguardo.
A me succede questo: quando scrivo un racconto, so spesso dove andrò a parare. Se comincio, riesco quasi sempre a scorgere l’approdo. Poi magari potranno volerci giorni, settimane, mesi perfino, tempi fatti di ripensamenti e dubbi e desiderio di tornare indietro. Ma intravedo comunque la destinazione.

Scrivere un racconto è una nuotata nel fiume. Ti immergi nell’acqua e l’altra riva è là. L’obiettivo saldo e visibile. Naturalmente, potrai raggiungerlo in molti modi diversi. Potrai decidere di andare diritto, tagliando l’acqua a metà, potrai valutare di fartela in parte in immersione oppure tutta in superficie, sbracciandoti a dorso o a farfalla o prendendo a pugni le onde, potrai valutare di opporti alla corrente con forza, perpendicolarmente, optando per un approccio muscolare. Oppure avanzare obliquo e storto e lasciartene, in parte, trasportare.

La salvezza, in ogni caso, è laggiù. La vedi, la senti, anche durante i momenti di disattenzione dovuti a eccessiva fiducia, in cui ti sembra che i flutti stiano per inghiottirti senza speranza.
Con il romanzo è diverso. Il romanzo somiglia a una nuotata in mare aperto. Quando parti, sei già perduto. Non sai se approderai, né dove, né dopo quanto. Troppe variabili: dal vento al freddo, dalla siccità alle tempeste, dalla sete agli squali. Ma l’incognita più angosciosa è non avere idea di quale mare si stia attraversando: se uno stretto, un braccio, oppure un oceano che ti costringerà presto a rivedere i tuoi piani.
Una delle due cose non è più complessa dell’altra.
Attraversare un fiume potrebbe sembrare più semplice, ma nuotare per vincere la corrente è uno sforzo insidioso, e pochi elementi sanno essere traditori e imprevedibili come le acque di un fiume.
Attraversare il mare potrebbe sembrare più difficile, ma negli attimi di stanchezza o disperazione puoi fermarti a farti sostenere dall’acqua salata, puoi sperare di incrociare un’imbarcazione, puoi perfino decidere di tornare indietro sapendo che tornare non sarà, comunque, mai più pericoloso che scegliere di proseguire.
In entrambi i casi, ciò che conta è che, qualunque andatura o bracciata o respiro si scelga, tu sia disposto a bagnarti.
Perché alla fine, come avrebbe detto Foster Wallace: questa è l’acqua. Ed è la stessa per tutti.
Dall’asciutto della riva si scrivono solo cartoline.