Il respiro dei racconti, di Gaia Manzini

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di Gaia Manzini

Per scrivere c’è bisogno di aria; e i racconti sono pieni di respiro. C’è il brillio scoppiettante di un dettaglio e intorno c’è il buio della notte. Ci sono le immagini, ma anche i non detti, le ellissi, gli ariosi spazi tra una riga e l’altra.

C’è quello stacco tra il primo e il secondo paragrafo di Un giorno ideale per i pesci banana in cui Salinger non dice che lo strano giovane in spiaggia è Seymour, l’uomo con problemi psicologici oggetto della telefonata della prima scena tra Muriel – sua moglie – e la madre preoccupata della vacanza dei giovani sposi; eppure noi lo sappiamo, lo scrittore non ha bisogno di dire niente, basta l’inspirazione dello spazio sulla pagina. Nel racconto di Amy Hempel, Arcobaleno bianco, l’autrice non ha bisogno di dirci che bevendo dell’acqua a letto la protagonista l’ha rovesciata sul materasso: basta l’ariosità di un a capo, la donna che si scambia di posto con il proprio cane, a cui non interessa delle lenzuola bagnate, per capire cos’è successo e perché ci arrivi, in un attimo, la solitudine di quella donna.
Scrivere – e leggere – un racconto è una pratica cadenzata e attenta, in cui i particolari stanno sospesi in modo seducente e rimangono lì, continuano ad accendersi nel ricordo come inesausti fuochi di artificio; non ti lasciano più. È la paradossalità dei racconti: dettagli che levitano, che pulsano come enigmi e accumulano significato, ma che – proprio per questo – si conficcano come frecce velocissime e continuano a parlarti, a farti sentire il senso della vita.

C’è sempre bisogno dei racconti: di scriverli, per tornare a muoverci nel territorio dell’essenziale, e di leggerli per cullarci nell’immensità della piccola misura. Perché un racconto dice molto di più di quanto rimane circoscritto nel perimetro delle poche pagine a sua disposizione.
L’aria che lo circonda è colma del senso che si muove tra le sue righe.


Le suggestioni dei racconti letti negli anni rimangono indelebili nella mia mente di lettrice; le cose a margine, i particolari, ciò che è minuto ma cesellato alla perfezione ha continuato a sussurrarmi nel tempo. Ci sono i calzettoni rossi di Thomas Bernard (il racconto è Incontro, in Goethe muore) che rammentano al protagonista le gite montane con i genitori, la disciplina, la rigidità, la totale assenza di empatia; calzettoni rossi ruvidi e pungenti, piccola tortura di lana, destinati a essere bruciati per segnare una distanza definitiva, e pulsante, con la propria famiglia di origine. C’è il geranio di Flannery O’Connor, piccolo vaso esposto a una finestra e osservato ogni giorno dall’anziano Dudley come una fiammeggiante promessa – vita di cui prendersi cura, delicata, bellissima, sempre in bilico. C’è la seduzione perpetua dei correlativi oggettivi, come il cappotto di Gogol’: oggetto del desiderio di un grigio funzionario, che si ritrova a uscire da sé stesso, a proiettarsi nel futuro, a dare più ritmo e più senso alle proprie giornate perché mosso dalla necessità di un cappotto nuovo per affrontare l’inverno russo. Risparmiare, ma anche tendere la propria vita verso il mondo grazie a uno scopo che non lo fa sentire più solo, lo affianca e conforta. Ma il cappotto lungo dal collo fino ai piedi è come il bozzolo di una crisalide che sta per diventare farfalla. Il desiderio ci trasforma e diventa desiderio degli altri, della vita, di una dignità più pienamente umana.
C’è sempre bisogno di racconti, di leggerli insieme, di confrontarsi sul quello che agitano dentro di noi con piccoli dettagli e colpi di luce, con i loro immensi silenzi. Non possiamo dimenticarci della mamma di Lucia Berlin, quella donna infelice e feroce, che si divertiva con la sua bambina a far rotolare i barattoli di conserve sul pavimento inclinato, e rideva, e sembrava una donna giovane e luminosa, non importava fosse completamente ubriaca: a sua figlia era sembrato un momento speciale tra di loro, uno dei pochi. Continuo a pensare alla mosca nel racconto di Virginia Woolf L’invito, indifesa, residuale, da schiacciare al più presto, un po’ come il mondo faceva con le donne che uscivano dalle aspettative della società, che volevano farsi strada con le proprie capacità intellettuali. Né riesco a dimenticarmi di quella giornata di mezza estate che diventa una giornata d’autunno a un passo dall’essere invernale: quel tempo sospeso in cui si muove il nuotatore di Cheever fino a quando non soppesiamo il senso del suo fallimento.
C’è ora una nuova raccolta di racconti, si intitola Sabrina & Corina (Racconti edizioni) è firmata da un’esordiente americana: Kali Fajardo-Anstine. I bambini di una scuola media vengono fatti esercitare alla genitorialità con le cure da rivolgere a un pacco di zucchero, che da quel momento in poi sarà per loro come un neonato bisognoso di attenzioni. E il pacco di zucchero – oggetto così ordinario – si trasforma in una presenza pulsante di senso, pronto a raccontarci di un’intera cultura. A sottolineare per negazione gli abbandoni, il disinteresse per l’infanzia di certe comunità, il percorso accidentato che deve compiere chiunque si voglia prendere cura della vita.
Nei racconti è racchiusa una postura etica. È il contrario del sensazionalismo, dell’evidenza, dell’abitudine all’urlato che fa parte della comunicazione alla quale siamo esposti. Torniamo a respirare, il respiro consapevole che è vita, radicamento dell’esistenza. E acuiamo la vista verso le piccole cose. I dettagli preziosi che hanno sempre qualcosa di importante da raccontare non solo della letteratura, ma anche di noi.

Photo credit Rino Bianchi