L'infinito per errore, di Elisa Ruotolo

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di Elisa Ruotolo

Quando ero piccola a casa avevamo una macchina fotografica. Non ricordo più di che marca fosse e dall’anno scorso - quando l’ho cercata trovando solo il vuoto in fondo al cassetto – so che questo dato è ormai irrecuperabile.

Posso dire che era pesante, nera, grossa (o forse era la mia infanzia a ingigantirla), e soprattutto era una di quelle che lavorano a pellicola. Il rullino andavo a comprarlo io dallo stesso fotografo a cui lo riconsegnavo per lo sviluppo. Lui chiedeva il tempo di qualche giorno, poi ci consegnava tutto in una busta con un taschino anteriore dove lasciava i negativi. Non selezionava, stampava anche le foto sfuocate, anche quelle in cui i soggetti erano così deboli e stinti da sembrare fantasmi. La mano ci tradiva a quei tempi, e non avevamo la pazienza di aspettare il momento giusto. Scattavamo con urgenza, oppure senza considerare lo sfondo inadatto, la luce eccessiva o carente, le ombre da tenere a bada, l’esigenza del flash o la sua ridondanza. Lo capivamo sempre dopo, dove sbagliavamo, quando era tardi e il fotografo ci consegnava le stampe chiedendo una cifra che, unita a quella del rullino, ci faceva sentire affranti. Comunque conservavamo tutto, nascondendo gli scatti peggiori sotto quelli appena riusciti. Quando ancora mi capita di guardarli penso ai danni della fretta e a quelli d’una mano che trema, che esita: che non riesce a salvare l’istante, a metterlo a fuoco e così, irrimediabilmente, lo perde. Se non fossi stata maldestra, ora potrei ricordare com’era esattamente mia nonna in un pomeriggio di luglio dei miei cinque anni; e se avessero avuto maggior cura nel ritrarmi, oggi avrei più informazioni della bambina che sono stata.
La rappresentazione fotografica della mia famiglia – in nome di una curiosa coincidenza – cessa, per un lungo periodo, con l’inizio della scuola. Accadde quando la macchina fotografica prese a guastarsi e a nessuno sembrò il caso di investire in un aggiusto. C’è un buco di vari anni nelle nostre vite, in esso non so cosa ne sia stato di tutti noi, come vestivamo, quanto lunghi fossero i nostri capelli e in carne i nostri volti: oltre il ricordo spesso riversato nel racconto (che è l’unico rimedio all’inesistente) non rintraccio alcuna prova di essere stati tristi o felici. Tuttavia, fu come se l’inchiostro che mi avrebbe sporcato le dita si fosse sostituito alla luce che non avevo saputo controllare fotografando. Di questa transizione mi rendo conto adesso, ma allora non potevo sapere che avrei passato il resto della mia vita a correggere l’errore della mia messa a fuoco.
Tutto ciò che non avrei compreso, che avrei vissuto male o che per qualche ragione sarebbe stato inarrivabile, tutto ciò che non avrei colto o che avrei mancato, quel che non avrei potuto essere, il senso di invisibilità ricevuto sin dalla nascita come un nuovo e più invincibile utero; ecco, proprio questo io avrei provato - se non a guarirlo - a raccontarlo. A dire di quante mancanze è fatta una vita. Ora so che esiste una scrittura foraggiata dall’esistente, da ciò che effettivamente si attraversa e si possiede; ma ce n’è anche un’altra che si nutre di sottrazione e cerca di quietare il margine delle cose quando perde la sua naturale calma.
Io sono sempre stata lì, ma ogni volta, come un nuotatore, ho dovuto calibrare il respiro. Ho cominciato con i racconti perché, in quelle prime immersioni, ero certa di poter sostare sott’acqua per un tempo breve. Il mio fiato era ancora inconsulto, senza educazione. La vanità di creare mondi dal nulla, dalla realtà prudentemente modificata, o dal ricordo, era qualcosa di brutale, da gestire considerando il peso dell’inesperienza (la giovinezza mi sembrava allora una colpa che avrei scontato solo col tempo). Ma i racconti - l’ho capito in seguito – più che semplificare, sono esercizi di perfezione. Congegni delicatissimi a cui va destinata per sempre la cura (quasi la fede) incrollabile degli inizi. In quelle poche pagine tutto è esposto e in offerta. Ciò che non funziona è più visibile e indifeso, sa tradirsi come un capriolo in una radura dove bazzicano i cacciatori.


Usare la misura breve finora ha significato questo: rimediare all’eventuale imprudenza dell’errore con la precisione, la lucidità, l’intelligenza, la spietatezza dell’occhio che punta il mirino di un’arma o – per usare un’immagine meno feroce - di una macchina fotografica. Soprattutto ha significato non indietreggiare davanti a un’impresa quasi mitologica:
far stare il tanto (il tutto) nel poco: adagiarvi la vita intera o una sua porzione non trascurabile.


Del resto la scrittura, qualsiasi forma assuma, vive di tagli, amputazioni. E gran parte del suo valore dipende dall’abilità della lama, dall’intransigenza con cui lascerà andare ciò che non ha legittimità nel racconto, nel verso o nel capitolo di un romanzo. Un bravo scrittore o poeta, insomma (come un bravo fotografo), sa cosa lasciare fuori dall’inquadratura e in quel sacrificio riposa la dimensione della sua grandezza. Nella scelta è senz'altro più accorto di Dio, che tanto spesso ammette l’errore, l’inutile, l’inciampo, lo spreco; e di certo li tollera più di quanto un essere umano, seduto al proprio tavolino a trafficare in parole, sia disposto a concedere.
Oggi so qualcosa che a cinque anni ignoravo: senza la scrittura non avrei saputo indirizzare lo sguardo; e l’errore, quel mio essere fuori fuoco, avrebbe continuato ad abitarmi indisturbato. Tantomeno mi sarei educata a vedere l’invisibile, a farlo restando tale (in fondo si scrive per scomparire, anche se lo abbiamo dimenticato). Nei miei scatti sciagurati, nei tanti (tantissimi) racconti imprecisi che ho scritto per privato esercizio e bisogno, ho sempre visto di più: tutto quello che nella realtà restava inosservato, intangibile, immodificabile.
Lì smettevo di essere cieca e impotente. Perché in quel minimalismo, attraverso l’errore che incrudeliva e si mostrava affinandomi la vista, io miravo all’infinito. A volte lo guadagnavo. Certo, era pur sempre un infinito privato, piccolo, che quasi nessuno vedeva. E che quasi nessuno vede. Eppure è in esso che io esisto, e sono viva.
Ho scritto racconti, romanzi, poesie e ne ho avuto sempre un presentimento d’origine, come un’intenzione che veniva da lontano. So da principio, e con inspiegabile chiarezza, quanto dureranno le parole. O meglio, quanto durerà il respiro. In effetti, nella scrittura, è sempre questione di respiro, come nella vita. Allora ho rallentato il passo di ciò che mi accorava per la sua inguaribile fretta; ho raccolto silenzio dal caos; mi sono finalmente fidata dell’inesistente e della mia fermezza di mano. Ogni volta ho provato (e ancora provo) ad addomesticare una bulimia di vita che, diversamente, sarebbe uscita dai suoi cardini, facendo di me la persona sfuocata dei ritratti, sgajolata come il più manchevole dei racconti che posso aver scritto. Sarà anche una disciplina da monaci, un passatempo per chi la vita non sa come prenderla e tenerla, eppure io credo che sia l’unico fuoco e luce che ho trovato contro la notte dell’essere primitivo che mi abita, e che fatica tanto a venire fuori dalla preistoria di questo tempo.