Serpente, falco. Di Laura Pugno

di Laura Pugno

Questo sarà un editoriale per exempla e immagini.

Cosa chiediamo al racconto, a questo oggetto misterioso che percorre lunghissime orbite, che ritorna a noi dalle lontananze, che non scompare, anche quando ce lo aspetteremmo, che si sposta di quadrante in quadrante d’attenzione come lo sciame delle Perseidi nel cielo d’estate, quando alziamo la testa.

Lettori e lettrici, scrittrici e scrittori, cosa chiediamo, cosa ci viene chiesto.

Il genere ci viene detto in estinzione, eppure raccolte di racconti continuano ad uscire per editori importanti. Apriamo Animal spirit, di Francesca Marciano (Mondadori, 2021), scrittrice e sceneggiatrice affermata, con all’attivo libri di racconti oltre che film e romanzi.

Nel secondo testo della raccolta, “La ragazza”, Ada, una giovane donna letteralmente scappata col circo, incontra Snow, il pitone albino di Burma con cui dovrà esibirsi. ““Ada sussultò nel vedere la testa di Snow spuntare lentamente e il corpo, di un biancore accecante, luminoso, appena marezzato di giallo oro, farsi sempre più grande man mano che l’animale si allungava oltre il bordo della cassa, fino a diventare grosso come una delle sue cosce. (…) allungò la mano timidamente, fino a sfiorare la pelle di Snow. Era liscia, scivolosa al tatto – come seta, pensò – e di nuovo provò la sensazione di una forza incredibile, energia allo stato puro imprigionata in una forma astratta. Il resto del corpo di Snow era ancora arrotolato in una spirale che si annodava lentamente, ogni spira in una direzione diversa, così che dentro la cassa sembrava ci fosse più di un serpente”. (p. 60).

Ecco, davanti all’insight del racconto, la schiusa della vista come un uovo che si crepa e permette di scorgere cosa c’è dentro ed oltre, siamo come Ada davanti alla creatura abbacinante nelle cui spire, nelle pagine successive, si mostrerà davanti al pubblico, in una forma paradossale, svelata ed esposta, di intimità. E forse è questa la parola chiave: la terribile intimità con la realtà che ci offrono le rivelazioni, anche le più piccole, la moneta che ci chiedono di scambiare per andare avanti.

Nel suo recente saggio Come pensano le foreste (Nottetempo 2021), l’antropologo Eduardo Kohn – nel parlarci del tessuto di pensieri viventi che trama di sé tutta la realtà in quanto espressione di quella continua, incessante semiosi, creazione e interpretazione di segni, che è la caratteristica specifica del mondo vivente, molto prima dell’emergere di quel simbolico che è specialmente proprio dell’essere umano  – evoca, potremmo dire, il verbo è quello, la filosofia di Charles Sanders Peirce, i tre aspetti che a giudizio dell’ottocentesco filosofo di Cambridge, Massachusetts, definiscono il reale.

Scrive Kohn, “l’elemento del reale che per noi è più facile da comprendere è ciò che Peirce chiama ‘secondità’”, ciò che “si riferisce all’alterità, al cambiamento, agli eventi, alla resistenza e ai fatti”. Gli elementi secondi del reale sono brutali, producono uno shock “che ci strappa dai nostri abituali modi di immaginare come sono le cose”, ci spingono “a pensare altrimenti da come abbiamo sempre pensato”, come un serpente che si risveglia dal letargo uscendo da una cassa e si stringe intorno al nostro corpo, lasciandoci, come sussurra Marciano insieme ad Ada, con la sensazione delle scaglie sulla nuda pelle.

Come un racconto che improvvisamente fa entrare un taglio di luce, per un istante, e poi di colpo chiude, ma noi intanto abbiamo visto. E non basta.

Ancora Kohn ci dice che il realismo di Peirce “include anche qualcosa che egli ha definito ‘primità’”. Ma cosa sono, questi elementi primi del reale, dopo che i secondi ci hanno strappato al nostro intontito stupore cambiando al Reale stesso la minuscola in maiuscola? Sono l’immaginato, sono l’oltre: “Meri forse, non necessariamente ‘realizzati’ che implicano il particolare genere di realtà della spontaneità, della qualità o del possibile”, in sé e per sé, oltre ogni relazione. Per questo “l’esperienza di un profumo fuggevole, in sé stesso e per sé stesso, senza chiedersi da dove venga, a cosa somigli o a cosa sia legato, si avvicina alla primità”. All’essenza, dell’uno o dei molti, che se esiste, esiste come un profumo.

Ciò che la letteratura ci lascia, da cui potremmo ricominciare, è forse la primità?

Quel che resta nell’aria quando chiudiamo un libro, il nostro stesso odore, rassicurante, ancora lo stesso anche dopo aver scoperto qualcosa di nuovo; o quello di un altro corpo che potremo riconoscere solo se la sua marcatura sarà esattamente quella che ricordiamo, senza smarginature o aloni.

O forse, invece, a balzarci incontro per primo sarà l’odore sconosciuto del selvatico, come nell’ultimo racconto di Animal spirit. In “Potrebbero esserci spargimenti di sangue”, Diana, americana in fuga a Roma dalla fine ancora appena intravista del proprio matrimonio, assolda Ivo, un addestratore di falchi, per scacciare i gabbiani che hanno fatto il nido sul suo terrazzo. Così incontra il falco Queen, sotto il suo cappuccio di cuoio sul braccio del falconiere: “Aveva un sontuoso piumaggio color cioccolata, con qualche riflesso ruggine sulle ali. Il suo corpo compatto e flessuoso si tese, poi con un colpo secco spalancò le ali, come un ventaglio che si apre di scatto”. Quando Ivo toglie il cappuccio a Queen, il falco posa sulla donna “uno sguardo minaccioso, che aveva qualcosa di rettiliano, e lei fu scossa da una sensazione sconosciuta, una specie di rimescolamento del sangue. La creatura che aveva di fronte era molto più straordinaria e potente di quanto avrebbe mai immaginato. “È bellissima”, sussurrò”.

Lanciata Queen in cielo a fare – potenziale – strage, Diana scopre da Ivo che “i gabbiani sanno riconoscere un rapace anche se non l’hanno mai visto prima. Gli basta scorgerne il profilo. È una forma inscritta nel loro DNA”. E apprende anche che i falchi possono essere addestrati ma mai addomesticati: “Purtroppo accade spesso ai falconieri di perdere gli uccelli. Fa parte del rischio di addestrare una creatura selvatica. Ogni caccia potrebbe essere l’ultima. Se vogliono volare via lo fanno, non ci puoi fare niente. È sempre il falco a scegliere se tornare da te o no´”.
Così anche nella scrittura. Così il racconto, così la poesia, verso cui il racconto striscia nell’erba, si lancia dall’alto.