Vita breve, ma non troppo. Di Sergi Pàmies

di Sergi Pàmies
traduzione a cura di Francesco Ferrucci

La brevità è un valore che genera consenso in quasi tutti gli ambiti della società. Un “sarò breve” pronunciato da politici o da esperti all’inizio di un discorso è rassicurante e molto apprezzato. A volte è una promessa disattesa ma, in ogni caso, ci solleva e ci consola. Con questa premessa si intende che la brevità non è incompatibile con la sostanza. In letteratura, invece, la gerarchia di valori è presuntuosamente diversa e considera la brevità come un territorio di prova, di apprendistato e di iniziazione.

Anni fa, in una chiacchierata informale con Enrique Vila-Matas, abbozzammo un possibile teorema sulla brevità letteraria: “Qualsiasi testo è suscettibile di essere ridotto a metà fino alla sua assoluta sparizione”. Ci sono, per fortuna, alternative che ci permettono di gustare una moltitudine di grandi testi che, grazie a Dio, non sono scomparsi, forse perché erano soggetti ai limiti che sottolineava Ramón Gómez de la Serna nel definire gli aforismi: “L’aforisma è un genere che non può ridursi perché la sua brevità non lo permette”.

La base della brevità dovrebbe essere la coerenza, che ha a che vedere con le dimensioni dell’idea. Troppo spesso c’è uno squilibrio colossale tra l’estensione del contenuto e la capacità del contenente. Così come c’è gente bassa, ci sono idee piccine che hanno bisogno di essere spiegate in coerenza con questa geometria. Questo non significa che si debba cadere in una narrazione telegrafica, anzi: il racconto è uno dei generi che assimila meglio l’utilizzo della digressione e dell’elucubrazione ossessiva, creativa o persino paranoica (non stavo pensando per forza a Kafka; o forse sì). Se la poesia ricorre alla digressione come a un processo di distillazione, la narrativa breve la perfeziona perché la incorpora all’inerzia stessa del racconto. Julio Cortázar o Giorgio Manganelli (soprattutto in Centuria), Alfred Polgar o Raymond Carver, A.M. Homes o Mariana Enríquez, Dino Buzzati o Quim Monzó, David Sedaris o Pere Calders, eccellono tutti nell’arte di concentrare elementi senza malversarli, tenendo sempre presente che la narrativa breve è un genere di velocità e non di fondo. Questo, però, non dovrebbe renderla meno apprezzabile. Di fatto, i 100 metri piani sono, di gran lunga, la gara più spettacolare, intensa e seguita del programma olimpico. E trasferendo quest’idea alla scrittura, non dovremmo correre la maratona di un romanzo con gli ingredienti dei 100 metri e viceversa.

La forma breve, proprio per la sua caratteristica principale, può avvicinarsi alla pittura, alla fotografia, alla cronaca giornalistica o alla canzone senza perdere il registro che la definisce: facilitare l’esercizio dello stile e convertirsi, senza il rischio di stuccare, in una piattaforma di sperimentazione flessibile e polivalente. Se abusiamo della stessa metafora atletica, c’è una brevità di mezzofondo, che equivarrebbe alle corse dei 400 o dei 1.500 metri. Alberto Moravia, Alice Munro, John Cheever, Lorrie Moore, Julian Barnes vi si trovano a loro agio perché coltivano delle virtù che spesso, per quanto riguarda il ritmo e la struttura, potrebbero essere romanzesche ma che, attenendosi ai presupposti della narrativa breve, non spaventano e non creano false aspettative.

Negli ultimi anni è diventato popolare, a volte molto frivolamente, il microracconto. Ha un’aureola mediatica basata sulla funzionalità, più vicina alla trovata e al passatempo che all’essenza di una brevità che non sia solo spumeggiante e che, come i messaggi della serie Mission: impossible, non si autodistrugga dopo cinque secondi. L’alibi totemico che giustifica questa moda è l’opera monumentale di Augusto Monterroso, che invece fu capace di unire la massima sostanza e il minimalismo essenziale. C’è un proverbio che, senza esagerare la loro trascendenza, situa le virtù della brevità in un ambito deliziosamente terreno: “Nelle botti piccine sta il vino buono”. Non è una verità assoluta e nemmeno intuitivamente dimostrabile, ma è verosimile. In realtà, il segreto della brevità è che permette di controllare, senza soffrire la vertigine di una maratona romanzesca, l’equilibrio tra verità e verosimiglianza.

La brevità, però, si porta dietro la leggenda di non essere commerciale. Ci sono sempre più eccezioni, per fortuna, però c’è una scena che si ripete in tutte le case editrici
e perpetua l’anacronismo conservatore.

Un autore inedito presenta un manoscritto di racconti a una casa editrice e, che piaccia o meno, l’editore gli chiede di scrivere un romanzo. È una situazione che spesso parte da un malinteso: l’autore disprezza i racconti ma gli sembrano una buona lettera di presentazione, e l’editore li disprezza perché sogna di scoprire un nuovo autore non attraverso testi brevi e vari, bensì attraverso l’impatto categorico di un romanzo. È compatibile applicare la brevità ai contenuti, sempre più abituali, autobiografici ed emozionalmente torrenziali? Non lo so, ma cerco comunque di non dimenticare il consiglio del poeta Chênedollé: “È soprattutto quando sei obbligato a parlare di te che la brevità è necessaria”.