Ormai non so più che cos’è un racconto. Prima, quando appena cominciavo a fantasticare di essere scrittore e leggevo con lo sguardo e il desiderio di essere scrittore, mi era molto chiaro. Il racconto era il genere che più mi piaceva e, in quel periodo, se qualcuno mi chiedeva «cos’è un racconto?», il mio unico dubbio era come rispondere a una domanda così ovvia, così semplice, così evidente. Era come se mi chiedessero «cos’è una mano?». Perché, cos’è una mano? È una di quelle cose che si usano tutto il giorno ma alle quali praticamente non prestiamo attenzione, una cosa che si conosce così bene che non si sente l’esigenza di definirla. Perché, chi fa domande di questo tipo?, chi mai potrebbe avere un dubbio su cos’è una mano?
Il racconto era per me una sorta di successione cronologica di autori: Edgar Allan Poe, Čechov, Katherine Mansfield, James Joyce, Hemingway, Salinger, Carver. E tutto intorno, una costellazione di altre voci che aggiungevano, modulavano, ripetevano o rimescolavano ciò che questi autori avevano ottenuto – e stabilito – nell’ambito del genere.
Quello era il mio orizzonte, quelle le mie aspirazioni: scrivere un racconto come l’avrebbe scritto Carver. Ero davvero ossessionato da Carver, dai suoi narratori neutrali e distanti, da quella specie di depressione moderata da cui erano afflitti i suoi personaggi, dall’azione narrativa stagnante quanto la vita dei protagonisti, dai finali non risolutivi, le epifanie al penultimo paragrafo, la sferzata severa ma mascherata da fredda indifferenza del finale.
Il racconto per me era una forma, una sorta di recipiente che bisognava riempire con qualcosa di nuovo ogni volta che ci si sedeva a scrivere.
Sono uscito piuttosto rapidamente da quel tranello. Quasi senza rendermene conto mi sono ritrovato a dubitare del recipiente. Perché tutti i racconti dovevano avere le stesse forme? Sono entrato in una fase di ribellione, trasformandomi in una specie di adolescente ostinato a sfidare le strutture. Un racconto poteva essere molte cose: dilatare i limiti del genere, fare spazio, esplorarne i confini, come se un racconto fosse un palloncino di gomma che si gonfia; continuare a gonfiarlo e gonfiarlo senza farlo scoppiare per vedere fino a che punto questi limiti reggevano, fino a che punto il racconto continuava a essere un racconto.
Fino a relativamente poco tempo fa, questo era il mio modo di avvicinarmi alla scrittura di un racconto. Non mi chiedevo cos’è un racconto?, mi chiedevo piuttosto fino a che punto potevo spostarne i confini, modellarlo, smontarlo senza che smettesse di essere un racconto.
Pensavo a una frase di Mavis Gallant, quando dice che non vuole che il lettore legga i suoi racconti tutti di fila. Un racconto ha bisogno di silenzio, di spazio bianco intorno per poter crescere, per riverberare nel lettore, per echeggiare nella vita stessa di chi legge. Fantasticavo di scrivere racconti come eleganti ikebana giapponesi: in equilibrio precario, con strutture asimmetriche, con assi obliqui che si estendevano follemente da una parte e, comunque, non rompevano l’armonia dell’insieme. Ikebana da disporre su un piedistallo e osservare con molto bianco neutro intorno.
Ero così entusiasta all’idea di spingermi oltre i confini che ho smesso di farmi domande sulla definizione stessa di racconto. Cercavo di scrivere racconti che fossero il più asimmetrici possibile, pur rimanendo racconti. E, a un certo punto di questo lungo processo durato quattro anni, credo di aver perso la bussola: ho smesso di interessarmi alla domanda e al tempo stesso ho smesso di interessarmi al racconto, con le sue regole così rigide, con le sue logiche, i suoi decaloghi, le sue leggi e il suo numero di pagine massimo e minimo.
Ho riletto Grace Paley. Sono entrato in una fase di idillio con Lydia Davis, come faceva quella donna a scrivere così? La domanda sul racconto non c’era più. Scriveva in modo geniale, ma poteva trattarsi di qualunque cosa: poesie?, saggi?, pensieri? Era importante definirlo? Di tanto in tanto, il mio lato più nevrotico sentiva l’esigenza di porre dei limiti, delle etichette, un certo ordine: fin qui può essere un racconto e più in là, non più. Oltre questa linea tracciata nell’aria quel che stava facendo Lydia Davis era un’altra cosa.
Eppure a quel punto ero sempre più stanco del mio lato nevrotico. Il mondo e la vita si erano incaricati di refutare la mia convinzione che le cose fossero chiare, precise, bianche e nere, definite e dai confini netti. E a poco a poco avevo cominciato a percepire che quei vortici di richiamo all’ordine ed etichette immutabili nei quali a volte cadevo non erano che capricci infantili.
Come se l’illusione di sapere con certezza cos’era o non era un racconto potesse salvarmi da qualcosa. Come se avere regole chiare mi permettesse di scrivere meglio.
Riferivo tutte queste cose alla mia psicologa e lei mi guardava con molto interesse e annuiva facendo «a-ha», e a volte diceva qualcosa di brevissimo, come per spingermi a rendermi conto da solo che tutto quel che stavo dicendo circa il racconto in realtà aveva sì a che fare con il racconto ma aveva molto più a che fare con la mia vita, con mio padre, o con la struttura mentale del “padre” che io costruivo nella mia testa, con il mio modo di affrontare la vita e con la mia paura che tutto andasse male. Esigenza di limiti chiari, lagnanze dovute a regole che non si rispettavano: modi di canalizzare l’ansia e l’angoscia di ritrovarsi nudi in un mondo nel quale non si sa mai molto bene cosa fare, o come, o come non sbagliare, o come fare le cose per bene, se in fondo esiste la possibilità di “fare le cose per bene”.
Quando ho capito che per salvarmi cercavo di aggrapparmi a corde invisibili quanto illusorie, quando ho capito che non c’era davvero modo di salvarsi, semplicemente si fa quel che si può, con più o meno fortuna e al buio e a tentoni, ecco, a quel punto la domanda su cosa era un racconto, sulla forma del racconto, sui limiti del racconto, ha smesso del tutto di interessarmi.
Ho capito che il racconto è una forma ideale per nevrotici che hanno bisogno di riaffermare le proprie convinzioni al fine di scongiurare il panico e l’angoscia.
E ho deciso che avrei provato a essere un’altra cosa: un nevrotico in via di recupero. O, meglio, un nevrotico che tutti i giorni prova a mascherarsi da persona molto meno rigida, più libera e spontanea, una persona “che si lascia trascinare” dagli eventi, e si permette di ballare al ritmo della musica inconsistente che i giorni a poco a poco gli propongono. Fake it till you make it, quella sarebbe stata la mia strategia, ho spiegato alla psicologa, e lei mi ha detto che non conosceva la frase ma che le sembrava molto interessante.
Quindi, ora leggo per esempio «The Circus», una bellissima poesia di Kenneth Koch, e penso che potrebbe tranquillamente essere «un racconto». Oppure leggo «Todo piola», un’altra poesia stupenda di Mariano Blatt e penso che potrebbe essere «un racconto». E lo stesso mi succede quando leggo il monologo teatrale «Nada del amor me produce envidia», di Santiago Loza, o «Últimos días de Sexton y Blake», di Leónidas Lamborghini, o i pezzi d’opinione di Clarice Lispector, e perfino i romanzi di César Aira, perché un romanzo di César Aira non potrebbe essere considerato un racconto?
Di tanto in tanto ho una ricaduta e, di fronte a un libro aperto, con un certo fastidio mi chiedo, ma cos’è questa roba? E subito mi rispondo che non importa, che quella era una domanda che si sarebbe posto il vecchio me, che ora in teoria sono una persona più libera e non devo farmi queste domande e che ora devo semplicemente godermi quello che sto leggendo, senza cercare di definirlo, etichettarlo, senza cercare di inserirlo in uno schema rigido, metterlo in questo cassetto o in quest’altro.
La mia psicologa annuisce quando le racconto queste cose ma non dice nulla. Io comunque vedo nel suo leggero movimento della testa una discreta approvazione e celebrazione del mio atteggiamento, mi sembra orgogliosa di me e della mia crescita. Orgogliosa del mio tentativo, costante e sostenuto, di essere un nevrotico in via di recupero che non cade nei tranelli della sua stessa mente.