La libertà nel racconto lungo, di Helena Janeczek

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di Helena Janeczek

In famiglia hanno sempre preso in giro la mia incapacità di esprimermi in modo sintetico. Provo a ribattere che, non a caso, scrivo romanzi. Romanzi che dalla prima all’ultima stesura necessitano di “sfrondature”, visto che tendo a raccontare ogni dettaglio, a inseguire ogni rivolo che si dirama dal flusso principale. Sebbene di racconti ne abbia scritto anch'io, non mi sentivo dunque la persona più titolata a esprimermi sull’arte del racconto. Ma il compito di riflettere sulle forme narrative brevi mi ha portato una scoperta a cui non ero preparata. Ripensando alle opere che amo di più e da più tempo, mi sono resa conto che molte di esse sono racconti. Kafka, Mansfield, Čechov, Bachmann.

E poi un gran numero di testi che appartengono al genere intermedio tra il romanzo e il racconto che la tradizione anglosassone definisce novella. Cuore di tenebra e La linea d’ombra di Conrad. Michael Kohlhaas di Kleist. Lo straniero, Morte a Venezia, Il giocatore, La morte di Ivan Ilič. Bartelby lo scrivano di Melville e Lenz di Georg Büchner sono semplicemente racconti lunghi.
Credo che esistano due motivi perché la short story sia oggi considerata il modello dominante per le forme narrative brevi. Il primo è una ragione letteraria: risponde alla fama giustamente viva di Raymond Carver e Alice Munro, alla popolarità di Charles Bukowski, alla ricezione cult dei racconti di David Foster Wallace, per fare qualche esempio. L’altro motivo ci porta invece sul terreno del mercato editoriale per cui è legge che si vendono solo i romanzi. O, meglio, qualsiasi testo che possa essere confezionato come se fosse un romanzo: vale a dire quasi tutti, tranne le raccolte di racconti che, proprio per questo, spesso faticano a trovare un editore. La consuetudine di presentare come romanzo (breve) delle opere che sarebbe forse più giusto definire racconto lungo mi sembra aver prodotto qualche danno. Per cominciare, si è generata una comprensibile diffidenza verso dei volumi piuttosto agili, magari stampati a caratteri più grandi, con cui l’editoria a volte cerca di allungare il brodo di testi esili anche nella sostanza, specie quando c’è da sfruttare il nome di un autore di successo. Da questo, però, deriva un danno ancora più sostanzioso: la tendenza a considerare il racconto lungo come un genere minore o addirittura a non percepirlo più come una forma narrativa autonoma. Una forma capace di addensare un mondo entro una costruzione meno complessa e “onnivora” di un romanzo, ma che, proprio per questo, necessita di assoluto rigore, calibro, senso della misura. Non è quindi casuale che molti racconti lunghi siano dei capolavori.

Capolavori che, grazie all’incontro tra una storia molto coesa e la compiutezza formale nel restituirla, si radicano per sempre nella memoria di chi li ha letti. Il racconto lungo permette una grande varietà stilistica e di registro e una maggiore libertà nella gestione del tempo-spazio.

Non a caso discende da un modello antico come il Decameron, a partire dalla cui ricchezza si è diramato e sviluppato in tutte le letterature d’occidente. Non è necessario che sia molto elusivo e tantomeno laconico. Non porta a prediligere l’ipotassi e il dialogo diretto. Ha semplicemente la forza trainante di un fiume: può seguire un corso molto diritto o includere anse e strozzature. Può scorrere limpido, portare con sé dei materiali inerti, rispecchiare la varietà del paesaggio concedendo abbagli illusionistici.

Tre sentieri per il lago, racconto lungo un’ottantina di pagine uscito nel 1972, è l’ultima opera compiuta di Ingeborg Bachmann. In visita dall’anziano padre a Klagenfurt, la protagonista vuole concedersi un bagno nel Wörthersee, come faceva da bambina e da ragazza. Ma nessuno dei tre sentieri per il lago si rivela percorribile. Il luogo d’origine non è più quello di prima, il padre stesso è un mite relitto del mondo di ieri, come Stefan Zweig definì il tramontato impero austro-ungarico. Elisabeth Matrei è una donna saldamente inserita nel mondo di oggi, una fotoreporter che crede nel dovere di denunciare le guerre e le violenze che perdurano persino dopo la “rottura di civiltà” prodotta dal nazi-fascismo. Ma il soggiorno a casa la porta a ripercorrere tutto ciò che nella sua vita è andato storto - e sono in primo luogo le relazioni con gli uomini. Nelle sue reminiscenze si salva solo il grande amore per Franz Joseph Trotta: un nome che rimanda a Joseph Roth e alla sua Cripta dei cappucini, ossia nuovamente alla scomparsa Felix Austria dove i cittadini di diversa etnia e religione riuscivano a convivere. Trotta ha sempre cercato di smontare la fiducia nella “verità” e nell’impegno civile che Elisabeth riversava nel suo lavoro. Eppure la tragica parabola di Trotta, l’esule morto suicida, resta l’incontro che l’ha segnata indelebilmente: «perché soltanto dopo la morte di lui l’aveva lentamente trascinata con sé nella caduta, estraniandola dai miracoli e facendole sentire che l’estraneità era il suo destino.»[1]

Tre sentieri per il lago intrattiene un rapporto stretto con il romanzo Malina, pubblicato nel 1971. Motivi centrali di entrambe le opere sono la violenza della storia recente, lo sradicamento e la solitudine, l’impossibilità di conciliare il sé “maschile” di una donna che sceglie un lavoro da uomo (fotoreporter o scrittrice) con la sua parte “femminile” colma di desiderio d’amore. Malina però è un’opera “esplosa”: violenta e conturbante, stratificata e polisemica come può solo esserlo un romanzo che si allaccia alle esperienze più radicali del Novecento. In Malina la figura - onirica e emblematica - del padre è totalmente negativa: è uno stupratore, un sadico, un nazista. Il padre buono e malinconico di Tre sentieri per il lago ne rappresenta l’altra faccia. La misura del racconto lungo, la sua compostezza “classica”, riesce a veicolare qualcosa che al romanzo è impossibile trasmettere con altrettanta limpidezza. Riesce a contenere il dolore e a farlo riverberare come una nota di fondo soave e ineluttabile.

 

[1] I.B. Tre sentieri per il lago, trad. di Amina Pandolfi, Milano, Adelphi, 1980.