Temporalità e durata nel racconto

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di Alessandra Sarchi

Del racconto mi ha sempre affascinato la brevità: se in poche pagine devi portare una storia a diventare una trama, cioè farla passare dal “dopo questo avvenne quest’altro” al “avvenne questo in ragione di quest’altro”, hai l’obbligo della condensazione e della selezione. Quanto più uno scrittore sa selezionare e condensare i tratti dei personaggi, le scene e i gesti, tanto più è in grado di mantenere alta la tensione, e poiché al lettore sta chiedendo di impegnarsi per un periodo relativamente breve – un racconto si legge in meno di un’ora, in genere – può permettersi un uso della parola che è più simile a quello della poesia: concentrato, iconico, figurale, talvolta persino ermetico.

Al cuore dei racconti che amo di più c’è spesso un’immagine, a volte anche più di una, che fa da motore a tutto il resto e che, grazie alla condensazione narrativa imposta dalla forma breve, non viene diluita e superata come accadrebbe nel fluire lungo del romanzo, ma rimane il centro di irraggiamento semantico, in maniera simile a quanto avviene con la poesia.
Tuttavia il racconto, rispetto al romanzo, deve risolvere il problema della temporalità; fintanto che ci si limita a narrare eventi che si svolgono in archi brevi – un paio di ore, un giorno, un paio di settimane – la scrittura può ricorrere ai soliti dispositivi di compressione del tempo, ma quando si vuole conferire ai personaggi e alle vicende narrate lo spessore e la durata del tempo attraverso gli anni, come il romanzo può fare semplicemente affidandosi allo scalarsi disteso dei fatti, allora il racconto deve fare ricorso ad altre risorse.
Quando iniziai a scrivere la mia prima raccolta di racconti Segni sottili e clandestini (Diabasis editore, 2008) ero alle prese con questo problema; volevo raccontare non più di un fatto nella vita dei personaggi, ma volevo mostrare come questo fatto avesse agito in un tempo più lungo rispetto a quello circoscritto in cui si era consumato. Mi ponevo insomma la questione di come far percepire la durata, che non è ovviamente il semplice accumulo del tempo, ma il suo decantarsi cambiando in maniera prismatica il senso degli accadimenti.
Ci sono scrittori in grado di scrivere racconti e romanzi con uguale qualità e tenuta, Flannery O’Connor è un fulgido esempio, Guy de Maupassant un altro; ce ne sono alcuni invece che hanno scritto solo racconti, per tutta la loro vita, Alice Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, si colloca fra questi.
Anche quello che viene spacciato come il suo unico romanzo Who Do You Think Your Are (ed. or. 1977, trad. it. di A. Rusconi; Edizione e/o 1995; Ed. Einaudi 2012, trad. Susanna Basso) è in verità una raccolta di racconti che ha la medesima protagonista: un’intrepida Rose che, dall’infanzia soffocante con una terribile matrigna alla maturità di donna che ha studiato si è sposata e trasferita in città, rappresenta il prototipo di molte figure femminili uscite dalla penna di Munro, donne che si emancipano da una condizione di minorità che talvolta è economica, talvolta di classe sociale, sempre però è di natura cognitiva: le donne raccontate dalla scrittrice canadese vogliono conoscere, e non solo subire, il loro destino.

Nei racconti di Munro ho trovato la chiave per risolvere il problema della temporalità, poiché raramente ciò che narra è limitato nel tempo, anzi uno dei suoi maggior pregi letterari è proprio quello di fare emergere dalla contingenza e dalla quotidianità schegge di vissuto in grado di illuminare o distorcere il senso di un’intera esistenza.

Fra gli strumenti che usa per ottenere questo effetto i principali sono l’ellissi e l’anticipazione. Un esempio della prima si trova proprio nel primo racconto della raccolta Chi ti credi di essere, dove descrive i litigi che Rose, la protagonista, era solita avere con la matrigna, Flo, in genere risolti con l’intervento del padre; Rose si ritrovava a prenderle di santa ragione e spesso senza una reale colpa. Alcune scene di vita familiare si susseguono, poi Munro ci porta in un altro momento della vita di Flo: “Anni dopo, molti anni dopo, una domenica mattina Rose accese la radio. Fu quando viveva da solo a Toronto.”  Segue il resoconto di un vecchio conduttore di calesse intervistato alla radio; quest’uomo non solo aveva abitato nello stesso paesino in cui era cresciuta Rose, ma era stato intervistato, poco prima di morire, nella stessa casa di riposo in cui si trovava la matrigna Flo, “che si era staccata da tutto e trascorreva la maggior parte del tempo seduta in un angolino della sua stanza, mantenendo un’espressione maliziosa e antipatica, senza mai rispondere a nessuno, tranne le volte in cui esprimeva i propri sentimenti prendendo a morsi un’infermiera.” Qui l’autrice ha operato una poderosa ellissi della vita di Rose e degli sviluppi del suo rapporto con la matrigna. Sappiamo che anche da adulta una parte di lei continua a pensarla, ma col restituircene un’immagine così diminuita - è in una casa di riposo, è demente - ci fa anche percepire come gli anni abbiano lavorato a favore di un’emancipazione di Rose.
Ho cercato di impadronirmi di questa tecnica e l’ho utilizzata ad esempio in un racconto della raccolta Segni sottili e clandestini, “The shuffle of angels feet”.  Volevo raccontare di un amore giovanile strenuamente legato all’ossessione per i capelli biondi, che nell’immaginario della voce narrante si lega al rapporto con la madre. Per dare spessore a questo, che non è solo un elemento di blando feticismo, ma il marcatore di un universo emotivo ben più ampio, sono ricorsa all’ellissi di tutto quanto avviene fra il momento in cui l’io narrante e l’amato si separano; il motivo dei capelli biondi fa la sua ricomparsa furtiva e del tutto inattesa in uno sconosciuto incrociato a Parigi per poi fissarsi: “E tutte le sere, così come tutte le mattine, pettino con devozione sicuramente eccessiva i bei capelli dorati di mia figlia”.
Nulla viene detto di quanto è intercorso, all’improvviso la voce narrante ha una figlia, e non sappiamo davvero come sia arrivata fino a lì. È il ripetersi di un gesto a distanza - toccare i capelli dorati - a rinnovare il pathos di un abbandono e la reincarnazione possibile degli affetti.
Cercare la durata nello spazio del racconto ha a che vedere infatti con la manipolazione profonda della memoria, un’arte implicita al nostro stesso modo di ricordare la vita.