Quando Kafka nacque per la seconda volta, di Paolo Zardi

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di Paolo Zardi

Franz Kafka nacque due volte: la prima il 3 luglio del 1883, quando fu partorito da Julie Löwy in una casa nei pressi della Piazza della Città Vecchia, a Praga – a quei tempi la Boemia era ancora una delle tante province dell’Impero Austroungarico; la seconda volta, fu la notte tra il 22 e il 23 settembre del 1912, ancora a Praga, quando, come riferì a una sorella, e poi riportò nei Diari, scrisse il racconto Das Urteil (letteralmente Il verdetto, ma più noto in Italia con il titolo La condanna).

Kafka scriveva già da qualche anno: nel 1904, all’età di ventun anni, mentre era ancora uno studente universitario, aveva fatto leggere Descrizione di una battaglia all’amico Brod, che lo aveva consigliato di continuare a scrivere. Nel 1907 fu assunto dalle Assicurazioni Generali e in un ufficio che si affacciava sulla vasta Piazza Venceslao, imparò l’italiano, con la speranza di essere destinato alla sede di Trieste; ma dopo meno di un anno, si licenziò, provato dal duro orario di lavoro, e dalla mancanza di prospettive (sognava, inutilmente, di essere mandato in qualche sede all’estero). Due settimane dopo, sfruttando la raccomandazione del padre del suo ex compagno di classe Ewald Felix Pribam, presidente della Compagnia delle Assicurazioni, venne assunto dall’Istituto di assicurazione contro gli infortuni del regno di Boemia, l’efficientissimo equivalente del nostro INAIL. Grazie a un orario piuttosto comodo (lavorava dalle 8 alle 14), Kafka poté dedicare più tempo alla scrittura, senza tuttavia raggiungere risultati in grado di soddisfarlo. Nell’autunno del 1911 scopre la letteratura yiddish, nel quale si immerge per diversi mesi; quando esce da questo viaggio, è finalmente pronto per diventare il Kafka che conosciamo. Una domenica sera – era il 22 settembre, ultimo giorno di un’estate particolarmente mite (poche ore prima, a qualche centinaio di chilometri da là, la Bulgaria e la Grecia avevano firmato un trattato militare segreto che avrebbe avuto conseguenze importanti sugli sviluppi dell’imminente guerra mondiale) – attorno alle dieci, Kafka inizia a scrivere un racconto i cui protagonisti sono un giovane uomo di nome George Bendemann, e suo padre, un vecchio apparentemente malato e forse pazzo. Quando lo termina, alle sei del mattino, mentre Bendemann si getta nelle acque della Moldava per eseguire la condanna a morte emessa dal padre come pena per lo scarso amore dimostrato, si rende conto che niente sarà come prima. Ora sa cosa vuole scrivere, ha capito qual è la sua voce. Nei mesi successivi pubblica La Metamorfosi, inizia – e abbandona – Il disperso, che Brod pubblicò postumo con il titolo Amerika; due anni dopo si dedica a Der Process. Pagina dopo pagina, crea, definisce e perfeziona il suo personale mondo, quella gigantesca eredità che ci consegna a quarant’anni, il 24 giugno del 1924, quando muore consumato dalla tubercolosi. Le sue ultime parole? Al medico che uscendo dalla stanza gli disse “non si preoccupi, poi torno”, rispose “ma io no”.

La nascita di uno scrittore, il momento in cui improvvisamente tutte le tessere di un mosaico vanno al loro posto, appare come un evento misterioso e spesso inaspettato. Philip Roth, che aveva ricevuto una solida preparazione accademica prima alla Bucknell University, in Virginia, e poi alla Chicago University, era convinto di poter aspirare a diventare l’erede di Henry James: i personaggi e l’ambientazione di Quando lei era buona – una donna che tenta di adeguarsi alla morale medioborghese, il padre alcolista, il ridicolo marito, il Midwest che  Roth aveva conosciuto in età adulta – rimandavano a un mondo che non apparteneva al suo autore. Ma dopo aver pubblicato questo romanzo, nel 1965, e aver ricevuto un’accoglienza decisamente inferiore alle sue ambiziose aspettative, Philip Roth cambia tutto, e il percorso che è stato necessario per arrivare a diventare sé stesso ci viene raccontato proprio da lui, in un intervista della fine degli anni Sessanta con il giornalista George Plimpton, pubblicata in The New York Times Book Review, e poi riportata in Reading Myself and Others, raccolta di saggi e interviste all’autore.

[Quando lei era buona] è, in estrema sintesi, una storia sugli abitanti di una piccola città del Middle West che si considerano, molto più che volentieri, persone comuni e oneste; e questo stile convenzionale e da gente onesta che ho scelto come strumento per la mia narrazione – o, piuttosto, la versione leggermente accentuata, e più flessibile, del loro linguaggio – è in grado di attirare i loro cliché abituali, le locuzioni e le banalità. [..] I miei due romanzi precedenti, Lasciarsi andare e Quando lei era buona, erano tetri [..] e, anche se ero affascinato da quei libri, stavo cercando un modo di scoprire un altro lato del mio talento. In particolare, dopo diversi anni spesi a scrivere Quando lei era buona, con la sua prosa sciatta, la sua eroina puritana e perseguitata, il suo inesorabile legame con la banalità, morivo dalla voglia di scrivere qualcosa di divertente e scorrevole. [..]

 

In un altro punto dell’intervista:

 

Direi di essere stato influenzato [..] da un comico chiamato Kafka, e da un pezzo molto divertente che ha scritto e che si chiama La metamorfosi. [..] Avevo letto da qualche parte che lui era solito ridacchiare tra sé e sé mentre lavorava sui suoi libri. È ovvio! Era così divertente, questa preoccupazione morbosa per la condanna e la colpa. Ripugnante, ma divertente. [..]

Alcune delle idee che poi sono finite nel libro [Lamento di Portnoy] mi giravano per la testa sin da quando ho iniziato a scrivere. Mi riferisco in particolare alle idee sullo stile e sulla narrazione. Il libro procede mediante la tecnica dei “blocchi di coscienza” – pezzi di materiale di varia forma e dimensione, uno sopra l’altro, tenuti insieme più per libere associazioni che attraverso una vera e propria cronologia. [..] Ora, la strada che parte da queste idee casuali, e un po’ sciocche, e arriva fino a il Lamento di Portnoy è stata più tortuosa e movimentata di quella che io posso descrivere qui; di sicuro c’è un elemento personale, nel libro, ma finché non ho iniziato a considerare la colpa come un’idea comica, non sono riuscito a sentirmi liberato dal mio libro precedente, e dalle mie vecchie preoccupazioni [1].

 

Dopo Lamento di Portnoy, Philip Roth non è più tornato a parlare di famiglie borghesi del Middle West, non si è più obbligato a scrivere in una prosa sciatta capace di imitare i cliché degli americani bianchi borghesi e probabilmente WASP. Il nuovo scrittore che emerge da questo romanzo dissacrante non ha nulla da spartire con quello che lo ha preceduto. L’eccitazione che si percepisce dietro a questa intervista è elettrizzante: Roth riconosce, con un senso misterioso, che la voce trovata gli appartiene, ed è in grado di rappresentarlo; gli permette, finalmente, di portare alla luce il suo mondo interiore.

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Da bambino, in certe serate invernali, mentre i miei genitori guardavano un film in salotto, io e i miei fratelli ci divertivamo a girare la manopola di una vecchia radio che mio padre teneva in camera sua: dopo esserci spostati sulle frequenze AM, cercavamo di sintonizzarci su un qualche canale, e l’operazione richiedeva pazienza e precisione. Incappavamo in notiziari di paesi sconosciuti dove, tra fruscii e fischi, una voce impostata leggeva gli imperscrutabili fatti del giorno; poi, partiva un concerto di musica viennese, simile a quello che ascoltavamo ogni Capodanno, mentre mangiavamo i tortellini in brodo con i nonni, e poi, ancora, la stanza veniva invasa da un coro di voci bianche, o dal canto ipnotico di un arabo che stava pregando il suo Dio. Era un piccolo miracolo: dal nulla rumoroso e confuso che riempiva l’etere, da quell’entropia ribollente e incomprensibile, emergevano melodie limpide e pure; ma serviva tanta pazienza.
E il lavoro di uno scrittore che cerca la propria voce assomiglia a quel gioco che facevo da bambino con i miei fratelli. Non è importante che poi il risultato sia riconosciuto da un qualche lettore: Kafka, ad esempio, è il primo ad accorgersi che il 23 settembre del 1912 è successo qualcosa di decisivo. Succede la stessa cosa a Saul Bellow: dopo alcuni romanzi non memorabili, all’inizio degli anni Cinquanta sviluppa uno stile diverso, più elettrico e moderno, capace di descrivere il fermento primitivo e inarrestabile dell’America della prima metà del Ventesimo secolo. Con questa nuova voce, riesce a raccontare la storia di Augie March, giovane ragazzo di Chicago, dalla sua infanzia nei primi anni Venti fino al suo ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale:

Sono americano, nato a Chicago – Chicago, quella tetra città – affronto le cose come ho imparato a fare, senza peli sulla lingua, e racconterò la storia a modo mio: primo a bussare, primo a entrare; a volte un colpo innocente, a volte non tanto. [..]

I miei genitori non ebbero molta importanza per me, anche se volevo bene a mia madre. Era una donna semplice, e ciò che appresi da lei non fu quel che insegnava, ma qualcosa di simile alle esercitazioni pratiche che si fanno a scuola. Non aveva molto da insegnare, povera donna. I miei fratelli ed io le volevamo bene. Parlo a nome di tutti e due: per il maggiore so di non sbagliarmi; per il più piccolo, George, devo rispondere io - era nato deficiente — ma non occorre che tiri a indovinare, perché aveva una sua canzoncina che cantava quando correva, strascicando i piedi nel suo rigido trotto da idiota, su e giù lungo la rete metallica del cortile:

Geòrgie Maaci, Augie, Simey

Winnie Maaci, volion tutti bene a mamma[1]

Ma non serve essere Kafka, Bellow o Roth, per sperimentare la gioia di trovare la propria voce, e quindi la propria identità di autore: per ogni persona che decide di scrivere con una certa continuità, può arrivare il momento in cui si prova la certezza che è nato qualcosa di nuovo. Per me è successo nell’autunno del 2013. Avevo dedicato tutto il 2012 alla scrittura di un romanzo realista, contemporaneo, nel quale si intrecciavano le storie di tre esseri umani, sullo sfondo della storia italiana degli ultimi cinquant’anni; con cura meticolosa avevo costruito le biografie di tutti e tre, avevo individuato i miti archetipici che stavano alla base delle loro scelte personali, avevo studiato paesaggi, città e luoghi. I personaggi assomigliavano a persone che conoscevo – colleghi, amici e nemici che avevo incontrato nella mia vita. Mi ero sforzato in tutti i modi di rappresentare ogni singolo punto di vista, e di renderlo credibile o quantomeno plausibile. Ero convinto di dovermi misurare con la realtà e con i suoi vincoli più stringenti. Da quel lavoro, però, ne uscii prostrato, e per niente soddisfatto.
Nel gennaio del 2013, avevo comunque iniziato a scrivere un nuovo libro basandomi sullo stesso paradigma, l’unico che conoscevo; a maggio dello stesso anno, dopo aver scritto un centinaio di pagine, mi sono fermato e ho buttato via tutto. Sentivo che ogni pagina suonava artefatta: nel mio piccolo, ero come Philip Roth alle prese con il fantasma di Henry James. Mollai tutto e smisi di scrivere. Servirono cinque mesi per costruire un modo completamente diverso per raccontare una storia: quando iniziai “Il signor Bovary”, mi fu improvvisamente chiaro che quella era la mia voce. Per sei o sette anni avevo girato la manopola delle frequenze senza trovare la stazione giusta, ma poi, improvvisamente, tutte le cose erano andate al loro posto; e la sensazione che provavo mentre scrivevo nella mia nuova lingua era che non sarebbe più stato necessario alcuno sforzo. Il personaggio principale di questo mio romanzo breve è un uomo normale, ridicolo e intimamente abominevole; il suo antagonista, il marito dell’amante che gli era morta tra le braccia, persegue i propri obiettivi con una ferocia implacabile. La periferia nella quale si svolgono i fatti non esiste, non corrisponde ad alcun luogo che ho conosciuto; i personaggi e la città in cui si muovono i protagonisti non hanno un nome perché la voce narrante se li è dimenticati. Ogni cosa è grottesca e malinconica allo stesso tempo, e tutto è immerso in un freddo medioevale.
La distanza tra questo romanzo breve e il precedente, che sarebbe uscito poi nel 2017, trasformato da una profonda revisione, è, dal mio punto di vista, abissale, non tanto per l’esito finale, che non so giudicare, quanto per la sensazione di consonanza tra me e la pagina. Il vero obiettivo di chi si pone di fronte alla pagina bianca dovrebbe essere quello di cercare, con pazienza e onestà, la propria identità di autore. È un percorso difficile e talvolta frustrante; ma sono convinto che quando il sole ha iniziato a schiarire il cielo sopra Praga, il 23 settembre del 1912, là sotto, da qualche parte, c’era un uomo finalmente felice.


[1] Traduzione di Vincenzo Mantovani, edizione Einaudi 1960.

[1] La traduzione del brano di Philip Roth è mia. L’intera intervista può essere letta qui: https://grafemi.wordpress.com/2011/09/22/unintervista-inedita-a-philip-roth/