È uno degli autori che non mi stanco mai di leggere, per il suo modo di descrivere che risulta ancora oggi - dopo sguardi sommati a sguardi - inaspettato,
sorprende la sua abilità di capovolgere le aspettative di chi legge, non per quel che riguarda i contenuti o l'orizzonte morale del racconto, ma più in profondità, per quel che riguarda il sistema delle figure (in pochi autori come in Čechov capita, ad esempio, di trovare la relazione luce/buio capovolta eppure intuitiva, la luce a intendere il gelo, il frivolo, l'intelletto senza radicamento, il buio a intendere la profondità, la radicalità, la coscienza della morte e del dolore, come in Nemici). Ma lo leggo anche perché le strutture narrative nei suoi racconti si vedono bene. Mi pare di entrare nella sua opera come in un catalogo di strutture architettoniche molto ampio. Racconti dalla forma reiterativa comica come Dušečka, racconti di viaggio e formazione come La steppa, racconti circolari e così via. Così mi metto lì e studio, e a volte semplicemente scelgo una delle sue strutture e da quella parto. Sono convinta che la strada per imparare a scrivere passi per la relazione con gli autori, con quelli letti da molto tempo e ancora vitali, quelli che chiamiamo i classici, le cui soluzioni narrative arrivano ancora e con freschezza; e sono convinta che uno scrittore, una scrittrice, sono tenuti a non smettere mai di imparare a scrivere. In questo caso poi dovevo riscrivere un racconto. Amo le riscritture, mi è capitato di fare corsi di riscrittura: appoggiarsi su strutture note, lavorare per variazioni a partire dal dato, scegliere cosa tenere e cosa lasciare indietro, individuare cosa variare aggiungere spostare trovo sia ipnotico e stimolante insieme. Riscrivere Čechov per me, poi, propende
verso il principio di piacere in modo così deciso che il rischio è che non venga fuori niente di buono, che tutto lo sforzo si risolva in godimento quasi
amniotico.
Fra tutti i racconti di Čechov che potevo, ho scelto Il monaco nero. Me l'aveva fatto conoscere, con insistenza, giurando che parlava la mia lingua, che parlava di me, Tommasio Giartosio, venticinque anni fa. Ci avevo messo anni e molte riletture ma poi gli avevo dato ragione, mi ero innamorata del racconto. Il monaco nero parla di un giovane in procinto di essere riconosciuto dalla società, che torna in una casa con un magnifico giardino dove ha passato anni importanti della sua infanzia, qui incontra una ragazza che aveva lasciato ancora bambina e suo padre. Durante una notte in cui tutta la famiglia s'impegna a proteggere le gemme del frutteto dal gelo con i fumi dei fuochi, il giovane racconta alla ragazza una leggenda che parla delle apparizioni non di un monaco, ma del suo riflesso attraverso l'intero globo e lungo ogni epoca. Sarà l'esaltazione, sarà la sua debolezza di nervi, ma quel che viene raccontato è che il giovane il monaco nero lo incontra davvero. Da quel momento la sua vita ha un'accelerazione, sposa la ragazza, va a vivere in città, studia e lavora in modo forsennato e il monaco diventa la sua compagnia più intima; infine per eccesso di energia, vitale e autodistruttiva insieme, la sua vita va a rotoli.
Una cosa che amo dei racconti, è che non pretendono di sussumere dentro di sé tutto il reale, è come se fossero una coperta corta, cortissima, che permette al mondo
di vivere là fuori e anche di mettere in prospettiva quel che viene raccontato.
Il racconto lavora su una porzione piccola, dice poco, a volte nulla. Il monaco nero dice pochissimo dell'amore fra il giovane e la ragazza, ma quello che
dice ci basta, dice quasi nulla sull'attività del protagonista, poco di quello che succede alla sua vita oltre quel che ci viene raccontato, quello di cui ci parla è il rapporto fra il giovane e la figura fantastica, il monaco; eppure è più che sufficiente, dice tutto quel che ci serve sapere di un'intera vita. Benché nel racconto ci vengano forniti molti elementi per riconoscere il monaco nero come un'allucinazione - la fatica nervosa che il protagonista ha accumulato, l'eccesso di emozione, la suggestione della notte piena di fumo e addirittura l'evidenza: del monaco abbiamo assistito alla gestazione - tuttavia la forma del racconto, la terza persona scelta da Čechov, che si fa prossima, vicinissima al protagonista, ci portano a fidarci dell'apparizione del monaco: la riconosciamo falsa con l'intelletto ma, alla prova dei sensi, non possiamo che accettarla come avvenuta nella realtà. Čechov non ci fornisce indicatori che siamo nel sogno o nell'immaginazione, anzi, ce li nega deliberatamente. Produce un incantamento, in cui è alla nostra percezione indecidibile se il monaco nero sia una allucinazione o una figura mistica.
Mentre provavo a riscrivere il racconto, cambiando il genere del protagonista, mentre la voce da terza diventava una prima persona, mentre variavo la tonalità salvando il giardino e il fumo, mutando il monaco in una figura pop, un'opera d'arte, un omino di foglie, mi accorgevo che avevo scelto quel racconto anche perché aveva una struttura squisitamente semplice. Come in qualunque racconto, all'osso, c'era una struttura base, lo schema a tre tappe: prima dell'evento, l'evento, dopo l'evento. Qui ritrovavo lo schema, schietto, senza variazioni, il prima che avviene prima, il dopo che avviene poi, nessun movimento circolare, siamo al grado zero del montaggio. Prima del monaco, l'incontro con il monaco, dopo l'incontro con il monaco. Čechov per raccontare una storia di grande complessità percettiva aveva usato la base di ogni struttura narrativa, senza variarla. Per me è stato semplicissimo riscrivere la storia, svuotare la tappa prima dell'arrivo del monaco, lasciare quasi della stessa dimensione il momento dell'incontro, far crescere di poco proporzionalmente l'ultima tappa. È facile costruire cose più diverse, quando ci si scontra con la struttura, con lo scheletro così essenziale. Per quanto sia elevata la complessità di un racconto, e Il monaco nero lo è, lo stesso alla base ha quei tre momenti, in questo caso accolti nella loro forma piana, che permettono di compiere il più grande azzardo che è alla base della narrazione, raccontare il cambiamento: come era così non è. Ogni narrazione lo fa, è la sua intima scommessa raccontare il cambiamento in una partitura che resta immobile, che una volta fatta esistere non può essere modificata, ma solo riprodotta con varianti infinite. Una delle ragioni per cui mi è così cara la forma racconto è che rende questo sforzo evidente.