Perché, una volta congedato un racconto, buona parte di quei momenti in cui si compiono scelte che permettono alla storia di prender forma a partire da grovigli di suggestioni, pensieri, stati emotivi, ipotesi narrative, finisce per dissolversi in una foschia che non ha nulla della lucidità più o meno straniata che fa sentire «giusti» certi giri di frase, la scelta di un punto di vista, certe sterzate narrative, o anche un solo aggettivo.
Inizierei dunque questo mio personale scavo sul modo in cui è nato e ha preso forma un racconto scritto circa vent’anni fa, concedendomi la libertà di storpiare uno tra gli incipit più belli e famosi della letteratura: «tutti i racconti riusciti sono felici, ma ogni racconto con cui ci si misura è sofferto a suo modo». E il racconto di cui voglio parlarvi, La «carriola», come la costruì mamma Mattia, è uno di questi racconti d’esordio sofferti, destinato poi ad aprire la mia prima raccolta di racconti uscita per Einaudi nel 2000.
Non importa che l’abbiate letto. Quel che vorrei riuscire a fare è disseppellire alcune riflessioni o circostanze che ne hanno determinato la nascita per restituire un modo di affrontare un certo aspetto proprio dei racconti, che Flannery O’Connor in Mistery e Manners individua con queste semplici parole: «I racconti sono lunghi in profondità», che è poi il corrispettivo della «teoria dell’iceberg» di Hemingway: cioè l’idea che un racconto è la parte affiorante di una storia il cui senso affonda nelle vaste profondità su cui poggia quel che emerge in superficie.
Dunque, cominciamo dal germe, o come dice Cortázar dal «seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco». Per me il «seme» di quel mio alberello è stata una scena del tutto casuale vista in una piccola cittadina siciliana.
Non si trattava di un posto caratteristico, ma di una circonvallazione, cioè un luogo abbastanza anonimo. Così, il fatto che mi trovassi in Sicilia non ha avuto particolare rilevanza nel modo in cui si è fissata quell’immagine nella mia mente. La scena era questa: una donna di età indefinibile e malmessa tirava con una corda una sorta di piattaforma rudimentale con delle rotelle. Quel che mi ha colpito in modo particolare è stato lo sforzo e la determinazione con cui la donna compiva quel gesto al punto che potrei individuare proprio in quello sforzo e in quella determinazione il nucleo nascosto che ha fatto poi fermentare l’immaginazione intorno a una domanda: «Perché?»
La risposta che ho iniziato a immaginare aveva a che fare con qualcosa di simile a una storia d’amore di una madre per un figlio.
Ma se dovessi condensare in poche parole la trama nel suo aspetto più superficiale, potrei riassumerla così: il racconto di una madre che costruisce una carriola per il figlio che non può camminare. In fin dei conti una storia modesta e anche abbastanza banale, se non ci fossero stati quei due aspetti, «sforzo e determinazione», a ossessionarmi, insieme all’idea che c’era comunque dell’«inspiegabile» nella fatica irriducibile che accompagnava il gesto di quella donna. È stata quella dimensione dell’«inspiegabile» e dell’«inimmaginabile» che si andava sempre più profilando come elemento chiave del racconto a suggerirmi il punto di vista e la voce che avrebbe narrato la storia, facendola diventare (almeno per me) una storia degna di essere narrata.
A interrogarsi sui gesti apparentemente insensati (un grumo di ostinazione, frustrazione, rabbia, tenacia) di quella donna sarebbe stato il figlio Savino. Ma il figlio, nella mia mente, era soprattutto una voce che doveva parlare da un punto preciso di quella stanza in cui consisteva l’intera casa: un angolo vicino alle persiane attraverso cui si potessero vedere «strisce di fuori». E quella voce doveva avere una sorta di rigidità attraverso cui si potesse percepire la condizione di immobilità di quell’io narrante, mai esplicitata, ma allusa soltanto attraverso desideri (il piacere di leggere le avventure dei fumetti che gli porta la madre), alcune battute, anche dure, sarcastiche, autoironiche (il riconoscere quanto siano in gamba quasi tutti o le recriminazioni contro la madre che lascia le cose a metà, genera aborti) oppure attraverso certi dettagli che facessero man mano comprendere la sua condizione. E questo perché il cuore della storia non era la disabilità di Savino, ma il rapporto di questo figlio con quella madre dai modi bruschi e dai comportamenti indecifrabili sino alla rivelazione finale.
Per trovare questa voce, credo di essermi ispirata molto a Zombie, il romanzo di Joyce Carol Oates in cui un io-narrante-serial-killer parla di sé in modo dissociato con esiti imprevedibili per il lettore costretto a calarsi in quell’interiorità scomodissima per tutto il tempo della lettura. Il mio lettore avrebbe dunque condiviso la condizione di Savino (il figlio) e tutto il malessere, i dubbi, il senso di abbandono di quel ragazzino che vede una madre «ruvida», di pochissime parole, entrare e uscire inspiegabilmente da casa, e intanto costruire senza sosta, a costo di segarsi una mano, una piattaforma sbilenca rubando legni, chiodi, martelli, tutto quel che le serve, da un cantiere. «Una ladra», come urla la gente che a più riprese bussa furibonda alla porta, dicendo al ragazzo di aprire.
È chiaro che il nome di quella madre era una scelta importante. Doveva avere la capacità di individuare con precisione questa donna dai modi bruschi, apparentemente anaffettiva, capace di tirar fuori dal suo corpo minuto una forza da uomo. Per questo ho pensato a un nome come Mattia, ma addolcito nella forma «mamma Mattia», perché in quella madre doveva condensarsi tutto il mondo affettivo del ragazzino (un misto di orgoglio e frustrazione) e, in fin dei conti, il modo in cui possono convivere gli opposti in un gesto d’amore incondizionato e imprevedibile come quello: rudezza, mascolinità, maternità, dedizione.
Sapevo anche che, per dare concretezza e verità alla storia, dovevo conoscere con esattezza come sarebbe stata quella «carriola». Lo sforzo di mamma Mattia avrebbe avuto senso solo se avesse costruito qualcosa di veramente costruibile, mi dicevo. Per questo, ho chiesto a un mio amico capace di costruire oggetti in legno come poteva essere una carriola di quel genere, le misure esatte di ogni sua parte, il disegno del prototipo. Che quell’oggetto potesse esistere davvero era la condizione necessaria perché nella sua costruzione si manifestasse la qualità specifica d’amore di mamma Mattia con la sua furia costruttrice e demolitrice.
Infine non sapere sino alle ultime righe perché mamma Mattia stesse costruendo quell’oggetto che, a un certo punto, sembra una tartaruga spiaggiata o la Zattera della Medusa dipinta da Gèricault; l’esser costretti a condividere per tutto il tempo della lettura quel senso di sospensione del figlio che non capisce, urla, recrimina contro la madre, si pente delle proprie parole, prova vergogna di essere figlio di una ladra, e anche di se stesso, della propria menomazione… Mi sembrava che contribuisse a creare la tensione giusta e a portare la storia lì dove doveva arrivare: all’esplosione di vita liberatoria del finale nell’istante in cui mamma Mattia solleva il figlio Savino tra le sue proteste, lo mette sulla carriola e spalanca le persiane per portarlo fuori, rimettendolo al mondo.
Ecco, più o meno in questo modo, la fatica di costruire una carriola molto simile a quella che avevo visto per strada si è trasformata nel giro di qualche mese in una sorta di inno alla maternità o, più in generale, al travaglio di mettere letteralmente al mondo una vita, attraverso i gesti di una madre indecifrabile che, per nove giorni e dieci notti, lavora forsennatamente alla sua opera senza che il suo sforzo tradisca nulla della più condivisa idea di maternità.
Per restituire questa indecifrabilità, questi oscuri movimenti interiori che animano entrambi i personaggi, ho dovuto lavorare su quella «lunghezza in profondità» di cui parla la O'Connor, appunto, lasciando a galla solo l’essenziale.