La radicale libertà del racconto. Di Marco Mancassola

di Marco Mancassola

”E questo è il segno che un racconto, oggi, è soprattutto un terreno di radicale libertà. Non deve servire a qualcosa. Può essere tutto quello che vuole: una Sfinge, oppure il portatore di un messaggio più o meno conciliante.”

A cosa serve scrivere un racconto? Per lo scrittore con occhio pratico, oggi, a nulla. Non essendo un romanzo, non è un prodotto di cui provare a vendere i diritti a Netflix o per lo meno ad Audible; non è un oggetto da fotografare su Instagram, e anche nel caso venga raggruppato con altri racconti e diventi un libro, difficilmente diventerà un volume alla moda o parteciperà ai premi famosi. Non contribuirà al brand dell’autore né mostrerà al mondo la sua ambizione.
E a cosa serve leggere un racconto? Per il lettore contemporaneo, ancora a meno. Un racconto non rientra nei valori narrativi dominanti. Esula dal feticismo per lo “sviluppo del personaggio” imposto dalle serie tv, e dall’idea edificante che un prodotto narrativo serva a “fare compagnia al lettore/spettatore” (e dunque debba avere una certa durata tattica).[1] Il predominio delle serie tv plasma da decenni la nostra nozione di cosa significhi narrare, fare fiction, e di quale sia il posto di tali attività nel mondo; ma se il romanzo è diventato il cugino povero delle serie tv, il racconto non è neppure più un secondo cugino, è stato espulso dalla famiglia, come un parente ormai troppo marginale.
Il racconto, in quanto forma persino più enigmatica e imprevedibile del romanzo, non si presta nemmeno alle facili teorie dello storytelling, ovvero a quel campo di discorsi in cui la parola “storia” viene usata di continuo come un amuleto, e si proclamano slogan sulle “storie che danno un senso alle nostre vite”. Un racconto, certo, a volte suggerirà un senso utile a chi lo legge (un’idea di mondo, di vita, e di come affrontare i loro dolori); molte altre volte, no. Spesso, la forma-racconto rifiuta in partenza l’illusione di rivelarci chissà cosa. E a chi chiede una risposta, una teoria, un “senso”, il racconto ripete con faccia da Sfinge il suo pacato messaggio: “Non è così semplice”.[2]

 

*

I miei racconti preferiti, da sempre, sono quelli in cui quel messaggio, “Non è così semplice”, viene messo al centro. E per la natura compatta e sintetica della forma-racconto, tale messaggio si mostra nudo, sotto gli occhi di tutti. Ovvero, mi piacciono quei racconti che, secondo un certo sistema di valori narrativi, non servono a nulla e – ancora più imperdonabile – non possono fare nulla per nasconderlo.
L’esempio più ovvio di questa stirpe di racconti è Bartleby lo scrivano. L’impiegato che preferirebbe di no rifiuta di farsi storia, di confermare le nostre banali persuasioni su cosa siano una storia e un personaggio e un arco narrativo. A cosa servirà un racconto come questo? Se appare un esempio troppo scontato, prendiamone un altro. Alëša Bricco di Lev Tolstoj narra invece di un giovane servitore remissivo, ubbidiente e sempre sereno – un personaggio che non dirà mai “preferirei di no”.[3]
Nel suo libro Un bagno nello stagno sotto la pioggia, George Saunders ipotizza che Tolstoj abbia iniziato a scrivere il racconto per trasmettere un messaggio semplice, moraleggiante, una parabola semi-evangelica su un animo umile e per questo sereno, di quelli che Tolstoj idealizzava. Eppure, quando nel racconto Alëša muore, sorpresa: il narratore non chiarisce se sia una buona morte, se Alëša sia davvero in pace, se muoia pensando di aver vissuto nel modo giusto. Il racconto rimane un enigma. Cos’è successo alle intenzioni di Tolstoj? Saunders suggerisce che l’onestà narrativa di Tolstoj gli abbia impedito di portare a termine il progetto di un testo con un “senso” finale. L’onestà della narrazione ha vinto sulla morale, sul “senso”, sul progetto di un racconto che servisse a dire qualcosa.
Il Nuotatore di John Cheever appartiene a una simile stirpe: un racconto su un uomo che si tuffa in una serie di piscine nei giardini dei vicini, sulla via di casa dopo una festa. Ma giunto a quella che ricordava come casa sua, la trova abbandonata. Nessuno vive più lì: “Le porte erano chiuse a chiave, e sulle mani gli rimase la ruggine delle maniglie.” Ecco un altro racconto che non ci consola, non ci fa davvero “compagnia”, trascende i precetti dei corsi di scrittura (che Cheever aveva insegnato) e che probabilmente lascerebbe freddi gli executive di Netflix. Soltanto ruggine sulle nostre mani. Nessun “senso” univoco neppure qui.

*

Si potrebbe obiettare, certo, che per ogni esempio di racconto organizzato intorno al nudo anti-messaggio “Non è così semplice” – per ogni racconto, dunque, che si rivela oggetto narrativo incollocabile nella nostra epoca affamata di semplificazioni, di messaggi divulgabili, di valore d’uso – si possano trovare degli esempi opposti: racconti che, seppure in uno spazio compatto, ci affidano degli altri messaggi, pieni e convincenti.
È sicuramente così. Penso ad esempio, ora, a quei racconti brevi che, in poche folgoranti pagine, condensano uno sguardo sulla vita. Nel celebre Storia di un’ora, Kate Chopin racconta un’improvvisa boccata di libertà nella vita della protagonista, e ci ricorda che tali boccate di libertà, soprattutto nella vita di una donna, sono spesso illusorie. Nell’altrettanto celebre Il gorgo, Beppe Fenoglio ci fa compiere – in un paio di pagine – un denso viaggio emotivo: narrando di uno sventato suicidio, ci ricorda che per superare la tentazione di arrenderci abbiamo bisogno, anzitutto, di qualcuno che ci impedisca di farlo.
Dunque scrivere o leggere un racconto, se il testo appartiene a quest’altra stirpe, serve a qualcosa, a rivelarci un “senso”, un “valore”, un’epifania misurabile nel nostro corrente sistema di valori?
Può darsi. Tendo a mantenere l’attenzione, però, su tutto ciò che neppure questi racconti dicono: sui personaggi con poco sviluppo, sull’ambientazione soltanto accennata, e sui modi in cui tanti racconti, in qualche misura, confessano “preferirei di no” – in questo caso non ho bisogno di dire altro, di occupare più spazio, di fare discorsi più articolati, di diventare una novella o addirittura un potenziale romanzo. Non voglio continuare a farvi compagnia, lasciatemi stare.
Tutte le volte che qualcuno a un corso mi chiede come capire se una certa idea narrativa potrebbe diventare un racconto o un romanzo, fornisco la risposta razionale: capire l’ampiezza del tema, le possibilità dell’ambientazione e dei personaggi, la disponibilità a inserire sottotrame, eccetera. Sono però tentato di aggiungere altro. Suggerire che un racconto è una narrazione che si prende la libertà di dire preferirei di no: non un atto di rinuncia o pigrizia bensì di consapevole, sofferta libertà (una differenza che traccia, in fondo, uno dei possibili confini fra un racconto buono e uno meno buono).
E sono tentato di aggiungere: in un’epoca in cui ci chiediamo di continuo a cosa serve la letteratura, e cerchiamo goffamente di attribuirle valori pratici contingenti, la domanda più drastica è chiederci a cosa serve scrivere o leggere quella precisa forma di letteratura che è il racconto.
Sarà difficile rispondere in modo convincente. E questo è il segno che un racconto, oggi, è soprattutto un terreno di radicale libertà. Non deve servire a qualcosa. Può essere tutto quello che vuole: una Sfinge, oppure il portatore di un messaggio più o meno conciliante. Ma per essere un buon racconto deve anzitutto essere onesto come Alëša Bricco, il racconto di Tolstoj. Deve sapere che non si può dire tutto né fingere che sia possibile. I modi in cui parliamo oggi di letteratura sono, per tre quarti, posa e feticismo e marketing scadente, un piano a cui chi scrive o legge (ovvero vende o compra) romanzi fatica a sottrarsi. Ma il racconto, il parente in apparenza del tutto marginale, non ha bisogno di tutto questo. Non serve a niente, se non a essere quella cosa smisurata che è la letteratura.[4]


[1] Per chiarezza: non sostengo che quei “valori narrativi dominanti” siano sbagliati; non mi piace però che siano esclusivi, né, da un altro lato, che il racconto sia percepito ormai automaticamente estraneo a essi.
[2] Anche molti buoni romanzi ripetono lo stesso messaggio. Ma lo fanno attraverso strati di altri messaggi, intrecciati, polifonici, e questo permette alla sfera della comunicazione contemporanea di ignorare quel messaggio di fondo così scomodo. In sintesi, un buon romanzo può ancora sperare di “servire ufficialmente a qualcosa”: promettere una “storia” e un “senso”, assolvere le funzioni dello storytelling e di conseguenza rosicchiare il suo posto da cugino povero, venire fotografato su Instagram e tutto il resto – ma può fare questo, oggi, solo nella misura in cui si presta a essere frainteso.
[3] Nel paragrafo successivo, farò uno spoiler di come finisce la storia di Alëša. Se non conoscete il racconto e intendete leggerlo, saltate il paragrafo. Oppure, anzi, leggetelo lo stesso. Il “terrore dello spoiler” è un altro dei banali valori narrativi contemporanei di cui, tutto sommato, possiamo non curarci.
[4] Chiudiamo con una nota sui testi menzionati. I racconti che ho citato sono disponibili in italiano in varie edizioni e traduzioni. Il libro di George Saunders Un bagno nello stagno sotto la pioggia, uscito nel 2021 e in edizione italiana l’anno successivo, è dedicato all’analisi di una manciata di racconti scritti da autori classici russi. La frase citata da Il Nuotatore è dalla traduzione di Marco Papi.