Il ritorno delle donne alla casa paterna nella narrativa breve italiana: un itinerario di letture da Alice Cerasa ad Anna Banti

di Anna Ditta

Esistono due racconti quasi omonimi di due scrittrici italiane, entrambe emigrate da un’isola: il primo è “La casa paterna” della Premio Nobel Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936) pubblicato nel 1890 nella prima raccolta dell’autrice, intitolata “Nell’azzurro”; il secondo è “Casa paterna” dell’autrice siciliana Maria Messina (Palermo, 1887 – Pistoia, 1944), rimasto inedito e pubblicato postumo da Sellerio nella raccolta omonima del 1981. Seppur declinato in maniera diversa nei due racconti, il ritorno alla casa abitata un tempo insieme alla famiglia d’origine è il centro intorno al quale ruotano le vicende delle due protagoniste, così come è comune nei due testi, nonostante il diverso intreccio narrativo, il contrasto tra la memoria dei luoghi e degli affetti da una parte e la realtà inappagante del ritorno dall’altra. Sugli stessi temi, alcuni anni più tardi, è tornata una terza scrittrice, stavolta non isolana ma a tutti gli effetti “straniera”. Alice Ceresa (Basilea, 1923 – Roma, 2001) nata in Svizzera e trasferitasi a Roma nel 1950 ha dedicato al nostos femminile il suo romanzo d’esordio “La figlia prodiga”, pubblicato per la prima volta nel 1967 da Einaudi, vincitore del Premio Viareggio Opera Prima, e tornato in libreria lo scorso anno con La Tartaruga e la prefazione di Laura Fortini. Ma anche il racconto lungo “La morte del padre”, uscito per la prima volta su Nuovi Argomenti nel 1979 e ripubblicato da La Tartaruga nel 2022, con un ritratto dell’autrice a cura di Patrizia Zappa Mulas.

Troverete in questa sezione la seconda parte di questo percorso, con un focus su Alice Ceresa e Anna Banti.
La prima parte di questo saggio, con il focus su Grazia Deledda e Maria Massina, potete trovarla QUI

I ritorni di Ceresa: “La figlia prodiga” e “La morte del padre”

Rispetto all’esplorazione stanza per stanza della Jole di Grazia Deledda, scritto in forma diaristica, e al racconto con una trama lineare come quello di Maria Messina, i due ritorni di Ceresa (il romanzo La figlia prodiga e il racconto lungo La morte del padre) appaiono molto distanti non solo per l’epoca di redazione ma anche per il contenuto originale e per la forma sperimentale. Nel suo romanzo d’esordio del ’67 Ceresa ribalta la tradizionale parabola biblica del figliol prodigo (il ritorno per eccellenza) declinandola al femminile. Torna la dimensione “economica”, ma lo sperpero, in questo caso, riguarda il patrimonio patriarcale della famiglia, con il suo insieme di doveri, tradizioni, costrizioni. E per la figlia “degenere” non esiste un ritorno possibile perché: “si vedono male le figlie sperperare patrimoni paterni, precipitare nella desolazione una casa per via della loro defezione e riguadagnare infine / il posto d’onore / nella famiglia previamente abbandonata / per il semplice fatto di avervi fatto ritorno”.

Ne “La morte del padre” la dimora paterna è ritrovata, a differenza dei racconti di Deledda e Messina, non per scelta o nostalgia, ma per la prassi inesorabile del lutto. Ceresa compie uno scandaglio degli spazi esteriori ma soprattutto delle “geografie personali” dei tre figli tornati nella casa paterna alla scomparsa del padre. La figlia maggiore, la figlia minore e il figlio sono i tre personaggi (tutti senza nome) che nel breve testo si confrontano con la morte del padre in tutta la sua materialità e nel suo valore simbolico. La dimensione spaziale è ancora una volta fondamentale: c’è quella delle rispettive camere, dove vengono passati in rassegna i pensieri notturni, ma anche quella della casa, che diventa zona di metamorfosi e mutamento proprio come accade al corpo del padre: nel capitolo quattro “il padre lentamente si sgretola” e la casa con lui (“la casa in questa seconda notte per esempio non può vivere e lievitare pur qua e là aprendosi in minuscole frane concentriche di sabbia che piano piano faranno sprofondare nel nulla ogni centimetro quadrato di superficie e ogni cubatura di volume, se non nell’avvertimento che ne può fornire il mondo circostante”).

C’è, infine, la “posizione topografica per rapporto al padre” (il virgolettato è dell’autrice) con cui durante le due notti prima del funerale i tre figli “attraversano” il distacco definitivo dalla figura paterna, con le proprie personali conseguenze. Si potrebbe obiettare che la presenza del figlio maschio nel racconto sposti in qualche modo l’attenzione dai due personaggi femminili, ma in realtà la reazione del figlio alla morte paterna prende una direzione così diversa da mettere in risalto quella delle due sorelle. Il figlio, infatti “ha già chiuso i suoi conti con il padre e a poco servirebbe adesso riaprirli se non forse sul piano della ragionevolezza” e “nel rapporto dialettico con il padre non ha quindi senso ritornare sui propri passi quando colpe e giustizia ogni giorno riaffiorano nel presente non consentendo comunque soluzioni definitive”. Un quadro ben distante sia dalla situazione della figlia maggiore, con la sua incorporazione e “digestione” paterna, sia da quella della figlia minore, intenta a sezionare e tagliare “nel proprio interno” la propria infelicità e fa i conti con una “avvenuta sostituzione del padre vivo con il padre morto che d’ora innanzi l’accompagnerà” e con “un altro abbandono e un’altra solitudine”.

Ritorni distopici: un cenno a “Le donne muoiono” di Anna Banti

Un ritorno sui generis, in quanto distopico e collettivo, ma che si può comunque porre in dialogo rispetto a quelli realistici esplorati finora, è quello delle donne che non hanno ricevuto il dono della “seconda memoria” nel racconto di Anna Banti che chiude la raccolta “Il coraggio delle donne” (La Tartaruga, 1983) e che si uniscono alle comunità femminili che cercano di perseguire tale capacità. Estromesse dall’immortale memoria di cui possono godere gli uomini riguardo alle loro vite precedenti, le donne del racconto di Banti si rifugiano in “certi istituti fra il collegio e il club” con “norme speciali di vita e di contegno, sorta di chiese senza confessione” in cui portano “tutte sul capo un velo nero, come le antiche monache: e molte eran quelle che dopo averle frequentate con assiduità, lasciavano definitivamente la casa paterna” .

“Il mito arcaico di Eva colpevole e punita vi serpeggiava”, scrive Banti, “a insinuare che certo la donna aveva peccato più dell’uomo, con maggior coscienza, e bisognava dunque che più dell’uomo soffrisse per meritare l’eternità del ricordo”. Ancora una volta, dunque, il senso di colpa è connaturato al percorso delle donne (stavolta di tutte le donne come collettività). In questi istituti, le adepte si esercitavano in “una ginnastica della memoria portata fino all’esasperazione mentale” e talvolta si diffondeva la notizia di un caso di comparsa di seconda memoria, che però puntualmente finiva nella scoperta di una “innocente mistificazione”.
In questi casi, dopo essere stata “messa a letto, sopita con forti calmanti”, la ragazza veniva “restituita alla famiglia”. Un ritorno, tuttavia, decisamente insoddisfacente, al fianco di “madri taciturne o svaporate, padri e fratelli insensibili, tutti presi dal senso di una vita vissuta minuto per minuto, senza pensiero del futuro, senza ombra di tenerezza e di melanconia”. Una disgregazione familiare cui Banti fa seguire nel racconto la graduale concezione dell’esistenza in comune femminile come “difesa” ma anche come “libertà di consegnarsi ognuna al proprio istinto, alla propria inclinazione naturale” e dunque la nascita della “prima generazione di quelle grandi poetesse che, a tutt’oggi, si ammirano alla pari col leggendario Omero”, in grado di mettere in pratica una “straordinaria innocenza di riflessi” e di produrre armonie “d’una nitidezza incrinata” che gli uomini difficilmente potevano sopportare.

In conclusione

Scriveva Alice Ceresa: “L’ordine delle famiglie, è risaputo, non prevede le figlie prodighe. Non tanto perché infatti non è mai stato invogliato a codificarle in una storia, dato che di storie non raccontate ne esistono altre e di peggiori quanto più sottilmente perché non appena sono prodighe le considera figlie degeneri o figlie sbagliate e dunque figlie solo fino a un certo punto”.

Le protagoniste che abbiamo passato in rassegna e che ritornano alla casa paterna sono tutte in qualche modo “degeneri” o “sbagliate”, difformi rispetto alle aspettative familiari e sociali. Jole è condannata per la sua vanità e sperimenta le risa e le maldicenze dopo le sue prime pubblicazioni; Vanna lo è per la sua povertà ma soprattutto per il suo “cervellino romantico”, espressione con cui i familiari inquadrano il suo desidero di una vita felice o almeno non tormentata dal marito. Entrambe, come progenitrici della figlia prodiga di Ceresa sono anime inquiete che hanno osato sperare e sperperare, seppur con intensità differente. Le due figlie de “La morte del padre” non sono diverse: hanno sperimentato l’uscita dal nucleo familiare e fanno i conti di ciò che resta della propria prodigalità dopo che il patriarca è venuto a mancare. Distacco, abbandono, ritorno, colpa, sono dimensioni con cui ciascuna di queste protagoniste si trova a fare i conti. Mettersi sulle loro tracce è stato un viaggio piacevole e il merito è forse di quella “prima generazione” di “grandi poetesse” (o meglio, di scrittrici) di cui parlava Banti e che lungi dall’appartenere a un futuro distopico e di là da venire, già ci accompagna.

Il ritorno delle donne alla casa paterna nella narrativa breve italiana: un itinerario di letture da Grazia Deledda ad Alice Ceresa


di Anna Ditta


Esistono due racconti quasi omonimi di due scrittrici italiane, entrambe emigrate da un’isola: il primo è “La casa paterna” della Premio Nobel Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936) pubblicato nel 1890 nella prima raccolta dell’autrice, intitolata “Nell’azzurro”; il secondo è “Casa paterna” dell’autrice siciliana Maria Messina (Palermo, 1887 – Pistoia, 1944), rimasto inedito e pubblicato postumo da Sellerio nella raccolta omonima del 1981. Seppur declinato in maniera diversa nei due racconti, il ritorno alla casa abitata un tempo insieme alla famiglia d’origine è il centro intorno al quale ruotano le vicende delle due protagoniste, così come è comune nei due testi, nonostante il diverso intreccio narrativo, il contrasto tra la memoria dei luoghi e degli affetti da una parte e la realtà inappagante del ritorno dall’altra. Sugli stessi temi, alcuni anni più tardi, è tornata una terza scrittrice, stavolta non isolana ma a tutti gli effetti “straniera”. Alice Ceresa (Basilea, 1923 – Roma, 2001) nata in Svizzera e trasferitasi a Roma nel 1950 ha dedicato al nostos femminile il suo romanzo d’esordio “La figlia prodiga”, pubblicato per la prima volta nel 1967 da Einaudi, vincitore del Premio Viareggio Opera Prima, e tornato in libreria lo scorso anno con La Tartaruga e la prefazione di Laura Fortini. Ma anche il racconto lungo “La morte del padre”, uscito per la prima volta su Nuovi Argomenti nel 1979 e ripubblicato da La Tartaruga nel 2022, con un ritratto dell’autrice a cura di Patrizia Zappa Mulas.

Troverete in questa sezione una prima parte di questo percorso, con un focus su Grazia Deledda e Maria Messina.
La seconda parte di questo percorso, con il focus su Alice Ceresa e un breve cenno ad Anna Banti, sarà pubblicata il 14 Ottobre sempre in questa rubrica.

 

L’esplorazione del passato ne “La casa paterna” di Grazia Deledda

Il racconto “La casa paterna” di Grazia Deledda è composto da attraversamenti incrociati di spazi — passati e presenti — e di tempi ormai perduti. Il testo, inserito nella prima raccolta di racconti pubblicata dall’autrice sarda e dunque ancora acerbo rispetto alle narrazioni della maturità, è un resoconto in forma diaristica del ritorno della protagonista, Jole, a “R…” che lei definisce “mia piccola città natia”. Sin dalle prime righe sappiamo che Jole prova una “strana impressione” nel rivedere, dopo molti anni di lontananza, quelle che lei definisce “le mie campagne, la mia valle, il mio cielo”. La felicità di tornare a casa si affianca però al dolore e alla nostalgia di ciò che è perduto

“mi sentivo infinitamente triste: ricordavo i miei primi anni passati in quei luoghi, ricordavo i miei parenti morti, la mia mamma, il mio babbo, morti, dormenti nel cimitero che vedevo biancheggiare sull’orlo della valle, il mio fratello lontano, le mie amiche che non avrei ritrovato, che non avrebbero più riconosciuto nell’alta, elegante e ricca signora che veniva dalla capitale, la loro piccola e allegra amica d’un tempo!”

 Gli stessi sentimenti contrastanti la accompagnano alla visita, pochi giorni dopo, della via e della casa paterna: da una parte la gioia del riconoscimento, dall’altra la consapevolezza che ciò che era non potrà più essere irrimediabilmente uguale al passato

“È bella, bella, non c’è che dire, ma come avrei preferito trovarla come la lasciai, vecchia, bruna, modesta. Oh, se dentro è lo stesso, irriconoscibile, a che mi serve entrare? Sono tentata di tornarmene indietro: ma no, ecco tre cose ancora nel loro primo stato: mille ricordi, un palpito del mio cuore!”

Dalla vista della vecchia porta d’ottone giunge, come una memoria involontaria proustiana, un ricordo che riguarda il padre e le lezioni di latino che decise di far prendere a Jole durante le vacanze. “Le lezioni le pigliavo da un professore nostro vicino, ma sin dai primi giorni provai una noia, un’uggia tremenda nell’apprendere quella lingua gloriosissima, antichissima, famosissima, ma anche noiosissima”, ricorda la protagonista. “Tuttavia, non volli dispiacere al babbo col rinunziare, però dal fondo del mio cuore, coi miei fervidi voti, affrettavo la fine delle vacanze, contavo i giorni, e per essere più sicura che essi passavano li segnavo... sulla porta! Eccoli ancora lì: sono quasi novanta forellini, fatti con la punta delle forbici, lungo l’estremo limite della porta”. Lo scorrere del tempo percepito come troppo lento, da ragazzina, e il desiderio di sfuggire alle imposizioni paterne mal sopportate incontrano nel presente di Jole il sentimento opposto: nel suo viaggio verso casa il desiderio è quello che il tempo si dilati (“E il treno correva, rapido, e rumoroso, adempiendo il suo dovere di «bello e orribile mostro» che I monti supera,/Divora il piano, mentre io avrei voluto che andasse lentamente, per lasciarmi rivedere bene, palmo per palmo, le mie ubertose campagne, la pianura arsa dal sole, la valle da cui salivano i primi profumi delle notti di estate, le montagne ergentesi al cielo, verdi e scoscese, i boschi scossi dalla brezza...). Nella citazione poetica tratta da “Inno a Satana” di Giosuè Carducci è possibile cogliere il riferimento a un progresso che si preannuncia come vittorioso ma che, nel caso di Jole, si lascia dietro l’amarezza della perdita del mondo passato.

Dal momento dell’ingresso in casa, prima nel giardino e poi nelle stanze, il percorso di Jole diventa un’esplorazione graduale degli spazi e dei rispettivi ricordi familiari. L’aiuola le riporta alla mente il proprio piccolo giardino coltivato con passione, la sala da pranzo le ricorda il canarino Pipy, morto dopo la partenza di lei. (“Lì, in una di quelle finestre era appesa la piccola gabbia azzurra di Pipy, il mio canarino, il mio piccolo amico gentile, morto per me, sì per me — perché, qualche tempo dopo la mia partenza, Franceschino in una sua lettera scriveva: «Pipy è morto! Dopo la tua partenza era sempre malinconico, non cantava più, e ieri mattina lo trovai morto, stecchito nella sua palazzina azzurra. Che sia morto di dolore o di vecchiaia? L’avevamo da quasi dieci anni; non è vero?». «Di dolore o di vecchiaia? Né per l’uno né per l’altra; forse — gli risposi — sarà morto di fame o di sete, perché non vi curavate di lui». E credo d’aver pianto...”). A partire da questo doppio ricordo (Pipy vivo e poi l’annuncio della sua morte) l’animale e il suo portato di malinconia diventa quasi il correlativo oggettivo del senso di abbandono vissuto da chi resta e, per converso, del senso di colpa vissuto da chi ha scelto il distacco e ne affronta le conseguenze.

Il salotto di casa è permeato di oscurità e abbandono e la sua vista provoca a Jole pena e rimorso

 

“Tutto è desolazione, oscurità, tanfo in questa stanza, una volta sì gaia, sì ricca di luce e di fiori (…). Ma perchè i padroni lasciano così deperire questa casa? — (…) Oh, se la mamma, se il babbo rivedessero in questo stato il salotto si caccerebbero le mani nei capelli: a me questa devastazione pare un sacrilegio. Ah, Franceschino, Franceschino, non avrei mai creduto che la vendita della nostra casa dovesse recarmi tanto dolore...”.

 

Doloroso è il ricordo dei genitori perduti, cui si affianca anche — in un modo che richiamerà il fratellino scomparso di Ceresa — quello di Annina, una sorellina morta da tempo (“ era così buona, così carina, e la mamma l’amava tanto che alla sua morte quasi impazzì dal dolore”). Con la vista dello specchio della camera nuziale torna il riferimento alla colpa da espiare: stavolta non la lontananza, ma quella “innocente vanità di bimba” che ama osservare i vestiti nello specchio. Deplorata sia dalla madre sia dal fratello Franceschino e poi dal confessore don Antonio, questa abitudine diventa motivo di inquietudine e poi di rimorso (“Non vorrete crederlo, eppure vi assicuro che da quel giorno, per tre mesi almeno... non gettai sullo specchio che qualche sguardo fuggitivo”).

Persino il muro che per Jole era sinonimo della scansione del tempo è scomparso, sostituito da “una casa nuova, alta, bianca, abbagliante, che m’impedisce di vedere oltre”, a riconferma dell’impossibilità per lei di ritrovare il tempo perduto. La camera della madre ricorda nascite e morti, avvenimenti che acquistano adesso centralità per Jole, mentre quelli della sua vita dopo la partenza le appaiono rimpiccioliti, se non spariti dalla sua mente. “Ed è possibile che tutti ricordino con le stesse impressioni che provo io, la casa paterna?”, si chiede senza riuscire a darsi una risposta.

Lo studio del padre è invece lo spazio del ricordo della vita di lui, medico buono e instancabile, e dell’abitudine di Jole di decorare la stanza con dei fiori freschi del suo giardino: un gesto di tenerezza che le riporta alla mente anche il momento del distacco

 

“il giorno innanzi che lasciassi per sempre la nostra casa, nel farvi l’ultima visita, nel portarvi l’ultimo mazzo di fiori, egli mi disse con un mezzo sorriso: — E d’ora innanzi chi fiorirà il mio studio? Anch’io sorrisi. Ahimè, le nostre labbra sorridevano: i nostri cuori piangevano!...”.

 

 Proseguendo con la linea dei doppi ricordi, la stanza di Giannina, balia e governante, si lega ai racconti de Le Mille e una notte che lei conosceva a memoria e che raccontava a Jole davanti al camino, ma anche a quello della delusione dopo la prima pubblicazione di Jole a causa delle “risa, la maldicenza, la censura di tutti e soprattutto delle donne”.

Il racconto di Deledda culmina con la visita di Jole nella sua vecchia cameretta. Qui è la misura degli spazi a sorprenderla (“Hanno forse rimpicciolito la mia camera? No, sono io che sono cresciuta”) e lei si lascia prendere dalla contemplazione del paesaggio fuori dalla finestra, che pur non avendo niente di speciale, spinge Jole a invocazioni di manzoniana memoria e a un senso di inenarrabilità che la travolge (“O mio cielo! O miei monti! O notti passate a questo davanzale, quando La notturna reina alto levando/ In nubilosa maestà la fronte, /La sua discopre incomparabil luce/ E dispiega sull’ombre un vel d’argento... O giorni trascorsi fra lo studio e il lavoro — o sogni — o realtà — o gioie e dolori — vi ricordo tutti: — perché egualmente non posso raccontarvi?”). Il percorso termina al tavolino per scrivere, che si personifica e diventa un interlocutore immaginario per Jole: “Allorché mi assidevo innanzi a te scordavo tutto il resto del mondo che mi circondava: tu eri il mio confidente, il mio inspiratore, il mio compagno di studio e di lavoro, ed io t’amavo come un amico d’infanzia, come un essere vivente... Sparito anche tu! Ove sei? Ove sei?”.

Col giungere del buio la protagonista evoca infine la prima notte trascorsa nella sua cameretta e scorge tra le ombre “mille fantasmi, mille figurine che vi si muovono, palpitano, vivono, sorridono e piangono — vestite di bianco, vestite d’azzurro, vestite di rosa — che mi protendono le braccia, mi sorridono, danzano intorno una fantastica carola, dicendomi con dolcezza: — Siamo Jole, la piccola Jole; Jole che visse tanti anni felice in questa cameretta azzurra e profumata”. Tanti piccoli fantasmi sono ciò che resta di un tempo perduto e inaccessibile, di cui la casa rappresenta ormai solo un guscio vuoto.

 

Il ritorno impossibile di Vanna in “Casa paterna” di Maria Messina

La “casa paterna” del racconto di Maria Messina è tutt’altro che deserta e abbandonata: è ancora popolata dalla famiglia di Vanna, la protagonista della storia. Anzi, gli spazi si sono ingranditi con l’acquisto del “quartierino” attaccato all’abitazione, e sono arrivate anche alcune “facce nuove”, le nuove cognate Viola e Remigia, che hanno sposato rispettivamente Luigi e Nené e di fronte alle quali Vanna si sente in “soggezione” perché “alte e robuste”, mentre lei è “bruna e gracile”. Al contrario Maria è “la dolce cognata venuta molti anni innanzi nella casa paterna”. Piccola e bruna anche lei, Maria ricorda a Vanna “i bei giorni dell’adolescenza” ed è l’unica persona a cui la protagonista racconta i motivi che l’hanno spinta dopo tre anni di matrimonio ad abbandonare il marito Guido, vendere dei gioielli e imbarcarsi per tornare alla casa paterna. Vanna racconta a Maria la solitudine e la malinconia della sua vita coniugale, sulla quale sia lei sia il marito si erano fatti illusioni sbagliate («Non è colpa sua. Non è colpa mia. S’è ingannato. Ci voleva un’altra moglie»).

Ma se la casa è ancora popolata non vuol dire che sia più accogliente. Vanna percepisce dall’inizio l’ostilità delle cognate e la perplessità dei propri fratelli e della sorella minore, Ninetta, ma anche l’assenza di una calda accoglienza da parte dei genitori, ormai in balìa di Viola e Remigia perché non in grado di sostenersi adeguatamente con la sola pensione del padre. L’elemento economico, legato alla condizione femminile, torna a più riprese nel racconto sia per la mancata possibilità di provvedere a una dote adeguata per Ninetta, sia come fattore cruciale nella subalternità di Vanna nei confronti del marito («Certe cose bisogna capirle!» diceva Viola. «Quando non si porta un soldo di dote non si possono avere tante fisime!»). Di questa condizione è pienamente cosciente anche Vanna, che a Maria confida: «…Un giorno ho venduto l’orologino d’oro, una cosa inutile per me, e mi son comprato un vestitino azzurro bell’è fatto. Gli è piaciuto, e mi ha condotto a teatro, una volta (lui ha la Poltrona gratis). Allora ho provato una gran pena, perché ho capito che lui sarebbe quasi affettuoso se io non fossi così povera»). Lo stesso motivo ritorna sul finale quando, dopo essere stato richiamato da Vanna – estenuata dalle insistenze e dalle pressioni dei familiari – con una lettera di scuse, Guido rifiuta di pagare alla moglie il viaggio di ritorno verso Roma («Son venuto perché l’hai voluto tu. Io non sentivo alcuna necessità…di partire. Non sapevo di dover pagare anche il viaggio per te»).

Nel crescendo di respingimento che viene messo in atto dai familiari, a un certo punto Vanna sente che è la stessa casa paterna “mutata, trasformata” a rifiutarla ed espellerla, al suono di un reiterato «Non si torna indietro!» ripetuto delle “rose molli e profumate” del terrazzo e poi dal mare veduto dalla terrazza tanto amata, fino a un definitivo «Non si torna. Tutto cambia. I fratelli hanno un altro viso. La madre ha un’altra voce. Altre donne hanno occupato il tuo posto mentre eri lontana. E ciascuno ti accoglie, come s’accoglie una straniera di passaggio». È questo il momento in cui Vanna capisce che la casa paterna dei suoi ricordi, quella in cui aveva attribuito un nome a ogni stanza e in cui la madre era in grado di penetrare i suoi pensieri più profondi è ormai perduta, e si decide a scrivere a Guido.

La durezza e la freddezza di lui, che pure a parole dice di essere pronto a riaccoglierla in casa, spingono Vanna verso quell’unico elemento che veramente l’ha fatta sentire accolta e che è tornato in vari momenti del racconto: il mare che le richiama alla mente la sua fanciullezza e a cui aveva rivolto un’ultima invocazione: «Io t’ho passato due volte col cuore gonfio di speranze. Quando ho lasciato la mia casa e quando vi son tornata. O mare! Tu solo m’hai fatto festa la notte del mio ritorno… Potrò ripassarti con un po’ di fede nel cuore?». Fallito anche l’ultimo tentativo di riappacificazione col marito, Vanna sceglie di affidarsi al mare, riconoscendolo ormai come sua unica vera casa.

'Invito a pranzo' con conflitto. Alba de Céspedes e i suoi racconti


di Anna Lo Piano

Alba de Céspedes pubblica Invito a pranzo con Mondadori nel 1955, dopo un lungo processo di elaborazione. I diciotto racconti che compongono la raccolta sono stati scritti infatti nell’arco di due decenni, dal 1936 al 1954. Se il successo, per la scrittrice, arriva grazie ai romanzi “Dalla parte di lei” e “Quaderno proibito”, la forma breve rimane una costante della sua produzione ed è parte integrante di quel continuo lavoro di sperimentazione e cesello che ne caratterizza la scrittura. È lei stessa a dichiarare l’importanza della raccolta in una intervista apparsa su la “Fiera Letteraria” nel 1955:

“Uno scrittore non produce la sua opera: è lui stesso la sua opera e lavora senza aver mai la riposante impressione di aver compiuto il suo lavoro, non ha mai il senso del finito (…) In quanto a Invito a pranzo, mi sarebbe particolarmente difficile separarlo dagli altri miei libri, non solo perché ho cercato di raccogliervi racconti rappresentativi di diversi periodi del mio lavoro, ma anche perché alcuni di essi sono stati scritti contemporaneamente ai romanzi, o poco prima o poco dopo”.
(Cinque domande ad Alba de Céspedes, “Fiera Letteraria”, 7 agosto 1955)

In questa luce si rivela ancora più importante il lavoro di recupero a opera della casa editrice Cliquot.  Invito a pranzo arriva infatti in libreria dopo L’anima degli altri e a solo qualche mese di distanza da Prima e dopo, un racconto lungo che era stato concepito per far parte della raccolta ma che de Céspedes, d’accordo con Mondadori, decise di pubblicare a parte come romanzo breve sempre nel 1955.
Proprio nel confronto con le prove della giovinezza, è possibile apprezzare quello che può fare il mestiere quando viene applicato al talento. Ognuno dei racconti che compongono Invito a pranzo è pura gioia per il lettore, che può abbandonarsi a una lingua densa, capace di avvolgere ogni scena e darle dimensione, a una struttura tagliata a misura per distribuire i giusti spazi e confini ai personaggi, a una trama precisa come un meccanismo a orologeria, che si richiude nel finale come una trappola.

Se i temi sono quelli ricorrenti nella produzione di de Céspedes, sembra che il passaggio del tempo l’abbia fornita di strumenti per orientarsi nelle anse più profonde delle contraddizioni umane.
Ritroviamo i personaggi, soprattutto quelli femminili, scontrarsi con quella impossibilità di comunicare con l’altro che condanna alla solitudine, o lottare per un riconoscimento di sé che si incastra nelle maglie del giudizio morale, venga questo dalla società o da chi ci dovrebbe essere più caro. Il sentimento di frustrazione che porta Alessandra, in Dalla parte di lei, a trovare nell’omicidio del marito l’unica possibile via di fuga dalla propria condizione esistenziale, spinge i protagonisti di questi racconti ad atti di violenza disperati, come ne Il Libretto o ne Il muro del liceo, che con un incipit da thriller anticipa il finale e tiene la tensione alta fino all’ultima riga.

“Aveva deciso di sparare alla fine del colloquio, quando egli sarebbe stato certo di averla convinta che nulla era cambiato.”

Ma un sentimento di violenza, palese o trattenuta, permea tutte le storie; come se sotto ogni immagine di vita quotidiana si agitasse una sostanza magmatica pronta a esplodere.
“Non mi stupirei se un giorno, per liberarsene, l’ammazzasse” dice una delle passeggere di Compagni di viaggio parlando dell’uomo che ha cercato di infilarsi nel loro scompartimento. Gli occhi a lama tagliente, il fare imperioso che usa con la moglie, le fanno riconoscere un tipo di dominio che ha già incontrato. “È eccessivo, forse” obietta la narratrice all’ipotesi del delitto, e l’altra allora risponde: “Ci sono anche delitti morali” (…) “Delitti che nessuno conosce, che non vengono puniti, non conducono al carcere”.
Questi delitti morali hanno a che fare con la menzogna, il tradimento, il controllo sull’altro per sfuggire alla propria solitudine. Certi duelli possono giocarsi anche sul filo della pazienza, ci ricorda Mary Rose in La sciarpa grigia, un racconto in cui de Céspedes riesce a tenere un lavoro a maglia impugnato come una pistola. E se nella guerra dei sessi le donne possono apparire svantaggiate, queste storie ci mostrano come siano entrambi i componenti della coppia a finire prigionieri delle trappole sociali. Il ragazzino di Giornata d’agosto vorrebbe vivere un amore libero con una donna più grande e finisce per comportarsi secondo lo schema più becero possibile, mentre i due innamorati di “La ragazzina” si rincorrono a colpi di bugie mimando quello che sanno sull’amore per sentito dire, fino a trovarsi avviluppati in un matrimonio per troppa furbizia o, forse, invece, per troppa stupidità.
In questi racconti, che compongono uno spaccato umano, il conflitto esce dai confini della questione di genere e diventa sistema, infiltrandosi in ogni aspetto delle relazioni, da quelle tra subordinati e padroni a quelle di amicizia o di parentela.  In Invito a pranzo, che dà il titolo alla raccolta, il conflitto assume una dimensione ancora più vasta, incarnandosi nello sguardo di un inglese ospite di un amico in comune negli anni dopo la guerra. In una struttura che mi ha ricordato Bliss di Katherine Mansfield, la padrona di casa si affaccenda nei preparativi, tra la nostalgia e i sogni ad occhi aperti del mondo prima della guerra, che si illude di riportare in vita attraverso abiti e stoviglie. Man mano che il pranzo procede, però, la patina del quadro si sfalda sotto il giudizio condiscendente e lontano dello straniero, e la speranza cede il passo alla consapevolezza di qualcosa che non tornerà mai più.

In questi racconti, scritti o riscritti negli anni della maturità, il conflitto esce dalla sfera solo privata per diventare ritratto corale di una condizione esistenziale e storica. Sono gli anni in cui Alba de Céspedes dirigeva la rivista Mercurio, e sperimentava il respiro intellettuale e la capacità di confronto e selezione che offriva una tale impresa. Sono gli anni in cui sceglieva di tenere una rubrica su Epoca, Dalla parte di lei, per rispondere alle istanze sentimentali delle donne ma soprattutto di molti uomini. Nelle sue riposte mai scontate, sempre portate a cercare il valore universale degli interrogativi, si apriva all’ascolto alle voci profonde e inedite del paese che chiedevano cambiamento e che insieme lo rifiutavano.
E sono gli anni, infine, in cui la distanza dal tempo vorace della guerra le permetteva di guardare indietro con una prospettiva nuova, dandole la lucida capacità, in un racconto magnifico, di sottomettersi narrativamente, attraverso lo scontro con la visione profondamente straniante di un ospite casuale, al giudizio sul ventennio, sugli Italiani, sulle colpe che si portavano dietro inesorabilmente anche quando, come lei, avevano sempre lottato in direzione contraria.

Fiore d'arancio, di Marchesa Colombi

FIORE D'ARANCIO
di Marchesa Colombi

Da quanto più lontano risalgono le mie memorie, mi ricordo di aver aperta la corolla alla scossa di una brezza mattinale, e d'essermi trovato ad un'altezza straordinaria. Ero proprio sulla punta d'un ramo che si slanciava verso il cielo, e vedevo il terreno del giardino, al di sotto, molto al di sotto di me.
Mi guardai beatamente intorno, superbo della mia alta posizione.
Al di là del giardino che avevo immediatamente ai piedi, dominavo il pendìo della collina, nella sua discesa ripida fino al Po; su quel pendìo facevano macchietta tante ville signorili, sparse qua e là, come un branco di pecore biancheggianti. E giù giù in fondo, vedevo il Po, che s'incurvava, si torceva, mandava riflessi metallici come un serpente.
— Com'è bello stare al di sopra di tutti; dominare sui propri simili! pensavo olezzando dalla corolla sospiri di soddisfazione.
Poi guardavo gli altri fiori d'arancio che erano sbocciati sulla stessa mia pianta, ma nei rami inferiori, e che, per quanto allargassero i petali, non potevano vedere lo spazio immenso che io abbracciavo con uno sguardo. Li osservavo dall'alto, ed esclamavo con disprezzo: Poveretti!
Non l'avessi mai detta quella parola orgogliosa! Da Lucifero in poi, la superbia non ebbe mai miglior risultato che un capitombolo. Io ero destinato ad aggiungere un documento di più alla serie già numerosa di documenti, che provano la vanità delle cose di questo mondo.
Mentre ero assorto nella contemplazione della mia grandezza, vidi venire dall'estremità del giardino un signore abbrunato dal sole come una statua di bronzo, con un giubbino di tela bianca, ed un largo cappello di paglia. Camminava colle mani dietro il dorso canticchiando: «Uhm! Uhm! Uhm!» Teneva nella destra una piccola falce, lucente come un quarto di luna.
Quando fu vicino alla bella pianta d'arancio, che era come chi dicesse il mio albero genealogico, osservò con compiacenza il tronco robusto, le foglie spesseggianti, ed i fiori; fiori bassolocati, i miei umili fratelli che avevo disprezzati.
Ma invece di dividere la mia commiserazione, quel signor Botanico esclamò:
Bella pianta! Bella fioritura, per bacco! Questa va mandata all'esposizione.
Quella parola mi scese nel calice, soave come una goccia di rugiada! L'esposizione! Era là che la mia posizione eminente avrebbe attirata l'ammirazione di tutti.
Ad un tratto il signor Botanico alzò lo sguardo fino a me. Cercai di allargarmi e rizzarmi sullo stelo per piacergli. Ma egli si rabbuiò tutto in volto, e si pose a chiamare: Michele! Chele! Cheee!
— Signore! rispose il giardiniere sbucando in lontananza da dietro un chiosco di gelsomini, e correndo, con grande accompagnamento di zoccoli, alla nostra volta.
— Chi v'ha insegnato a lasciar allungare un ramo a quel modo? gli gridò il padrone accennando il mio ramo. Mi guasta tutta la pianta. Voi non badate a nulla. Ch'io stia una settimana in città, e ritrovo il mio giardino ridotto come l'orto di Renzo.
Il giardiniere non sapeva come fosse l'orto di Renzo. Ma io, che in una precedente esistenza aveva udito leggere i Promessi Sposi, stando nei capelli d'una bella signora, ed ero morto soffocato tra due pagine di quel libro, compresi benissimo. Lo slancio preso dal mio ramo non andava punto a genio del signor Botanico; provai un'angoscia indicibile.
— Vuole che lo tagli quel ramo, signor padrone? domandò con piglio compunto quello snaturato giardiniere.
Se avessi potuto stritolarlo!
— Sì eh? A quest'ora ci pensate? Ma quando sono qui io non ho bisogno di voi. Stateci attento un'altra volta.
Nell'agonia di quel momento i miei sentimenti erano così eccitati, che stavo per fare un miracolo, ed in uno sforzo supremo sciogliere la parola, ad eterna meraviglia del signor Botanico e di tutti i botanici presenti e futuri. Ma non ne ebbi il tempo. Vidi il signore color di bronzo alzare il braccio verso di me, vidi balenare nella sua mano il piccolo quarto di luna, sentii un dolore atroce alla congiuntura del ramo. Tutto il paesaggio mi oscillò d'intorno; perdetti l'equilibrio, e caddi rovinando a terra, mentre il signor Botanico si allontanava ripetendo in tono di soddisfazione il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!»

Là, umiliato ripensavo ad Icaro, che era caduto anch'esso per aver voluto salire troppo alto; e le mie povere foglioline bianche si rammollivano al sole come le sue ali di cera.
Pensavo che presto sarei morto, per rinascere chissà quando e chissà come; ed olezzavo languidamente negli ultimi sospiri la mia animuccia di fiore quando vidi due scarpine di pelle bronzata, e due calzettine azzurre tese su due gambine rotonde, che si avanzavano rapidamente verso di me, col movimento alternato di due piccoli stantuffi d'una macchina a vapore.
Feci uno sforzo straordinario per guardare più in su, ma non potei vedere che due ginocchietti color di rosa che si piegavano al mio fianco; ogni energia mi mancò e rimasi appassito.
Udii vagamente una vocina armoniosa che diceva:
— Oh! chi me l'ha gettato a terra il mio povero fiore? Il mio fiore bello che saliva fino alla mia finestra? Povero fiore! Povero fiore!
Mi sentii rialzato nella posizione verticale, e due labbruzzi come due fragole, mi sfioravano i petali sussurrando ancora:
— Ti hanno gettato a terra, povero fiore! povero fiorellino mio! Ma io ti farò tornar vivo, e sarai la mia pianta. Io so fare; io so fare; m'ha insegnato il babbo.
Fui sottoposto ad un'operazione dolorosa. Mi si schiacciò con un sasso l'estremità del gambo; mi fu ravvolto intorno alla parte schiacciata qualche cosa come dei fili, poi fui piantato in terra. Ma tutto codesto era fatto con garbo infinito, da due manine minuscole e lisce, ed io pensavo nel mio dolore, che molti ammalati avrebbero voluto esser guariti a quel modo.

Quando fui piantato sul gambo, e la terra del vaso fu leggermente innaffiata, mi sentii rinfrescato, e ripresi abbastanza vigore per osservare il medico pietoso che m'aveva salvato.
Era una bella bimba di otto anni. Bianca, rosea, bionda come un puttino dell'Albani. E mi saltellava intorno giuliva, proprio come quei puttini nella Danza degli amori; soltanto un po' più vestita.
Dio dei fiori! Quanto ho voluto bene a quella bimba! Quanta riconoscenza le ho votata! Morii e mi riprodussi, sempre sulla sua pianta, e sempre devoto alla mia piccola salvatrice.
Ogni autunno veniva un giorno triste, in cui Dora mi salutava, mi copriva amorosamente i piedi colla paglia, mi raccomandava al giardiniere, poi saliva in carrozza mostrandomi le gambine, ed i ginocchietti dal rovescio, ed il fondo bianco delle gonnelline corte. Poi mi mandava un bacio, ed un altro, ed un altro; i cavalli scalpitavano, prendevano la corsa e via! Per sei mesi non la vedevo più.
L'inverno era lungo ed uggioso, e lo passavo pensando a lei, e tesoreggiando profumi per inebriarla in primavera.
Ad ogni maggio la vedevo tornare più alta, più bella. Mi faceva un gran chiasso d'intorno. Ripeteva le lezioni camminando su e giù accanto al vaso, con voce alta e monotona, ed alternando le risposte poco sicure, con domande fatte in tono cattedratico e colla voce grossa per imitare una maestra.
Poi buttava i libri all'aria, giocava, rideva, cantava; mi circondava il vaso di bambole. Talvolta stendeva a' miei piedi una tovaglina più stretta d'una pezzuola, disponeva tondini e bicchieri infinitesimali, chiamava i bimbi del giardiniere, ed imbandiva un banchettino da burla con foglie di rosa, confetti ed acqua inzuccherata.
Bei tempi erano quelli! Bei tempi!

Poi venne un anno, lo ricordo sempre, un anno in cui non vidi più le gambine rotonde ed i ginocchietti color di rosa. Le gonnelline corte erano allungate. I bei capelli, sciolti fin allora come una pioggia d'oro, erano intrecciati e raccolti a spirale a sommo il capo.
Dora non saltava più; camminava composta. Non canticchiava più canzonette stonate al vento; cantava in tempo ed a tono, con accompagnamento di pianoforte; non mi ingombrava più il vaso di bambole; vi sedeva tranquilla con qualche libro accanto, e leggeva versi e prose in lingue strane che non potevo comprendere, ma che sonavano soavi come una melodia udite dalla sua voce armoniosa.
La bimba era divenuta una signorina.
Però mi amava sempre, mi chiamava sempre la sua pianta, il suo fiore; ed io mi avvezzai a vederla così.
Fu ancora un tempo bello. La signorina veniva in villa colle sue compagne. Sedeva o passeggiava con loro intorno a me. Parlava di studi, d'arti, di teatri, di libri, di musica, di abbigliature.
Posava sul mio vaso la gabbia del canarino, e gli diceva molte cose graziose, molti vezzeggiativi, a cui il canarino rispondeva gorgheggiando. Allora erano grandi elogi, grandi ammirazioni pel suo canto e pe' suoi occhi innamorati; ed io ero geloso. Non de' suoi occhi, che per la bellezza non avevo nulla da invidiargli; ma dei suoi gorgheggi. Oh come avrei voluto sciogliere anch'io una canzone a quella bella fanciulla!
Nel mio dolore, le soffiavo in volto una ondata di profumo, ed allora ella si volgeva a me, e dava a me pure espansioni e lodi. Ed io pensavo:
— A lui il canto, a me l'olezzo. E non invidiavo più il canarino.

Più volte si diedero delle feste. Vennero molti bei signori dalla città. Si appesero lampioncini a tutti gli alberi del giardino. Tutte le sale furono illuminate. Udivo la musica. Vedevo traverso le finestre belle coppie di signori e dame agitarsi in tempo di danza. Ed i bicchieri tinnivano, ed echeggiavano i discorsi galanti e le risa.
La mia salvatrice era ammirabile allora, col volto acceso dal movimento e dall'allegrezza. Andava, veniva, danzava, rideva, ricercata da tutti, cortese con tutti, bella, gioconda, felice.
Il signor Botanico, vestito di nero, coi guanti, e senza il terribile quarto di luna, ma sempre color di bronzo, la seguiva coll'occhio passeggiando di sala in sala, e spesso gli sfuggiva, sui tre toni più alti della soddisfazione paterna, il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!
Quell'anno Dora venne a salutarmi il mattino dopo la festa, un po' abbattuta dalla lunga veglia, ma sorridente, spensierata. Andava incontro al carnovale, co' suoi divertimenti che amava tanto; e non si affliggeva punto di tornare in città.
Ne fui lungamente crucciato, tanto più che il canarino era partito con lei. E nelle giornate uggiose dell'inverno ripensai quel saluto senza rimpianto della signorina, lo confrontai coi saluti espansivi della bimba, ed appassii di dolore. Mi sentivo meno amato.
Con che ansietà aspettai la primavera! Con che gioia la sentii venire tepida e serena! Il succo mi corse più rapido e caldo negli steli; mi sentii ravvivato, e sperai.

Un mattino, quando non me l'aspettavo ancora, udii rotare la carrozza dei signori. Mi feci investire dal primo soffio d'aria che passò per voltarmi da quella parte ed essere il primo a vedere la mia salvatrice.
Stava seduta in fondo alla carrozza. Era pallida e mesta.
Il mio primo sguardo fu per lei; il secondo per cercare il mio piccolo rivale biondo. Ma né presso la signorina, né dietro colla cameriera, mi riuscì di vedere la gabbia. Il canarino non c'era.
— Forse è morto pensai. E nella mia semplicità di fiore compiansi sinceramente il mio rivale.
Ma, nello scendere di carrozza, la vecchia zia di Dora, che faceva raccogliere dalla cameriera una catasta di scialli, mantelli, sciarpe, veli, borse ed ombrelli, si volse alla nipote, e le disse:
— E il tuo canarino, Dora?
— Ah! esclamò Dora con un atto di sorpresa incresciosa; ma fu passeggera. Riprese subito con indifferenza:
— L'ho dimenticato!
Flora e Cerere! Aveva dimenticato il canarino! Ma a che cosa pensava dunque?
Mi passò accanto senza guardarmi ed entrò in casa. Più tardi però uscì, e venne a vedermi, e mi accarezzò. Ma erano carezze distratte. Il suo cuore non era più là. Le olezzai contro tutto il mio profumo per consolarla. Ella lo accolse colla stessa indifferenza con cui s'era ricordata del canarino.
Passò un mese senza che udissi la sua voce intonare una canzone. Non la vidi mai sorridere. Passeggiava lenta, solitaria, silenziosa, e spesso aveva gli occhi rossi e gonfiati.
Piangeva? E perchè? Avrei voluto saperlo, ed avrei dato fin l'ultimo atomo d'essenza che poteva esalare dalla mia corolla per risparmiarle una pena.
Anche il signor Botanico avrebbe voluto saperlo, ed avrebbe dato fin il suo quarto di luna per risparmiarle una pena. Ma non riusciva neppur lui a capirne nulla e gemeva tristamente in tuono di dolore il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!

Un giorno erano tutti seduti dinanzi a me sotto la gradinata della sala da pranzo. Tutti non erano molti. Il signor Botanico, la vecchia zia e Dora.
Parlavano d'una festa da dare in villa, come l'anno precedente.
Dora aveva un taccuino sulle ginocchia, e scriveva colla matita l'elenco delle persone da invitare. La zia le dettava una filza sterminata di nomi da signora, che Dora scriveva con indifferenza. Finita quella litania femminile, cominciò un'altra litania più lunga di nomi maschili, che la signora continuava a dettare, come le si affacciavano alla memoria.
Si affacciavano prima i marchesi, i baroni, i conti, poi i cavalieri, gli avvocati, gli ingegneri, ed i signori Tali.
Dora scriveva sempre senza dare il menomo segno di approvazione o di biasimo. Giunta in fine dell'elenco, la zia conchiuse per ultimo:
— E Franco.
— Franco? disse Dora facendosi rossa come una fragola.
— Sicuro, Franco. Vorresti escludere dagli invitati mio cugino?
Dora non fece altri commenti. Scrisse, poi ripeté:
— Capitano Franco Trestelle.
La signora non aveva più nomi da aggiungere. Si alzarono per andare a scrivere gli indirizzi delle circolari.
Per quella sera Dora non uscì più in giardino, ed io rimasi solo a pensare cosa, o chi, o come potesse essere quel Franco, al cui nome soltanto Dora si scuoteva dalla sua apatia, e si coloriva come una fragola.

Venne il giorno della festa. Dora era troppo occupata per pensare a me. La vidi tutto il pomeriggio andare e venire in abito di percalle azzurro, ed incontrare ed accogliere le sue ospiti. Era gentile con tutti. Ma non sorrideva, non si animava. Una cura penosa doveva starle nel cuore.
Sull'imbrunire cominciarono a giungere i landeaux ed i breacks senza signore, tutti carichi di giovani eleganti, coi lunghi pastrani di lustrino, che scendevano fin sulle scarpe per coprire le abbigliature da ballo. La vecchia zia ed il signor Botanico li accoglievano salutandoli dalla gradinata del salotto; ma Dora non c'era più.
— È intenta alla sua abbigliatura di gala, pensai: e mi rassegnai a non vederla; ma il tempo mi parve lungo.
Verso le due di notte, quando la musica era più animata, e le coppie si movevano più allegramente nelle sale, vidi un'ombra solitaria e bianca [169]scendere la gradinata, ed avviarsi con rapidità convulsa verso di me.
Era Dora con un bell'abito di seta color di zolfo; aveva la coda lunga come una cometa, ed era ornato da sciarpe di velo reseda, sostenute con mazzi di rose d'un bel carmino. A breve distanza, ed a luce di luna quell'abbigliatura chiara pareva bianca.
Il volto pallido della signorina, i suoi occhi gonfi si accordavano male coll'aria di festa della sua casa e della sua abbigliatura.
Si gettò a sedere sul mio vaso, mi appoggiò la fronte al tronco, e rimase a lungo cosí, a capo chino, come se contemplasse la terra che mi circondava. Ma le cadevano dagli occhi grosse gocce cristalline, che non erano pioggia né rugiada. Avevano un sapore acre. Erano lacrime.
Io le effusi intorno tutto il mio olezzo, la avvolsi in un'atmosfera di profumo, come si ravvolgono le reliquie adorate in nubi d'incenso. Ed il suo cuore, commosso da quella espansione, si aperse ad una confidenza intima, e sospirò:
— Se potessi non amarlo più!
Non amare, più chi? Il Canarino? Ma se l'aveva dimenticato! E poi perchè non amarlo più? Erano sempre andati d'accordo... No. Non poteva essere il canarino. Ma chi dunque? Io no di certo. Non le avevo dato alcun motivo per desiderare di non amarmi più.
Pensai un momento. Ricordai le persone che vedeva, quelle che nominava, le espressioni del suo volto, le sue parole, i suoi atti: e ad un tratto mi ricordai:
— Franco! Franco, che non voleva invitare. Franco per cui ha arrossito come una fragola. È per lui che piange. È lui che vorrebbe non amare.
Dunque lo amava. Maledetto Franco! Chi era? Non lo conoscevo punto; ma avrei voluto asfissiarlo.

Dora alzò gli occhi, ancora bagnati di pianto, e stette a guardare distrattamente la porta a cristalli della sala che era in faccia a noi.
La musica cessò. Poi due figure si affacciarono nel vuoto illuminato della porta. Un ufficiale ed una bella signora che si davano il braccio, ed accostavano le teste per parlare sommessamente; poi ridevano. Formavano un bel quadro oscuro su quel fondo chiaro di luce.
Dora li vide, e scoppiò in singhiozzi. Compresi che quell'ufficiale era il capitano Franco Trestelle. Era gelosa di quella signora, come io ero geloso del canarino. Povera Dora!
Le due ombre eleganti scesero lentamente la gradinata, e si avanzarono verso di noi sussurrandosi all'orecchio parole animate, e guardandosi negli occhi, e ridendo.
Dora si rannicchiò dietro a me, si nascose alla mia ombra.
Io invece, più ardito, rimasi immobile in faccia ai misteriosi passeggiatori. Guardai Franco. Era un bel giovine bruno, dalla persona alta e florida, dal portamento baldanzoso, dagli occhi neri, scintillanti, temerari e buoni.
Guardai la sua compagna. Il volto un po' dipinto, la persona tondeggiante, l'abito damascato, i pizzi di Bruxelles, i brillanti che parevano lucciole...
Per tutti i profumi del Serraglio! era una donna maritata.


Tutto il mio senso morale di fiore si rivoltò a quella scoperta. Lanciai dietro a Franco un tal buffo di profumo, ch'egli volse il capo dicendo:
— Che buon odore d'arancio!
E nel voltarsi vide un lembo di quella coda interminabile color di zolfo, ed indovinò che Dora lo vedeva e lo udiva.
Si fece serio, e tirò via in silenzio, malgrado il cinguettio ameno e civettuolo della bella signora.
Quando furono scomparsi tra la folla della sala, Dora si alzò anch'essa. Non sospettava punto d'essere stata scoperta. Mentre si avviava alla sala del ballo, io le mandai un olezzo che voleva dire: Prendimi con te.
Ella staccò un fiore dal mio stelo, e se lo pose nei capelli sussurrando: Non ho che te da amare, mio povero fiore. E rientrò. Franco le andò incontro per domandarle un ballo. Ella stese la mano e lo seguì in silenzio.
— Si diverte Dora? domandò il cugino, non abbastanza prossimo per darle del tu, non abbastanza lontano per chiamarla signorina.
— Sì, rispose Dora.
— Non l'avrei mai creduto; mi sembra malinconica.
— È il mio carattere.
— È pallida.
— Lo sono sempre.
— Da quando?
Dora non rispose. Franco osservò ancora:
— Ed ha anche freddo, mi pare.
Dora tacque sempre, ed abbassò il capo. Franco le domandò:
— Dove l'ha preso, quel fiore d'arancio?
— Non so... sulla mia toeletta.
— Ma che, Dora; si confonde. Mezz'ora fa non l'aveva.
— L'ho colto or ora.
— L'ha colto sulla toeletta? Ed abbassando la voce con una nota di petto, appassionata come un sospiro, continuò:
— Perchè stava sola, al freddo della notte, sul vaso d'arancio? Perchè ha gli occhi rossi, Dora? Dica; perchè!
E la guardava fissamente in volto collo sguardo scintillante, temerario e buono.
Dora non osò rispondere. Si fece rossa e continuò a tener gli occhi bassi in silenzio.
Era la loro volta di ballare, e Franco la strinse forte al seno, e nel lasciarla le premette lungamente la mano.
Fu l'ultimo ballo. Dora si ritirò nella sua camera, ma non dormì. Guardava il mio fiore, ripensava tutto il discorso che aveva fatto nascere, e mormorava:— Chissà?

Il domani tutti gli invitati partirono. Anche la bella signora dai pizzi, dai brillanti, dai colloqui civettuoli e segreti.
Franco solo, come parente della famiglia, rimase.
— Resti con noi, Franco? domandò la zia.
— Sì. Dora mi ha promesso una gemma del suo arancio. Mi fermo per staccarla, e per piantarla. Ed offerse il braccio alla cuginetta, e la trasse presso il mio vaso.
— Sa perchè non sono partito? le domandò colla sua bella voce di petto. Lo sai Dora?
A quell'ultima parola che le dava del tu, Dora ebbe un sussulto che la scosse tutta. Per un sentimento di decoro volle allontanarsi, ma non ebbe il coraggio. Si lasciò cadere come nella notte sul mio vaso, e si nascose il volto tra le mani.
Franco sedette egli pure, e le mormorò:
— Non sono partito perchè ti voglio bene; e perchè so che tu pure mi vuoi bene.
— Oh, Franco! esclamò Dora singhiozzando. Questa notte non era a me che volevi bene.
— Sì, Dora, sempre. Ebbi un momento di debolezza, ma volevo bene a te sola.
E le prese una mano, ed accarezzandola continuò:
— Ed il tuo fiore mi fece voltare col suo profumo; e mi fece vedere che eri qui sola, e che mi avevi veduto, e che piangevi. Ed allora non ho più pensato che a te; te lo giuro. Vuoi perdonarmi, Dora?
E mentre parlava sommesso, tirava dolcemente la manina, e faceva chinare verso di sè la personcina sottile e la bella testa bionda.
— E poi se ti accade ancora un momento di debolezza? disse Dora. Ne hai tanti quando ti trovi fra belle signore...
— Sta sempre con me, cara. Sii tutta mia, ed i momenti di debolezza li avrò soltanto per te. Lo vuoi Dora? Vuoi essere mia moglie? Di', vuoi?
Il braccio dell'ufficiale cingeva la personcina sottile, e la bella testa bionda sfiorava quasi la sua spalla, mentre egli la guardava negli occhi collo sguardo scintillante, temerario e buono.
Sì... Dora sussurrò che voleva, e gli diede uno dei miei fiori:
— È stato il mio fiore d'arancio che ci ha riuniti; quando andremo in chiesa a sposarci lo porterò nei capelli.
Le labbra dell'ufficiale avevano incontrate quelle di Dora, e, per quella combinazione improvvisata, il discorso rimase interrotto.
«Uhm! Uhm! Uhm! s'udì canticchiare quasi subito sul tono languido d'uno sbadiglio.
— Il babbo! disse Dora. Ed i due giovani balzarono in piedi, e corsero incontro al signor Botanico, e colla voce commossa e gli occhi lucenti, gli dissero tutto... o quasi.
— Benedetti ragazzi! borbottò il babbo. Ma quel giorno, malgrado la stanchezza della notte vegliata, si osservò che intonava con insolita giocondità il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!»
E fu a questo modo ch'io divenni un fiore nuziale.

La cultura della sensibilità di Antonio Tabucchi

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Cos’è una pietra?
L’opera di Tabucchi nelle visioni
di Racconti con figure

di Andrea Cafarella

 

Lo scrittore guardava quelle pietre e pensava: cos’è una pietra? Dopo lungo pensare decise che una pietra è una pietra è una pietra è una pietra. D’accordo. Ma forse che una pietra significa qualcosa? No: una pietra in sé, così come un albero in sé, non significa niente.
Antonio Tabucchi, «Doppio enigma»

 

L’incontro

Ho conosciuto Tabucchi, come molti, entrando in aula e sedendomi al primo banco, consapevole del ruolo pedagogico di una scrittura che non avevo ancora mai ascoltato ma che era già attestata dentro di me come esemplare. Spesso questo tipo di predisposizione porta a sopravvalutare un’opera, per il semplice fatto che l’autore viene considerato, dalle fonti più disparate e non sempre affidabili, un maestro assoluto. Personalmente, all’opposto, questo approccio mi porta spesso indicibili delusioni che ho tentato di evitare, col passare del tempo, smitizzando tutti i grandi. E a volte funziona. Nel caso di Tabucchi, è stato invece esattamente come entrare in aula in attesa del grande maestro e trovarsi davanti uno sfrontato ed elegante professore anarchico. Uno che riempie le due ore di lezione con la densità dell’esperienza diretta, della carne, del sangue, ma riportando i suoi racconti a una dimensione metafisica e universale, il tutto con la nobile delicatezza di un insegnante di provincia degli anni settanta. Lui, il nostro intellettuale più europeo, italiano a metà, cittadino del mondo e viaggiatore instancabile.
Ho conosciuto Tabucchi, come molti, leggendo Notturno Indiano (Sellerio, 1984). Un romanzo onirico e visionario che come centro ha il viaggio, che non è solo il viaggio fisico di un corpo da un luogo a un altro luogo, ma soprattutto quello spirituale che compiamo dentro noi stessi e che riporta a un io interiore sbiadito e spettrale, uno specchio misterioso, un gemello inesistente che tutti noi conosciamo o vorremmo conoscere.
In seguito ho letto la maggior parte dei suoi libri, dai più conosciuti a quelli considerati secondari, fino alla costellazione di testi che coinvolge l’opera del suo caro Fernando Pessoa. Ma c’è uno di questi libri che considero un po’ come la bibbia di Tabucchi, uno di quei libri che riescono a dipingere la complicatezza di un’opera intera in un unicum maestoso e perfetto, pur nella sua incompletezza: Racconti con figure (Sellerio, 2011). Ho percepito immediatamente questa sua caratteristica illuminante quando, apertolo, dopo un’introduzione puntuale dell’autore, vi ho trovato il primo racconto «Tanti saluti» che, entrando subito in quel clima onirico che si diffonde per tutta la raccolta, ci rimanda, ancora, al tema del viaggio, come se stessi ricominciando a leggere Tabucchi dal principio, da Notturno Indiano. Qui però il viaggio non viene del tutto compiuto e vissuto, è quasi come se Tabucchi ci mostrasse la dimensione dello scrittore come viaggiatore in potenza, che prepara la lista delle cartoline che dovrà acquistare durante il viaggio e poi si ricorda di alcune altre cartoline, acquistate in una galleria d’arte, e decide che le userà, applicando i francobolli dei luoghi che si accinge a visitare, a raggiungere. Ma, come sempre in Tabucchi, il viaggio, ancor prima di cominciare, inizia con un incontro. E se il viaggiatore è lo scrittore, che rovista tra i suoi fogli-cartoline, nel suo faldone pieno di carte e inchiostri, l’incontro, forse, è proprio quello con il lettore e chissà che le cartoline di «Tanti saluti» non siano proprio i frammenti di Racconti con figure, lasciati a noi prima di inoltrarsi nel suo ultimo viaggio (Antonio Tabucchi muore nel 2012 un anno dopo la pubblicazione di Racconti con figure), fatti appunto di cartoline nuove, da comprare durante il pellegrinaggio, e vecchie, da riprendere in armadi vetusti e cassetti polverosi per rivestirle di nuovo con francobolli sgargianti che le ricollochino nell’unico viaggio, senza inizio né fine.

L’erede

C’è una generazione di scrittori italiani, che va da Landolfi e Buzzati passando per Manganelli e arriva fino a Calvino e Parise, che possiede una lingua di gusto finissimo, anzi, tutte le lingue sguinzagliate di questi grandi maestri, con le loro differenti ed essenziali peculiarità, hanno in loro un elemento comune, semplice ma essenziale: l’eleganza sopraffina della parola. Se prendiamo una pagina di Carlo Dossi, di Gadda, di Pasolini, nella loro diversità distante, hanno tutte una forma che si accende nella consapevolezza del veggente, dell’uomo prima dell’artista, del pensatore, del prosatore che nasce dalla lingua per generare significato attraverso il linguaggio riportando tutto, in un magnifico giro di corda, al principio: la parola.
Antonio Tabucchi è affratellato a questa generazione di grandi scrittori italiani come pochissimi altri, per l’ampiezza della sua opera, per la profonda coscienza della sua scrittura, ma soprattutto per l’attenzione cristallina verso la bella forma della lingua. Racconti con figure, in particolare, si compone delle più svariate prose e contiene testi che Tabucchi scrisse in differenti periodi della sua vita e della sua crescita artistica e che sono puri esempi di stile e bella scrittura, pur senza fermarsi al mero esercizio ma sprofondando nella sensibilità umana che sbircia la verità autentica nascosta nell’inconoscibile della Letteratura.

La cultura della sensibilità

Questa spiccata sensibilità del maestro Tabucchi, in questo strano libro fatto di brevissimi racconti ispirati da altrettanti dipinti, si può ravvisare già dal primo sguardo superficiale al libro: scorrendo l’indice. Per chi conosce Tabucchi, e inevitabilmente Pessoa, leggere un titolo come «Le vacanze di Bernardo Soares»  è evocativo ed emozionante. Ci si aspetta un riavvicinamento di Tabucchi al suo stesso maestro, che è stato per lui un faro, fino a portarlo a scegliere il Portogallo come sua patria elettiva e scrivere in portoghese uno dei suoi romanzi più belli: Requiem, su cui tornerò. Quando poi apriamo alla prima pagina del racconto e troviamo la terrazza di Pessoa dipinta da Modica, tutto torna, e sembra di ricevere un regalo, di accogliere di nuovo Bernardo Soares in casa nostra, anzi, in casa di Tabucchi che ci ha “casualmente” invitati alla stessa ora.  Sembra di poterci rituffare, grazie a questo dono personalissimo, in quell’opera straordinaria che Pessoa non portò mai a termine attraverso la scrittura di chi lo conosce meglio, di chi può anche invitarlo a casa per cena, di chi può evocare, convocare esattamente Fernando.
E se, per Tabucchi, Pessoa è stato l’ago della bussola, è nelle avventure di Pereira che risiedono le motivazioni che lo hanno portato all’autoesilio, che fu pur sempre doloroso e pieno di vergogna, come tutti gli esili. In Racconti con figure ritroviamo anche lui, Pereira, (« è arrivato il dottor Pereira») con la sua solita limonata, convocato in una forma ancora diversa. Pereira è effettivamente solo un dipinto su un foglio di carta, quella stessa immagine che apre il racconto, ma allo stesso tempo è, per Tabucchi-narratore, l’entità stessa di Pereira e di Pereira-personaggio, in un gioco di livelli narrativi, tra l’autobiografico, l’onirico e il puramente espressivo, che si ripropone con intelligenza e attenzione lungo tutto il libro.
Questo tipo di intima sensibilità, che si può ravvisare già dalla dedica a Elvira Sellerio, – cui aveva promesso questa raccolta e che riesce a consegnare soltanto alle sue memorie – condisce tutto il volume, regalandoci una sensazione costante di affettuosità amichevole, piena di personaggi fittizi e persone della vita dell’autore che egli sembra richiamare a sé – evocare – per un’ultima cena in famiglia.
(Un’affettuosità che tutti ma, ancor di più, tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’arte e della cultura, dovrebbero, secondo me, tenere sempre a mente, anche e soprattutto grazie al naturale contatto con questi esempi di splendida lucentezza).

Mosaici

Si dice spesso che scrivere – e leggere – racconti sia più difficile che scrivere romanzi. (Cosa vera se generalizzassimo, che in letteratura è sempre sbagliato.) Sicuramente però, la brevità è una caratteristica tecnica che complica la narrazione a livello strutturale ma soprattutto stilistico e linguistico. Difficilmente un racconto, senza una voce forte a sostenerlo, funziona, come potrebbe invece fare un romanzo o ancora di più, per sua stessa natura, un saggio. I racconti di Tabucchi, già dalle prime raccolte, come Il gioco del rovescio (il Saggiatore, 1981) o Piccoli equivoci senza importanza (Feltrinelli, 1985) sono sempre di qualità ineccepibile, onirici, visionari, tendono già all’immediatezza dell’incontro intangibile che simbolicamente mostra tutto, ma, allo stesso modo di altre raccolte che fanno della brevità la loro caratteristica di primo impatto, come il Sillabario di Parise o Centuria di Manganelli, Racconti con figure contiene delle intuizioni, dei lampi, dei brevissimi testi che si accostano perfettamente ai dipinti che li accompagnano perché pittorici, espressionistici. Si arriva addirittura a incontrare delle forme ibride, come i telegrammi a Olga Luna e Jean-Paul Philippe («Telegramma a Olga Luna» e «Telegramma a Jean-Paul Philippe») che sono scritti proprio a mo’ di telegrammi, diventando delle vere e proprie poesie narrative. Oppure come «Eureka, non-eureka» dove torna una poesia (l’unica della raccolta) che un centinaio di pagine prima il personaggio dello scrittore, protagonista di «Doppio enigma» (uno dei racconti della raccolta, quello da cui ho tratto l’epigrafe che ha dato l’abbrivio a questo mio ragionamento) ricorda riflettendo a proposito del significato delle pietre, creando quella magnifica comunicazione tra i testi che premia il lettore attento con illuminanti epifanie. Ci si sente bene a capire i piccoli enigmi di Tabucchi, come se, chiedendoci un leggerissimo sforzo, ci promettesse, mantenendo sempre la promessa, di portarci per qualche attimo a sbirciare oltre la siepe.

Sogni di sogni

I testi contenuti in Racconti con figure sono immagini, sono stralci di vita, sono suggestioni, ma prima di tutto sono sogni. Si potrebbe dire che tutti i libri di Tabucchi sono dei sogni. Requiem è uno di questi, ma anche Sogni di sogni, o Donna di Porto Pim. Ognuno di essi descrive il sogno-viaggio del viaggiatore-scrittore-uomo che con lo zaino-faldone-zibaldone in spalla s’inoltra nel lungo pellegrinaggio attraverso l’invisibile intangibile. E, ancora di più, in Racconti con figure si attraversa questo tema onnipresente: si va da un sogno («Sognando con Dacosta») nel quale Tabucchi stesso entra dentro il quadro, in cui si mischia nuovamente il dato biografico a quello onirico in un cammino interiore che sa di visione ad occhi aperti; fino ad arrivare ai sogni di «Una notte indimenticabile» o «Fermo così, non si svegli» nei quali la fantasia dell’autore e la forza di una prosa incorruttibile e delicata dipingono mondi complessi, i cui magnifici strati di finzione e verità nascondono visioni che non pretendono risposte ma che lasciano una sensazione di turbamento piacevole e accogliente.
Infine c’è il sogno nella sua forma più pura: la poesia. In racconti come «Notte di un sogno di mezzo inverno» la prosa poetica splendida e semplice si frammezza ad haiku della più grande tradizione giapponese in un’ode alla luna che è un’ode ai sogni e all’immaginazione e alla notte e all’estasi silenziosa della notte e del viaggio senza fondo attraverso l’inconoscibile.

Quando l’artista è vicino alla fine

La saggezza estasiante di questi frammenti pittorici e poetici, io credo, venga da quell’assurda forma di consapevolezza che spesso coglie gli artisti all’accostarsi della nera signora. Sembra come se l’olezzo di morte, la vicinanza agli spettri, la capacità di contemplazione di fronte al tempo di una vita o semplicemente l’esperienza o meglio: tutti questi aspetti contemporaneamente, contribuiscano a generare in alcuni artisti e anzi, più propriamente, in alcuni uomini, una capacità di visione straordinariamente ampia, una luccicanza in grado di svelare i segreti più profondi e regalarci uno splendore che solo un’opera complessa e densa, come quella di Tabucchi, può illuminare completamente. (Caratteristica che paradossalmente e con altre motivazioni possibili troviamo spesso anche nelle opere prime dei grandi maestri).

Mi parrebbe abbastanza, a proposito del valore di lascito che possiede questo libro, aver fatto riferimento alla dedica che Tabucchi fa a Elvira Sellerio – davanti a un ritratto di sé stesso eseguito da Valerio Adami ­– e l’aver accennato a tutta la serie di richiami alla sua stessa opera e alle opere che più ha amato, ma penso che il racconto che chiude la raccolta sia degno di un ulteriore commento in questo senso. S’intitola «Per un catalogo che non c’è» ed è affiancato dall’immagine di copertina di uno dei suoi libri, che ho già nominato, Requiem, nella sua versione inglese, in cui appare un dipinto del caro amico Bartolomeu Cid dos Santos, Paisagem. Tabucchi racconta le coincidenze che hanno portato quel dipinto (poiché l’editore che lo scelse non era a conoscenza della loro amicizia) a diventare l’immagine di copertina di un suo libro. L’episodio è un episodio minimo, uno stralcio di vita che si dilunga in un omaggio, di altissima prosa, alla pittura, ai dipinti e alla capacità evocativa che riescono a esprimere le immagini. Celebrazione che è certamente centro di tutto il volume. Infine Tabucchi si concede lo spazio per commemorare l’amico ma soprattutto l’artista, anch’esso, come la dedica, arrivato postumo perché «come si sa, a volte, quasi sempre, la morte è più lesta di noi».
Questo racconto suona quasi come un post scriptum, un ultimo messaggio prima di ricongiungersi ai suoi cari personaggi, quelli tangibili e quelli che esisteranno per sempre nelle sue pagine e nelle pagine dei suoi più amati autori, quasi li lasciasse, gli uni e gli altri, un po’ anche a tutti noi che restiamo.

Quando cominciò a scendere il ragazzino lo chiamò. «Però non è giusto...», gridò, «ma grazie, grazie davvero!».
L’uomo gli fece un cenno con la mano. «Tanti saluti» disse fra sé e sé.

Antonio Tabucchi, «Tanti saluti» da Racconti con figure (Sellerio, 2012)

 

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Deposizione, di Grazia Deledda

Deposizione
di Grazia Deledda

Quest'agosto scorso - raccontò l'accusato - mi trovavo a Ghinfe, che è frazione di una piccola stazione balneare sull'Adriatico.
Nelle piccole stazioni di villeggiatura c'è, più che nelle grandi, probabilità di essere aiutati dal prossimo. La gente che le frequenta è semplice, di pochi mezzi e quindi di buon cuore. I ricchi vanno nelle stazioni di lusso, e i ricchi non sentono compassione del povero perché non sanno cosa sia la miseria. Prima di arrivare a Ghinfe avevo tentato Rimini, dove certe signore esili, dall'aria triste e sofferente, alle quali mi ero avvicinato con la speranza di essere inteso e aiutato, mi risero in faccia con denti crudeli: la mia grande miseria parve anzi divertirle; e poiché insistevo mi diedero del mascalzone, del vagabondo, e chiamarono un bagnante per farmi allontanare. Quel giorno veramente pensai a morire: non mangiavo da quarantotto ore. Poi la rabbia e l'umiliazione mi sostennero.
Cammino: lungo la spiaggia vado su, su, fino a Viserba: ma i bagnanti, e specialmente le donne, alle quali è sempre meglio rivolgersi, hanno ancora un aspetto troppo elegante che non mi incoraggia ad avvicinarli. Cammino: evito le guardie di dogana che si volgono a guardarmi sospettose. È doloroso come il povero emani un odore di bestia selvatica: anche i cani lo sentono e abbaiano al suo passare. Ed egli cerca di nascondersi, di fuggire. Questo è il segreto del vagabondo, e il suo tormento: la necessità di star solo, in un isolamento terribile che è già quello della morte.
Cammino, dunque: sono abituato a camminare anche se ho fame, se ho la febbre, anche se dormo.
E mi sembra appunto di camminare e sognare quando da un sentieruolo fra le tamerici dell'arenile verso Ghinfe vedo sbucare una signorina in lutto.
Sulle prime mi sembra una bambina, tanto è piccola, coi vestiti corti, bionda e rosea sotto l'ombrellino nero che tiene rasente alla testa come un grande cappello. Cammina tranquilla, in quel perfetto deserto, come nella piazza del paese: e mi viene quasi incontro fissandomi coi grandi occhi celesti che però abbassa a misura che anch'io muovo verso di lei rispettoso e fiducioso.
- Ecco il fatto mio - penso, e col cappello in una mano e la scatoletta dei bottoni nell'altra, sinceramente turbato le dico: - Perdoni, signorina, sono gli ultimi che mi rimangono di una partita di mercerie. Non vorrebbe acquistarli?
Ella guarda attentamente la scatoletta aperta, poi solleva gli occhi ed io mi sento avvolgere tutto come da un velo azzurro. Ed ho l'impressione che oltre il mio corpo quegli occhi vedano l'anima mia, nella sua più profonda miseria, e che al riflesso di questa si coprano d'infinita tristezza.
Ella ha inteso chi sono. - Quanto è? - mi domanda senza toccare la scatola.
E mai ho sentito una voce più soavemente rauca. D'un colpo mi vergogno di me stesso: ho voglia di piangere, di caderle ai piedi come una foglia morta.
Ella vede e indovina tutto, riprende a camminare permettendomi di accompagnarla e anzi sollevando alto l'ombrellino quasi per fare ombra anche a me.
Io chiudo la scatoletta e vorrei offrirgliela in dono; ma mi vergogno; mi vergogno di tutto, oramai.
- Lei ha indovinato chi sono - mormoro seguendola a testa bassa come un cane umiliato. - Sono un ragazzo di buona famiglia: ho anche studiato; ma adesso mi trovo senza occupazione. Vado in cerca di lavoro e non trovo: spaccherei anche le legna, farei anche lo sguattero, eppure non trovo.
La sciagura mi accompagna. Tutti mi guardano, vedono che non sono del popolo e lavoro non me ne danno. Anche lei crede che il mio vestito sia di persona civile: lo guardi bene; è tutto logoro, rammendato da me: guardi bene, non ho camicia, ma la pettina col collo rovesciato ha pretese d'eleganza. Il guaio è che non ho più la mamma e il babbo non l'ho conosciuto. Ho un fratello giudice, con la moglie malata e molti figli, e non può soccorrermi, né io lo pretendo. Ma perdoni, signorina, io l'annoio: perdoni, sono un debole. Da due giorni non riesco a procurarmi da mangiare.
La signorina ascolta, a testa bassa anche lei, anche lei umiliata nella sua più viva umanità: crede ad ogni mia parola, ma a poco a poco, pur senza ch'ella parli o muti viso, sento che il suo primo turbamento svanisce: già un senso istintivo di diffidenza rende opaca la sua pietà. Tuttavia lascia ancora che l'accompagni e cammina tranquilla accanto a me lungo la spiaggia: e il suo silenzio pensieroso di me, e sopra tutto la sua fiducia volontaria mi umiliano più che la crudeltà delle donne di Rimini.
Finalmente, con la voce di uno che ha risolto un problema, mi dice:
- Perché non va dal sindaco? Qui il Comune è socialista: potranno procurarle lavoro.
- Andrò, - rispondo io con accento di obbedienza, - ma non spero.
- Ascolti, - ella riprende dopo un momento di esitanza, - io posso far poco per lei: sono qui in pensione e i denari li ho misurati. Ma ho qui qualche oggetto d'oro, e posso darle un paio d'orecchini che non mi servono e che lei può facilmente vendere alle contadine della spiaggia. Posso anche... Non finisce la frase, ma apre rapidamente la sua borsa e vi fruga dentro confusa e mortificata di farmi l'elemosina. Ne trae un astuccio, poi una tavoletta di cioccolata, e tutto mi porge: e tutto io prendo; si arrossisce entrambi come ci si scambiasse una promessa d'amore. Poi si cammina di nuovo in silenzio; ella ha messo la borsa sotto il braccio, e di tanto in tanto la tira su e la stringe meglio.
Il mare mormora accompagnandoci, ed io ho l'impressione di andare con lei verso una montagna azzurra. Ma questo non importa. Quello che importa è che lei d'improvviso, quasi abbia sentito il racconto che io le faccio in silenzio di tutto il mio patire, dice, piano, come per non farsi ascoltare neppure dalla rena che calpestiamo:
- Del resto si ha diritto all'esistenza. Se lei è così non è certo per sua volontà. La letteratura è piena di uomini come lei, e dunque vuol dire che molti ne esistono. Ma io dico che se la società non l'aiuta, lei ha diritto di mettersi fuori della società. Questo glielo consiglio in confidenza, s'intende.
- Non ho mai rubato - dico io: e mi sento più triste del solito.
È peggio mendicare - ella ribatte, aspra, e cammina più rapida, quasi voglia lasciarmi indietro perché si vergogna improvvisamente di camminare con me.
Allora un cataclisma mi scoppia dentro: tutto si rovescia; ho la sensazione fisica che il mio corpo vuoto si riempia di un liquido velenoso e salato, come il corpo di uno che annega. Ed io che volevo farle dono della mia scatoletta di bottoni, come di uno scrigno di perle, penso di rubarle la borsa: e come colpita dal mio pensiero, la borsa le scivola di sotto il braccio.
Qui c'è una lacuna sinistra nei miei ricordi: e in mia coscienza non posso affermare se ho raccolto la borsa o se veramente, come la signorina afferma, è stata la mia mano a strappargliela destramente di sotto il braccio.
E perché, allora, ella non si è subito rivoltata e non ha gridato? Ella afferma che aveva paura, che ha camminato con l'ombra della morte accanto, fino a veder gente. Allora mi ha indicato come un ladro, mentre io, già pentito, la chiamavo per restituirle la borsa.
E mi presero d'assalto, come un malfattore, e mi impedirono anche di rompere con la mia vita la mia vergogna.
Adesso però non voglio più morire: voglio espiare, piangere; nascere veramente dalla mia pena come l'uomo che nasce dalla colpa dell'uomo.
I giudici, una volta tanto, esaudirono l'accusato, condannandolo a nove mesi di carcere.

L’erotismo conoscitivo ne La sirena di Lampedusa


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di Antonio Tedesco

Giuseppe Tomasi di Lampedusa pone se stesso e il suo capolavoro, Il Gattopardo, al confine tra due epoche: un lungo processo di trasformazione durato decenni, ma che nella figura dell’aristocratico scrittore, e nel suo romanzo, trova una perfetta sintesi. Che diviene ancor più evidente se si guarda ad alcune sue opere meno note così come alle sue vicende biografiche.

Nel 1961, circa tre anni dopo la pubblicazione de Il Gattopardo, la casa editrice Feltrinelli, che aveva già pubblicato il romanzo, raccoglie in un volume intitolato I Racconti altri scritti dell’autore, di natura sia narrativa che autobiografica (un testo che avrà nel tempo, fino ad anni recenti, molte riedizioni continuamente riviste e ampliate, man mano che altri frammenti o altre stesure sono venuti alla luce). In essi i segni di questa condizione sospesa tra nostalgia e decadenza già presenti nel romanzo, si evidenziano, forse, con ancor maggior chiarezza. Una condizione per altri versi rintracciabile anche nel film Il manoscritto del Principe, realizzato da Roberto Andò nel 2000, dove si racconta degli ultimi anni di vita di Tomasi di Lampedusa intento nella stesura del suo libro, e del rapporto che in quel periodo intratteneva con due giovani amici - ad uno dei quali teneva con una certa regolarità lezioni di letteratura inglese e francese.

Ci sono collegamenti sottili, seppur non dichiarati, tra la storia narrata nel film e alcuni testi contenuti nel volume I Racconti. In particolare quelli che riguardano certi “non detti”, fatti di ambiguità e zone d’ombra, che alludono al rapporto tra maestro e allievi di cui si parla nel film. Ci riferiamo specificamente al racconto intitolato La sirena, il testo più noto di Lampedusa dopo Il Gattopardo.

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La sirena è un racconto allegorico. Una trasfigurazione, arricchita da riferimenti mitici, di una specie di rito di iniziazione riservato ad una ristretta cerchia aristocratica, intesa qui sia in senso nobiliare che culturale. I riferimenti per decifrare una certa ambiguità di significato non mancano.

Il protagonista del racconto, Rosario La Ciura, vecchio luminare, grande esperto di lettere classiche, ricorda la sua avventura giovanile, l’incontro e il congiungimento con la mitica sirena, avvenuto in un periodo in cui, già laureato e con ottima padronanza del greco antico, si preparava ad affrontare ulteriori esami ancor più impegnativi per l’assegnazione di una cattedra universitaria. La calura estiva e lo studio eccessivo sono causa di un’acuta fase di stress, alleviata dall’offerta, imprevista, ma ben accetta, di potersi recare a trascorrere un periodo di tempo presso la casa di un amico situata in una amena località marina dalle parti di Augusta, sul Mar Ionio (non a caso di fronte alla costa greca). Un posto sufficientemente tranquillo e isolato, da consentirgli di continuare, in condizioni meno critiche che in città, i propri studi. Ed è proprio nel mare antistante la casa, quasi evocata da quei versi in greco antico ossessivamente ripetuti ad alta voce dallo studente, che Lighea, la sirena, fa la sua comparsa. E, suadente, priva di inibizioni, forte della sua immortalità che la pone al di là e al di sopra della morale comune, si unisce al giovane, quasi fosse un discepolo da iniziare, da introdurre ad una nuova realtà, o meglio ad una nuova concezione della realtà.

Ma questo che si può considerare senz’altro il cuore del racconto viene introdotto dall’autore con grande sapienza e perizia letteraria. L’io narrante è un giovane giornalista siciliano trasferitosi per il suo lavoro a Torino. Piantato in meno di ventiquattr’ore dalle due ragazze che frequentava simultaneamente, comincia a passare le sue serate solitarie in un caffè un po’ defilato, per lo più frequentato da vecchi notabili in pensione. Con sottile ironia Lampedusa definisce questo luogo come una specie di limbo, una malinconica terra di mezzo, sospesa tra la vita e la morte (alludendo alla condizione storica e sociale cui apparteneva la sua classe). È qui che il giovane giornalista incontra il professore, nonché ex senatore, Rosario La Ciura, suo conterraneo, che aveva a sua volta abbandonato la Sicilia da vari decenni. Uomo spigoloso e dal carattere poco accomodante, il senatore, però, comincia a poco a poco a nutrire qualche simpatia per il giovane giornalista. Spingendosi perfino ad invitarlo a fargli visita nella sua casa dove possiede una grande biblioteca di testi legati alla cultura classica, e dove però non manca qualche inaspettata sorpresa (le opere di H.G. Wells).  In una di queste occasioni, il vecchio grecista confida al suo giovane conterraneo la sua incredibile avventura giovanile: l’incontro con la mitica sirena che segnerà per sempre la sua vita. Quasi un testamento intellettuale quello che trasmette al giovane perché di lì a poco, durante un viaggio in mare verso il Portogallo, dove avrebbe dovuto essere ospite d’onore di un importante convegno, Rosario La Ciura finirà in mare in un simbolico ricongiungersi a quell’elemento, a quella figura mitologica, il cui richiamo irresistibile aveva continuato a risuonare per tutta la vita nel suo animo.

L’esperienza surreale narrata nel racconto fa riferimento a qualcosa di molto concreto. Lo stato di intorpidimento dei sensi, lo sforzo di concentrazione, il completo stato di isolamento e abbandono, sembrano alludere allo sfondamento di una barriera, all’ingresso traumatico, ma allo stesso tempo gratificante, in una dimensione nuova dell’esistenza in cui il giovane futuro professore viene introdotto.  
Ma qual è realmente quest’esperienza, e a chi, o a cosa, allude la figura della sirena?

C’è un passaggio delicato nel complesso rapporto che sempre si stabilisce tra maestro e allievo. Un sottile diaframma che divide il processo di seduzione intellettuale che l’allievo subisce dal maestro carismatico e la seduzione tout court, a simboleggiare un gesto di infusione dello scibile, un passaggio materiale, una trasmissione di conoscenza che, in maniera quasi fisica, dal maestro passa al discepolo. Un atto rituale dove la pratica intellettuale si imbeve di contenuti e significanze erotiche. E dove l’intelletto e l’erotismo si uniscono e si completano reciprocamente, tendendo all’unità della conoscenza.
Qualcosa che la civiltà classica conosceva bene.
Tutti i discorsi di Rosario La Ciura sul senso più profondo e inafferrabile della civiltà greca, sull’insipienza di certe relazioni con le donne e dei “normali” rapporti amorosi, alludono a questo. Così come nella struttura del racconto stesso, nella dialettica tra “vecchio” e “giovane”, nel passaggio, o meglio nella “trasmissione” d’esperienza, simboleggiata anche da un oggetto che La Ciura regala al giovane giornalista (un “cratere” che raffigura Ulisse legato all’albero della nave che tenta di resistere al richiamo delle sirene), si raffigura tutta una simbologia in cui si possono scorgere riferimenti e allusioni precise.

È bene ribadirlo: il racconto ha tutti i tratti di un’allegoria attraverso la quale Tomasi di Lampedusa ha voluto parlarci di qualcosa che conosceva bene, ma mantenendo il doveroso riserbo che la materia impone, oltre a un’aurea di intrigante mistero di cui il cammino verso la vera conoscenza è spesso imbevuto. Tutto ne La Sirena, al di là del suo esito così marcatamente surreale, allude a qualcosa di ulteriore, a un livello di conoscenza più sofisticato e stratificato, se non addirittura esoterico.   

 

Quelle settimane di grande estate trascorsero rapide come un solo mattino; quando furono passate mi accorsi che in realtà avevo vissuto dei secoli. Quella ragazzina lasciva, quella belvetta crudele era stata anche Madre saggissima che con la sola presenza aveva sradicato fedi, dissipato metafisiche; con le dita fragili, spesso insanguinate, mi aveva mostrato la via verso i veri, eterni riposi, anche verso un ascetismo di vita derivato non dalla rinunzia ma dalla impossibilità di accettare altri piaceri inferiori. (…) non rifiuterò questa specie di Grazia pagana che mi è stata concessa.

 

In maniera solo apparentemente diversa, i due personaggi del citato film di Roberto Andò, Marco (borghese, introverso, ma dotato di grande curiosità e intuito intellettuale) e Guido (di origini aristocratiche, di intelligenza acuta, ma vagamente snob), potrebbero simbolicamente rappresentare le due facce dell’animo di Lampedusa, dove la natura aristocratica e la forte pulsione intellettuale si incontrano ma non riescono mai a fondersi pienamente l’una nell’altra, procurando sempre qualche piccolo scarto, qualche sbilanciamento, seppure, il più delle volte momentaneo o appena percettibile, in un senso o nell’altro (con qualche prevalenza per il connaturato e radicato spirito aristocratico). È come se egli, consapevole dell’impossibilità di riaffermare quella unicità che sentiva sfuggire alla sua stessa persona, avesse inteso dividere la sua eredità spirituale tra i suoi giovani amici e (seppur ognuno a proprio modo) allievi, assecondandone le rispettive vocazioni. Una “trasmissione di conoscenza” complessa e articolata. L’ultima possibilità di perpetrare un’antica tradizione che un aristocratico decadente - sostenuto da una verve intellettuale vivacissima - potesse consentirsi per riaffermare ancora il proprio senso di appartenenza ed esclusività nei crolli fisici e metaforici del suo mondo di origine.

Così l’aristocrazia (intesa come rango sociale) perduta come privilegio di classe, viene recuperata, almeno in parte, come élite intellettuale che riadatta e rinnova le sue maniere e i suoi riti.
Il film di Roberto Andò conferma, tra le righe, questa visione del rapporto fra i tre personaggi. In particolare, nella parte ambientata in epoca contemporanea che, tra l’inizio e la fine, incornicia il lungo flash back, che racconta dell’amicizia tra i due ragazzi e Lampedusa. Una quarantina d’anni sono passati da quei giorni. Ormai sessantenni e affermati nelle rispettive professioni, Guido va a Roma a cercare Marco (divenuto docente universitario), tenta di incontrarlo, ha qualcosa da dirgli. Ma questi gli sfugge, sfugge all’incontro. Il film non ne spiega, almeno apertamente, il  motivo, ma le immagini mostrano, nello stesso Marco, un uomo turbato, che lotta dentro di sé contro qualcosa che forse con molta fatica ha rimosso, e che adesso prepotentemente ritorna.

I termini non sono quelli propriamente di un’amicizia contesa. C’è qualcosa di più. E questo qualcosa è gestito differentemente da Guido e da Marco. Come se il primo, per un’innata disposizione dovuta ad antichissima consuetudine tramandatasi di generazione in generazione, avesse meglio assorbito e metabolizzato ciò che l’altro, con la sua cultura borghese non può, o non sa, elaborare.

I “Ricordi”, che compongono la prima parte del volume I Racconti, esprimono appieno la nostalgia dell’aristocratico per un mondo perduto, tanto più fantastico e desiderabile in quanto coincide, in misura quasi completa, con quello dell’infanzia.
Tale sentimento filtra tra le righe di una scrittura ariosa, fluida, chiara nelle descrizioni di ambienti e personaggi, attraverso i quali si ricostruiscono tasselli di un mondo, forse un universo, perduto per sempre. E che, come il Rosario La Ciura de La Sirena, Lampedusa stesso ambisce a ritrovare in una dimensione ulteriore di assoluto. Si può dire che, per certi versi, lo scrittore resti sempre ben separato dall’ambito aristocratico (“Lei ha scritto un romanzo che non le somiglia”, dice nel film Marco, dopo aver letto il manoscritto che il Principe gli aveva affidato per un parere. Ed è significativo, nel contesto del discorso, che Lampedusa abbia scelto il borghese Marco e non l’aristocratico Guido per “testare” il suo romanzo). La scrittura non tradisce tic o vezzi linguistici e si snoda attraverso un linguaggio quasi gergale, proseguendo, con ammirevole efficacia descrittiva, a ricostruire frammenti di una memoria che abbraccia luoghi, persone e fatti: come a dire che molto peggio dell’aver perduto tutto questo sarebbe perderne la memoria, lasciarla svanire con i testimoni stessi di quell’esperienza.

 

Quando ci si trova sul declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro (Rousseau, Stendhal, Proust), ma a tutti dovrebbe essere possibile di preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto per sempre. Quello di tenere un diario o di scrivere a una certa età le proprie memorie dovrebbe essere un dovere “imposto dallo stato”: il materiale che si sarebbe accumulato dopo tre o quattro generazioni avrebbe un valore inestimabile: molti problemi psicologici e storici che affliggono l’umanità sarebbero risolti. Non esistono memorie, per quanto scritte da personaggi insignificanti, che non racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim’ordine.

 

Così scrive Lampedusa nell’ Introduzione a Ricordi d’infanzia. Le case sono forse l’espressione più vivida di questi Ricordi. Veri, materiali e concreti luoghi della memoria. Perdute tra guerre e tracolli economici. Distrutte, frantumate, disperse. Simboli, nello splendore come nella decadenza.
Palazzi con centinaia di stanze, appartamenti, rimesse, stalle. Servitù e stallieri. Cuoche e giardinieri, governanti francesi o tedesche.
Case da vivere, da esplorare. Case che comprendono sotto lo stesso tetto luoghi noti e confortevoli, ricchi di calore umano, e luoghi sconosciuti, misteriosi, non di rado fonte di sorprese e di esperienze inaspettate.
Case che riflettono l’anima di quella aristocrazia che le popolava, piene di zone d’ombra, o almeno, come nei casi che Lampedusa stesso più apprezzava, di reticenze e di silenzi.
Tutto racchiuso e celato dalla facciata ricca e opulenta, pulita ed elegante, che incute rispetto e riguardo. Una facciata impreziosita da appartamenti di rappresentanza, solenni e maestosi, concepiti per destare l’ammirazione di tutti quelli che, per censo, o per contingenze più o meno occasionali, potevano accedervi.

 I ricordi, secondo lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi che nelle introduzioni alle varie edizioni del testo ha ricostruito in maniera mirabile il percorso artistico e umano del principe, sono “il laboratorio de Il Gattopardo”. E in effetti, in questa rievocazione del mondo della sua infanzia, Lampedusa sembra stilare una sorta di catalogo della memoria. Un lavoro che gli sarà utile per alcuni passaggi del romanzo, dove ancora certe cose procedevano in modi molto simili fra il periodo dell’ infanzia dell’autore (primi del ‘900) e l’epoca in cui è ambientata la storia (1860).
Ma se Il Gattopardo, come detto, è il simbolo del passaggio di un’epoca, La Sirena rappresenta, forse con ancora più forza, lo spirito che aleggia nelle profondità dell’animo di chi di quel passaggio si è fatto testimone sublimandolo attraverso la sua grande sapienza letteraria.
Uno “spirito” che, in quanto tale è indomabile e insopprimibile, capace, dunque,  di sopravvivere agli uomini e alle avversità della storia. Fondendosi in essa, come Lighea, nella prima onda della burrasca.   

“(…) Dallo scoglio vedemmo l’avvicinarsi del vento che sconvolgeva le acque lontane, vicino a noi i flutti plumbei si rigonfiavano vasti e pigri. Presto la raffica ci raggiunse, fischiò nelle orecchie, piegò i rosmarini disseccati. Il mare al di sotto di noi si ruppe, la prima ondata avanzò coperta di biancore. ‘Addio, Sasà. Non dimenticherai’. Il cavallone si spezzò sullo scoglio, la Sirena si buttò nello zampillare iridato; non la vidi ricadere; sembrò che si disfacesse nella spuma.”

 Allo stesso modo, nel finale del racconto il giovane narratore ci dice della ricca biblioteca che il professore aveva lasciato in eredità all’Università di Catania, ma i cui volumi stavano marcendo nei sotterranei perché “mancano i fondi per le scaffalature”. Mentre l’elaborato cratere e la stampa che il professore gli aveva lasciato in dono come ricordo, si perdono nella devastazione della casa di Palermo del narratore stesso, bombardata in tempo di guerra. Tutto finisce, si dissolve, si perde. Lampedusa scrive questo racconto negli ultimi mesi della sua vita. E gli imprime il passo, orgoglioso e malinconico, di un lungo addio.

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Bago, di Alberto Savinio

Bago
di Alberto Savinio

«Buongiorno, Bago.»
Questo augurio Ismene lo dice ogni mattina appena sveglia, e ogni sera prima di addormentarsi dice: «Buonanotte Bago». Le parrebbe altrimenti d’iniziare male la giornata e di terminarla male, anzi di non iniziarla e di non terminarla. Così in passato se non avesse detto «buongiorno» e «buonanotte» al babbo e alla mamma. Poi soltanto alla mamma quando il babbo morì Poi soltanto a Bug quando anche la mamma morì. E ora soltanto a Bago che anche Bug e ` morto che aveva tanti peli sugli occhi e lo sguardo umano. A suo marito Ismene dimentica talvolta di dire «buongiorno» o «buonanotte», ma allora non le pare di iniziare male la giornata o di terminarla male. Rutiliano del resto è così di rado in casa, così spesso in viaggio... Una mattina Rutilia non aprì la porta e domandò: «Con chi parlavi?» Ismene rispose: «Forse nel sogno» e questa risposta ella non ebbe difficoltà a trovarla. Non ebbe neanche l’impressione di mentire. La parte migliore della sua vita è della specie di un sogno che tanto dormendo essa sogna quanto vegliando, e anche i suoi dialoghi segreti con Bago fanno parte della parte del sogno. Dicendo che col dire «Buongiorno Bago» parlava nel sogno, Ismene non mentiva.
«Buongiorno Bago.»
Ismene è seduta sul letto, la testa china d’un lato, le mani uni te e calde ancora di notte, sorridendo nella direzione di Bago come a un padre robusto e protettore, e sta in ascolto. La camera è odorosa di sognati sogni come di fiori appassiti. Sola traccia che i sogni si lasciano dietro è questo odore, e se la camera la mattina puzza è che abbiamo sognato brutto. Sulla tenda tirata davanti la finestra lucono come gradini di una scala d’oro le strisce della luce mattutina che trapela tra le stecche dell’avvolgibile. I mobili sono ombre gravi che emergono dal pallore del muro. Su una sedia albeggia la biancheria di Ismene. Sul soffitto tremola un serto di luce che non si sa onde venga, un alone forse entro il quale si affaccerà la testa di un angelo. Ma Billi angelo non è. Che aspetta di ascoltare Ismene? Che cosa ascolta? Che cosa ha ascoltato?

(Ismene balza leggera giù dal letto e corre a piedi nudi ad aprire la finestra.)

Nulla ha echeggiato nella camera, eppure Ismene egualmente ha udito ed è contenta. Essa stamattina è più impaziente del solito dell’attesa voce, più contenta di averla udita. Oggi Billi ritorna dal suo lungo viaggio. Oggi Ismene ha bisogno più che negli altri giorni di sentire Bago presente e la sua protezione.
Ora la camera è chiara, l’odore dei sogni vizzi si è dissipato. Ismene indugia alla finestra, in fondo alla valle galleggiano ancora alcuni vapori. E` contenta. Il suo corpo rosseggia dietro il velo della camicia da notte, s’incupisce alla commessura delle cosce e del bacino in un’ombra triangolare simile all’occhio di un dio tenebroso. Ma chi all’infuori di Bago può vedere il corpo stretto di Ismene sotto il velo della camicia, simile a un gran pesce rosa sotto un pelo d’acqua? Di Bago Ismene non ha vergogna... Eppure sì. Ma è un’altra specie di vergogna. E il timore di fare a Bago qualcosa che a Bago non bisogna fare. Prima di aprire i battenti di Bago Ismene rimane un po’ incerta, come quando, bambina, stava per sbottonare la giacca del babbo e cavargli dal panciotto l’orologio per sentire sonare le ore e i quarti.
Babbo, mamma, Bug, Bago, Billi.
Quanto diverso il nome Rutiliano da questi nomi che sembrano formati apposta per la bocca di un bambino, di un balbuziente, di una creatura debole!
Quanto estraneo il nome Rutiliano! Altri sono i momenti di vergogna. Quando Rutiliano viene a trovare Ismene di notte. Ismene allora si alza dal letto, va a prendere il grande paravento e lo apre tra il letto e Bago, così da nascondere il letto. Rutiliano ogni volta stupisce di quella manovra e chiede spiegazioni. Ismene dice che ha paura dell’aria. L’aria? Sì l’aria che passa sotto la porta. E a rendere più forte il riparo Ismene spiega sul paravento la coperta di giorno del letto, che di notte sta ripiegata su una sedia. Rutiliano guarda quelle opera zioni con occhio incomprensivo. Del resto che cosa capisce Rutiliano? Che cosa capisce di lei? Rutiliano è grave e distante. Non ride mai e tiene dietro a certe occupazioni misteriose che necessitano frequenti viaggi. Malgrado il mistero che le avvolge, Ismene non ha curiosità di conoscere le occupazioni di Rutiliano. Fin dove arrivano i suoi ricordi d’infanzia, Ismene ricorda Rutiliano. Questi faceva parte della casa come il divano fa parte del salotto, come la credenza fa parte della stanza da pranzo. Per Natale e la Befana Rutiliano arrivava carico di scatole, dalle quali estraeva con meticolosità i regali. Ismene allora lo baciava in fronte e diceva: «Grazie, zio Rutiliano». Zio era un titolo d’onore e, per Ismene, sinonimo di vecchio. Non piaceva a Ismene baciare la fronte dello zio Rutiliano né tanto meno farsi baciare da lui. Eppure quando anche la mamma morì, non rimaneva altro da fare che sposare lo zio Rutiliano. A chi profittava quel matrimonio? A zio non di certo. Così almeno diceva lui. Dalla vita ormai questi non aspettava più nulla. A Ismene invece quel matrimonio avrebbe assicurato benessere e protezione. «Non ci si sposa mica per il solo nostro piacere.» Così disse zio Rutiliano il quale parlava molto di rado, ma le pochissime volte che parlava diceva delle verità inconfutabili. «Fortuna che parla così di rado!» disse Billi a Ismene, e chinò la testa. L’abito di seta, il velo bianco, i regali, gl’invitati, il pranzo avrebbero potuto fare del giorno delle nozze un giorno lieto, ma proprio in quel giorno Billi partì per arruolarsi nella marina. «Come sarebbe felice la tua povera mamma, come sarebbe felice il tuo povero papà!» disse zio Rutiliano, che in quel giorno fu anche più silenzioso del solito.
A tavola, davanti a trenta invitati che si abbottavano, Ismene chiamò suo marito «zio Rutiliano», e immediatamente il gelato le andò per traverso. Pochi giorni dopo, affinché Ismene non ri cadesse nello stesso errore, Rutiliano cambiò nome e si fece chiamare Ruti. Non era vero però che Ruti avesse sempre ragione.
Ismene non trovò in suo marito quella sicurezza, quella confidenza che aveva avuto nei suoi genitori, e per ritrovare le quali si era unita in matrimonio con lui. Le trovò invece in Bug che aveva tanti peli sugli occhi e lo sguardo umano, e dopo la morte di Bug le trovò in Bago. E Bago era impossibile che morisse. Ruti un giorno parlò di rinnovare i mobili della camera da letto, mettere dei mobili più chiari, più freschi, più intonati alla camera di una giovane sposa. Ismene difese i «suoi» mobili con un accanimento che sbalordì Ruti. Questi si maravigliò di un attaccamento così forte a mobili di così poco valore, ma in fondo fu contento di non fare nuove spese. Ismene, specie quando suo marito era in casa, passava la giornata nella propria camera vicino a Bago. Il «vecchio» armadio l’aveva vista nascere, aveva custodito i suoi abiti di bambina, poi quelli di fanciulla e ora custodiva i suoi abiti di donna. Sta seduta accanto al battente socchiuso, come per ascoltare i palpiti di quel cuore tenebroso ma profondamente buono. Si confida con lui. Dice a lui quello che ad altri e soprattutto a Ruti non direbbe mai. Gli parla del ritorno di Billi.
Ruti si affacciò alla porta, annunciò con aria lugubre che partiva con la macchina e non sarebbe ritornato se non l’indomani. Ismene lo baciò in fronte, come quando Ruti era ancora «zio Rutiliano » e le portava i regali di Natale.

Ora Ismene e Billi stanno silenziosi uno di fronte all’altro, come se non avessero nulla da dirsi. E` forse imbarazzato Billi di trovarsi nella camera da letto d’Ismene? Costei vuole sentirsi vicino a Bago, ora soprattutto che nella sua camera da letto c’è Billi.

Rombo crescente di un’automobile in arrivo. Scricchiolio della ghiaia sotto le ruote, strappo del freno a mano davanti alla porta d’ingresso.
La voce allarmata di Ancilla nel corridoio: «E re! E` tornato il signore!»
Billi scatta in piedi. E` pallidissimo. Si guarda attorno. Perché è allarmata la voce di Ancilla? Che pericolo costituisce il ritorno del «signore»? Un urlo. Urlo profondo. Più potente di quanto la più potente voce umana può dare, ma tutto «interno». Urlo «incarnato» e circoscritto entro un raggio strettissimo. Urlo a uso locale. Urlo «domestico». Urlo «cubicolare». Urlo «per pochi intimi». Nell’urlo, le porte dell’armadio si sono spalancate. Billi spicca un salto e si tuffa dentro l’armadio, che di colpo richiude i battenti. Billi è saltato volontariamente dentro l’armadio, oppure è stato succhiato dall’armadio? Nel momento in cui i battenti del l’armadio si sono aperti, gli abiti di Ismene sono volati fuori a sciame e ora giacciono sparpagliati per la camera, come un bucato in campagna. Ruti si affaccia alla porta, più lugubre che mai.
«Gente inqualificabile!» dice Ruti. «Mi fanno fare centocinquanta chilometri in macchina e non... Che disordine è questo? Perché i tuoi abiti sono sparsi sui mobili, per terra? Con quello che costa oggi un abito!» Ismene guarda i suoi abiti sparsi per la camera. Ma sono davvero i suoi abiti? Ora tutti i suoi abiti sono bianchi. Ismene guarda il suo abito da sera rovesciato sulla spalliera della poltrona, simile a un naufrago piatto su uno scoglio. La forma è la medesima, ma il colore non è più rosso ma bianco. Mentre Ismene stupita guarda il suo abito e stenta a riconoscerlo, l’abito comincia a rosseggiare e a poco a poco ritrova il suo colore che la paura gli aveva fatto perdere. Ismene invece non ritrova il suo colore: la paura la sbianca ancora che Ruti apra l’armadio per riporvi, lui così meticoloso, gli abiti sparsi. Ruti dice: «L’ordine e ` la prima qualità di una padrona di casa: ricordatelo ». E se ne va.
Ora anche Ismene comincia a rosseggiare in mezzo agli abiti sparsi, che a poco a poco ritrovano il proprio colore: il rosso, il celeste, il verde, l’arancione, il violetto.
Quando anche Ismene ha ritrovato il proprio colore, essa va ad aprire l’armadio. L’armadio è vuoto.
Da quel giorno Ismene non si staccò più d’accanto all’armadio. Non toccò cibo e anche le poche ore che dormiva, le dormiva sulla poltrona presso i battenti socchiusi di Bago.
Visse quindici giorni in tutto. Quando le tirarono via la coperta da sopra le gambe, le trovarono un biglietto posato sulle ginocchia. Era scritto con scrittura infantile. «Anch’io voglio essere chiusa dentro il corpo oscuro e buono di Bago. Gli abiti non siano tolti: sono i miei amici.» In fondo al biglietto c’era un richiamo: «Bago è il nome dell’armadio della mia camera da letto».
Rutiliano odiava l’assurdità in tutte le sue forme, ma poiché la consuetudine vuole che le volontà dei morti siano rispettate anche se assurde, Rutiliano ordinò che fosse fatto com’era scritto nel biglietto. Ismene fu collocata nell’armadio e l’armadio calato nella fossa: tomba a due ante e troppo grande per quel corpo così piccino. Come un padre che si chiude la figlia in petto.

Incontri di vecchi amici, di Italo Svevo

Incontri di vecchi amici
di Italo Svevo

 

Roberto Erlis era nato di buona ma non ricca famiglia. Aveva raggiunto e oltrepassato il trentesimo anno di età in posizione piuttosto umile. Poi – come soleva dire lui – s'era arrabbiato, aveva abbandonato ubbie e sogni e s'era gettato nella vita degli affari con la risolutezza di chi non vuol perdere tempo. Fece degli affari buoni da prima dovuti ad una bella fortuna e più tardi ad un'astuzia voluta e pratica. In complesso egli divenne milionario a forza d'affari di cui ognuno gli dava l'impressione di non essere stato abbastanza accorto. Si capisce che con un maestro talmente incontentabile egli doveva arrivare lungi. Si sposò, possedette dei cavalli, una casa sontuosamente arredata e gli parve di aver sciolto il problema della sua vita. Si sa che la ricchezza non scioglie un problema simile ma la conquista della ricchezza e la soddisfazione del successo sanno riempire la vita più vuota. A 40 anni egli aveva sciolto anche il problema di guadagnare sempre di più lavorando di meno. Aveva un corpo d'impiegati che eseguivano i suoi ordini. Non era per poltroneria che aveva abbandonato l'uso di rivedere lui stesso la sua corrispondenza e la sua contabilità ma la convinzione che l'occuparsi di un dettaglio gli toglieva la visione di tutte le possibilità che per lui s'aprivano sul mercato. In passato egli aveva sognato filosofia e letteratura. Ora sognava affari ma li realizzava subito. Non si ha generalmente l'idea come un buon sognatore possa divenire un grande uomo d'affari. Il rischio resta nel sogno e il sodo viene nella realtà. Così sognando il rischio lo si vede e prevede meglio e lo si evita. Erlis non ebbe le dure lezioni della realtà. Sognò la rovina troppe volte per aver a subirla. Anche certe abitudini di letterato gli furono utili. Nel listino si scoprono gli affari come nel vocabolario le idee. Eppoi volendo lungamente attentare al capolavoro ci si abitua certamente alle abitudini della formica e quelle sono molto utili negli affari. Camminava molto solo le vie come quando correva dietro alle immagini. Aveva nella bellissima moglie una dolce compagna che amava sentirlo parlare dei suoi affari. Da buon letterato non gli diceva mai la precisa verità e perciò l'esposizione dei suoi affari era meno noiosa. Parlandone egli li rivedeva ancora una volta e spesso dopo di averli svisati con la moglie, correva a correggerli avendoli capiti meglio. Ma non è del suo successo che voglio parlare. Volevo soltanto dire che essendo stato molto povero era ora molto ricco e che se ne compiaceva. Non è da credersi che un successo che cambia la vita di una persona dia una gioia di piccola durata. Questa gioia si rinnova ad ogni tratto. Per Erlis la gioia si rinnovava ogni qualvolta poteva salutare dall'alto in basso delle persone delle quali in passato aveva ambito il saluto; ogni qualvolta si vedeva capitare quale petente umile un amico che in passato s'era creduto suo uguale o superiore. Erlis faceva abbondanti carità senz'affatto ricercare la pubblicità. Era un modo di sentire meglio la sua riuscita. Prestava dei denari ai suoi vecchi amici poveri senza domandare alcuna ricevuta. Il suo gesto generoso sottolineava ed accentuava il suo successo. Aveva un bambino di cui s'occupava poco ma che amava molto. Mutatosi in un uomo d'affari gli era rimasto l'egotismo del letterato. Non aveva tempo per altri e non poteva derivargliene un rimprovero perché era buono con tutti. Aveva elaborato delle idee di libertà per sua moglie e per suo figlio per le quali era esonerato d'intervenire troppo intimamente nel loro destino. Egli vedeva il bambino una volta al giorno. Non tollerava che giuocasse accanto a lui perché le sue idee erano turbate dai rumori puerili incomposti. Amava il figlio augurandogli tutto il bene possibile facendolo accuratamente sorvegliare e curare ed istruire dagli altri. Erlis aveva conservato un'altra abitudine dell'antico letterato. Camminava molto le vie. Il suo pensiero amava il ritmo del passo: Così era spinto e trattenuto e meglio analizzato. Un giorno, in Corso guardava distrattamente intorno a sé e calcolava come il prezzo di certi imballaggi in certi istanti modificavano il prezzo di una merce. Egli ritirava certe merci in vagone, le faceva imballare sul posto e le riesportava. Ora l'imballaggio era aumentato ma ciò non poteva avere altra conseguenza che di spingerlo alla ricerca di un utile maggiore ed egli sorrideva vagamente al suo utile e al suo successo.
«Tu a Trieste?» gli disse qualcuno ch'egli aveva forse guardato ma non ravvisato. Lo riconobbe: il vecchio Miller. Non lo aveva visto forse da dieci anni. Eppure erano stati molto intimi molti anni prima quando Erlis era un ragazzo e il vecchio che ora doveva contare oltre i 70 anni un uomo molto maturo. Miller era il padre di un cognato di Erlis. La sorella di Erlis era morta giovanissima di parto lasciando una bambina che pochi mesi appresso era morta anch'essa di difterite. Il vedovo abbandonò la città, si sposò un'altra volta e così avvenne un totale distacco fra le due famiglie quando i genitori di Erlis erano ancora vivi. Anche il vecchio Miller doveva aver passato parecchi anni lontano da Trieste in casa del figliuolo. Un po' bizzarro ed esigente – come Erlis aveva appreso da certi amici comuni – il vecchio non aveva saputo andare d'accordo con la nuora ed era ritornato a Trieste ove viveva di una pensione non grande ma sufficiente ai suoi bisogni. I Miller eran stati importanti nella vita giovanile di Erlis. Quel vecchio da uomo pratico lo aveva qualche volta stimolato ad abbandonare i suoi sogni di letteratura e dedicarsi alla vita pratica. Anche il giovine cognato lo aveva spinto a maggiore serietà nella vita. Egli aveva tollerato le loro istruzioni che allora credeva sbagliate sapendo che lo amavano. Dal canto suo egli li aveva assistiti fraternamente nelle loro tante disgrazie. L'ultima, la morte della bambina aveva fatta una enorme impressione ad Erlis e l'aveva descritta ed analizzata più volte in certi abbozzi di novelle che non aveva mai terminate e che giacevano tuttavia indistrutte in un suo cassetto la cui esistenza era ignorata persino dalla moglie. In allora non si era conosciuto ancora il medicinale potente che oramai rende tanto meno pericolosa la difterite e non si era ancora trovato il modo di rendere possibile la respirazione all'ammalato senza imprender quella grave operazione della tracheotomia. La bambina mezza soffocata aveva dovuto attendere per delle ore l'arrivo del medico. Il vecchio Miller correva per la città urlando come un pazzo: otteneva la promessa che il medico sarebbe venuto subito e ritornava a casa nella speranza di trovare che la bambina si sarebbe riavuta da sé. Non sopportava di vederla in quello stato e ritornava a destare qualche altro medico. Finalmente alle due di notte l'operazione fu fatta ed Erlis tenne in braccio la bambina mentre le aprivano il collo. Subito la piccola condannata si riebbe e sorrise allo zio. Aveva sei anni e avendo vissuto sempre in compagnia degli adulti che per lei vivevano era un po' chiacchierina e donnicciuola veramente precoce. Ora non poteva parlare essendo stata resa afona dall'operazione e quella sofferenza muta e composta non fu più dimenticata da Erlis. Morì alla mattina con una smorfia che poteva aver voluto essere un sorriso o un pianto. Poi Erlis aveva fatta buona compagnia al vecchio e al cognato e aveva pianto con loro. La vita era passata su tutto ciò ed oramai fra lui e i Miller non v'era più alcun punto di contatto. Tuttavia trovandosi dinanzi al vecchio Erlis provò una lieve emozione: non ricordava molto il vecchio ma vedendolo ricordava se stesso come era stato in altra epoca. Ricordava la propria gioventù. Il vecchio parve commosso di rivederlo e ad Erlis riuscì facile di aver un aspetto simile. Si strinsero lungamente la mano e si guardarono negli occhi. L'età aveva veramente imperversato su quell'organismo altre volte tanto solido. Era piccolo e straordinariamente esile mentre anni prima era stato piuttosto forte. Aveva il viso dalla pelle asciutta e solcata e gli occhi un po' troppo umidi. La grande età è una malattia che provoca più di tutte la nostra compassione e Erlis dimenticò la quistione che tanto lo preoccupava del rapporto fra la sua merce e l'imballaggio. Camminarono uno accanto all'altro. Il vecchio aveva raccontato di aver avute buone notizie dal figliuolo e s'informava: «Ti sei sposato? Quanti bambini hai?»
Eppoi tutt'ad un tratto un po' sardonico: «E la letteratura?» Erlis sorrise. La letteratura non gli doleva più. Raccontò con modestia voluta dei suoi affari lagnandosi di aver troppo da fare. La sua firma non portava il suo nome ed egli lo disse al vecchio che essendo stato commerciante ne capì subito l'importanza e diede un balzo. «Tu sei il proprietario di quella firma?». L'ammirazione era evidente ed Erlis l'assaporò. Così ritrovò facilmente l'antico affetto e camminarono lungamente insieme. Il vecchio si lagnò della nuora che lo aveva allontanato dal suo figliuolo.
Viveva ora solo della piccola pensione che i suoi antichi principali gli avevano assegnata. Il figliuolo lo aiutava abbondantemente. Si era di festa ma tuttavia Erlis fu fermato sulla via da amici d'affari. Li congedava dopo di aver risposto con sicurezza alle domande che gli erano rivolte. Il vecchio evidentemente lo ammirava. «Sei divenuto un vero uomo tu!» esclamò. «Se tuo padre ti vedesse come se ne compiacerebbe». Anche Erlis sembrò di credere che il defunto suo padre si sarebbe compiaciuto nello scoprire nel figliuolo un tale uomo d'affari. Veramente, negli ultimi anni, il vecchio Erlis s'era lasciato convincere dalle ambizioni di Roberto ed aveva sperato di vederlo conquistarsi un grande nome nelle belle lettere. Ma da quel buon morto ch'era non protestava e Miller certo parlava in buona fede. Eppoi non v'era dubbio che al vecchio Erlis sarebbe bastato di sentire che Roberto era un uomo forte. La riuscita era l'importante e in qualunque campo sia. Avevano così parlato di tutto quello che li legava e ciò bastava per riannodare i nodi che la stessa vita aveva annodati e sciolti. Il vecchio gli dava del "tu" e ritornato alle abitudini puerili egli continuava a dare del "lei" al vecchio amico. Né l'uno né l'altro s'accorgeva della stranezza del costume. Eppure ambedue sapevano che il forte fra di loro era il solo Erlis. Miller era stato un buon impiegato ed ora percepiva una rendita che – come diceva lui – gli bastava. Aveva lavorato tutta la sua vita diretto e sfruttato dagli altri e solo nei più tardi anni aveva rimpianto d'essere stato troppo debole e inerte. Stavano per dividersi quando Erlis ebbe un'idea. «Perché non verrebbe a pranzo da me?». Il vecchio esitò. Lo aspettavano a pranzo dalla cosidetta sua padrona, quella cioè che gli dava a fitto la stanza e gli faceva da pranzo. Poi accettò. Erlis era molto insistente e al vecchio venne la curiosità di conoscere quella casa del giovine suo amico ch'egli considerava quale un milionario. Si andò al centro della città. Erlis amava di non perdere del tempo per recarsi ai suoi affari.

Il trionfo di astrazione di Gianna Manzini



di Beatrice La Tella

«Un tempo li guardavo sorridendo, e nel piacere di quel sorriso palpitava quasi una larva di complicità, una specie di festosa ammissione; ora li guardo con un turbamento che non ha nulla a che fare con l’intesa facile di allora».
La prefazione della scrittrice Gianna Manzini in apertura della sua raccolta Arca di Noè distingue con luminosa precisione le due anime che ne tendono l’intreccio, biforcazione di un rapporto ambiguo e mai pacificato con l’animalità.
Il libro è tornato sugli scaffali italiani alla fine di marzo, settimo volume della collana Libertarie che Rina Edizioni dedica al recupero di autrici sommerse della nostra letteratura, e raccoglie ventitré storie differenti tra loro per lunghezza, periodo di stesura e approccio, ma tutte accomunate dalla presenza centrale (cruciale, in effetti) di uno o più animali.
Gianna Manzini nasce a Pistoia nel 1896. Esordisce nel 1928 con il romanzo Tempo innamorato, entra a far parte della rivista «Solaria» e vince il Premio Campiello nel 1971 con Ritratto in piedi. Continuerà a scrivere e frequentare l’ambiente letterario fino alla morte, avvenuta nel 1974.
Tarlo e ossessione della sua ricerca letteraria resterà sempre «il tema degli animali», inesauribile fonte d’ispirazione, oggetto di scrittura irrinunciabile: «Eh, questo, no; questo no. Questo lo salvo e lo salverò finché campo. È un regno. Non si può passarsela d’un regno». Ed è questo il reame che Manzini esplora in declinazioni ricche e multiformi nel corso di tutta la sua carriera di autrice, riunendone le narrazioni in raccolte, continuando a ragionarle, a densificarle, interrogandosi senza risposte definitive in un rapporto impossibile da ritenere finalmente stabilito – fisso come in una cornice, o in uno stemma araldico, tanto presente nell’opera stessa – ma sempre cangiante.
Arca di Noè è in primo luogo un “bestiario di epifanie”: l’incontro con la fauna è sempre pietra di inciampo per una riflessione inattesa, in linea con l’assioma di Levi-Strauss per cui tutti gli animali sono «buoni per pensare». I modi in cui però Manzini articola le sue storie sono estremamente diversi, talvolta persino contraddittori. Vi sono racconti dall’approccio più innocuo, come ad esempio “Un cavallo”, laddove con innocuo non si intende affatto meno doloroso – “Un cavallo” è infatti una storia triste e cruda – ma semplicemente meno propenso a riconoscere lo scarto ineludibile che separa l’autrice dalla bestia, che viene infatti letta in chiave antropomorfa; o “I passerotti”, basato sul parallelismo tra la leggerezza di un danzatore e quella apparente degli uccelli; o ancora “Amicizie pericolose”, racconto ironico incentrato sulla quieta pace che intercorre tra un gatto e due topolini, autentici personaggi favolistici dai tratti umanizzati. L’animale svolge in questi casi un ruolo metaforico, si fa simbolo di stati d’animo, rimpianti, idiosincrasie, proiezioni di emotività che l’autrice ben conosceva. Esempio particolarmente riuscito è senz’altro il racconto “Il falco”, in cui l’uccello ferito costretto a un’indignata immobilità incarna la frustrazione della protagonista bambina, impotente in quell’età di mezzo che non è ancora adolescenza, fitta del peso insostenibile di una nobiltà umiliata. Un processo analogico raffinato e insieme opprimente, esaltato da scelte lessicali levigate che non sottraggono nulla alla carica emotiva della narrazione.
Interessante è poi “Una vacca”, racconto di un idillio campestre dalla conclusione cruenta, in cui lo scarto col pensiero animale trova una dimensione diversa, arrivando a una forma di panteismo peculiare, che paragona la placidità del bovino a una fusione con l’ambiente:

 

Essa era dunque anche il prato; ma di più aveva vicina la vita dell’albero,

 percorso e nutrito dalle radici alle foglie.

 

 Mentre intorno alla bestia esplodono morte e violenza nulla scalfisce il suo serafico stare al mondo, adesso inaccessibile all’autrice.
Manzini comincia così a esplorare una dimensione di ignoto contenuta e scatenata dall’animale, ciò che dal «sorriso» la conduce al «turbamento»: non scorge più negli occhi di civette, gatti, serpenti, solo un senso di «complicità», ma qualcosa d’altro, che non è più fonte di tenerezza ma, al contrario, spaura, «l’impressione che gli animali, sul conto nostro, la sappiano più lunga di noi, sul conto loro». Il bestiario manziniano svela così il suo secondo volto: gli animali sono sì specchi, metafore, riflessi dell’umano, ma possono anche farsi testimoni di un’alterità assoluta e preclusa, un’alterità carica di saggezze serbate da becchi, artigli e spire, forze misteriose cariche di un senso di minaccia.
Scrutando nello sguardo di un rapace nel racconto “La civetta”, la voce narrante è assalita da una sensazione inedita:

 

All’istante, t’accorgevi d’aver subito una violazione, d’essere senza riparo, d’averle fatto toccare un fondo segreto, insomma di trovarti in sua balìa.

 

L’animale si trasforma ora in soggetto attivo: non più oggetto risemantizzato dalla scrittura ma entità che sfugge alla scrittura stessa, che scandaglia di rimando l’occhio di chi lo osserva, che impartisce insegnamenti. Maestri sono non solo le bestie selvatiche ma anche quelle percepite nell’immaginario collettivo come domestiche: nel racconto che Manzini dedica alla memoria dei suoi gatti – «Sapeva tutto di me; e io quasi nulla di lui; di qui ha origine la mia schiavitù al suo ricordo» – non mancano scoperte:

 

Imparo molte cose: per esempio che non ci si deve mai burlare di ciò che si ama. Io spesso mi burlavo di lui. Lui di me, mai. È la lezione d’una animale. Ne terrò conto.

 

 I soggetti-animali acquisiscono un’austerità che non intacca i legami affettivi che li stringono all’autrice, li rende semmai più grandi e articolati. Si esce dalla logica binaria di un rapporto verticale in cui l’umano è posto sopra l’animale, per approdare a una dimensione reticolare di connessioni in cui non vi sono egemonie di sorta.
Tornando a guardare Arca di Noè nel suo complesso la si può guardare come a una raccolta di miniature: i racconti sono cesellati, la ricerca stilistica dell’autrice condensa una lingua lirica e a tratti sovrabbondante, fortemente poetica, evocativa senza essere leziosa, come quell’ «accordo dell’inverno con gli uccelli, rapidità senza peso, e con i gatti che mandano a spasso il proprio fantasma». È un trionfo di astrazione, di corrispondenze e tentativi di approdare a nuovi significati, illuminazioni a partire da quel «piccolo e segreto» tanto caro ad Anna Maria Ortese, che con Manzini condivide la riflessione di una vita sull’animale. Lo sguardo arriva fino al microscopico, al sottomondo degli insetti: “Una larva” e “Un bruco” sono racconti brevissimi, quasi a ricalcare le dimensioni dei loro personaggi, in cui però il senso di minaccia e violenza lambisce la pagina fino a ingigantirla. Emblema di questo slittamento sono anche i due racconti dall’espediente biblico “Il sangue del leone” e “Il cavallo di San Paolo”, reinterpretazioni argute di episodi celeberrimi che scalzano la centralità dall’uomo protagonista in favore dell’animale che ne accompagna l’impresa.
La voce di Manzini rende la raccolta accesa e vivissima, lasciando intravedere il suo costante lavorio interiore. Una sensibilità profonda e spiccata aleggia su tutte le storie, accomunandole in una συμπάθεια ora crescente, ora nascosta, ma che non manca mai e scaturisce anzi dall’atto narrativo stesso, al punto che la visione di una trota pescata spalanca le porte all’atto immaginativo e di conseguenza al dolore:

 

Smisi di raccontarmi il probabile romanzo di ogni trota, perché quella lì, moribonda e meno che mai rassegnata, intimidiva e faceva ripiegare la mia immaginazione.

 

 Accogliere l’alterità attraverso il racconto equivale ad accoglierne l’ingiustizia subita: «Anche a considerare una pianta mi pareva di trovar subito una storia vera di che soffrire».
Il mondo animale viene dunque a configurarsi per Gianna Manzini come il fondamento della sua poetica e, per estensione, del suo intero immaginario. Un mondo immenso, labirintico, fitto di arcani e di violenza, ma anche di ironia e legami empatici inspiegabili. La voce dell’autrice si sporge sulla soglia dello sconfinamento oltre l’umano, senza mai attraversarla del tutto, ma intuendone tutta la vertigine, la perturbante eco che risponde al richiamo. I racconti sono figli del loro tempo, ne recano i connotati linguistici, l’impronta a tratti antropocentrica, ma sono anche invasi da una modernità sconcertante, impercettibile in superficie, enorme e innegabile una volta che la si è intravista. Nel suo sguardo timido e grondante di immedesimazione, Arca di Noè cova il germe brulicante e profondo di inquietudini future.
«Ma se la bestia fisserà libera davanti a sé, sento che avrò paura».

Italica. Il Novecento in trenta racconti

Rizzoli porta in libreria Italica. Il Novecento in trenta racconti, a cura di Giacomo Papi che intreccia trenta magnifici racconti italiani con una sua personale lettura del Novecento, fatta anche di statistiche, relazioni parlamentari, articoli di giornale. Leggeremo capolavori di Natalia Ginzburg, Primo Levi, Elsa Morante, Malaparte, Fenoglio o Ortese, e intanto scopriremo quanto costava un chilo di pane nel 1958 o quanto erano alti i soldati di leva nel 1940, quante case si costruirono negli anni Cinquanta e quante donne si laurearono nei Sessanta.

Cattedrale vi propone l’introduzione al libro e il primo racconto di Rosa Rosà, per gentile concessione dell’editore.

di Giacomo Papi

La letteratura è un documento, come la pittura, la musica, l’architettura e l’arte in generale. I quadri mostrano come le persone si vestivano e si tagliavano i capelli, le stanze in cui abitavano e il loro modo di ridere, piangere o giocare a carte. I romanzi, i racconti e le poesie documentano anche le emozioni, il modo di parlare, litigare e scherzare, la lingua segreta del potere, come si nasceva, amava e moriva, oppure ammazzava. La letteratura racconta la storia, sempre, anche quando ricostruisce il passato o immagina il futuro, perché non esiste storia senza racconto. Prima che la furia della modernità iniziasse a etichettare tutto, come in un supermercato, storia e letteratura erano indistinte. Erano cronaca, “riguardavano il tempo”. Questo libro usa i racconti, un genere letterario in Italia abbastanza trascurato, per ricapitolare gli ultimi cent’anni attraverso le voci e gli sguardi degli scrittori e delle scrittrici che erano vivi mentre quei fatti accadevano e che li hanno testimoniati scrivendo, dopo averne sperimentato i dolori e le gioie, sofferto le malattie e combattuto le guerre. Sono trenta racconti che parlano di quello che è successo in Italia dall’inizio del Novecento a oggi. Non sono i più belli (anche se molti racconti sono i più belli del secolo) perché il criterio che ha orientato la scelta è stato cercare di mostrare i passaggi cruciali avvenuti nella politica e nel costume in Italia.
Ne è uscita una storia a più voci, una tra le tante possibili, poiché i racconti italiani sono un archivio sterminato, e per lo più ignorato, da cui si potrebbero ricavare altre verità, o almeno altre versioni, su come sia andata davvero. I testi furono scritti, in maggioranza, mentre i fatti narrati avvenivano, in diretta. Qualcuno anni dopo, nel ricordo. Gli scrittori sono più numerosi delle scrittrici, perché nel Novecento anche la letteratura è stata un’attività in prevalenza maschile. Scrivere è un potere che implica la possibilità di essere letti, dunque di avere attenzione, e così, per ritagliarsi uno spazio e rispondere alle aspettative della società, la maggior parte delle scrittrici italiane si relegò nell’analisi della sfera intima, non in quella pubblica, scrivendo per lo più di sentimenti e famiglia, di costume più che di politica, di amore più che di cronaca. La selezione è stata circoscritta agli autori non viventi, per coerenza con la concezione documentale della letteratura e per consegnare il Novecento ai classici. Ventisette racconti corrispondono ai classici capitoli dei libri di storia: la Prima guerra mondiale, il fascismo, la condizione delle donne, degli omosessuali e dei poveri, le leggi razziali e il consenso al regime, l’entrata in guerra, la Resistenza e la vittoria della Repubblica, la ricostruzione, la vita nei campi e nelle officine, la mala, la legge Merlin, la parità salariale, l’arrivo dei computer e della pillola, la crescita del terziario, il terrorismo e l’eroina di massa, il calcio come politica, la valanga di Manipulite, i naufragi nel Mediterraneo. Gli ultimi tre racconti sono profezie in cui fu immaginato il futuro, cioè il nostro presente, quando doveva ancora accadere. Primo Levi nel 1971 descrisse un mondo in cui chiunque può diventare un testimonial, come accade oggi sui social; Anna Rinonapoli, una scrittrice di fantascienza poco conosciuta, raccontò l’estinzione del patriarcato con un misto di orrore e speranza; Dino Buzzati inventò un viaggio in treno attraverso un’Italia deserta, simile a quella che abbiamo sperimentato durante la pandemia. Ma il primo personaggio che entra in scena è la città.

[…] Nel 1917 sull’«Italia futurista» apparve Moltitudine, un breve testo in cui della città, oltre alla violenza, si percepisce la vita, «l’intensità delle fogne, le guerre pazze nei canali. I canti delle correnti d’acqua nascoste. I brividi dei tubi di gas». Era !rmato Rosa Rosà, nome d’arte di una scrittrice e disegnatrice viennese di trentatré anni, la baronessa Edith von Haynau, che aveva sposato un italiano, Ulrico Arnaldi, e si era avvicinata al futurismo mentre il marito era al fronte. Fu una delle poche a sentire l’altro lato della modernità, quello dove «non si mangia non si dorme non si ama», dove «non c’è posto per i deboli» e «l’ombra ingoia una metà delle cose. L’altra metà è acciecata». Nel 1918 Rosa Rosà – che sarebbe morta dimenticata nel 1978 a Roma – avrebbe pubblicato uno strampalato romanzo, Una donna con tre anime, primo esempio di fantascienza futurista e femminista, in cui l’identità della protagonista si moltiplica, dissolvendosi e liberandosi nello spazio e nel tempo. Come l’euforia della Milano di allora che periodicamente risuona e ritorna, come è accaduto negli anni che hanno preparato l’epidemia. Il Novecento non se n’è mai andato. A volte mi capita di percepirlo ancora, di ascoltare i rumori e sentire nel corpo la presenza dei morti che vissero la città esplosa e di tutti quelli che la costruirono, edificando le strade, le case, le stanze in cui ancora oggi abitiamo e dormiamo.

MOLTITUDINE
di Rosa Rosà

Altoforno sempre acceso della città. Spugna assorbente. Centro di tentacoli diramati nella lontananza. Lastra rovente che costringe ad un ballo incessante i deboli arsi vivi consumati, i forti accelerati in tutte le loro facoltà. La Città vista da lontano: dignitoso oceano con alcune sporgenze di calme cupole e torri: razzi formati dalla loro propria scia immobile pietrefatta congelata all’altezza di cinquanta o sessanta metri. La Città vista da vicino: convulsione compressa e irradiazione di vitalità nell’atmosfera. In ondate quasi visibili, l’emanazione dei cervelli, la coscienza dei valori, le passioni acute galleggiano nello spazio. Il cuore della città durante il giorno: centro ciclonico che aspira e risof!a lontano milioni di atomi vivi in un vortice incessante. Lavoro. Non si mangia non si dorme non si ama. Intelligenza pura. Tutti camminano urtandosi come zolfanelli che si devono accendere. Non c’è posto per i deboli. Cervelli prolungati in una gigantesca ragnatela di !li elettrici. Un abile chirurgo ha estratto quella complicatissima rami!cazione dalla carne pesante della città sospendendola in alto come reti di pescatori al sole. Sopra i tetti, più alto che gli amori dei gatti, la vita dei !li. Il selciato: epidermide paziente – tappeto pietri!cato. Immobile torrente di nastri in matassa. Tappeto – scudo per coprire – difendere la Terra dagli zoccoli delle bestie dai piedi degli uomini.
La continuità del materiale vario si estende in una unica dimensione: lastra-strato-piattitudine. Tre soggettivi diventati oggettivi. Sotto al corpo materno del selciato: gli occultismi, l’intensità delle fogne, le guerre pazze nei canali. Le ombre delle cantine. I canti delle correnti d’acqua nascoste. I brividi dei tubi di gas. Fremiti continui sotto i pesi che passano sopra il selciato: le pancie affannose-aggressive dei tram strisciando come grandi scope burrascose alzando al loro passaggio turbini di aria tormentata. L’aderenza tagliente e ruotante delle ruote. Il ritmo sincopato degli zoccoli. Le rotaie che gemono nelle curve sotto la pressione dei pesi nell’estasi della loro materialità toccata. Pareti di altissime case tempestate da smisurate lettere. Imperativi dispotici lanciati da af!ches in linguaggio sintetico che s’impongono come un tatuaggio nei centri nervosi. Ordini di ipnotizzatori af!ssi al muro. Il cuore della città durante la notte: teatro e cinematogra! succhiano come i precipizi senza profondità la folla. Il biancorosso-oro dell’interno straripa sulla strada. Af!ches pieni di esotismi frizzanti che danno anche all’esistenza più casalinga l’illusione di partecipare a cose inaudite lontanissime. La poliformità è acutizzata. L’ombra ingoia una metà delle cose. L’altra metà è acciecata da fasci di lumi bianchissimi e colorati. Enormi astri che galleggiano nel mezzo delle strade, appesi a invisibili !li come frutti viziosi all’albero bluscuro della notte. Falsi!cazioni intense della luna. Il cielo notturno rossastro strato gravido di tutte le esalazioni di tutti i raggi smarriti. Grande ala sof!ce viola scura che copre case colpe di patriarcale regolarità. Cielo notturno che copre raf!che di disordine e meravigliose piante strambe !orite su montagne di sabbia che s!dano l’Eternità. Cielo notturno: gigantesco coperchio abbattuto sopra la città per non offendere gli occhi delle stelle.

Nessuna colpa, di Amalia Guglielminetti

Amalia Guglielminetti nacque a Torino il 4 aprile 1881.
A soli ventidue anni pubblica la sua prima raccolta di poesie, Voci di Giovinezza, di impronta carducciana. Nell’ambiente culturale di Torino dove frequentava la Società di Cultura insieme a Thovez, Pastonchi, Graf, Gozzano, Borgese forgiò il suo personaggio di donna appassionata e indipendente. Nel 1907 pubblicò Le vergini folli, dove le esperienze del chiostro si rivelano più apertamente, insieme però ai temi che saranno dominanti nei successivi lavori.
La lettura di Le vergini folli e il loro incontro alla Società di cultura, spinge il poeta Guido Gozzano a interessarsi di Amalia dando vita alla loro storia che trova testimonianza nell’interessante carteggio pubblicato da Garzanti a cura di S. Asciamprener nel 1951.

L’influenza autobiografica e della relazione con Guido appare evidente, ma Amalia sa andare comunque oltre, collocandosi con autorevolezza nella storia letteraria italiana del primo novecento. D’Annunzio la definirà l’unica vera poetessa che abbia oggi l’Italia. Sempre nel 1909 – e ormai la relazione con Guido ha segnato il raggiungimento dell’«ora dell’amicizia» – pubblica il volumetto di poesia Emma dedicato alla sorella morta di tifo a soli 29 anni. Tale opera si trova poi ripubblicata in I serpenti di Medusa (1934).

Le idee che Amalia matura a proposito della mascolinità rappresentata da Gozzano si esprimono dapprima in un articolo su «La Stampa», di cui è collaboratrice, e poi nel nuovo volume di poesie L’Insonne pubblicato nel 1913. La lirica di apertura, Risposta a un saggio, appare verosimilmente la risposta alle poesie di Gozzano L’onesto rifiuto e Una risorta.

Aumenta invece la fortuna delle opere di prosa: tra il 1915 e il 1920 Anime allo specchio, Le ore inutili, La porta della gioia e il romanzo Gli occhi cerchiati d’azzurro. Nel 1923 esce il romanzo La rivincita del maschio.

Cattedrale vi propone una delle sue novelle, contenuta nella raccolta ‘Anime allo specchio’, del 1925.

NESSUNA COLPA
di Amalia Guglielminetti

La campana garrula squillò mentre il battello con un moto faticoso dell'elica si staccava dall'approdo e girava al largo. L'acqua era tutta azzurra fra il verde delle colline ondulate e le isolette vi si posavano come grandi fiori acquatici, immobili sotto il sole meridiano. Ma gli scarsi passeggieri del piroscafo non badavano al paesaggio. Cerano due vecchie inglesi ossute e occhialute come il giovine pastore protestante che le accompagnava, tutti e tre assorti nella lettura di una guida, coi tre medesimi cappelli di paglia nera un po' inclinati sulla fronte ad ombreggiare i volti quasi eguali. Cerano quattro negozianti, due grassi e due magri, intenti a scrivere cifre sui loro taccuini; ed una coppia di sposi in viaggio di nozze occupati a sorridersi ed a guardarsi negli occhi.
Soltanto una signora vestita di nero in un grave lutto vedovile, s'appoggiava al parapetto proprio sotto il ponte di comando e col velo rialzato sul suo fine volto di donna trentacinquenne osservava intorno a sè quelle linee e quei colori già tanto famigliari al suo sguardo, con la dolcezza affettuosa di chi ritrova ancora immutati e fedeli gli amici dimenticati.
Portava un piccolo cappello chiuso ai lati da due alette di crespo nero listato di bianco, simile al casco di una deità guerriera ed aveva di certe statue classiche il profio puro, i capelli biondi spartiti in due onde uguali, il collo agile e saldo emergente da una piccola scollatura rotonda. Ma la persona alta e smilza aveva la nervosa struttura moderna e le mani calzate di guanti neri che correvano tratto tratto a fermare il velo agitato dalla brezza, s'indovinavano lunghe e fini, piene d'impazienza e sensibilità.
Appena lasciato l'ultimo approdo qualche nuovo passeggiero apparve e la signora in lutto, gettato sui sopraggiunti un rapido sguardo, corrugò la fronte in una vivace espressione di disappunto e traendosi il velo sul volto volse il capo dal lato opposto. Ella aveva scorto e subito riconosciuto Romeo Valturba, il giovine che si era tre anni innanzi inimicato con lei e con tutta la sua parentela abbandonando quasi alla vigilia delle nozze la piccola Viviana Claresi, sua nipote e pupilla.
Ella stessa, d'accordo con la madre di lui, aveva vagheggiato e favorito quel matrimonio che doveva unire due bei nomi e due belle sostanze, e più d'ogni altro si era sentita offesa quando Romeo Valturba, senza una spiegazione, senza una scusa accettabile era partito per un lungo viaggio, all'improvviso, lasciando alla fidanzata una lettera breve in cui la lasciava libera, dichiarando di non sentirsi capace di renderla felice e chiedendole perdono. Il mistero di quella fuga non era stato sciolto nè allora, nè dopo; nessuno di casa Valturba aveva più messo piede in casa Claresi, e voci diverse esprimenti supposizioni e dubbi che si contraddicevano e si distruggevano a vicenda, circolarono per qualche tempo fra amici e conoscenti, senza nulla spiegare e senza convincere nessuno.
Si diceva che Romeo avesse in cuore qualche altra Giulietta e il facile bisticcio, passato di bocca in bocca, era anche giunto a Viviana in una lettera d'amica fin laggiù nel suo collegio francese dov'ella aveva voluto tornare dopo la delusione.
Si diceva pure e con maggiore fondamento che una colpa d'origine nella vita della giovinetta, ossia una madre di condizione equivoca, sposata soltanto per legittimare la figlia e morta poco dopo la sua nascita, fosse venuta a conoscenza dei Valturba un po' tardi, ma ancora in tempo per deciderli a troncare ogni progetto d'unione. Tale suscettibilità poteva sembrare troppo esagerata per essere convincente, tanto più che il padre di Viviana, noto a tutti come corretto gentiluomo, l'aveva lasciata anni innanzi, legandole un bel patrimonio e affidandola alle cure di sua zia, la giovine contessa Gabriella Claresi.
Più tardi, Viviana, lasciato a forza il collegio e dimenticato l'infedele fidanzato, aveva sposato un altro e sua zia, rimasta vedova da alcuni mesi, tornava in quella sua villa sul lago dove i due giovani s'erano un tempo conosciuti e dove ella subita la irritante sconfitta, aveva dovuto consolare il dolore e l'umiliazione dell'abbandonata. Ella continuava ora a fissare attraverso al suo velo l'azzurro paesaggio lacustre, irrigidendosi in quella posa d'ostentata indifferenza, quasi di altera lontananza, che doveva intimidire e ferire Romeo Valturba. Ed in realtà il giovine, fermo ad alcuni passi, la contemplava quasi estatico con un volto commosso ed impaurito ad un tempo. Egli teneva in una mano il cappello e si passava l'altra nelle brune chiome ondulate con un moto lento e convulso, pieno di perplessità e d'affanno.
Aspettava ch'ella si volgesse, che i suoi occhi si posassero distrattamente sulla sua persona per osare di salutarla, per tentare d'avvicinarsi e di parlarle, ed intanto non gli sfuggiva l'ostilità fredda del suo atteggiamento così bene accentuato dalla severa eleganza del lutto, dallo scultorio cadere di qualche piega, dal bel cappello tetro ed alato che chiudeva con armoniosa simmetria il fine volto dall'esatto profilo. Ella non si muoveva e finalmente con uno sforzo di tutta la sua volontà, con una abolizione di tutto il suo amor proprio, Romeo Valturba le si accostò ed inchinandosi profondamente le chiese il permesso di ossequiarla.
Ella gli volse lentamente lo sguardo, come se prima d'allora non lo avesse scorto e abbassò il capo in un dignitoso saluto, senza porgergli la mano.
– Mi perdoni, – proseguì il giovine mal celando la sua commozione – se ho ardito d'avvicinarmi a lei pur sentendomi tanto mal giudicato, pur sapendomi tanto disdegnato.
– Oh! – esclamò ella soltanto con un piccolo riso fra amaro e sprezzante, un riso di gelo che non riuscì a paralizzare l'umile fervore di Valturba.
– Io le mandai le mie condoglianze mesi fa, alla morte di suo marito – egli continuò – e non ebbi risposta; non l'aspettavo, è vero, ma questo silenzio mi ha fatto molto male. Sapevo d'averla involontariamente offesa, ma m'illudevo di non avere in lei, almeno in lei, una nemica mortale.
– Nemica mortale è troppo – ella mormorò sarcastica, – è troppo per così piccola cosa. Di grande in tutta quella poco simpatica faccenda non vi fu che la sua leggerezza. Ora Viviana ha preso marito ed è felice: perchè dovrei serbarle rancore di una colpa che è tornata soltanto a suo danno!
Il battello si fermò ad un altro approdo, gli inglesi discesero, salì altra gente e la campana di partenza tornò a squillare, mentre l'elica rompeva rumorosamente l'acqua azzurra in un gorgo di spume candide. I due viaggiatori, appoggiati al parapetto del ponte, avevano seguito le manovre in silenzio, ma lo sguardo del giovine si era spesso rivolto alla sua compagna con una così viva ansietà scrutatrice che pareva volesse penetrarne il pensiero.
– Fra pochi minuti io scendo, – ella avvertì gettando uno sguardo al minuscolo orologio di smalto nero che le ornava discretamente il polso.
Egli sbattè le palpebre e si passò la mano sulla fronte col suo gesto abituale di perplessità affannosa, poi disse tentando un sorriso: – Io non la vedrò forse mai più, non l'avrei forse più riveduta senza l'incontro così casuale, quasi direi così fatale d'oggi.
– È probabile, – ella mormorò freddamente, a fior di labbra.
– Ebbene, bisogna ch'io approfitti di questi pochi minuti che il destino mi concede per farle una confessione. Ella gli gettò un'occhiata interrogativa sollevando le sopracciglia.
Egli proseguì: – In tutto quello che accadde io fui senza colpa; io fuggii vilmente, è vero, ma fuggii per non essere colpevole più tardi, per salvarmi da una terribile tentazione, per togliermi ad una situazione dolorosa e falsa.
Ella lo osservava stupita e interdetta, pur sentendo nella sua voce l'accento della verità. – Io avrei amato e sposata Viviana se vicino a lei non vi fosse stata un'altra donna infinitamente più bella, più attirante, più inquietante, se vicino a Viviana non vi fosse stata lei.
Le ultime parole furono appena sussurrate con un'ansietà quasi timida, con uno sforzo quasi angoscioso e la donna che le ascoltava ne fu scossa.
– Il mio torto fu quello di lasciarmi trascinare dalle circostanze fino ad un momento troppo decisivo e poi di fuggire vigliaccamente, con un pretesto puerile, meritandomi l'odio di Viviana e il suo disprezzo.
Ma se ella sapesse quanto ho sofferto in quella incertezza tremenda, quanto ho lottato contro la tentazione di rivelare tutto a lei, a lei che forse mi avrebbe aiutato e compatito un poco. Invece nascondevo la mia passione come un male vergognoso e mentivo, mentivo a Viviana, mentivo a lei, mentivo a tutti, finchè al momento dell'ultima menzogna ho perduto il mio coraggio e sono fuggito. Ma non ebbi colpa, è vero? Me lo dica lei ora, dopo tre anni, ch'io non ebbi nessuna colpa.
– Che ragazzo! – ella mormorò crollando il capo con un sorriso mite; – ha fatto male a non confidarsi a me; questo è certo.
E poichè il battello s'avvicinava alla riva e villa Claresi già appariva fra il verde, ella fece l'atto d'avviarsi all'uscita. Ma il giovine le porse la mano, afferrò la sua, la trattenne ancora un momento, le domandò con tutta l'anima nello sguardo: – Mi permette di confidarmi adesso? Verrò domani da lei. Ho ancora tante cose da dirle, tante. E bisogna ch'io gliele dica.
Ella esitava a rispondere ed egli la incalzò di domande corrucciate.
– Non è libera ora? Di che ha paura? Mi disprezza ancora? Non mi crede? Sono un uomo d'onore e voglio darle la mia vita.
– Silenzio! – ella disse con un lieve ridere sommesso scendendo la scaletta seguita da Romeo Valturba. E come furono in basso presso il rumore assordante delle macchine in moto, si fissarono un lungo momento senza parola, costretti dalla folla a una tale vicinanza ch'ella incontro al suo braccio sentiva battere il cuore del giovine.
Gli uomini gettarono il ponte d'approdo e quando tutti furono passati, anche la contessa Gabriella Claresi vi si diresse con un gesto di saluto.
– A domani, dunque? – la supplicò Romeo Valturba, ed ella gli si volse, abbassò il capo in un cenno di consenso.
Quindi attraversò il ponte ultima e sola sottile e nera, con la bella persona drappeggiata nobilmente nel velo vedovile.

La Città del tabacco di Laudomia Bonanni


di Anna Lo Piano


Subito si incontrano le donne. Si direbbe anzi un paese di sole donne. Agili e silenziose, con le conche di rame sulla testa, o vaschette, secchi, mastelli, vanno per acqua. Un andirivieni incessante. Alcune portano alti carichi. A domandare dov’è la fonte, rispondono con un gesto vago come se indicassero lontano.
(Le donne di Filetto)

 

Il 7 giugno del 1969, il popolare settimanale tedesco Der Spiegel pubblica un articolo destinato a fare scalpore.  Il vescovo ausiliare della diocesi di Monaco di Baviera, Mons. Matthias Defregger, è lo stesso Defregger che venticinque anni prima, in qualità di capitano nazista nella 114° divisione Jaeger, ha dato l’ordine di uccidere trenta uomini nel paese di Filetto, in Abruzzo, come rappresaglia durissima di un attacco partigiano.
La notizia che un criminale di guerra nel 1948 sia potuto diventare vescovo fa il giro del mondo, e riapre vecchie ferite.

All’epoca Laudomia Bonanni era pubblicista per Il Giornale d’Italia, una collaborazione nata nel 1948 per interessamento di Goffredo Bellonci, che ne curava la terza pagina, e proseguita per oltre trent’anni di articoli ed elzeviri sui cambiamenti della società italiana. La scrittrice conosceva bene Filetto. Per anni aveva insegnato in un paese vicino e, soprattutto, era Aquilana. Quei luoghi, quei paesaggi, il Gran Sasso, erano la sua terra. Per questo il giornale pensò di mandarla come inviata sul luogo dell’eccidio, e lei scrisse un pezzo, “Le donne di Filetto”, che riassume la sua poetica sulle donne e la sua visione della guerra.

Già dall’incipit, nel modo in cui Bonanni racconta l’arrivo al paese, zoomando da un dettaglio al totale, seguendo i movimenti dell’occhio sulle cose, riconosciamo lo sguardo cinematografico e poetico della documentarista. Una prima persona che racconta da testimone partecipe, ma senza mettersi in mezzo. In scena c’è solo il paese, Filetto, e le sue donne. Scelta di parte quella di raccontare il fatto attraverso coloro che sono state testimoni dell’eccidio degli uomini; risparmiate, ma non per questo meno colpite.

Dai curiosi che arrivano come a una gita, dai giornalisti specialmente, si difendono col silenzio. Ai giornalisti non vogliono più parlare, del resto si sono rivolti agli uomini.

Laudomia, invece, che è “una donna come loro” e per di più montanara, sa “come comportarsi” e si muove sicura tra le strade del paese, raccogliendo qua una storia del passato, qua un commento sul presente, e tirando a poco a poco i fili di un arazzo corale, le cui protagoniste sono queste donne abituate a portare pesi sulla testa e rimanere dritte.
C’è un modo, in questo articolo, di condurre la narrazione come se fosse un’indagine, partendo dalle evidenze, facendo domande, e ricomponendo in un quadro finale scene smozzicate. Lo stesso stile si ritrova con diverse sfumature nei diciannove racconti di Città del tabacco, pubblicati con Bompiani nel 1977.

Andavo per la solita visita e l’agente stava accompagnandomi schiavardando dal cortile d’ingresso al primo corridoio, quando m’è venuto fatto di domandare se non vi fossero ragazze
(Giulietta non confessa)

Al personaggio di Giulietta, in “Giulietta non confessa” Bonanni arriva per gradi. Invece di dipingercela tutta, ce la sbozza davanti agli occhi a furia di inquisizioni e reticenze. È dalle bugie che la ragazza usa per difendersi dai poliziotti, e da questa donna mezza giudice e mezza insegnante che le sta davanti, che a poco a poco ci si svela nella sua fragilità più profonda di ragazzina spaurita.
L’Annuccia di “Un posto per il ragazzo” rivela la sua presenza ogniqualvolta tra le cose di uomini, nell’ingresso, si intravede il suo scialle nero. Ed è solo a furia di domande e infinite digressioni che nel finale veniamo a scoprire il cuore del racconto, il fatto gravissimo che non può essere raccontato così com’è, con “la retorica e l’apocalisse” che userebbero giornalisti e avvocati, perché “le parole non possono aggiungervi o togliervi nulla”. L’unico modo è raccontarlo di sbieco, attraverso una storia parallela, apparentemente banale, che fa risaltare ancora di più la crudeltà di ciò che è avvenuto.
In “Città del tabacco”, che dà il titolo alla raccolta, l’incipit è una scena corale, apocalittica, di paesani sfollati e scaricati dai camion come merci inutili, masse informi che trovano rifugio negli androni.
Bonanni segue le famiglie, descrive le scene di interni, e solo a poco a poco lo sguardo si sposta sul fagotto selvatico e misterioso che ha preso possesso di una delle cucine. 
’La Staniscia’, figura memorabile di donna, si rivela per i silenzi, per i gesti di gatta, per un lembo di pelle scoperta. Bonanni ci racconta come la sua presenza si irradia sulle vite degli altri. Ma il suo mistero, la Staniscia, lo mantiene fino alla fine, quando decide di partire. E questo modo apparentemente casuale di portare il lettore nel dramma intimo dei personaggi, di tenere lo sguardo volutamente fuori fuoco, è uno dei tratti tipici della scrittura di questi racconti.

In tutti si respira senso di smarrimento di fronte alla guerra, di lotta primordiale per la sopravvivenza, come di un albero che in una tempesta cerchi con tutte le forze di non strapparsi al terreno.  In uno dei brani più intensi, in “Terremoto”, i paesani non sanno se cedere al terrore dei tedeschi o a quello delle scosse che annunciano lo sconquasso della montagna.
In tutti è evidente il realismo delle situazioni, l’impronta della cronaca. Bonanni vi mescola le memorie personali, i racconti del fratello prigioniero in Germania, il resoconto del cognato Corrado Colacito sull’occupazione tedesca nel territorio di Caramanico.
Lo spunto è quasi sempre reale. Molti sono rimaneggiamenti e revisioni di pezzi già pubblicati su giornali e riviste, come il già citato “Terremoto” (1950), “Banchetto dopo la battaglia” (1949), “Corte paradiso” (1950). A volte tra la prima stesura e quella finale passano dieci, quindici anni, se non venti. Alcuni vengono accorpati, i personaggi trasmigrano dall’uno all’altro. La lingua si tempera, si arricchisce come una valanga e allo stesso tempo si fa più precisa. Come per Gadda, per dire l’indicibile bisogna trovare un nuovo idioma che mischia termini dialettali, vocabolario colto e neologismi tutti suoi, unici.
Questo tempo intercorso tra la prima stesura e la forma racconto è anche esso una cifra di Bonanni. La sua vita letteraria è scandita da periodi di grande attività ed altri di silenzio.


Nata nel 1907 all’Aquila, da una famiglia piccolo borghese, intraprende una carriera di maestra che all’epoca non è affatto tranquilla, ma anzi la porta a contatto con la realtà più cruda e difficile dell’Italia degli anni ’20 e ’30. Lettrice accanita, scrittrice istintiva, viene incoraggiata dalla madre a pubblicare le sue prime novelle, per poi dedicarsi alla letteratura per l’infanzia.
L’arrivo sulla scena letteraria è invece tardo, nel 1948, quando ha già quarant’anni. È sempre la madre a incoraggiarla, mandando alcuni suoi racconti a un concorso per esordienti organizzato dagli “Amici della Domenica” dei coniugi Bellonci. “Il Fosso”, così si chiama la raccolta, riceve l’apprezzamento della giuria, e le apre una porta nel mondo letterario romano degli anni ’50. Bonanni frequenta il salotto dei Bellonci, conosce scrittori e scrittrici. Montale paragona il suo stile a quello dei “Dubliners” di Joyce. Tra gli anni ‘50 e ‘60 pubblica “Palma e Sorelle”, “L’adultera”, “L’Imputata”. I suoi libri vendono, ricevono premi, vengono tradotti. Poi di nuovo silenzio fino agli anni ’70, quando escono “Vietato ai minori”, “Città del tabacco”, “Il bambino di pietra”.
Sembrerebbe che ogni volta alla forma compiuta della sua scrittura serva un periodo di incubazione, un lavorio intimo, di depressione e isolamento, ma anche di profonde letture ed esperienze di lavoro a contatto con gli ultimi. Si può davvero dire che di semi del reale da far germogliare, nella sua vita, ce ne siano stati molti: il lavoro di maestra, la guerra, la terra aspra d’Abruzzo, fino all’attività di giudice non togato presso il Tribunale dei Minori dell’Aquila.
E questo reale irrompe nelle sue opere. “Vietato ai minori” è un romanzo saggio sul carcere minorile, “Il bambino di pietra” è scritto in forma di confessione analitica, usando la forma del diario per raccontare dal di dentro - come aveva fatto Alba de Cespedes con “Quaderno proibito” - la situazione di conflitto e prigionia culturale delle donne della sua generazione.
“Città del tabacco” attinge dalla storia, dalla cronaca, e forse anche per questo i diciannove ritratti di donne che li compongono non hanno i tratti dell’eroismo romanzesco.
Sono piuttosto figure sulle quali la luce dello sguardo si posa prima di sfuggita, e poi troppo tardi. Ma sono loro le resistenti, gli alberi attaccati alla terra nella tempesta. Sono loro quelle capaci di rimanere dritte, come le donne di Filetto.
Recensendo la raccolta, il critico Giorgio de Rienzo parlò di “femminismo alla Bonanni”:

“Il femminismo della Bonanni non è di maniera; è un femminismo storico e non semplicemente ideologico: persuasivo più di quanto non sia aggressivo, profondo più di quanto non sia arrogante”.(…) le donne della Bonanni rimangono le uniche sacerdotesse della vita: nei loro gesti semplici, nella loro adesione istitutiva alla natura, nella stessa loro forzata e rivoluzionaria spregiudicatezza”
(“Tuttolibri”, anno III, n°15, 23 aprile 1977)


E la stessa Bonanni, in varie interviste dell’epoca, non fa difficoltà a riconoscersi in questa definizione:

“Come scrittrice, mi sono sempre mossa nel mondo delle donne, dai primi libri all’ultimo. Perché colpita e attratta – appunto da scrittrice – dalla loro condizione sofferta. Finché mi sono accorta di aver perseguito quel “femminismo alla Bonanni” così definito da un critico.
(Itv a Laudomia Bonanni, a cura di Minnie Alzona, “Il Gazzettino, 25 gennaio 1979)

 

Questa presa di posizione a fianco di donne e bambini, l’assunzione del loro sguardo come chiave di lettura del reale, accomunano Laudomia Bonanni ad Anna Maria Ortese. Leggendo soprattutto i suoi elzeviri, oltre ai racconti di “Città del tabacco”, non si può non pensare a “Il mare non bagna Napoli”, per il modo in cui entrambe mescolano cronaca e racconto, e la sensibilità con cui si avvicinano alle creature schiacciate dalla vita.
Bonanni non ha però la visione cosmica, celeste, di Ortese. Le sue creature fantastiche sono prese dal reale, e ciò che di visionario c’è in esse è legato a riti antichi, della terra, a qualcosa di ancestrale che ha sempre legato le donne a una visione profonda, di sapere antico. Le donne di Bonanni non si trasfigurano perché portano in loro un selvaggio primitivo, che pur schiacciato rimane indomito.


La Staniscia s’era levati i panni e, magra in un bustino rosso, allattava cavando la lunga mammella caprigna. Il bimbo era nero ma impiumato di biondo. Essa girava come a difesa l’occhio selvatico e col seno pendulo restava a guardare di fuori la gramigna verde sul muro. Finché un giorno, sollevate le gonne, s’alzò e se n’andò, col suo bisciolino nell’apertura della sacca. (…) Imboccato l’Arco del Grifo, la zingara liberò i piedi dalle ciabatte scagliandole via, e col passo lungo di randagia premé i selci mostrando la pianta di pelle nuova, rosa.
(Città del tabacco)

Bambini, donne e guerra sono i temi costanti della sua scrittura, sui quali ritornerà fino alla fine. Il bambino come esplorazione della radice del dolore, le donne come sapere, nodo dell’ingiustizia. La possibilità di liberare il mondo deve passare inevitabilmente dalla loro liberazione. E la guerra come prova di resistenza umana nella tempesta.
Da Palma alla Staniscia, da Cassandra ad Amina fino alla Rossa della rappresaglia, Bonanni costruisce così una sola figura di donna che dal silenzio prende voce, e grida la sua voglia di vita. Una figura che andrebbe ricostruita e riletta per intero, dopo anni di oblìo.

 

E così domani sarò morta. Morta, capisci. Sarà finito tutto, per me. Per me sola. Quando appena cominciava. E io sarò fuori per sempre. Proprio adesso che stare al mondo mi piaceva. Mi stava piacendo enormemente, con passione, ti dico. Ero uscita dal fosso e so che tutti possono uscirne e volevo aiutare tutti a uscirne. Così, devo andarmene. Mi ficcheranno in una buca, di nuovo affossata. Domani, domani a giorno, quelli si prenderanno l’arbitrio di annullarmi per sempre”.
(La rappresaglia)

 

Le zitelle di Neera, di Anna Lo Piano

di Anna Lo Piano

Molto prima che si parlasse di una questione femminile io avevo presa singolarmente a cuore la causa della donna dal punto di vista della sua felicità, concentrando specialmente le mie osservazioni sulle vecchie zitelle.

(Le idee di una donna, 1903)

 

Nel 1903 esce una raccolta di saggi dedicata alla questione femminile dal titolo Le idee di una donna.  L’autrice è Neera, al secolo Anna Radius Zuccari, una delle scrittrici più prolifiche e influenti dell’Italia post-unitaria. Al pari di un’altra influencer dell’epoca, la strabordante Matilde Serao, più giovane di lei di una decina d’anni, prende a cuore la situazione delle donne e ne fa le protagoniste delle sue novelle e dei suoi numerosi romanzi.  Eppure entrambe si dichiarano anti-femministe.

 

I capitoli che raccolgo in questo volume mi vennero suggeriti osservando e ascoltando l’onda del femminismo che si avanza e nel quale non ravviso affatto il mio ideale di progredita femminilità. È troppo maschile per essere femminismo sincero. Gli sforzi che si fanno per uguagliare l’uomo mostrano chiaramente che la donna non si riconosce più nell’integrità del proprio valore, ed è questo valore suo che difendo con schietto ardore, dedicando i miei sforzi alle donne che accettano con semplicità e nobilmente la loro grande missione, facendo cioè del femminismo vero.

 

C’è in questi scritti un misto di morale borghese, conservatorismo e riconoscimento di una specificità femminile che è prima di tutto biologica e sentimentale. E però, nel suo fervore contro l’emancipazionismo, Neera è consapevole che è insita nella condizione femminile una profonda ingiustizia.
Il suo romanzo più famoso, Teresa (1886), fu riconosciuto da Ersilia Majno e dalla “scandalosa” Aleramo come profondamente femminista, a riprova di come spesso la scrittura sappia rivelare verità e contraddizioni più di tanti ragionamenti.
La protagonista, Teresa, è una zitella. Una di quelle figure di donna che Neera ci dice di aver conosciuto in abbondanza, alle quali ha dedicato un intero saggio all’interno de Le idee di una donna e che, “per la pietà somma” che le ispirano, sono diventate le eroine di molti suoi romanzi.

Ma perché proprio le zitelle?
Intanto, ci avverte Neera, le zitelle non sono tutte uguali. Ci sono le “rassegnate, le ribelli, le martiri, le maligne, le invidiose, le ipocrite, le ridicole”. Eppure nelle rispettive diversità sono:

 

riconoscibili al gesto, alla voce, allo sguardo, al sorriso; tutte segnate da un misterioso accenno, da un velo impalpabile che sembra isolarle dal fermento della vita e rinchiuderle nello stupore del sogno.

 

Questo senso di isolamento, come un passare accanto alla vita senza mai coglierla davvero, lo ritroviamo in Teresa, come in altre due zitelle esemplari, descritte nelle novelle “Zia Severina” e “Paolina”.
Quest’ultima è una ragazzina di dodici anni che vede il suo mondo crollare quando il padre, vedovo, decide di risposarsi. Se il piccolo mondo della casa d’origine, dove cresce selvaggia e affidata alle cure affettuose di una balia, è una sorta di paradiso terrestre, nella nuova famiglia si sente di “stonare nella tinta generale del quadro”. Fallito un tentativo di matrimonio concordato dalla matrigna, decide di togliere il disturbo e partire, ed è presto dimenticata.

La storia di Zia Severina si svolge tutto nel pomeriggio che segue il pranzo per i suoi 40 anni; data cruciale, giro di boa senza ritorno.  Rimirando i pochi regali, un vestito color caffellatte del fratello, un biglietto di un’amica d’infanzia, confronta la solitudine della sua stanza con il calore intimo degli scherzi tra la cognata e i suoi bambini, e si accorge di essere “passata accanto alle realtà della vita senza avvertirle, sognando sempre”.

 

Era tutta la sua giovinezza che finiva, che moriva, che bisognava sottoscrivere, cambiale rappresentante un valore ch’ella non aveva posseduto.

 

Il sentimento di una vita alla finestra, dall’orizzonte limitato, non era sconosciuto a Neera. Come racconta nella sua autobiografia, “Una giovinezza del secolo XIX”, anche lei, come Paolina, aveva perso la madre molto presto, e aveva vissuto lunghi inverni in compagnia delle zie paterne in una cittadina di provincia.

 

L’orto, che appariva attraverso il piccolo quadrato della finestra…voleva dire per quelle volontarie recluse tutto l’orizzonte”.
(Due mondi, in “La sottana del diavolo”)

 

Questa dimensione sognante, passiva, subentra a poco a poco, con gli anni, a furia di rinunce. Da bambine, le vecchie ragazze di Neera, hanno spiriti liberi e selvaggi.  
Paolina regna da padrona nel giardino della casa, dove le è concessa ogni scorreria. Severina, dal canto suo:

 

da bambina era stata molto vivace…quasi felice in un suo certo mondo ideale popolato di sogni. Figlia di un pittore, aveva conosciuto per tempo le seduzioni del colore e della linea.

 

Teresa ha un’indole vivace, sensuale, che in continuazione viene mortificata. Quando per la prima volta si trova fuori di casa, senza dover sottostare al dominio del padre e alle mille incombenze a cui la costringono i doveri familiari, si sente libera.

 

Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante. Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolio di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente, con un ritornello gaio, pieno di promesse.

 

Insomma zitelle non si nasce, ma si diventa.

In pieno verismo, si può dire che Neera abbia un proprio ciclo di “vinte”, perché la “miseria relativa, personale” di ognuna delle sue eroine dipende dalla grande ingiustizia di cui sono vittime le donne. Non solo a livello di diritti di libertà, lavoro, salario, ma soprattutto d’aspirazione a un amore profondo, intimo, ideale.
C’è nelle sue donne, a partire dalle zitelle, un desiderio di essere riconosciute, amate, viste per come sono nel profondo, ma che è destinato a restare insoddisfatto.
E questa impossibilità è in uno squilibrio delle posizioni di uomini e donne, nell’ingiustizia con cui si compone la società dei sessi. Confrontandosi con il fratello, Teresa si rende conto di soffrire

 

accanto a quel giovane robusto e felice, a quel giovane pago, a cui i privilegi del suo sesso aprivano tutte le porte. Non ragionava così la fanciulla, ma aveva l’intuizione di una profonda ingiustizia, mentre l’istinto della donna la spingeva ciecamente verso il suo signore e padrone.

 

In un mondo così asimmetrico, il matrimonio non può che andare a scapito di una sola parte. Quelli raccontati in “Teresa”, visti dalla parte delle mogli, partono con grandi sogni, ma si rivelano presto trappole da subire, da accettare per le imposizioni della società, per interesse.
Sembrano cose lontane, eppure ancora nel 1949, in “Dalla parte di lei”, Alba de Céspedes parla del rancore che prende le donne per l’inganno in cui sono tratte con il matrimonio.

 

Non di rado le ragazze avevano pazientato molti anni prima di sposarsi perché era difficile trovare un solito impiego, risparmiare il denaro sufficiente per acquistare la mobilia: avevano atteso preparando il corredo, fiduciose, nella speranza di un’amorosa felicità, e invece avevano trovato quella vita estenuante, la cucina, la casa, il gonfiarsi e lo sgonfiarsi del corpo per mettere al mondo i figli. Man mano, sotto una parvenza di rassegnazione, era nato nelle donne un livido rancore per l’inganno nel quale erano state tratte.

 

Nella passione di Neera per le zitelle c’è sicuramente il riconoscimento ammirato di uno spirito in opposizione. Paolina, come Teresa, rifiutano l’idea di condividere la vita con un marito qualunque, imposto dalla famiglia. Sono donne che non si accontentano, e se lasciano passare le occasioni, è perché aspirano sempre un sentimento più vero, più intimo.
Ma non c’è eroismo in questa ribellione. La zitella è il frutto della morale borghese, dove la deviazione dalla norma invece di espandere il carattere lo contrae su stesso per mancanza di strade percorribili.
La realizzazione nel lavoro, l’autonomia, non può essere in questo contesto una soluzione auspicabile, se è vista come un ripiego. E così da Paolina che toglie l’imbarazzo della sua presenza andando a lavorare in un’altra città, arriviamo ad Anastasia Finizio in Interno familiare di Anna Maria Ortese, un’altra zitella che vive nel rimpianto d’amore, e che pur lavorando non si è emancipata.
L’essenza dello zitellaggio è in questo anticonformismo che si esaurisce nel sogno, nel vagheggiamento di qualcosa di ineffabile che le tiene sul filo sottile del ridicolo.
Severina fin da piccola era:

 

Sempre invasa dagli ideali artistici, vestiva in modo bizzarro con strisce in testa, alla greca; con scialli rossi drappeggiati…e la sua bruttezza in questa cornice bizzarra appariva doppia.

 

In Teresa troviamo Calliope, un’altra bizzarra che fa da alter ego alla protagonista:

 

aveva gusti bizzarri, uscendo sola per le campagne, coi capelli sciolti sulle spalle, un piccolo fucile ad armacollo: ardita, violenta, selvaggia.

 

Anche Calliope è una donna sola, ma non propriamente zitella.  Passa molti anni della sua vita a guardare il paese dietro le grate della finestra, ma fino alla fine dei suoi giorni mostra una sana indifferenza verso le opinioni altrui. In lei la bizzarria ha passato un confine, l’ha condotta oltre.
Chi ne coglie l’essenza è il medico del paese.
È lui che sa vedere la bellezza di Calliope, che sa restituire a Teresa un contatto intimo e gentile.
È una figura di uomo in grado di capire che certe patologie femminili, certi “isterismi”, sono il risultato di costrizioni e mancanze.
E Neera, con tutto il suo conservatorismo, sembra dare molta importanza ai corpi, ai sensi, al piacere.
Nella prefazione alla seconda edizione del romanzo Il Castigo, del 1891, con un’altra zitella come protagonista, Neera riconosce che:

 

questa è la grande ingiustizia: la società, che priva le donne dei loro diritti naturali ove non abbiano trovato un marito, si fa poi beffe di loro se rimangono zitelle, e le chiama maligne, invidiose, sensuali.

 

Il corpo è quindi un diritto naturale. In Teresa le sensazioni fisiche legate ai primi turbamenti sensuali sono descritte in modo mirabile. Nel romanzo è tutto un accendersi di sensazioni e uno spegnersi per le imposizioni della morale comune.
Ma c’è anche in questa autrice di fine ottocento un sentimento di indignazione per il giudizio sul corpo. Body-shaming lo chiameremo oggi, e lei probabilmente si stupirebbe nel sapere di averlo descritto così chiaramente.  

 

“Lei è pur goffa!” ,
“Queste mani non sono presentabili”
“Cosa diranno di te nella casa dove andiamo?”

 

In queste frasi, rivolte a Paolina, c’è tutto l’imbarazzo del padre nell’accompagnarsi a una figlia così brutta, insignificante, assolutamente lontana dall’ideale di bellezza luminoso e perfetto della nuova moglie.
La consapevolezza del proprio corpo, davanti agli altri e se stesse, si realizza davanti allo specchio. Per Paolina lo specchio è la sua antagonista, di fronte alla quale è destinata a perdere. Zia Severina di fronte allo specchio fisico prende coscienza definitivamente della sua vecchiaia. Teresa, invece, scopre un sentimento nuovo che è quello della stima.

 

 

Incomincio a stimarmi anch’io! – disse così, sorridendo a se stessa nello specchio, per l’idea buffa ch’ella potesse stimarsi, e restò immobile, colpita dallo scintillio che vide davanti a sé su quelle labbra rosse, tumide, e su quei denti di una candidezza abbagliante. Tornò a sorridere. Che cosa bizzarra! Tutto il suo viso cambiava.

 

È qui una delle chiavi per cui si può capire cosa avesse fatto dichiarare a Majno e Aleramo di trovarsi di fronte a un romanzo femminista. L’altra, non meno fondamentale, è la chiusura. Paolina e Zia Severina si chiudono con una fuga emotiva. La prima si allontana, la seconda si getta in un sonno che è “oblìo delle tenebre”.  Teresa, invece, finalmente ha il coraggio di andare a raggiungere il suo amore di tutta una vita, di seguire il proprio desiderio in barba alla morale comune e al giudizio altrui, compreso quello della sua cara amica, la pretora, che non la capisce veramente e in fondo la considera un’illusa.

 

La pretora tentò la via del sarcasmo, dicendo con un sorriso freddo:

-        Vai a fare l’infermiera!

-        Quel che Dio vuole – rispose Teresa. (…)

-        Cosa penseranno le tue sorelle, tuo fratello?

Si strinse nelle spalle.

-        La gente?

-        Oh, la gente poi!

E sorrise  col suo sorriso melanconico al quale si aggiunse una punta di ironia.

-        Tuttavia…se mi facessero delle osservazioni a me, tua amica?

-        Ebbene, dirai agli zelanti che ho pagato con tutta la mia vita questo momento di libertà. È abbastanza caro, nevvero?

L'anima di Alba de Céspedes

di Anna Lo Piano

Per chi ha conosciuto Alba de Cespedes attraverso i suoi romanzi più famosi, da Nessuno torna indietro a Dalla parte di lei, fino a Quaderno proibito, la ristampa della sua prima raccolta di racconti L’anima degli altri ad opera di Cliquot, permette di scoprirne gli inizi, e confrontarli con ciò che verrà dopo. Per chi invece non la conosce ancora, forse è l’occasione giusta per avvicinarsi a un’autrice che come dice Loredana Lipperini nella prefazione al libro, “dovrebbe essere un’icona”. E basta leggere la più sommaria delle sue biografie per rendersene conto.
Nipote per parte di padre del politico cubano Carlos Manuel de Céspedes, rivoluzionario contro il regime spagnolo, presidente per due mandati e considerato sull’isola una figura mitica, Alba si forma da piccola all’ impegno politico e all’apertura culturale, e attraversa il ‘900 partecipando attivamente al suo tempo, con una vitalità e un anticonformismo da cui avremmo molto da imparare.
Durante la sua lunga carriera scrive romanzi di grandissimo successo, tradotti in molte lingue. Matura una coscienza antifascista, è resistente e dà voce alla resistenza attraverso la rubrica Clorinda per RadioBari. Fonda e dirige una rivista, “Mercurio”, che negli anni cruciali che vanno dalla liberazione di Roma a opera delle truppe anglo-americane all’immediato dopoguerra, vuole aggregare le energie intellettuali rimaste troppo a lungo sommerse, e aprire l’Italia alle realtà ancora vive, al dibattito internazionale sulle arti, la politica, le scienze.

 

Usciamo come da una vita subacquea. Un silenzio ottuso e minaccioso s’era fatto attorno a noi, le voci non giungevano più al nostro orecchio, né gli inviti e i richiami. Mondi nuovi nascevano, si schiudevano, vivevano, e noi attraverso il silenzio e il buio fondo, appena ne sospettavamo l’esistenza. E non vogliamo alludere solo a quest’ultimo anno in cui ognuno di noi ha sopravvissuto solo in virtù della sua carica vitale, ma a un periodo più lungo e remoto nel quale ogni energia intellettuale ha dovuto operare in zona d’aria condizionata, a prezzo di rientramenti, deviazioni, mutilazioni.

(Premessa al primo numero di Mercurio, settembre 1944)

 

E poi ancora nel dopoguerra tiene una rubrica sul settimanale Epoca, “Dalla parte di lei”, dove risponde soprattutto alle lettere di uomini.  Scrive di costume, e nel momento in cui cinema e letteratura in Italia vanno a braccetto, partecipa all’adattamento cinematografico di vari suoi libri.
Eppure, ricorda Lipperini, sulla sua opera pesa ancora l’idea di una letteratura “per donne”, dove il virgolettato allude a un genere minore, commerciale, di poco valore letterario. Decisamente ingiusto, come giudizio, per una scrittrice come lei che ha sempre lavorato sullo stile, sulla cura di ogni parola, e che ha dato voce alle donne perché in quel momento sentiva che era quella una questione sociale, esistenziale, di ingiustizia estrema, che non si poteva non affrontare.

“L’anima degli altri” esce con l’editore Maglione nel 1935, quando Alba de Cespedes ha poco più di vent’anni, ma già molta vita alle spalle.
A quindici anni ha sposato il conte Antamoro, a diciassette ha avuto un figlio e poi si è separata. È il padre a spingerla a provvedere per sé e per il bambino, e lei decide che la scrittura può essere la sua strada, così manda il racconto “Il dubbio” al “Giornale d’Italia”, quasi stupendosi di riceverne una risposta positiva. 
I diciotto racconti che compongono questa prima raccolta sono stati pubblicati su varie testate nel giro di un biennio o poco più, e sicuramente è facile cogliere una certa disomogeneità nella riuscita, alcune ingenuità nella composizione della trama, la presenza di un racconto come “Il ladro”, che è un’incursione nel surreale, con il tema del doppio, della creazione artistica che plasma la vita, decisamente atipico per lei che ha sempre aderito al reale contemporaneo e alla descrizione quasi chirurgica dei moti dell’anima.
Ma in essi è facile sentire anche una forza vitale, il formarsi di temi che saranno presenti in tutta la sua opera, di uno stile e di uno sguardo che nel giro di pochi anni la porteranno a pubblicare altre raccolte  (“Concerto” nel 1937, “Fuga” nel 1940, le liriche di “Prigionie” nel 1936) e nel 1938 il romanzo “Nessuno torna indietro”, ritratto corale di una generazione di donne che ha subito un grandissimo successo internazionale.

La terza persona, che accomuna tutti i racconti de “L’anima degli altri”, conduce il lettore a scavare nei tormenti dei personaggi, quasi tutti alle prese con qualche disincanto. Torna frequente il tema del tradimento inteso come impossibilità di conoscere l’altro. Sia ne “Il dubbio” che ne “Il tempio chiuso”, il dolore di chi subisce l’inganno è proprio quello di non sapere più chi si ha davanti, un senso di lontananza e incertezza che invade tutti gli ambiti della propria esistenza. Ma l’inganno è anche quello della memoria, come sa bene Renato, in “Disincanto”, quando non riesce quasi a riconoscere la “sua” Luciana nella donna che anni dopo la fine del loro amore indossa un cappotto diverso, nuovi modi, una pettinatura che forse non le dona. È l’amarezza di rendersi conto di aver vissuto un dolore non proprio, come quando Dori scopre che la madre non è morta, come ha sempre pensato, ma l’ha abbandonata per seguire la propria carriera artistica.

Mi pareva di aver vissuta una vita finta fino ad allora e che tutti fossero stati nemici e concordi nel mentirmi. Forse era il mio orgoglio che doleva di più. Anche la fotografia mi aveva mentito, anche quella che si era lasciata  bagnare di lacrime e mettere avanti dei fiori raccolti dalle mie mani infantili. Oh! Avevo pietà, tanta pietà per la bambina che ero e che si era lasciata ingannare.
(Madre celebre)

O ancora la delusione di scoprire, dopo una vita passata fianco a fianco, che la sorella che si è tanto disprezzata ci ha nascosto inaspettati sussulti dell’anima, come ne “La signorina Teresa”.

Se nei romanzi più famosi Alba de Cespedes adotta il punto di vista delle donne, in questi racconti maschile e femminile sono ugualmente impegnati in una guerra di incomprensioni e sottili sopraffazioni che prescinde dal genere, anzi a volte è interna ad esso.
La bellezza può rivelarsi una trappola, la seduzione una lotta da cui si esce sconfitti o vincitori. L’anziana ex modella di “Nudo dell’Ottocento” si reca ogni giorno alla biennale, per ammirare il proprio corpo nudo e giovane attraverso gli occhi dei visitatori. Ma quel corpo “vivo e caldo” nasconde una verità. Le sue prime pose sono state quasi una violenza, e lei, ritratta di schiena, il viso nascosto, stava in realtà piangendo. Le due giovani sorelle di “Colore locale”, che servono ai tavoli, subiscono lo sguardo degli uomini, tormentati a sera “dall’immagine delle anche morbide della più grande e dal seno acerbo della minore”. Agli occhi degli avventori, “gente sola”, le ragazze perdono la propria identità e diventano “il simbolo della casa e della donna che non hanno”. Ma consapevoli, partecipano al gioco, glielo lasciano credere, e “quelli le idealizzano. E allora ritornano e spendono volentieri”.
Appare in questi racconti anche il tema del materno come sentimento contraddittorio. C’è la madre disperata, quasi una pietà, di “Il Miracolo”, ma anche la possibilità di allontanarsi dai propri figli della “Madre celebre” e di Emanuela di “Nessuno torna indietro”, la scelta fra la realizzazione di sé e la dedizione ai figli, con le figure soccombenti della madre di Alessandra in “Dalla parte di lei” e la protagonista de “La sua strada”, l’ultimo racconto del libro

 

Del resto è sciocco piangere  perché è il destino delle mamme, povere mamme vecchie, di essere abbandonate così ad un angolo della vita quando i figliuoli seguono la loro strada: una strada nuova dove nel fondo sorride una bocca di donna sconosciuta.


Ma se le donne sono vittime delle gabbie imposte dal loro genere, gli uomini non sono da meno, con l’aggravante che essi non possono fare ricorso a quella solidarietà alla quale de Cespedes farà spesso riferimento nelle sue opere.

 

“Le ragazze mostrano alle altre compagne subito a nudo il loro cuore. Non così gli uomini: quelli si logorano in silenzio senza aprirsi con nessuno, sicuri di non essere compresi”
(La camicia da sposa)


Nell’adottare un punto di vista maschile a confronto con la propria fragilità, Alba de Cespedes dimostra che scrivere “dalla parte di lei” può avvenire solo se si è scesi prima a fondo nelle contraddizioni di entrambi i generi.
Così riesce a regalarci righe intense che indagano senza scampo i mulinelli delle reciproche oppressioni.

 

…ero contenta che sandro mi avesse cercata nel suo dolore, che la mia immagine, opaca, minacciata di scomparire, avesse preso forma, così, dietro la sua tristezza. Forse di me in quel momento aveva visto solo le braccia, due braccia aperte incontro alla sua pena e aveva pensato che sarebbe stato dolce rifugiarvisi e che avrebbe potuto dormire. … voglio vederti. Voleva vedermi o forse voleva che io vedessi lui, e attraverso lui, il suo dolore.
(Il rifugio)

 
Così Lorenzo, impiegato delle poste, tiene per sé il sogno di un viaggio all’estero, unica via di fuga da una situazione familiare che lo opprime. Darebbe qualunque cosa per vedersi riconosciuta un’autorità, una stima, che la moglie la figlia gli negano. Personaggio struggente per quella sua capacità di non rivalersi sui colleghi, nei quali rivede la sua stessa fatica, e patetico per l’ultimo scatto di rabbia verso il povero felino di casa.
Per uomini e donne, la costruzione di sé avviene attraverso prove e sconfitte. Due tra i racconti più belli sono dedicati alla descrizione dell’adolescenza, età vitalissima e infelice.

 

Quella di Mario era l’età dolorosa dei ragazzi. Quindici anni: l’età in cui si forma il carattere attraverso le umiliazioni e le delusioni della vita.
(La camicia da sposa)

Il desiderio di Mario, frustrato dalla derisione delle cugine più grandi, fra da contrappunto a quello intenso e istintivo di Mariella in “Arsura”. Il suo turbamento di fronte ai muscoli inarcati di Gigi ricorda quello altrettanto inaspettato di Alessandra di “Dalla parte di lei” si incanta a guardare i muratori al lavoro nella campagna abruzzese. Ma al di là della scoperta del piacere, splendidamente descritto attraverso l’immagine della pesca dove Mariella affonda le gengive, il passaggio dell’adolescenza avviene nella percezione del proprio sé:

 

…è l’ora nella quale l’adolescente diviene adulta, quella della solitudine…
non pensa a nulla di male; ma comincia a sentire l’indipendenza della propria meditazione e, istintivamente, il pudore della formazione del proprio “io”

E ancora, come per Mario, nella vulnerabilità agli urti, alle cadute. Perché è solo dell’età matura “l’arte di evitare gli ostacoli, di levigare gli spigoli e vivere meno intensamente”.
Eppure, forse inconsapevolmente, si trova in questi racconti una via di possibile serenità, che è quella di scartare rispetto all’ordine, e trovare una propria strada, una propria visione.

È la capacità di Lisetta di “Serenità” di rinunciare all’orgoglio, alla grandezza del passato per apprezzare le poche cose di cui dispone e l’affetto, fuori del matrimonio, di Domiziano. È il passo indietro dell’innamorato che sa vedere oltre la gelosia e l’infatuazione della moglie, per proporle di tornare insieme a casa (Un mazzo di viole), o ancora la presa di coscienza di Mitì della propria felicità in “La casa sul laghetto azzurro”, quando sa opporsi allo sguardo della compagna, che la giudica secondo valori che non le appartengono.
Ed è ancora, sempre, la possibilità di ritrovare quello slancio vitale della giovinezza di Mariella, quando non si ha ancora paura di farsi male, e si ha il coraggio di lanciarsi a capofitto nella propria esistenza.

La verità, un racconto di Amalia Guglielminetti

La verità
di Amalia Guglielminetti
(tratto da Le ore inutili)

Ella volle conoscere finalmente la verità. Rimasta sola discese a gran fatica dal letto, indossò una vestaglia e a piccoli passi, reggendosi ai mobili, andò a spalancare le imposte, quindi si pose dinanzi allo specchio. Dapprima, abbagliata dalla soverchia luce non distinse nulla, poi a poco a poco un volto a contorni indecisi incominciò ad emergere dalla lucentezza del cristallo, vi si illuminò, prese forma e colore, le apparve in tutta la sua nuda realtà. Ma quel volto ch'ella fissava e che la fissava con occhi foschi, smarriti, atterriti non era più il suo. Ella non lo riconosceva e continuava a interrogarlo con lo sguardo, con uno sguardo di stupore folle, torcendosi come una forsennata e trattenendosi a mala pena dall'urlare: – Ma sono io quella donna? È mia quella faccia contorta, solcata di cicatrici, deformata, grottesca, spaventevole?
Eppure non c'era dubbio: quello era il volto di Flora Conti, era la nuova maschera umana che il beffardo destino, valendosi d'un fatto qualsiasi, dell'urto di due automobili nella notte, aveva impresso recentemente su quella forma di donna, la quale brillava fino a poche settimane innanzi di chiara grazia e di mirabile freschezza. Sposa ad Attilio Conti da appena un anno, poco più che ventenne, adorata amante del giovine marito, lo aveva visto partire per la guerra chiamato fra i primi e da allora seguendolo giorno per giorno di lontano con l'ansia vigilante della sua passione, le era sembrato di proteggerlo contro il pericolo, si era illusa di salvarlo dal dolore e dalla morte mettendo il suo amore, la sua tenerezza, tutta se stessa fra lui ed il nemico.
Una sera, mentre Flora si trovava in villeggiatura con sua madre ricevette la lettera di un'amica la quale la informava storditamente che suo marito doveva passare il domani con alcuni compagni d'armi qualche ora in città, in seguito ad un improvviso ordine del Comando.
La notizia non era che una vaga diceria raccolta nei discorsi di un comune conoscente giunto allora in licenza, ma la giovine donna vi credette e meravigliata di non averne ricevuto dal marito stesso l'annunzio, piena di impazienza e di inquietudine, si procurò immediatamente un'automobile e non ostante i consigli della madre volle tornare la sera medesima in città per ricevere il domani fra le braccia il suo Attilio.
Nella notte buia, tempestosa, percorsa da raffiche di vento e da ondate di pioggia, ella ad occhi chiusi rannicchiata in fondo alla vettura, impaurita e felice, correva velocemente incontro al suo amore e in mezzo a quell'agitazione della natura fra la luce dei lampi e il rombo dei tuoni le sembrava quasi di vivere un poco la vita ormai consueta di lui fra i balenii e gli scoppi formidabili degli assalti.
A un tratto ella sentì che la vettura convergeva per uno svolto improvviso e subito dopo le parve di udire alcune voci di allarme seguite da un urlo altissimo. La sua mente non potè formulare alcun pensiero che già ella si sentiva sbalzata con violenza terribile incontro al vetro della parete di fronte e per lo strazio perdeva i sensi.
Li ricuperò molte ore dopo distesa nel suo letto con la madre al fianco, e s'accorse d'avere tutta la faccia bendata, con un solo breve spiraglio per gli occhi dal quale il suo sguardo annebbiato, stupefatto, ancora assente, s'aggirava interrogando.
Giorni e giorni, settimane e settimane erano passati così nella completa immobilità di quel letto, nella quasi completa oscurità di quella stanza. Un medico sconosciuto veniva di quando in quando a sbendarle il volto, a medicarlo, a ribendarlo ancora e se ne andava quasi senza parola accompagnato dalla madre che gli parlava supplicando ansiosamente a bassa voce.
L'inferma distesa nel suo letto in un'inerzia più tetra che rassegnata non chiedeva nulla, quasi non pensava a nulla. Era riuscita mediante uno sforzo di volontà aiutato dallo stato di prostrazione in cui si trovava a fare nel suo cervello il vuoto, l'ombra o quella nebulosità appena trasparente del pensiero che permette di sorvolare sulle cose senza approfondirle, senza considerarle, senza lasciarle penetrare nell'anima con tutta la crudezza della loro realtà presente e futura.
Soltanto le lettere di Attilio riuscivano a trarla dal suo cupo torpore. Attraverso allo spiraglio delle sue bende ella s'impadroniva con lo sguardo, con la carne, con l'anima di ciascuna delle sue parole e vi si indugiava per assaporarla di più, per imprimerle in sè maggiormente, per rivivere con lui l'attimo felice in cui erano state pensate e scritte pel suo conforto.
Ella aveva permesso a malincuore a sua madre di informarlo dell'avvenuto disastro, poichè anche i giornali ne portavano qualche cenno, ma la gravità della disgrazia gli era stata nascosta ed egli credeva già sua moglie guarita o convalescente con appena qualche piccola traccia del male sofferto, sul suo fresco volto di bambina, qualche piccolo segno roseo come l'impronta di un bacio troppo forte.
Così egli si esprimeva nelle sue calde pagine, piene di nostalgia e di desiderio, fra la monca descrizione di un assalto notturno e la notizia della morte di un compagno caduto al suo fianco.
Qualche volta al termine della sua lettura che durava intere ore ella s'accorgeva d'aver bagnato di pianto le bende intorno agli occhi, ma non si ricordava quasi più d'aver sofferto o d'essersi commossa o intenerita leggendo. Solo le rimaneva nel cuore un senso di oppressione e di sgomento ch'ella non voleva definire, quasi l'intuizione oscura d'essere circondata di un abisso nel quale ella si rifiutava di gettare lo sguardo per paura di misurarne la spaventosa profondità.
E venne il giorno in cui le sue ferite furono cicatrizzate e la sua faccia potè finalmente essere sbendata. Ella non osò guardare negli occhi sua madre. Ma ad un tratto, rimasta sola nella sua camera, una smania terribile di sapere, di vedersi, di giudicarsi la prese, la costrinse ad alzarsi, a spalancare le imposte, a guardarsi in uno specchio.
Allora soltanto ella conobbe fino a qual segno il destino l'avesse colpita, allora seppe in quale miserevole orrore la sua bellezza, la sua freschezza, la grazia del suo sorriso si fossero brutalmente mutate, e le mancarono le forze per sostenere tutto il suo strazio. La trovarono poco dopo svenuta ai piedi dello specchio e rimessa a letto, febbricitante, delirò tutta la notte, ora chiamando in aiuto il suo Attilio, ora supplicando che l'uccidessero prima ch'egli tornasse.
Da quel giorno la sua idea fissa fu quella di morire innanzi ch'egli la rivedesse. Il pensiero che il marito, per il quale ella continuava a vivere nell'immaginazione e nel ricordo creatura di dolce bellezza e di deliziosa giovinezza, la potesse ritrovare ridotta a una maschera deforme e pietosa di donna, la sconvolgeva a segno che le pareva d'impazzire, e tutto, anche la morte, le sembrava preferibile a questo terrore.
Furono costretti a vigilarla di continuo, a costringerla con preghiere e con astuzie a nutrirsi quel tanto che occorreva per tenerla in vita e a nasconderle tutti gli specchi nei quali si guardava ogni momento smaniando come una demente.
Da due settimane anche le lettere di Attilio mancavano e ciò la rendeva ancora più agitata e smarrita. Sebbene avessero nascosta a tutti la gravità della sua sventura, ella giungeva a supporre che qualcuno, segretamente informato, gli avesse rivelato la verità e che il marito disgustato di lei e offeso del suo silenzio, pensasse ormai di abbandonarla sola alla sua miserabile sorte. Ella ne parlava a sua madre come d'una possibilità quasi certa ed imminente, sogghignando con la sua bocca contorta, stirata verso sinistra da una cicatrice che le solcava la guancia, e il suo sogghigno aveva qualcosa di così fosco, di così macabro pur nel suo ironico scherno, che sua madre ne fremeva e chiudeva gli occhi per non vederlo.
Ma dopo un'altra settimana giunse invece un breve biglietto di Attilio in cui egli si diceva convalescente di una grave ferita e pregava la moglie di venire a visitarlo nell'ospedale in cui lo avevano trasportato. Flora lesse parecchie volte le poche linee prima di comprenderle, poi si accasciò su se stessa come un cencio, combattuta fra un dolore e una gioia così strazianti da fermarle i battiti del cuore. Ma subito si sollevò risolutamente, pensò ch'egli soffriva, che la voleva presso di sè, e decise di andare.
Per tutto il giorno, durante i preparativi del viaggio ella evitò di fermare la sua mente su altra cosa che non fosse Attilio, la ferita di Attilio, il male di Attilio, e sulla felicità affannosa di rivederlo. Ma al momento di uscire di casa, ponendosi istintivamente dinanzi allo specchio per mettersi il cappello, la terribile realtà riapparve d'un tratto dinanzi ai suoi occhi. Una crisi di disperazione la prese, la scosse, le strappò lacrime, gemiti e grida, la lasciò quasi inebetita, in uno stato di accasciamento cupo ed inerte.
Sua madre che doveva accompagnarla approfittò diquella specie di atonia per completare il suo abbigliamento da viaggio, per avvolgerle il volto in un velo fittissimo, per trascinarla alla stazione e collocarsi con lei nel treno appena in tempo per partire.
Viaggiarono parte della notte quasi sempre sole in quello scompartimento semibuio, in un fosco silenzio rotto soltanto da quel rombo ritmico delle ruote che sembra il pulsare d'un possente cuore in movimento. E su quel ritmo continuo la giovine donna stesa sul divano, nell'ombra, premeva nel petto il suo piccolo cuore traboccante di dolore e ripeteva all'infinito a se medesima una tragica promessa che sola riusciva a consolarla: – Lo vedrò e morrò.
Giunsero all'alba nella cittadina di provincia fredda, muta, quasi spopolata che ospitava nel suo ospedale i feriti. Scesero in un vecchio albergo vuoto e pretenzioso sulla piazzetta della stazione e attesero l'ora di visitare il malato.
– Andrò io sola, – disse con risolutezza Flora a sua madre mentre aspettava, seduta in una poltrona, col cappello, il mantello, i guanti, immobile e tetra sotto l'ombra del suo denso velo nero.
L'altra non osò opporsi, ma quando ella uscì e si diresse verso l'ospedale, la seguì furtivamente di lontano e l'attese all'angolo della strada deserta.
– Lo vedrò e morrò, – si ripeteva Flora ad ogni passo che la portava verso la sua ultima tortura, e crudamente cercava di immaginare l'espressione di terrore e di orrore che avrebbe sconvolto la faccia di Attilio quand'ella avesse sollevato dinanzi a lui il velo che copriva la deformità del suo volto.
– Forse la mia figura gli sembrerà così grottesca ch'egli si metterà a ridere, – pensava con una brutalità feroce verso se stessa. E le pareva di udire quella risata, lunga e stridente, di sentirla già nell'orecchio un po' falsa ma quasi gaia, come ne aveva talvolta Attilio dinanzi a qualche nemico odiato e ridicolo che lo metteva in un cinico buon umore.
Quando Flora Conti entrò nell'ospedale e chiese di vedere suo marito mostrando la lettera che la chiamava e le carte personali che s'era procurate, la pregarono di aspettare in una saletta imbiancata a calce, piena di sole, con un crocifisso nero nel centro della parete. Il suo cervello s'era fatto di nuovo vuoto ed assente come nei giorni della malattia quando ella ignorava ancora l'atroce verità della sua sventura. Solo un martellare sordo, doloroso, profondo in mezzo al petto l'avvertiva che un attimo orrendamente decisivo della sua vita s'avvicinava.
Entrò una monaca attempata, dal viso magro e intelligente sotto la cornetta candida, che le sorrise con commossa tenerezza e le strinse le mani sedendole accanto.
– Lei è la moglie del tenente Conti? Suo marito fu ferito gravissimamente ma non permise mai durante i giorni nei quali fu in pericolo di vita che la signora fosse avvertita. Soltanto ora poichè sta meglio e il pericolo è scomparso ha chiesto di vederla e le ha scritto. Soltanto ora.
Pareva che la suora s'indugiasse in vani e prolissi discorsi per preparare sè a dire e la sua ascoltatrice a udire qualche cosa di molto grave e di molto difficile a rivelarsi, una di quelle notizie per cui le parole umane sembrano persino troppo dure e precise e a cui non si sa per quali tortuose e leggiere ambiguità del linguaggio si vorrebbe giungere, per non colpire mortalmente con una sillaba cruda e senza pietà.
– Guarirà, suora? È in via di guarigione, non è vero? Mi dica, mi dica tutto.
D'impeto la giovine donna interrogava ansimando, scuotendo le mani della monaca, sentendo confusamente fra sè e lei una cosa oscura, ancora più terribile di tutte le altre e ancora sconosciuta. – Abbia forza, signora, abbia forza, – incominciò ad incoraggiare la suora dopò una lunga pausa d'esitazione.
– Ma che c'è, Dio mio, che cosa mi nasconde? Dica, dica, dica subito, la supplico. Non mi tenga in questo stato.
La voce della donna tremava con una convulsione di spasimo, come tremavano le sue mani e tutte le membra del suo corpo.
– Si metta nelle mani di Dio, signora, e gli offra il suo sacrificio....
– Ma vi sono nelle mani di Dio, sono da tre mesi sotto i suoi colpi più crudeli. Che cosa si vuole ancora da me? Mio marito è mutilato, forse, è rimasto invalido e infermo per tutta la vita? È questo che non mi si vuol dire?
– Forse, signora, è qualcosa di ancora più triste.
– Non so, non so, parli, Dio mio, io non so....
Ella balbettava ormai fra i singhiozzi sotto il suo fitto velo nero, con una piccola voce di bambina sperduta che non sa ritrovarsi e guardava la suora coi suoi grandi occhi chiari rimasti limpidi e belli nel povero volto devastato, con una muta domanda che chiedeva e insieme temeva la risposta.
La monaca ebbe ancora una pausa di perplessità, quindi le circondò le spalle col suo braccio quasi temesse di vederla cadere e disse:
– Suo marito è cieco, signora. Poi raccolse contro di sè la creatura dolorante, soffocò contro di sè il suo urlo selvaggio che parve un grido di strazio e insieme di liberazione.

Gli angeli personali di Brianna Carafa

di Anna Lo Piano

Se la riscoperta di Brianna Carafa si deve a un caso fortuito - il ritrovamento su una bancarella di una vecchia edizione de La vita involontaria, romanzo arrivato in finale al premio Strega nel 1975 e poi per decenni dimenticato - la pubblicazione dei racconti di Angeli personali è invece il frutto dell’innamoramento definitivo dell’editore Cliquot per la scrittura di questa autrice, e di un paziente lavoro di ricerca d’archivio per riportare ai lettori quanto possibile della sua ricca produzione.

 Brianna Carafa ha infatti scritto molto, anche se ha pubblicato poco. Due romanzi, il già citato “La vita involontaria” e “Il ponte del deserto”, uscito postumo nel ’78, e diversi racconti, apparsi tra gli anni ’50 e ’70 su due riviste raffinatissime e allo stesso tempo marginali dell’epoca, ovvero Paragone-Letteratura di Roberto Longhi e Anna Banti, e Botteghe Oscure. Quest’ultima soprattutto meriterebbe una trattazione a parte, per raccontare la vita e le idee della sua fondatrice, Marguerite Caetani, principessa di Bassiano e ideatrice del giardino di Ninfa, che già a Parigi, negli anni ‘30, aveva animato salotti letterari e fondato una rivista, Commerce, che come Botteghe Oscure pubblicava in più lingue e aveva l’ambizione di mettere in contatto scrittori di varie provenienze.

 Si è parlato molto, per “La vita involontaria”, di influenze mitteleuropee, e sicuramente Brianna Carafa, come dimostrano anche queste collaborazioni, la vocazione internazionale l’aveva nel sangue.
Nata a Napoli nel ’24, era poi cresciuta a Roma con la nonna, un’ex suffragetta di origine polacca dal nome evocativo di Marianne Frankestein Soderini, mentre il padre e la nonna paterna erano entrambi rinomati traduttori, il primo di Goethe, la seconda di Tolstoj.
A Roma Brianna cresce e si forma. Negli anni ’50, ventenne, studia architettura e fa parte di quel mondo di giovani entusiasti del quale il fotografo Paolo di Paolo, co-fondatore insieme a lei e Mario Trevi della rivista di fotografia e poesia Montaggio, ha fornito un vivace ritratto in un’intervista su Harper’s Bazaar.
Si interessa poi alla psicanalisi e ne fa il suo mestiere, e forse in questa ricerca si possono trovare le radici più profonde di quel sentimento mitteleuropeo  che si ritrova in tutti i suoi personaggi, accomunati da un conflitto irrisolvibile con la realtà, che ne fa degli inetti secondo il comune sentire. A partire da Paolo Pintus, protagonista de “La vita involontaria” che, incapace di trovare un modo proprio di affrontare la vita, finisce per farsi trascinare, o addirittura inghiottire, dai desideri e progetti altrui, fino all’ossessione del personaggio Bobi Berla per un progetto di “ponte nel deserto” che in realtà non collega nulla.Lo stesso conflitto si ritrova nei racconti di “Angeli personali”. Pur non essendo stati concepiti dall’autrice per far parte di una raccolta, rivelano una coerenza interna di temi e di stile, e insieme compongono una galleria di personaggi oppressi da una sorta di muro che si frappone fra il proprio mondo interiore e quello esterno. Troviamo allora la nonna di “Ritratto di straniera” che, devota alle proprie ossessioni, finisce per provare in mille manifestazioni una “scissura tra lei e la realtà”,  la struggente e terribile Elodia, la ragazzina “buia, maleodorante e pelosa” che confessa alle compagne di classe le violenze del padre con gesti e sguardi che non lasciano spazio all’empatia (“se soltanto fosse stata più debole e avesse sollecitato la nostra compassione!”), finendo  per “chiudersi in una vita inaccessibile agli altri”, in un mutismo quasi animalesco

 

due bande di capelli neri, spessi, le cadevano sulle guance come ali ripiegate di pipistrello.


O, ancora, l’amico Manlio che cerca in un “Altrove” irraggiungibile l’incontro risolutivo per la sua vita amorosa, o l’altro amico, il “Sordo”, che “galleggia nel suo salvagente di silenzio” e svolge una vita solo in apparenza simile a quella del resto delle persone.

 Tra i vari personaggi uno, più di tutti, si rifiuta di entrare fisicamente nel mondo.

 

«No, ti dico di no, in quel mondo non ci metto piede, non vado da nessuna parte io,
tanto, sono tutti trabocchetti!»

È dichiarazione di intenti, quasi un manifesto del rifiuto di adattarsi a una realtà ostile e bugiarda, l’incipit del racconto “Autobus” che chiude la raccolta.

A queste parole fanno eco quelle dello zio  Ulderico, ne “La vita involontaria”, quando mette in guardia il nipote Paolo:

 

Mi metteva in guardia contro tutto, come se il mondo fosse un immenso sistema di agguati tesi a esseri sprovveduti, quale appunto ero io.

 

In “Autobus”, a pronunciare la frase è Lino, un giovane uomo che avvicinandosi ai trent’anni, vive chiuso nel perimetro della sua camera e di un mondo interiore che esprime attraverso disegni intrisi di ossessioni e sottile violenza. Del mondo vero, reale, quello in cui i suoi genitori “devono stare per forza”, per “riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena”, lui non si fida, e per questo fa di tutto per tenersene fuori. Il padre, allora, gli offre la possibilità di rientrarvi grazie un colloquio di lavoro, ottenuto per qualche favore, con il dirigente di una grande azienda. Ma da questo confronto con i luoghi della produzione, con la logica della necessità, con la cortesia formale, Lino esce perdente.   Assistiamo così alla sua progressiva discesa nella follia, a uno smarrirsi in un labirinto interiore così profondo da sgretolare anche gli ambienti consueti i cui si muove.

 

Nel fondo del corridoio, a destra, non c’erano scale. Né a destra, né a sinistra. Lino fece uno sforzo enorme per concentrarsi, per cacciare dalla sua fronte una nuvola buia che voleva penetrargli in testa e riempirla di ronzii e vertigini. Immobile, ripercorse con gli occhi l’interminabile tunnel: dov’era esattamente l’ascensore? Se fosse stato a metà del corridoio, poteva aver preso la direzione sbagliata.
Ma se si trovava all’estremità opposta, non c’era via di scampo.

 

Gettata nel fiume la cartella con i suoi disegni, Lino perde l’unico mezzo di comunicazione possibile fra i due mondi.  Gli oggetti cambiano posto e funzione, lo spazio ondeggia, la realtà somiglia a un sogno notturno, tanto da non distinguere più l’uno dall’altra.

 

non doveva essere buio, non dovevano esserci delle panche di legno vuote? Oh come dondolava dolcemente il suo corpo! Si portò ancora le mani alle orecchie perché non sopportava l’impercettibile ronzio che si sprigionava da qualche parte, forse dalle lampade, ed era lo stillicidio di un’ultima persecuzione.

 

C’è in questi racconti un’analisi minuziosa dei movimenti dell’anima. Ogni gesto, ogni azione dei personaggi all’interno della narrazione, è riportata a un complesso spostamento di pensieri, memorie, paure, speranze. Non si pensi però a un andamento pesante o lento, intriso di digressioni psicanalitiche. Qui a ogni riga c’è un fatto narrativo denso di conflitto, anche quando si tratta di un’occhiata, un silenzio o una parola.

 

Se chiedevo «Warum?» la Governante rispondeva: «Darum» con il tono squillante e deciso di chi abbia dato la più esauriente delle spiegazioni. Alle mie orecchie quel gioco di parole cominciò a suonare come una beffa.

 

D’altronde, come fa dire a Paolo Pintus, lei da tempo ha capito che “Le parole sono fatti, e molto più sottili e penetranti dei gesti clamorosi”. Tanto che quando il padre sminuisce con una parola l’importanza della governante, è un intero mondo che crolla.

 

Dopo una breve pausa, disse ancora: «Ma chi vuoi che sia questa Fräulein Hilda? Nessuno». (…) la parola “nessuno” piombò in me con tutto il peso della più oltraggiosa delle mistificazioni. Cosicché nessuno io avevo riverito e temuto, nessuno aveva tentato di sopraffarmi giorno per giorno, nessuno mi aveva picchiato e modificato, imprimendo il suo indelebile sigillo nella mia vita.
E a nessuno essi, i tutori della mia persona, mi avevano affidato, in nessuno avevano creduto, s’era trattato semplicemente di un errore, o di una finzione.

 

È indubbio che nella costruzione del mondo narrativo di Brianna Carafa, la ricerca in psicanalisi svolge un ruolo importante. Ma per capire come questo avvenga, una prima chiave di lettura può essere un’intervista apparsa su L’Unità del 1976, citata da Ilaria Gaspari durante una presentazione, e che ho ritrovato negli archivi del quotidiano.

 “Per capire”, dice Carafa nell’intervista, “bisogna avere il coraggio di assumere la follia come nostra dimensione”. E in effetti la sensazione che abbiamo, leggendo i racconti, è quella di stare anche noi nel mondo di dentro, dei personaggi, dove la loro follia somiglia alla nostra quando non riusciamo ad adeguarci. Ma dice anche che la psicanalisi ha i suoi limiti. Essa funziona quando si crea un rapporto a due, in cui analista e paziente si liberano da una dinamica di potere, e concorrono entrambi a una risoluzione. È interessante, a questo proposito, notare che una linea di sopraffazione percorre tutti i suoi scritti. È esibita come un trofeo in “Elodia”, diventa persecuzione subdola ne “La porta di carta”, o perverso riscatto di rabbie sopite per “La Governante”, o ancora gioco di seduzione per il padre del “Giardino perduto”.
Ma al di là della violenza silente che pervade molti dei rapporti, è certo che della relazione non si può fare a meno. È nell’incontro con l’altro, temuto, imposto, cercato, che sola si può manifestare la propria diversità, la propria follia. Così come è solo nel recupero della memoria, delle parti sepolte, rimosse e dimenticate della storia personale e famigliare, che si può ricostruire la propria identità.
Paolo Pintus è mosso nel suo percorso di formazione dalla necessità di recuperare la storia del nonno a dispetto dell’omertà dei familiari, tutti complici nel voler rimuovere la verità del suo passaggio ai Tetti Rossi, il manicomio cittadino.
Allo stesso modo i primi tre racconti di “Angeli personali”, ai quali il titolo è dedicato, sono fortemente autobiografici. In essi Carafa ricompone la propria storia attraverso tre sguardi lievemente spostati. Nel primo, “Ritratto di straniera”, lo sguardo è adulto ed esterno. Sensazioni di infanzia e consapevolezze della maturità concorrono a dare vita a una figura straordinaria, quella della nonna Marianne, colta nell’arco discendente della sua vita, quando la sua esistenza si intreccia con quella della nipote. Indimenticabile la descrizione iniziale, con quel nero dell’abito che mi ha fatto immediatamente pensare a un’altra figura fatale di nonna, quella descritta da Fabrizia Ramondino in “Althénopis”.
Nel secondo racconto, “Il giardino perduto”, il ricordo procede secondo le associazioni solo apparentemente casuali della memoria. “Forse che mi ricordavo di Luisa”, comincia il racconto, partendo da una di quelle sollecitazioni che ci fanno coloro che hanno condiviso con noi parti di vita. Ma invece di parlare di Luisa è sul padre che si sposta l’attenzione, di cui Luisa era l’amante, e su una particolare serata, a una fiera, che solo ora, a distanza di tempo, acquista contorni più definiti e può essere ricollocata come pezzo mancante in un puzzle fatto di frammenti, ricostruendo l’immagine feroce di un desiderio d’amore mai realizzato.
Infine, nel terzo, “La governante”, lo sguardo recupera l’inconsapevolezza dell’infanzia, immerso nella relazione complessa con la giovane donna venuta dalla Germania per occuparsi di lei, ed è a poco a poco che si svela, attraverso il gioco di potere fra le due protagoniste, la profonda solitudine in cui entrambe sono confinate.
Come sempre è inaspettata la storia delle opere, specialmente quando prosegue indipendentemente da quella dei loro autori ed autrici, come se anche per loro valesse la possibilità di una “vita involontaria”. Sicuramente la riscoperta di Brianna Carafa si deve al bisogno di recupero delle voci taciute del passato, specie se femminili, necessario a completare una visione delle possibilità del nostro immaginario e della nostra lingua. Ma c’è anche, senza dubbio, nei suoi scritti, qualcosa che si ricollega fortemente al nostro vivere attuale, e che molto ha a che fare con il senso diffuso di perdita di contatto con la realtà, a questo sentirsi ognuno nel suo mondo, oppresso da un muro sottile, con la paura di mettere il piede fuori, inciampando in qualche tipo di conflitto o trabocchetto.

Le fate, di Carlo Collodi

Le fate
di Carlo Collodi
Adattamento italiano della celebre fiaba di Charles Perrault. 1876

«Nel voltare in italiano i Racconti delle fate m'ingegnai, per quanto era in me, di serbarmi fedele al testo francese. Parafrasarli a mano libera mi sarebbe parso un mezzo sacrilegio. Ad ogni modo, qua e là mi feci lecite alcune leggerissime varianti, sia di vocabolo, sia di andatura di periodo, sia di modi di dire: e questo ho voluto notare qui in principio, a scanso di commenti, di atti subitanei di stupefazione e di scrupoli grammaticali o di vocabolario.
Peccato confessato, mezzo perdonato: e così sia.»

C'era una volta una vedova che aveva due figliuole. La maggiore somigliava tutta alla mamma, di lineamenti e di carattere, e chi vedeva lei, vedeva sua madre, tale e quale. Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare. Viverci insieme poi, era impossibile addirittura. La più giovane invece, per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo... e tanto bella poi, tanto bella, che non si sarebbe trovata l'eguale. E naturalmente, poiché ogni simile ama il suo simile, quella madre andava pazza per la figliuola maggiore; e sentiva per quell'altra un'avversione, una ripugnanza spaventevole. La faceva mangiare in cucina, e tutte le fatiche e i servizi di casa toccavano a lei.
Fra le altre cose, bisognava che quella povera ragazza andasse due volte al giorno ad attingere acqua a una fontana distante più d'un miglio e mezzo, e ne riportasse una brocca piena.
Un giorno, mentre stava appunto lì alla fonte, le apparve accanto una povera vecchia che la pregò in carità di darle da bere.
"Ma volentieri, nonnina mia..." rispose la bella fanciulla "aspettate; vi sciacquo la brocca..."
E subito dette alla mezzina una bella risciacquata, la riempì di acqua fresca, e gliela presentò sostenendola in alto con le sue proprie mani, affinché la vecchiarella bevesse con tutto il suo comodo. Quand'ebbe bevuto, disse la nonnina: "Tu sei tanto bella, quanto buona e quanto per benino, figliuola mia, che non posso fare a meno di lasciarti un dono".
Quella era una Fata, che aveva preso la forma di una povera vecchia di campagna per vedere fin dove arrivava la bontà della giovinetta. E continuò: "Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai ti esca di bocca o un fiore o una pietra preziosa".
La ragazza arrivò a casa con la brocca piena, qualche minuto più tardi; la mamma le fece un baccano del diavolo per quel piccolo ritardo. "Mamma, abbi pazienza, ti domando scusa...", disse la figliuola tutta umile, e intanto che parlava le uscirono di bocca due rose, due perle e due brillanti grossi.
"Ma che roba è questa!...", esclamò la madre stupefatta, "sbaglio o tu sputi perle e brillanti!... O come mai, figlia mia?..."
Era la prima volta in tutta la sua vita che la chiamava così, e in tono affettuoso. La fanciulla raccontò ingenuamente quel che le era accaduto alla fontana; e durante il racconto, figuratevi i rubini e i topazi che le caddero già dalla bocca!
"Oh, che fortuna...", disse la madre, "bisogna che ci mandi subito anche quest'altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla.
Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono?... Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera." "E non ci mancherebbe altro!...", rispose quella sbadata.
"Andare alla fontana ora!"
"Ti dico che tu ci vada... e subito", gridò la mamma.
Brontolò, brontolò; ma brontolando prese la strada portando con sé la più bella fiasca d'argento che fosse in casa. La superbia, capite, e l'infingardaggine!... Appena arrivata alla fonte, eccoti apparire una gran signora vestita magnificamente, che le chiede un sorso d'acqua. Era la medesima Fata apparsa poco prima a quell'altra sorella; ma aveva preso l'aspetto e il vestiario di una principessa, per vedere fino a quale punto giungeva la malcreanza di quella pettegola.
"O sta' a vedere...", rispose la superba, "che son venuta qui per dar da bere a voi!... Sicuro!... per abbeverare vostra Signora, non per altro!... Guardate, se avete sete, la fonte eccola lì."
"Avete poca educazione, ragazza...", rispose la Fata senza adirarsi punto, "e giacché siete così sgarbata, vi do per dono che ad ogni parola pronunziata da voi vi esca di bocca un rospo o una serpe."
Appena la mammina la vide tornare da lontano, le gridò a piena gola: "Dunque, Cecchina, com'è andata?". "Non mi seccate, mamma!...", replicò la monella; e sputò due vipere e due rospacci.
"O Dio!... che vedo!...", esclamò la madre. "La colpa deve essere tutta di tua sorella, ma me la pagherà..."
E si mosse per picchiarla. Quella povera figliuola fuggì via di rincorsa e andò a rifugiarsi nella foresta vicina. Il figliuolo del Re che ritornava da caccia la incontrò per un viottolo, e vedendola così bella, le domandò che cosa faceva in quel luogo sola sola, e perché piangeva tanto.
"La mamma...", disse lei, "m'ha mandato via di casa e mi voleva picchiare..."
Il figliuolo del Re, che vide uscire da quella bocchina cinque o sei perle e altrettanti brillanti, la pregò di raccontare come mai era possibile una cosa tanto meravigliosa. E la ragazza raccontò per filo e per segno tutto quello che le era accaduto.
Il Principe reale se ne innamorò subito e considerando che il dono della Fata valeva più di qualunque grossa dote che potesse avere un'altra donna, la condusse senz'altro al palazzo del Re suo padre e se la sposò.
Quell'altra sorella frattanto si fece talmente odiare da tutti, che sua madre stessa la cacciò via di casa; e la disgraziata dopo aver corso invano cercando chi acconsentisse a riceverla andò a morire sul confine del bosco,

Il furore di una voce dimenticata. Pia Rimini

di Alice Pisu

Nella vivacità culturale del primo Novecento triestino trova un posto a parte una voce dal margine, Pia Rimini, oggi pressoché sconosciuta, sfuggita all’oblio grazie all’uscita de L’amore muto per Edizioni readerforblind. Nata a Trieste nel 1900 emerge ben presto con racconti che sono ritratti impietosi di una società violenta dove non sembra essere riservato alcun margine a un’idea di salvezza. La grande esuberanza della produzione letteraria italiana di questi anni è caratterizzata da un’urgenza di andare oltre il naturalismo per accogliere le istanze della psicanalisi e indagare le grandi questioni esistenziali. Accanto ai grandi poli culturali di Trieste, Firenze e Milano, la provincia italiana torna a rappresentare un prolifico laboratorio culturale. In tale quadro composito affiorano voci originali in grado di dare accezioni diverse all’immaginario, dai resoconti esotici di Guido Gozzano per definire spazi nuovi, alle proiezioni fantastiche del futurismo, per evocare atmosfere emotive e al contempo perseguire un profondo rinnovamento. Un processo di generale omologazione linguistica che trova nel caso letterario italiano una coesistenza di voci di origine popolare e di fonti nuove in grado di segnare una direzione inedita. Occorre considerare tale scenario per calarsi nella scrittura e nel pensiero di Pia Rimini, che per i temi affrontati, per il linguaggio dagli elementi alti e popolari e denso di visioni folgoranti e atmosfere oniriche, rappresenta una voce disallineata e irriverente nel panorama letterario italiano del primo Novecento. Nel fermento intellettuale triestino, la sua voce trova uno spazio a parte, si staglia sul resto per portare all’attenzione temi sino ad allora poco esplorati, con un particolare interesse per i diritti delle donne affrontati con ardore anche in numerose conferenze. La natura cosmopolita e sfuggente di quella “città di traffici e non di vecchia natura” come la definirà Saba intuendone i forti contrasti, attrae scrittori e poeti di fama internazionale, da James Joyce a Rainer Maria Rilke e influenza in modo significativo Pia Rimini nella costruzione di un’identità letteraria inconfondibile. La scrittrice riversa nei racconti molti dei drammi della sua esistenza, a partire dall’esperienza della gravidanza, vissuta ad appena diciott’anni, da nubile, e conclusa tragicamente. L’attenzione crescente nei suoi riguardi arriva con l’uscita del primo romanzo, Il giunco, nel 1930. Per via del suo cognome ebreo, nonostante sia battezzata e cattolica, viene deportata a Auschwitz nel 1944, dove muore.
Il suo profilo letterario è segnato dal profondo richiamo della terra ma ha radici aeree, ricorda costantemente un’idea di libertà che spesso si traduce in miraggio. La sua natura è avulsa dal mondo intorno, pur riconoscendolo non si identifica in esso, interessata a palesarne le storture con dolente cognizione. Ogni sua novella e racconto traduce drammi personali, rimaneggiati e impastati grazie all’artificio per diventare condivisibili, riconoscibili. Grazie a Edizioni readerforblind è possibile oggi scoprire con L’amore muto i ritratti di donne segnate dal disamore, turbate dal desiderio di dare e umiliate da una violenza quotidiana, ineludibile, legata alla visione comune di una colpa primordiale. Il libro comprende i racconti usciti nel volume del 1929, La spalla alata, con una fondamentale aggiunta a chiusura dell’opera, Farsi un’opinione, pubblicato originariamente su una rivista letteraria dell’epoca. Proprio quest’ultimo testo traccia la deriva generata dal conformismo, rivela ipocrisie, giochi di interessi interni a una realtà famigliare retta sul compromesso e per questo priva di valore.
Ogni racconto si regge sull’equilibrio sottile tra l’adesione al reale resa con potenti indugi descrittivi e la rarefazione nell’evocativo, nella suggestione generata dal predominio sensibile. La forma breve diventa la misura dello strappo: nel racconto l’autrice individua la dimensione ideale per insinuarsi tra le pieghe della Storia e assegnare connotazioni emotive a vicende minime e per questo rappresentative di un’epoca, dei suoi costumi e della sua direzione. La sua prosa ispeziona il dramma per condividere con chi legge interrogativi sul senso di vivere in assenza di libertà. In particolare nel primo racconto, Maria e Giacomo, incentrato sul trauma della gravidanza affrontato nell’indifferenza altrui, emerge l’indagine sul dolore resa nella misurazione dei limiti di un corpo. “Le pareva che coprendosi gli occhi ella fosse più sola; e dietro al braccio piegato, vedeva in sé un fluttuare bluastro che si perdeva in un tremolio lillaceo, o si rischiarava in un raggiare d’oro, o incupiva nell’ondeggiare di una nebbia rossa e densa in cui sorgevano tanti volti d’uomini”.
Tutto subisce una deformazione, una trasfigurazione che rende indefiniti i contorni e stordisce. I toni allucinati della prosa descrivono la matrice oscura, ignota, di un male che investe ogni cosa, trova spazio nella rabbia per la perdita di un figlio e si traduce in furia per il genere umano.

La tensione alla morte intesa come resa è dominante nell’intera raccolta: è particolarmente evidente nel racconto dalle venature tragicomiche Vedovanze e assume toni grotteschi ne Il funerale di un benefattore. Attraverso una tetra allegoria del reale resa per esasperazioni, l’autrice denuncia il bieco perbenismo che corrode ogni cosa e annulla ogni slancio vitale. L’amarezza, la disillusione, il ricordo sbiadito di un’infanzia irraggiungibile e il peso dell’adesione a un ruolo imposto si confrontano costantemente con la furia cieca di una violenza trasversale.

Il mondo naturale fa da contrappunto alla vicenda umana, ne accerta con disarmante evidenza la miseria. Sono gli elementi naturali a riservare uno spazio alla fiducia, anche quando si finisce col sentirsi preda dei propri tormenti, nell’incomprensione generale.

“Quell’albero gli ricordava la sua vita: solo, sotto le raffiche; ma egli si sentiva piccolo, sopraffatto dalla violenza delle cose; e l’albero era dritto e gli cantava tra il verde fresco dei rami, una speranza”.

Gli alberi raccontano la vicinanza nel soffrire, la furente necessità di essere sani, di amare, tra immagini sbiadite, spettrali, visioni torbide, voci di compatimento, presagi oscuri, sovrapposizioni di traumi infantili e fardelli del presente.

“Qualche uccello, passando davanti alla finestra, metteva sulla parete lucida di sole un guizzo puntato d’ombra. Pensò che tutto vive e porta in sé una parola netta che non si può mutare”.

Il ricorso impressionistico a visioni e cromatismi tratteggia la vacuità dell’esistenza. Ogni elemento diventa il riflesso di uno strazio, con una simbolica analogia con i drammi di chi osserva. Così il particolare di un piede all’orlo del letto può documentare una condizione anzitutto interiore, come accade ne La fronte chiara, e definire la convivenza con il proprio vuoto.

“E intanto egli guardava un piede di lei, all’orlo del letto, sfuggito dalla scarpa, e la scarpa per terra, vuota, con qualche filo arricchito al posto del bottone, infangata. E da quel piede immoto e come morto nella calza grossa, scura sui talloni, veniva un senso di tristezza; la calza scendeva dal ginocchio, aggrinzita, e aveva, tra le pieghe fonde che giravano torno torno il polpaccio, una stanchezza desolata”.

Le protagoniste di Pia Rimini sono donne pervase dall’angoscia, vittime dei meccanismi vischiosi di un sistema patriarcale che influenza e condiziona l’agire, consapevoli della propria irrimediabile tristezza. Anche quando preservano un guizzo vitale nell’oppressione in cui sono costrette, finiscono ben presto per consumarsi nell’annientamento, nell’umiliazione perenne. Accade a Maria, inserviente quindicenne chiamata Cicciotta, che si invaghisce ingenuamente dell’uomo per cui lavora che finirà per violentarla. Persino nella brutalità di una scena simile, la ragazza sentirà su di sé la colpa per non aver svolto in tempo i suoi compiti e per aver macchiato le lenzuola fresche di bucato.
Alla raffigurazione della precaria e instabile condizione dell’essere umano, Pia Rimini contrappone l’urgenza di connettersi alla terra per dare un senso a tale angustia. Per farlo adotta registri diversi, tra slanci lirici, accenti comici, visioni oniriche, per immortalare il dramma anche grazie a un uso sapiente dell’elemento ironico e a una omogeneità stilistica. L’ingrandimento che compie l’autrice rivela scorci della società italiana dei primi del Novecento con un’attenzione particolare al contesto famigliare come misura di una deriva, nella ferocia della sopravvivenza acuita dalla povertà. Lo spazio privato di una casa diventa lo scenario privilegiato per fantasticare una devastazione, il luogo dove ogni valore etico e morale subisce un capovolgimento.
Una matrice violenta, morbosa, impregna i rapporti famigliari. Esemplificativo in tal senso il racconto che dà il titolo all’opera. Qui Pia Rimini immagina una giovane donna che sente il peso di un nome inadatto (Letizia) per la sua esistenza da giovane vecchia inaridita ancor prima di fiorire. Descrive la metamorfosi vissuta da chi si trasforma in carnefice per liberarsi della frustrazione di non aver mai vissuto, scagliandosi contro l’uomo che l’ha sposata. Vittima a sua volta di una condizione che percepisce come immutabile e consapevole della propria inadeguatezza per via della sua impotenza, quel marito consumerà i suoi giorni ancorato al ricordo della madre morta, sentendo come insopportabile il peso di una moglie ostile, macerata dall’odio.
La maternità è centrale nella maggior parte dei racconti, e trova la sua prima rappresentazione nel dramma. La solitudine di essere madre, e di sentire nel proprio bambino la tristezza di chi presto verrà privato del futuro – dominante nel racconto La puledra – definisce l’ultimo anelito di cambiamento, il desiderio di una vita diversa, provato da una donna costretta ogni giorno a subire molestie. L’illusione, vana, è incarnata dal forestiero che le prospetta l’irrealizzabile, per usarla a sua volta. Un manto oscuro sovrasta ogni cosa, la violenza dilaga e invade ogni relazione, ogni ambiente. L’odio diventa misura del tempo, riguarda anche la sfera erotica, nel costante contrasto tra desideri sopiti e profonda repulsione. Il tema della sessualità nell’opera si lega costantemente a un’ignota condanna, preannuncia un disastro ineluttabile. Una dimensione resa nel continuo rimando a un universo malato, tra storie di stupri, dipendenze e meschinità di ogni genere che delineano l’egemonia dell’irrazionale nell’illusione del controllo sull’altro. In Terra pregna, la protagonista vive un irrefrenabile desiderio fisico, a partire dal godimento che il suo stesso corpo le genera. La sua sfrenata libertà di amare e concedere il suo corpo subirà un arresto nella scoperta di un uomo diverso dagli altri, dagli occhi buoni, che per la sua disabilità ispira protezione. Condizione destinata a svanire di fronte all’urgenza della donna di assecondare la propria natura.

“Libera! È nata per questo lei: andar raminga nella vita, scrollata dalle raffiche, rovesciata con la gola arida e il respiro strozzato, sul ciglio della strada; e poi sentirsi penetrar da una freschezza fluente che le scorre per le vene e le canta nell’anima: buttarsi nuda nell’erba, al sole: sentir che il raggio le plasma come un’immensa mano d’oro, calda, violenta, che la tocca, la palpa, la fruga, le imprime sulla pelle una carezza lenta, bruciante: sentirsi possedere dal sole, come da un amante brutale e mantenere in sé col braccio premuto sugli occhi, oltre le palpebre pesanti di languore,
una rossa penombra come di sogno e di pigrizia”.

Il campionario umano de L’amore muto prolifica di figure grottesche, incapaci di alcun sentimento, che sfilano sulla pagina mostrando malvagità, violenza, impeti distruttivi, brama di possesso, nel presagio dannunziano di un ignoto castigo. Le uniche voci positive paiono essere quelle assegnate all’infanzia, come nelle pagine memorabili di Riflessi nell’alba nei discorsi di un gruppo di bambini sulla morte e sull’amore. 
L’opportunità di riscoprire oggi Pia Rimini permette di interrogarsi in termini nuovi sull’ineffabile che regge le relazioni umane, sul peso di un’oppressione che genera la dissolvenza. L’atto rivoluzionario che innesca la sua scrittura individua nell’esplorazione di uno smarrimento interiore e profondo il mezzo d’elezione per indagare la natura umana. Sono allora i paesaggi lugubri, tetri, le cantine che odorano di cipolla, di canfora e di olio fritto a imprimere svariate raffigurazioni della paura e dell’inquietudine, e a generare visioni allucinate sul solco tra reale e immaginifico. Le opere di Pia Rimini custodiscono un male oscuro, un dramma cocente che chiede di essere ascoltato, accolto, per invocare una ribellione nella tormentata resistenza di impulsi e ricordi.

 

L'oblio e il riscatto di Paola Masino


di Anna Lo Piano


A distanza di ottant’anni dal novembre del 1941, quando uscì per Bompiani, torna in libreria Racconto grosso e altri di Paola Masino, per i tipi di Rina Edizioni.  Non deve sorprendere questo lungo arco di tempo per un’autrice il cui destino letterario è stato quello di alternare a più riprese successo e censura, oblío e riscoperta.  La pubblicazione del ’41 segnava per Masino, già all’epoca, l’uscita da un silenzio editoriale, durato diversi anni, dopo un esordio fortunato. Nel 1931, infatti, era uscita Decadenza della morte, una raccolta di prose lirico-filosofiche scritte a Roma tra il ’28 e il ’29 e già in parte pubblicate sulla rivista 900 di Bontempelli (i due si conobbero proprio grazie a questa collaborazione). Nel 1930 scrive in pochi mesi un romanzo, Monte Ignoso, che nel ‘32 arriva in finale al Viareggio, e piace molto al pubblico, tanto che, racconta la stessa Masino in una lettera alla madre, alla Fiera del libro di Milano le copie si esauriscono subito. Malgrado le critiche negative di Gadda e Borgese, che le rimproverano gli innesti fantastici in un materiale realistico, nel ‘33, sempre al Viareggio, prende il secondo premio con un altro romanzo: “Periferia”. Questa volta però le stroncature giungono da critici vicini al fascismo. Leandro Gellona la definisce una “scribacchina”, e Gaetano Serventi, sul Secolo fascista, definisce il romanzo moralmente deprimente, negativo, sfiduciato, che non ha altro scopo se non quello di mettere in dubbio il più alto valore attorno a cui si impernia la società: la famiglia. Il rimprovero è dunque quello di non uniformarsi alla visione di regime che si fonda sulla rigida differenza di genere tra una donna materna, nume tutelare della solidità domestica, e un uomo forte, attivo, con pensieri compatti e programmatici. Non le si perdona neanche di mettere in scena la realtà cruda e violenta dell’infanzia, delle dinamiche familiari, del difficile passaggio all’adolescenza, con i suoi ribaltamenti e messe in discussione. Se la censura indiretta, preventiva, è in atto in Italia fin dalla fine degli anni ’20, è adesso che punta direttamente alcuni autori, e lei finisce nel mirino. Così, nel settembre del ’38, la rivista Grandi firme, appena passata alla direzione di Zavattini, viene chiusa per aver pubblicato il suo racconto Fame, storia di un padre che durante la crisi del ’29, preferisce uccidere i suoi figli piuttosto che vederli morire di stenti.
Comincia allora un esilio “volontario” a Venezia, struggente e dorato, insieme al compagno di vita Massimo Bontempelli. Sono anni di crisi di ispirazione, di rifiuto e mondanità forzata che la spingono a fare i conti con immagini di femminilità in cui non si riconosce. Sono anche anni di un vero e proprio corpo a corpo con la censura, che si fa sentire nel momento stesso della creazione e che, come ogni limite, la spinge a trovare strade alternative, sentieri non battuti. Da questa crisi nascono i racconti di Racconto grosso, scritti in gran parte proprio tra il ‘38 e il ’40, e il primo nucleo di Vita e morte della Massaia, che comincia ad uscire a puntate sul settimanale illustrato Il Tempo di Mondadori il 16 ottobre del ’41, proprio nell’anno che segna il rientro di Masino nel mercato editoriale.
Se però Racconto grosso riceve una buona accoglienza di pubblico e critica, la Massaia dovrà aspettare ancora qualche anno, fino al 1945, per uscire in volume, sempre per Bompiani. La fine della guerra, con lo strascico di disastri che consegue, e il trionfo dell’immaginario neorealista, non costituiscono un terreno accogliente per un libro che parla per allegorie e quadri grotteschi della ricerca di un’identità di fronte all’imposizione di modelli esterni. Vita e morte della Massaia comincia così la sua discesa nell’oblìo, mentre Masino continua la sua attività di pubblicista, librettista, traduttrice. Dal 1960 si dedica a tempo pieno alla sistemazione dell’opera e della memoria di Bontempelli, scomparso quell’anno. Nel 1970 la Massaia riappare, sempre da Bompiani, per poi risprofondare nel mare delle opere dimenticate, fino a quando, nell’82, l’intuito di Laura Lepetit la salva dalla polvere e la ripubblica con La Tartaruga. Da allora ogni tanto il libro emerge (ISBN, Feltrinelli) e poi si inabissa, malgrado alcuni segnali di interesse negli ultimi anni che tendono a farne una presenza più stabile negli scaffali delle librerie.

In questo quadro appare oggi ancora più lodevole la scelta di Rina Edizioni di riportare ai lettori e alle lettrici Racconto grosso, accompagnato da una prefazione di Marinella Mascia Galateria, una delle più importanti studiose dell’autrice. Non solo si aggiunge un importante tassello all’opera di recupero delle voci femminili del ‘900, ma anche alla costruzione del corpus letterario di Paola Masino. Proprio per la vicinanza di ispirazione tra la Massaia e Racconto, infatti, è possibile apprezzare i rimandi tra le due opere, dall’uso dell’allegoria fino ai temi del corpo, della maternità e della ricerca dell’io.

È forse il tabù verso questa corporeità, per la paura di un sentimentalismo e un’introspezione non sufficientemente letterari, che ha tenuto le donne lontane dal canone ufficiale della letteratura? Forse. Ma è certo che è necessario ora rivedere questo canone, e reinserirle in un filone non come eccentricità, devianza, in un capitolo dedicato, quanto piuttosto riconoscendone i legami con il loro tempo, e il contributo unico e personale alla costruzione di un patrimonio comune di lingua e immaginario.
E Paola Masino, con le sue elaborazioni personalissime e fuori dai registri ammessi dal suo tempo, si inserisce in una tradizione colta e internazionale che va dai testi sacri ai romanzi dell’800, passando per Shakespeare, gli autori latini, Kafka e Poe,  imbevendosi degli azzardi e delle sperimentazioni delle avanguardie del ‘900.  Durante la sua lunga vita entra in contatto con artisti, intellettuali, scrittori. È amica intima di Pirandello, al quale da ragazzina ha dato da leggere il suo primo scritto, un’operetta in tre atti. Scrive su riviste. Ha una fitta corrispondenza epistolare con tutte le scrittrici della sua generazione, da Anna Maria Ortese ad Alba de Céspedes, da Anna Banti a Livia De Stefani. Ma non è solo per questa partecipazione alla vita letteraria del paese che merita di rientrare nel canone, quanto per la qualità della sua arte, con la quale si inserisce di diritto dentro una linea del fantastico novecentesco. Come Savinio, Bontempelli, Tozzi, Landolfi, Buzzati, fino ad Anna Maria Ortese, la prima Morante, Manganelli, usa la forma breve colorandola di evocazioni stilistiche che trascendono i generi. Nei racconti troviamo richiami al teatro, all’opera, al melodramma (Famiglia, Rivoluzione, Viaggio con panorami), all’allegoria dichiarata già nel titolo (Allegoria prima e Allegoria seconda) per indagare i temi dell’amore, alla favola nitida per Commissione urgente, a quella onirica per Racconto Grosso.  L’intrusione nella realtà di elementi estranei, perturbanti, ne causa lo sfaldamento, rivelando strati di verità nascosti. Sono macchine personificate, dotate di nome e capacità di ascolto, come l’Andromeda di  Viaggio con panorami, presenze spettrali all’interno di un caseggiato popolare (Famiglia), figure del doppio (Figlio), e dello specchio (Commissione urgente), così centrale anche nella poetica di Bontempelli. Nel racconto Latte, che ricorda come impianto e situazione sociale realistica Feliciana di Ada Negri, la corporeità del materno viene portata alle estreme conseguenze, e l’orcio che serve a ripagare la madre della vita che ha dato al figlio si trasforma in un contenitore di sangue vivo. Se nel fantastico novecentesco le modalità rappresentative antirealistiche mettono in discussione le norme sociali, ed esplorano la condizione esistenziale dell’uomo, Masino le usa anche per dissacrare le imposizioni sul genere, ed esplorare la condizione esistenziale della donna. In Allegoria prima, che racconta con toni da favola l’amore tra Albo e Melania, due anime all’opposto nel diaframma della luce, la donna si scopre nel petto un’oscurità, ma lungi dal volerla eliminare, sente che deve accettarla, farla sua.

La paura della sera non le era passata e anzi era contenta di custodirla forte dentro di sé, che non avrebbe più voluto l’aiuto di Albo, che la pace di cui lui l’alimentava non le era nutrimento e che nulla, nulla ormai per lei era più importante dell’ombra in agguato in mezzo al suo essere.

 

O ancora, in Terremoto, quando gli uomini guardano “come la peggiore delle condanne” il disfarsi dell’ordine costituito, le donne:

 

Andavano con le abili mani a cercare di ricongiungere I lembi di una squarciatura sui muri, quasi labbra di una ferita; mettevano le dita timorose nella piaga della loro casa e piangevano, lente e funeste, continuando a muovere sul pavimento morbido in cerca di oggetti rotolati a nascondersi tra I mattoni aperti.

 

Si trova in questi racconti una commistione tra rappresentazioni oniriche del surrealismo e la realtà, sociale ma anche fisica, del corpo. E la lingua di Masino segue queste stratificazioni, accumula arcaismi, citazioni letterarie, come in Famiglia, dove ogni fantasma è un personaggio di un’opera del passato che parla e si muove secondo quella logica, e costruzioni classiche:

 

Andavamo dunque lungo la Cassia che è la più bionda via d’Italia. Tutta a curve quasi una ciocca di capelli nei nodi di una treccia. Qua e là nelle sue anse Toscana ha appuntato mazzetti di cipressi, festoni di vite e veli d’ulivi, come una bambina si mette fiori e nastri e bende.

(Viaggio con panorami)

 

Ma soprattutto è una lingua fisica, che crea un vocabolario sinestetico del corpo. Ogni paragrafo è una festa dei sensi, li coinvolge tutti, dall’olfatto al tatto, dal gusto all’udito. La vista si ritrova in certe immagini che ricordano i quadri del surrealismo, le figure zoomorfe di Savinio  (stava, diafana, con il lunghissimo collo azzurrino relinato sulla spalla, simile a un cigno stanco, in Famiglia ) o i paesaggi attoniti come in un quadro di Carrà.

Si annunciano all’orizzonte le crete con tutte le rughe, le pieghe, gli avvallamenti d’una abbandonata pelle d’elefante. Hanno un colore avorio grigio, avorio polveroso e, pur sopportando rarissima vegetazione, apaiono sfinite. In certi punti i piani si facevano gialli e le ombre violette con tal crudità che i raggi del sole, ora nel centro del cielo, parevano alzarsi da terra invece che scendere per l’aria.

 

La luce, anche quando è evocazione d’ombra, crepuscolo, è qualcosa di tattile, in cui immergersi. L’udito lo ritroviamo come polifonia di voci, in dialoghi serrati, un braccio di ferro di pensieri, ma anche come un suono forte della natura, un richiamo che sembra volere scuotere l’essere umano:

 

Nello stesso momento una voce mi colpì alla nuca con la violenza di un sasso scagliato e io caddi sulla faccia ma senza sgomento perché in essa riconobbi quell’ultimo grido di Atollo e seppi che era stata una parola umana – inutile, ormai, misero Atollo, una parola rivolta a me “Io”.

(Racconto grosso)

 

 E poi c’è il vocabolario del ventre, del sangue, che è doloroso e sensuale allo stesso tempo, che non ha paura di apparire grosso e grossolano, senza pelle, senza determinazione, confuso nel vegetale, nel verde che ritorna come colore simbolo, nell’animale dei nitriti e dei piedi palmati.
Qui infatti, come nella Massaia, Masino esplora il tema della costruzione del sé, della lotta per la propria identificazione, il dissidio tra il desiderio di sapere chi siamo, e il dolore di scoprirlo, tra la spinta ad uscire da un’infanzia amorfa e la volontà tenace di rimanere nell’indeterminatezza, di continuare ad appartenere a tutte le creature, all’indistinto.