Gli angeli personali di Brianna Carafa

di Anna Lo Piano

Se la riscoperta di Brianna Carafa si deve a un caso fortuito - il ritrovamento su una bancarella di una vecchia edizione de La vita involontaria, romanzo arrivato in finale al premio Strega nel 1975 e poi per decenni dimenticato - la pubblicazione dei racconti di Angeli personali è invece il frutto dell’innamoramento definitivo dell’editore Cliquot per la scrittura di questa autrice, e di un paziente lavoro di ricerca d’archivio per riportare ai lettori quanto possibile della sua ricca produzione.

 Brianna Carafa ha infatti scritto molto, anche se ha pubblicato poco. Due romanzi, il già citato “La vita involontaria” e “Il ponte del deserto”, uscito postumo nel ’78, e diversi racconti, apparsi tra gli anni ’50 e ’70 su due riviste raffinatissime e allo stesso tempo marginali dell’epoca, ovvero Paragone-Letteratura di Roberto Longhi e Anna Banti, e Botteghe Oscure. Quest’ultima soprattutto meriterebbe una trattazione a parte, per raccontare la vita e le idee della sua fondatrice, Marguerite Caetani, principessa di Bassiano e ideatrice del giardino di Ninfa, che già a Parigi, negli anni ‘30, aveva animato salotti letterari e fondato una rivista, Commerce, che come Botteghe Oscure pubblicava in più lingue e aveva l’ambizione di mettere in contatto scrittori di varie provenienze.

 Si è parlato molto, per “La vita involontaria”, di influenze mitteleuropee, e sicuramente Brianna Carafa, come dimostrano anche queste collaborazioni, la vocazione internazionale l’aveva nel sangue.
Nata a Napoli nel ’24, era poi cresciuta a Roma con la nonna, un’ex suffragetta di origine polacca dal nome evocativo di Marianne Frankestein Soderini, mentre il padre e la nonna paterna erano entrambi rinomati traduttori, il primo di Goethe, la seconda di Tolstoj.
A Roma Brianna cresce e si forma. Negli anni ’50, ventenne, studia architettura e fa parte di quel mondo di giovani entusiasti del quale il fotografo Paolo di Paolo, co-fondatore insieme a lei e Mario Trevi della rivista di fotografia e poesia Montaggio, ha fornito un vivace ritratto in un’intervista su Harper’s Bazaar.
Si interessa poi alla psicanalisi e ne fa il suo mestiere, e forse in questa ricerca si possono trovare le radici più profonde di quel sentimento mitteleuropeo  che si ritrova in tutti i suoi personaggi, accomunati da un conflitto irrisolvibile con la realtà, che ne fa degli inetti secondo il comune sentire. A partire da Paolo Pintus, protagonista de “La vita involontaria” che, incapace di trovare un modo proprio di affrontare la vita, finisce per farsi trascinare, o addirittura inghiottire, dai desideri e progetti altrui, fino all’ossessione del personaggio Bobi Berla per un progetto di “ponte nel deserto” che in realtà non collega nulla.Lo stesso conflitto si ritrova nei racconti di “Angeli personali”. Pur non essendo stati concepiti dall’autrice per far parte di una raccolta, rivelano una coerenza interna di temi e di stile, e insieme compongono una galleria di personaggi oppressi da una sorta di muro che si frappone fra il proprio mondo interiore e quello esterno. Troviamo allora la nonna di “Ritratto di straniera” che, devota alle proprie ossessioni, finisce per provare in mille manifestazioni una “scissura tra lei e la realtà”,  la struggente e terribile Elodia, la ragazzina “buia, maleodorante e pelosa” che confessa alle compagne di classe le violenze del padre con gesti e sguardi che non lasciano spazio all’empatia (“se soltanto fosse stata più debole e avesse sollecitato la nostra compassione!”), finendo  per “chiudersi in una vita inaccessibile agli altri”, in un mutismo quasi animalesco

 

due bande di capelli neri, spessi, le cadevano sulle guance come ali ripiegate di pipistrello.


O, ancora, l’amico Manlio che cerca in un “Altrove” irraggiungibile l’incontro risolutivo per la sua vita amorosa, o l’altro amico, il “Sordo”, che “galleggia nel suo salvagente di silenzio” e svolge una vita solo in apparenza simile a quella del resto delle persone.

 Tra i vari personaggi uno, più di tutti, si rifiuta di entrare fisicamente nel mondo.

 

«No, ti dico di no, in quel mondo non ci metto piede, non vado da nessuna parte io,
tanto, sono tutti trabocchetti!»

È dichiarazione di intenti, quasi un manifesto del rifiuto di adattarsi a una realtà ostile e bugiarda, l’incipit del racconto “Autobus” che chiude la raccolta.

A queste parole fanno eco quelle dello zio  Ulderico, ne “La vita involontaria”, quando mette in guardia il nipote Paolo:

 

Mi metteva in guardia contro tutto, come se il mondo fosse un immenso sistema di agguati tesi a esseri sprovveduti, quale appunto ero io.

 

In “Autobus”, a pronunciare la frase è Lino, un giovane uomo che avvicinandosi ai trent’anni, vive chiuso nel perimetro della sua camera e di un mondo interiore che esprime attraverso disegni intrisi di ossessioni e sottile violenza. Del mondo vero, reale, quello in cui i suoi genitori “devono stare per forza”, per “riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena”, lui non si fida, e per questo fa di tutto per tenersene fuori. Il padre, allora, gli offre la possibilità di rientrarvi grazie un colloquio di lavoro, ottenuto per qualche favore, con il dirigente di una grande azienda. Ma da questo confronto con i luoghi della produzione, con la logica della necessità, con la cortesia formale, Lino esce perdente.   Assistiamo così alla sua progressiva discesa nella follia, a uno smarrirsi in un labirinto interiore così profondo da sgretolare anche gli ambienti consueti i cui si muove.

 

Nel fondo del corridoio, a destra, non c’erano scale. Né a destra, né a sinistra. Lino fece uno sforzo enorme per concentrarsi, per cacciare dalla sua fronte una nuvola buia che voleva penetrargli in testa e riempirla di ronzii e vertigini. Immobile, ripercorse con gli occhi l’interminabile tunnel: dov’era esattamente l’ascensore? Se fosse stato a metà del corridoio, poteva aver preso la direzione sbagliata.
Ma se si trovava all’estremità opposta, non c’era via di scampo.

 

Gettata nel fiume la cartella con i suoi disegni, Lino perde l’unico mezzo di comunicazione possibile fra i due mondi.  Gli oggetti cambiano posto e funzione, lo spazio ondeggia, la realtà somiglia a un sogno notturno, tanto da non distinguere più l’uno dall’altra.

 

non doveva essere buio, non dovevano esserci delle panche di legno vuote? Oh come dondolava dolcemente il suo corpo! Si portò ancora le mani alle orecchie perché non sopportava l’impercettibile ronzio che si sprigionava da qualche parte, forse dalle lampade, ed era lo stillicidio di un’ultima persecuzione.

 

C’è in questi racconti un’analisi minuziosa dei movimenti dell’anima. Ogni gesto, ogni azione dei personaggi all’interno della narrazione, è riportata a un complesso spostamento di pensieri, memorie, paure, speranze. Non si pensi però a un andamento pesante o lento, intriso di digressioni psicanalitiche. Qui a ogni riga c’è un fatto narrativo denso di conflitto, anche quando si tratta di un’occhiata, un silenzio o una parola.

 

Se chiedevo «Warum?» la Governante rispondeva: «Darum» con il tono squillante e deciso di chi abbia dato la più esauriente delle spiegazioni. Alle mie orecchie quel gioco di parole cominciò a suonare come una beffa.

 

D’altronde, come fa dire a Paolo Pintus, lei da tempo ha capito che “Le parole sono fatti, e molto più sottili e penetranti dei gesti clamorosi”. Tanto che quando il padre sminuisce con una parola l’importanza della governante, è un intero mondo che crolla.

 

Dopo una breve pausa, disse ancora: «Ma chi vuoi che sia questa Fräulein Hilda? Nessuno». (…) la parola “nessuno” piombò in me con tutto il peso della più oltraggiosa delle mistificazioni. Cosicché nessuno io avevo riverito e temuto, nessuno aveva tentato di sopraffarmi giorno per giorno, nessuno mi aveva picchiato e modificato, imprimendo il suo indelebile sigillo nella mia vita.
E a nessuno essi, i tutori della mia persona, mi avevano affidato, in nessuno avevano creduto, s’era trattato semplicemente di un errore, o di una finzione.

 

È indubbio che nella costruzione del mondo narrativo di Brianna Carafa, la ricerca in psicanalisi svolge un ruolo importante. Ma per capire come questo avvenga, una prima chiave di lettura può essere un’intervista apparsa su L’Unità del 1976, citata da Ilaria Gaspari durante una presentazione, e che ho ritrovato negli archivi del quotidiano.

 “Per capire”, dice Carafa nell’intervista, “bisogna avere il coraggio di assumere la follia come nostra dimensione”. E in effetti la sensazione che abbiamo, leggendo i racconti, è quella di stare anche noi nel mondo di dentro, dei personaggi, dove la loro follia somiglia alla nostra quando non riusciamo ad adeguarci. Ma dice anche che la psicanalisi ha i suoi limiti. Essa funziona quando si crea un rapporto a due, in cui analista e paziente si liberano da una dinamica di potere, e concorrono entrambi a una risoluzione. È interessante, a questo proposito, notare che una linea di sopraffazione percorre tutti i suoi scritti. È esibita come un trofeo in “Elodia”, diventa persecuzione subdola ne “La porta di carta”, o perverso riscatto di rabbie sopite per “La Governante”, o ancora gioco di seduzione per il padre del “Giardino perduto”.
Ma al di là della violenza silente che pervade molti dei rapporti, è certo che della relazione non si può fare a meno. È nell’incontro con l’altro, temuto, imposto, cercato, che sola si può manifestare la propria diversità, la propria follia. Così come è solo nel recupero della memoria, delle parti sepolte, rimosse e dimenticate della storia personale e famigliare, che si può ricostruire la propria identità.
Paolo Pintus è mosso nel suo percorso di formazione dalla necessità di recuperare la storia del nonno a dispetto dell’omertà dei familiari, tutti complici nel voler rimuovere la verità del suo passaggio ai Tetti Rossi, il manicomio cittadino.
Allo stesso modo i primi tre racconti di “Angeli personali”, ai quali il titolo è dedicato, sono fortemente autobiografici. In essi Carafa ricompone la propria storia attraverso tre sguardi lievemente spostati. Nel primo, “Ritratto di straniera”, lo sguardo è adulto ed esterno. Sensazioni di infanzia e consapevolezze della maturità concorrono a dare vita a una figura straordinaria, quella della nonna Marianne, colta nell’arco discendente della sua vita, quando la sua esistenza si intreccia con quella della nipote. Indimenticabile la descrizione iniziale, con quel nero dell’abito che mi ha fatto immediatamente pensare a un’altra figura fatale di nonna, quella descritta da Fabrizia Ramondino in “Althénopis”.
Nel secondo racconto, “Il giardino perduto”, il ricordo procede secondo le associazioni solo apparentemente casuali della memoria. “Forse che mi ricordavo di Luisa”, comincia il racconto, partendo da una di quelle sollecitazioni che ci fanno coloro che hanno condiviso con noi parti di vita. Ma invece di parlare di Luisa è sul padre che si sposta l’attenzione, di cui Luisa era l’amante, e su una particolare serata, a una fiera, che solo ora, a distanza di tempo, acquista contorni più definiti e può essere ricollocata come pezzo mancante in un puzzle fatto di frammenti, ricostruendo l’immagine feroce di un desiderio d’amore mai realizzato.
Infine, nel terzo, “La governante”, lo sguardo recupera l’inconsapevolezza dell’infanzia, immerso nella relazione complessa con la giovane donna venuta dalla Germania per occuparsi di lei, ed è a poco a poco che si svela, attraverso il gioco di potere fra le due protagoniste, la profonda solitudine in cui entrambe sono confinate.
Come sempre è inaspettata la storia delle opere, specialmente quando prosegue indipendentemente da quella dei loro autori ed autrici, come se anche per loro valesse la possibilità di una “vita involontaria”. Sicuramente la riscoperta di Brianna Carafa si deve al bisogno di recupero delle voci taciute del passato, specie se femminili, necessario a completare una visione delle possibilità del nostro immaginario e della nostra lingua. Ma c’è anche, senza dubbio, nei suoi scritti, qualcosa che si ricollega fortemente al nostro vivere attuale, e che molto ha a che fare con il senso diffuso di perdita di contatto con la realtà, a questo sentirsi ognuno nel suo mondo, oppresso da un muro sottile, con la paura di mettere il piede fuori, inciampando in qualche tipo di conflitto o trabocchetto.