Deposizione
di Grazia Deledda
Quest'agosto scorso - raccontò l'accusato - mi trovavo a Ghinfe, che è frazione di una piccola stazione balneare sull'Adriatico.
Nelle piccole stazioni di villeggiatura c'è, più che nelle grandi, probabilità di essere aiutati dal prossimo. La gente che le frequenta è semplice, di pochi mezzi e quindi di buon cuore. I ricchi vanno nelle stazioni di lusso, e i ricchi non sentono compassione del povero perché non sanno cosa sia la miseria. Prima di arrivare a Ghinfe avevo tentato Rimini, dove certe signore esili, dall'aria triste e sofferente, alle quali mi ero avvicinato con la speranza di essere inteso e aiutato, mi risero in faccia con denti crudeli: la mia grande miseria parve anzi divertirle; e poiché insistevo mi diedero del mascalzone, del vagabondo, e chiamarono un bagnante per farmi allontanare. Quel giorno veramente pensai a morire: non mangiavo da quarantotto ore. Poi la rabbia e l'umiliazione mi sostennero.
Cammino: lungo la spiaggia vado su, su, fino a Viserba: ma i bagnanti, e specialmente le donne, alle quali è sempre meglio rivolgersi, hanno ancora un aspetto troppo elegante che non mi incoraggia ad avvicinarli. Cammino: evito le guardie di dogana che si volgono a guardarmi sospettose. È doloroso come il povero emani un odore di bestia selvatica: anche i cani lo sentono e abbaiano al suo passare. Ed egli cerca di nascondersi, di fuggire. Questo è il segreto del vagabondo, e il suo tormento: la necessità di star solo, in un isolamento terribile che è già quello della morte.
Cammino, dunque: sono abituato a camminare anche se ho fame, se ho la febbre, anche se dormo.
E mi sembra appunto di camminare e sognare quando da un sentieruolo fra le tamerici dell'arenile verso Ghinfe vedo sbucare una signorina in lutto.
Sulle prime mi sembra una bambina, tanto è piccola, coi vestiti corti, bionda e rosea sotto l'ombrellino nero che tiene rasente alla testa come un grande cappello. Cammina tranquilla, in quel perfetto deserto, come nella piazza del paese: e mi viene quasi incontro fissandomi coi grandi occhi celesti che però abbassa a misura che anch'io muovo verso di lei rispettoso e fiducioso.
- Ecco il fatto mio - penso, e col cappello in una mano e la scatoletta dei bottoni nell'altra, sinceramente turbato le dico: - Perdoni, signorina, sono gli ultimi che mi rimangono di una partita di mercerie. Non vorrebbe acquistarli?
Ella guarda attentamente la scatoletta aperta, poi solleva gli occhi ed io mi sento avvolgere tutto come da un velo azzurro. Ed ho l'impressione che oltre il mio corpo quegli occhi vedano l'anima mia, nella sua più profonda miseria, e che al riflesso di questa si coprano d'infinita tristezza.
Ella ha inteso chi sono. - Quanto è? - mi domanda senza toccare la scatola.
E mai ho sentito una voce più soavemente rauca. D'un colpo mi vergogno di me stesso: ho voglia di piangere, di caderle ai piedi come una foglia morta.
Ella vede e indovina tutto, riprende a camminare permettendomi di accompagnarla e anzi sollevando alto l'ombrellino quasi per fare ombra anche a me.
Io chiudo la scatoletta e vorrei offrirgliela in dono; ma mi vergogno; mi vergogno di tutto, oramai.
- Lei ha indovinato chi sono - mormoro seguendola a testa bassa come un cane umiliato. - Sono un ragazzo di buona famiglia: ho anche studiato; ma adesso mi trovo senza occupazione. Vado in cerca di lavoro e non trovo: spaccherei anche le legna, farei anche lo sguattero, eppure non trovo.
La sciagura mi accompagna. Tutti mi guardano, vedono che non sono del popolo e lavoro non me ne danno. Anche lei crede che il mio vestito sia di persona civile: lo guardi bene; è tutto logoro, rammendato da me: guardi bene, non ho camicia, ma la pettina col collo rovesciato ha pretese d'eleganza. Il guaio è che non ho più la mamma e il babbo non l'ho conosciuto. Ho un fratello giudice, con la moglie malata e molti figli, e non può soccorrermi, né io lo pretendo. Ma perdoni, signorina, io l'annoio: perdoni, sono un debole. Da due giorni non riesco a procurarmi da mangiare.
La signorina ascolta, a testa bassa anche lei, anche lei umiliata nella sua più viva umanità: crede ad ogni mia parola, ma a poco a poco, pur senza ch'ella parli o muti viso, sento che il suo primo turbamento svanisce: già un senso istintivo di diffidenza rende opaca la sua pietà. Tuttavia lascia ancora che l'accompagni e cammina tranquilla accanto a me lungo la spiaggia: e il suo silenzio pensieroso di me, e sopra tutto la sua fiducia volontaria mi umiliano più che la crudeltà delle donne di Rimini.
Finalmente, con la voce di uno che ha risolto un problema, mi dice:
- Perché non va dal sindaco? Qui il Comune è socialista: potranno procurarle lavoro.
- Andrò, - rispondo io con accento di obbedienza, - ma non spero.
- Ascolti, - ella riprende dopo un momento di esitanza, - io posso far poco per lei: sono qui in pensione e i denari li ho misurati. Ma ho qui qualche oggetto d'oro, e posso darle un paio d'orecchini che non mi servono e che lei può facilmente vendere alle contadine della spiaggia. Posso anche... Non finisce la frase, ma apre rapidamente la sua borsa e vi fruga dentro confusa e mortificata di farmi l'elemosina. Ne trae un astuccio, poi una tavoletta di cioccolata, e tutto mi porge: e tutto io prendo; si arrossisce entrambi come ci si scambiasse una promessa d'amore. Poi si cammina di nuovo in silenzio; ella ha messo la borsa sotto il braccio, e di tanto in tanto la tira su e la stringe meglio.
Il mare mormora accompagnandoci, ed io ho l'impressione di andare con lei verso una montagna azzurra. Ma questo non importa. Quello che importa è che lei d'improvviso, quasi abbia sentito il racconto che io le faccio in silenzio di tutto il mio patire, dice, piano, come per non farsi ascoltare neppure dalla rena che calpestiamo:
- Del resto si ha diritto all'esistenza. Se lei è così non è certo per sua volontà. La letteratura è piena di uomini come lei, e dunque vuol dire che molti ne esistono. Ma io dico che se la società non l'aiuta, lei ha diritto di mettersi fuori della società. Questo glielo consiglio in confidenza, s'intende.
- Non ho mai rubato - dico io: e mi sento più triste del solito.
È peggio mendicare - ella ribatte, aspra, e cammina più rapida, quasi voglia lasciarmi indietro perché si vergogna improvvisamente di camminare con me.
Allora un cataclisma mi scoppia dentro: tutto si rovescia; ho la sensazione fisica che il mio corpo vuoto si riempia di un liquido velenoso e salato, come il corpo di uno che annega. Ed io che volevo farle dono della mia scatoletta di bottoni, come di uno scrigno di perle, penso di rubarle la borsa: e come colpita dal mio pensiero, la borsa le scivola di sotto il braccio.
Qui c'è una lacuna sinistra nei miei ricordi: e in mia coscienza non posso affermare se ho raccolto la borsa o se veramente, come la signorina afferma, è stata la mia mano a strappargliela destramente di sotto il braccio.
E perché, allora, ella non si è subito rivoltata e non ha gridato? Ella afferma che aveva paura, che ha camminato con l'ombra della morte accanto, fino a veder gente. Allora mi ha indicato come un ladro, mentre io, già pentito, la chiamavo per restituirle la borsa.
E mi presero d'assalto, come un malfattore, e mi impedirono anche di rompere con la mia vita la mia vergogna.
Adesso però non voglio più morire: voglio espiare, piangere; nascere veramente dalla mia pena come l'uomo che nasce dalla colpa dell'uomo.
I giudici, una volta tanto, esaudirono l'accusato, condannandolo a nove mesi di carcere.