La Città del tabacco di Laudomia Bonanni


di Anna Lo Piano


Subito si incontrano le donne. Si direbbe anzi un paese di sole donne. Agili e silenziose, con le conche di rame sulla testa, o vaschette, secchi, mastelli, vanno per acqua. Un andirivieni incessante. Alcune portano alti carichi. A domandare dov’è la fonte, rispondono con un gesto vago come se indicassero lontano.
(Le donne di Filetto)

 

Il 7 giugno del 1969, il popolare settimanale tedesco Der Spiegel pubblica un articolo destinato a fare scalpore.  Il vescovo ausiliare della diocesi di Monaco di Baviera, Mons. Matthias Defregger, è lo stesso Defregger che venticinque anni prima, in qualità di capitano nazista nella 114° divisione Jaeger, ha dato l’ordine di uccidere trenta uomini nel paese di Filetto, in Abruzzo, come rappresaglia durissima di un attacco partigiano.
La notizia che un criminale di guerra nel 1948 sia potuto diventare vescovo fa il giro del mondo, e riapre vecchie ferite.

All’epoca Laudomia Bonanni era pubblicista per Il Giornale d’Italia, una collaborazione nata nel 1948 per interessamento di Goffredo Bellonci, che ne curava la terza pagina, e proseguita per oltre trent’anni di articoli ed elzeviri sui cambiamenti della società italiana. La scrittrice conosceva bene Filetto. Per anni aveva insegnato in un paese vicino e, soprattutto, era Aquilana. Quei luoghi, quei paesaggi, il Gran Sasso, erano la sua terra. Per questo il giornale pensò di mandarla come inviata sul luogo dell’eccidio, e lei scrisse un pezzo, “Le donne di Filetto”, che riassume la sua poetica sulle donne e la sua visione della guerra.

Già dall’incipit, nel modo in cui Bonanni racconta l’arrivo al paese, zoomando da un dettaglio al totale, seguendo i movimenti dell’occhio sulle cose, riconosciamo lo sguardo cinematografico e poetico della documentarista. Una prima persona che racconta da testimone partecipe, ma senza mettersi in mezzo. In scena c’è solo il paese, Filetto, e le sue donne. Scelta di parte quella di raccontare il fatto attraverso coloro che sono state testimoni dell’eccidio degli uomini; risparmiate, ma non per questo meno colpite.

Dai curiosi che arrivano come a una gita, dai giornalisti specialmente, si difendono col silenzio. Ai giornalisti non vogliono più parlare, del resto si sono rivolti agli uomini.

Laudomia, invece, che è “una donna come loro” e per di più montanara, sa “come comportarsi” e si muove sicura tra le strade del paese, raccogliendo qua una storia del passato, qua un commento sul presente, e tirando a poco a poco i fili di un arazzo corale, le cui protagoniste sono queste donne abituate a portare pesi sulla testa e rimanere dritte.
C’è un modo, in questo articolo, di condurre la narrazione come se fosse un’indagine, partendo dalle evidenze, facendo domande, e ricomponendo in un quadro finale scene smozzicate. Lo stesso stile si ritrova con diverse sfumature nei diciannove racconti di Città del tabacco, pubblicati con Bompiani nel 1977.

Andavo per la solita visita e l’agente stava accompagnandomi schiavardando dal cortile d’ingresso al primo corridoio, quando m’è venuto fatto di domandare se non vi fossero ragazze
(Giulietta non confessa)

Al personaggio di Giulietta, in “Giulietta non confessa” Bonanni arriva per gradi. Invece di dipingercela tutta, ce la sbozza davanti agli occhi a furia di inquisizioni e reticenze. È dalle bugie che la ragazza usa per difendersi dai poliziotti, e da questa donna mezza giudice e mezza insegnante che le sta davanti, che a poco a poco ci si svela nella sua fragilità più profonda di ragazzina spaurita.
L’Annuccia di “Un posto per il ragazzo” rivela la sua presenza ogniqualvolta tra le cose di uomini, nell’ingresso, si intravede il suo scialle nero. Ed è solo a furia di domande e infinite digressioni che nel finale veniamo a scoprire il cuore del racconto, il fatto gravissimo che non può essere raccontato così com’è, con “la retorica e l’apocalisse” che userebbero giornalisti e avvocati, perché “le parole non possono aggiungervi o togliervi nulla”. L’unico modo è raccontarlo di sbieco, attraverso una storia parallela, apparentemente banale, che fa risaltare ancora di più la crudeltà di ciò che è avvenuto.
In “Città del tabacco”, che dà il titolo alla raccolta, l’incipit è una scena corale, apocalittica, di paesani sfollati e scaricati dai camion come merci inutili, masse informi che trovano rifugio negli androni.
Bonanni segue le famiglie, descrive le scene di interni, e solo a poco a poco lo sguardo si sposta sul fagotto selvatico e misterioso che ha preso possesso di una delle cucine. 
’La Staniscia’, figura memorabile di donna, si rivela per i silenzi, per i gesti di gatta, per un lembo di pelle scoperta. Bonanni ci racconta come la sua presenza si irradia sulle vite degli altri. Ma il suo mistero, la Staniscia, lo mantiene fino alla fine, quando decide di partire. E questo modo apparentemente casuale di portare il lettore nel dramma intimo dei personaggi, di tenere lo sguardo volutamente fuori fuoco, è uno dei tratti tipici della scrittura di questi racconti.

In tutti si respira senso di smarrimento di fronte alla guerra, di lotta primordiale per la sopravvivenza, come di un albero che in una tempesta cerchi con tutte le forze di non strapparsi al terreno.  In uno dei brani più intensi, in “Terremoto”, i paesani non sanno se cedere al terrore dei tedeschi o a quello delle scosse che annunciano lo sconquasso della montagna.
In tutti è evidente il realismo delle situazioni, l’impronta della cronaca. Bonanni vi mescola le memorie personali, i racconti del fratello prigioniero in Germania, il resoconto del cognato Corrado Colacito sull’occupazione tedesca nel territorio di Caramanico.
Lo spunto è quasi sempre reale. Molti sono rimaneggiamenti e revisioni di pezzi già pubblicati su giornali e riviste, come il già citato “Terremoto” (1950), “Banchetto dopo la battaglia” (1949), “Corte paradiso” (1950). A volte tra la prima stesura e quella finale passano dieci, quindici anni, se non venti. Alcuni vengono accorpati, i personaggi trasmigrano dall’uno all’altro. La lingua si tempera, si arricchisce come una valanga e allo stesso tempo si fa più precisa. Come per Gadda, per dire l’indicibile bisogna trovare un nuovo idioma che mischia termini dialettali, vocabolario colto e neologismi tutti suoi, unici.
Questo tempo intercorso tra la prima stesura e la forma racconto è anche esso una cifra di Bonanni. La sua vita letteraria è scandita da periodi di grande attività ed altri di silenzio.


Nata nel 1907 all’Aquila, da una famiglia piccolo borghese, intraprende una carriera di maestra che all’epoca non è affatto tranquilla, ma anzi la porta a contatto con la realtà più cruda e difficile dell’Italia degli anni ’20 e ’30. Lettrice accanita, scrittrice istintiva, viene incoraggiata dalla madre a pubblicare le sue prime novelle, per poi dedicarsi alla letteratura per l’infanzia.
L’arrivo sulla scena letteraria è invece tardo, nel 1948, quando ha già quarant’anni. È sempre la madre a incoraggiarla, mandando alcuni suoi racconti a un concorso per esordienti organizzato dagli “Amici della Domenica” dei coniugi Bellonci. “Il Fosso”, così si chiama la raccolta, riceve l’apprezzamento della giuria, e le apre una porta nel mondo letterario romano degli anni ’50. Bonanni frequenta il salotto dei Bellonci, conosce scrittori e scrittrici. Montale paragona il suo stile a quello dei “Dubliners” di Joyce. Tra gli anni ‘50 e ‘60 pubblica “Palma e Sorelle”, “L’adultera”, “L’Imputata”. I suoi libri vendono, ricevono premi, vengono tradotti. Poi di nuovo silenzio fino agli anni ’70, quando escono “Vietato ai minori”, “Città del tabacco”, “Il bambino di pietra”.
Sembrerebbe che ogni volta alla forma compiuta della sua scrittura serva un periodo di incubazione, un lavorio intimo, di depressione e isolamento, ma anche di profonde letture ed esperienze di lavoro a contatto con gli ultimi. Si può davvero dire che di semi del reale da far germogliare, nella sua vita, ce ne siano stati molti: il lavoro di maestra, la guerra, la terra aspra d’Abruzzo, fino all’attività di giudice non togato presso il Tribunale dei Minori dell’Aquila.
E questo reale irrompe nelle sue opere. “Vietato ai minori” è un romanzo saggio sul carcere minorile, “Il bambino di pietra” è scritto in forma di confessione analitica, usando la forma del diario per raccontare dal di dentro - come aveva fatto Alba de Cespedes con “Quaderno proibito” - la situazione di conflitto e prigionia culturale delle donne della sua generazione.
“Città del tabacco” attinge dalla storia, dalla cronaca, e forse anche per questo i diciannove ritratti di donne che li compongono non hanno i tratti dell’eroismo romanzesco.
Sono piuttosto figure sulle quali la luce dello sguardo si posa prima di sfuggita, e poi troppo tardi. Ma sono loro le resistenti, gli alberi attaccati alla terra nella tempesta. Sono loro quelle capaci di rimanere dritte, come le donne di Filetto.
Recensendo la raccolta, il critico Giorgio de Rienzo parlò di “femminismo alla Bonanni”:

“Il femminismo della Bonanni non è di maniera; è un femminismo storico e non semplicemente ideologico: persuasivo più di quanto non sia aggressivo, profondo più di quanto non sia arrogante”.(…) le donne della Bonanni rimangono le uniche sacerdotesse della vita: nei loro gesti semplici, nella loro adesione istitutiva alla natura, nella stessa loro forzata e rivoluzionaria spregiudicatezza”
(“Tuttolibri”, anno III, n°15, 23 aprile 1977)


E la stessa Bonanni, in varie interviste dell’epoca, non fa difficoltà a riconoscersi in questa definizione:

“Come scrittrice, mi sono sempre mossa nel mondo delle donne, dai primi libri all’ultimo. Perché colpita e attratta – appunto da scrittrice – dalla loro condizione sofferta. Finché mi sono accorta di aver perseguito quel “femminismo alla Bonanni” così definito da un critico.
(Itv a Laudomia Bonanni, a cura di Minnie Alzona, “Il Gazzettino, 25 gennaio 1979)

 

Questa presa di posizione a fianco di donne e bambini, l’assunzione del loro sguardo come chiave di lettura del reale, accomunano Laudomia Bonanni ad Anna Maria Ortese. Leggendo soprattutto i suoi elzeviri, oltre ai racconti di “Città del tabacco”, non si può non pensare a “Il mare non bagna Napoli”, per il modo in cui entrambe mescolano cronaca e racconto, e la sensibilità con cui si avvicinano alle creature schiacciate dalla vita.
Bonanni non ha però la visione cosmica, celeste, di Ortese. Le sue creature fantastiche sono prese dal reale, e ciò che di visionario c’è in esse è legato a riti antichi, della terra, a qualcosa di ancestrale che ha sempre legato le donne a una visione profonda, di sapere antico. Le donne di Bonanni non si trasfigurano perché portano in loro un selvaggio primitivo, che pur schiacciato rimane indomito.


La Staniscia s’era levati i panni e, magra in un bustino rosso, allattava cavando la lunga mammella caprigna. Il bimbo era nero ma impiumato di biondo. Essa girava come a difesa l’occhio selvatico e col seno pendulo restava a guardare di fuori la gramigna verde sul muro. Finché un giorno, sollevate le gonne, s’alzò e se n’andò, col suo bisciolino nell’apertura della sacca. (…) Imboccato l’Arco del Grifo, la zingara liberò i piedi dalle ciabatte scagliandole via, e col passo lungo di randagia premé i selci mostrando la pianta di pelle nuova, rosa.
(Città del tabacco)

Bambini, donne e guerra sono i temi costanti della sua scrittura, sui quali ritornerà fino alla fine. Il bambino come esplorazione della radice del dolore, le donne come sapere, nodo dell’ingiustizia. La possibilità di liberare il mondo deve passare inevitabilmente dalla loro liberazione. E la guerra come prova di resistenza umana nella tempesta.
Da Palma alla Staniscia, da Cassandra ad Amina fino alla Rossa della rappresaglia, Bonanni costruisce così una sola figura di donna che dal silenzio prende voce, e grida la sua voglia di vita. Una figura che andrebbe ricostruita e riletta per intero, dopo anni di oblìo.

 

E così domani sarò morta. Morta, capisci. Sarà finito tutto, per me. Per me sola. Quando appena cominciava. E io sarò fuori per sempre. Proprio adesso che stare al mondo mi piaceva. Mi stava piacendo enormemente, con passione, ti dico. Ero uscita dal fosso e so che tutti possono uscirne e volevo aiutare tutti a uscirne. Così, devo andarmene. Mi ficcheranno in una buca, di nuovo affossata. Domani, domani a giorno, quelli si prenderanno l’arbitrio di annullarmi per sempre”.
(La rappresaglia)